Sovranità Ebraica/Capitolo 4

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Pubblicazione sionista in Romania (1924)

SIONISMO E TRADIZIONI EBRAICHE[modifica]

Questa Parte del wikilibro si concentra sulla relazione del sionismo con le tradizioni ebraiche che lo hanno preceduto e che hanno continuato a convivere con esso. Per fare ciò dobbiamo, in primo luogo, riconsiderare – e, come sosterrò, superare – la nozione unidimensionale piuttosto ingenua e apertamente fuorviante secondo cui il sionismo implica, semplicemente, una secolarizzazione dell'ebraismo. Il Capitolo 4 coglie questa presunta verità lapalissiana e ne discute i difetti. Passa poi a presentare le linee generali di una comprensione alternativa del sionismo, postulata nei termini della sua relazione con le precedenti tradizioni ebraiche. Suggerirei che l'attenzione alla posizione del sionismo nei confronti della reinterpretazione ebraico-europea dell'ebraismo come "religione" possa comportare alcune chiavi importanti per comprendere la relazione del sionismo con il suo passato ebraico. Il Capitolo 5 applica questa riconsiderazione al pensiero di diversi filosofi sionisti chiave. Il Capitolo 6 si concentra su tre correnti principali del sionismo: socialista, revisionista e religiosa. La Parte III del wikilibro prosegue discutendo la cultura politica israeliana e la sua negoziazione della tradizione, dell'ebraicità e dell'israelianità.

Sionismo, "Religione" Ebraica e Secolarismo[modifica]

Religione, Secolarizzazione e Stato-nazione: la narrativa sionista[modifica]

In molti sensi importanti, l'idea che il sionismo equivalga a una "rivoluzione" nel mondo ebraico – una rivoluzione che comporta una riformulazione dell'identità, del significato e della politica ebraica in modo da renderli più attenti e adattabili a un contesto "moderno" e "secolare" – è dato per scontato, un argomento ovvio in effetti, nei discorsi pubblici e accademici in e su Israele. Questa presunto truismo sostiene, in varie formulazioni, che il sionismo è principalmente un progetto di modernizzazione, secolarizzazione e politicizzazione dell'ebraismo, in modo da adattarlo al moderno quadro sociopolitico dominante, vale a dire: lo stato-nazione. Questa modernizzazione e secolarizzazione giungono dopo eoni "religiosi", in cui la religione ebraica – o, in alcune formulazioni, la tradizione religiosa – dominava il mondo ebraico e assoggettava lo spirito del popolo ebraico in "esilio", incoraggiando un atteggiamento passivo, essenzialmente apolitico.[1]

Una formulazione importante, autorevole e rappresentativa di questo argomento può essere trovata nella recensione del pensiero sionista di Shlomo Avineri,[2] che può essere vista come una biografia autorizzata dell'ideologia sionista.[3] L'interpretazione di Avineri si distingue non solo per la sua presentazione diretta della narrativa del "sionismo come secolarismo", ma anche per la sua celebrazione esplicita e apertamente ideologica dello stato-nazione come epitome di questo processo. La sua è quindi anche un'iterazione della sostituzione di "religione" e della teologia "religiosa" con la teologia politica dello stato-nazione (presumibilmente laico). In quanto tale, la sua analisi del pensiero sionista richiede un’attenta considerazione.

Shlomo Avineri, allo Halifax International Security Forum, 2014
Shlomo Avineri, allo Halifax International Security Forum, 2014

Avineri, che è uno degli autori più importanti che identificano il sionismo come una rivoluzione (ebraica) – una "permanent revolution"[4] per di più – descrive il pensiero sionista come "a modern answer to the question who are [the Jews] and what is their identity".[5] Questa risposta rappresentava un rimedio urgente a una moderna situazione difficile: la necessità di offrire una formulazione "secolare" del significato ebraico. (I primi semi di questo sono già stati piantati con l’haskalah, prima della solidificazione dell'idea sionista.) E questa, chiaramente, è la chiave per comprendere il sionismo:

« Zionism is the most fundamental revolution in Jewish life. It substituted a secular self-identity of the Jews as a nation for the traditional and Orthodox self-identity in religious terms […] Zionism is not just a reaction of a people to persecution. It is a quest for self-determination and liberation under the modern conditions of secularization and liberalism. »
(Avineri, The Making of Modern Zionism, 13)

Questa secolarizzazione significa innanzitutto "the decline of the status of religion in the Jewish community and a gradual ‘liberation’ from the shackles of ‘religious tradition’". [6] La "secolarizzazione" emerge qui come uno sviluppo storico naturale e incontrastato; con l'avvento della modernità, la religione declina e si indebolisce l'impegno dell'individuo e della comunità nei confronti della tradizione, come una sorta di fenomeno universale preordinato, indipendente da specifici contesti storici, politici, culturali e locali.

Inoltre, questo fatto secolare molto evidente solleva domande importanti: com’è possibile che il sionismo emerga come movimento nazionale ebraico esattamente "in a generation characterized for both Jews and for non-Jews by liberation from religious tradition and deepening secularization? Why was it precisely in the secularized atmosphere of the nineteenth and twentieth centuries that a link [between the Jewish People and The Land of Israel], which was originally religious, became a potent force for action?"[7]

Si noti come queste domande creino, sullo sfondo, un'identificazione fattuale tra "ebraismo" e "tradizione religiosa": il declino di quest'ultima, cioè della "religione" ebraica, è naturalmente previsto, come queste domande suggeriscono, per provocare l'indebolimento dell'identità ebraica, dell'ebraismo o dell'ebraicità stessa. In altre parole, la celebrazione della risposta sionista "moderna" e "secolare" alla questione del significato dell'identità ebraica – una risposta che viene vista come una sfida all'identificazione tra "ebraismo" e "religione ebraica" (o "tradizione religiosa ebraica") – assume questa identificazione come base data per ogni sviluppo ideativo e storico. Questa identificazione riecheggia "The Myth of Past Piety"[8] – o la concezione storica fuorviante di "the Age of Faith", che identifica il passato con il religioso e sostiene che in passato tutto riguardava la religione e tutti erano religiosi.[9]

Questa narrativa, quindi, fa rivivere la concettualizzazione dicotomica che fonde o sinonimizza il binario "modernità-premodernità" con quello "secolare-religioso". La grande sorpresa, il presunto "paradosso"[10] che occorre spiegare, è quindi il legame essenziale tra il sionismo (che è "laico" per definizione, essendo un movimento moderno volto alla creazione di uno Stato-nazione) e l'ebraismo (che è alla radice "religioso" o almeno primariamente "religione").

Questa visione della secolarizzazione presuppone, quindi, anche l'organo complementare in questo binario, vale a dire la religione: l'identificazione della "religione ebraica", o anche dell’"Ortodossia", come categoria sovrastorica appare qui come un dato incontestabile. Questa religione sembra avere a che fare con la pratica e il credo, ma è difficile sapere in cosa differisce, ad esempio, dalla politica apparentemente laica dello stato-nazione sionista, che costituisce un proprio elaborato sistema di pratica e credo e, in ultima analisi, come avviene praticamente per tutti gli stati-nazione, richiede ai suoi sudditi/cittadini il sacrificio di sé per garantire gli interessi dello Stato.

Ciò deve essere ribadito: la narrativa di Avineri ritrae la secolarizzazione come un fenomeno meta-storico, una sorta di evoluzione teleologica (cioè guidata da un telos o scopo preordinato) della razza umana verso la ragione, la razionalità e l'illuminismo. In quanto tale, la secolarizzazione resta indiscussa, un fenomeno normativamente neutro, che costringe gli ebrei a ridefinire la propria identità. Ma è anche chiaro che per Avineri questo fenomeno metastorico è necessariamente positivo, poiché equivale all'emancipazione sia dell'individuo che della comunità dai ceppi della tradizione, cioè della "religiosità" restrittiva.

Ma questa libertà comporta anche una crisi: una perdita di identità. Con l'avvento della secolarizzazione,

« Jewish identity lost [...] its normative and public standing; religion and the kehila [Jewish community], who served in pre-Emancipation period as the ‘normative focus’ of Jewish existence, could no longer do so post Emancipation and haskalah [...] A redefinition of the meaning of modern Jewish existence was critically needed. The Jews, who were, at least in part, liberated from the traditional religious framework in matters of practice [mitzvoth] and belief, were compelled to instill new public meaning in their being. »
(Avineri, Varieties of Zionist Thought, 218-9, 248-249)

Per Avineri, il risultato più monumentale del sionismo è proprio il suo successo nel rispondere a questa esigenza, cioè la costruzione di un'alternativa secolare alla collettività ebraica, nella forma dello Stato-nazione ebraico (o, più precisamente, degli ebrei). Di qui la sua proclamazione secondo cui "the State of Israel put the public, normative dimension back into Jewish life. Without this having ever been defined, and maybe it cannot be defined, it can be said that to be Jewish means—more than anything else—feeling attachment to the State of Israel".[11]

Ciò, sottolinea l'autore, non è una questione di giudizio di valore; si tratta piuttosto di un'identificazione oggettiva di un fatto empirico: lo stato-nazione israeliano, figlio moderno e secolare della politica sionista, è il definitivo sostituto della tradizionale religione ebraica:

« This is not an ideological claim or the expression of a pious wish that this is how it should be, but a statement of fact. It is a fact that religion does not unite the Jews today as it did in the pre-Emancipation past. It is a fact that the majority of the Jewish people, both in the Diaspora and in Israel, defines itself in terms that are basically secular—ethnic, national, cultural—and the life style of most Jews in the world today is utterly secularized. Jewish religion itself is split into at least three major trends (Orthodox, Conservative, and Reform), and the relationship between these trends sometimes divides Jews more than it unites them […] Today there does not exist one idea or one institution around which all Jewish people can or do unite—with the exception of Israel. »
(Avineri, The Making of Modern Zionism, 220)

L'immaginario sionista dominante dell'autore è degno di nota: fa eco alla "negazione dell'esilio", dipingendo le tradizioni ebraiche che hanno preceduto il sionismo come se avessero perso il contatto con la storia e con il mondo esterno, non-ebraico, e si fossero "congelate" in un sistema chiuso di auto-rafforzamento.

È difficile trascurare in questa analisi le dimensioni teologiche e teleologiche assegnate allo Stato-nazione. Lo Stato emerge come posizionato al centro stesso dell'esistenza del popolo ebraico, come l'unico agente che infonde un contenuto significativo in questa collettività e le consente di rimanere un "popolo" coeso. L'unità ebraica emerge come dipendente dallo Stato di Israele.[12]

Inoltre, la collettività incentrata sullo Stato sostituisce normativamente tutte le altre comunità ebraiche:

« This, then, is what distinguishes Israel from other Jewish communities. Other Jewish communities are merely aggregates of individuals, and as such they have no normative standing as a public entity. Israel, on the other hand, is conceived not only as an aggregate of its population, but its very existence has immanent value and normative standing. »
(Avineri, The Making of Modern Zionism, 221)

Al suo apice, l'identificazione per lo più implicita dello stato-nazione come entità teologica ma secolare diventa piuttosto esplicita:

« Israel is thus the new public dimension of Jewish existence, the new Jewish parhessia. As such it replaces the old religious-communal bonds that circumscribed Jewish existence in the past. Today, due to modernization and secularization, Israel is the normative expression of this collective existence of the Jewish people, of klal Yisrael»
(Avineri, ibid.)

Inoltre, la nota chiarificatrice di Avineri spiega che la teopolitica dello stato-nazione è più ampia della mera teologia "religiosa". Come sottolinea, la sua argomentazione non dovrebbe essere intesa nel senso che

« ...the state of Israel replaces Jewish religion, but functionally it fills today a similar existential role; clearly, for those Jews who are religious in the traditional sense even today, religion has a deep collective existential meaning. But since not all Jews, or even the majority of Jews, self-identify with religious tradition, religion has become, purely and simply, one of the partial symbols of identity. Only the State of Israel, and not religion (or any other agent) can function today as the common denominator that incorporates the totality of heterogeneous elements of Jewish being. »
(Avineri, Varieties of Zionist Thought, 251)

La conclusione è semplice, quindi: il sionismo è un sostituto secolare – superiore, in quanto più adatto alle sfide della modernità – della religione ebraica, in quanto agente che unifica il popolo ebraico e infonde significato all'identità ebraica. Il sionismo, e soprattutto il suo culmine nello Stato di Israele, è l'alternativa superiore alla politica religiosa ebraica. "This is the meaning of the Zionist revolution from a historical perspective: the renewal of the Jewish public aspect, replacing the community and its religious institutions".[13]

È anche interessante notare che questa narrazione non nega la dimensione "straniera" nel tentativo sionista di adattare le tradizioni ebraiche alle strutture cristiane. Inutile dire che questo sforzo non è visto come alienante. Al contrario: la lettura sionista dell'ebraismo in termini cristiani è qui vista come una mossa di grande successo. In modo manifestamente hegeliano l'autore spiega quanto segue:

« The new assessment of Jewish history that lies at the root of the Zionist idea is no longer satisfied with the ‘traditional-internal’ account of the essence of Judaism; contrary to ‘Jewish tradition’, which did not feel compelled to tie this essence to external factors, Zionism did indeed feel compelled, and was even actively interested in doing so, i.e., to define Judaism in the terms of Christianity [...] to find even a small thread that will enable the tying of Judaism to the world of general history [and to seek] meaning and essence to the existence of Jews by the criteria common among the nations of the world. »
(Avineri, ibid., 21)

Una revisione sionista: moderna ma non esattamente "secolare"[modifica]

Questa narrazione costitutiva del sionismo come secolarizzazione della tradizione e dell'identità ebraica ha vinto la sua parte di critiche e revisioni.[14] Tale, ad esempio, è la valutazione di Yosef Salmon sull'interazione tra "religione" e "nazionalismo" nel primo movimento sionista.[15] Salmon è critico nei confronti della visione dicotomica del mondo proposta da alcuni studiosi, che contrappongono la religione, che vedono come un "[agente] conservatore, medievale, sia politicamente che normativamente" con il nazionalismo, che vedono come "un agente moderno [e] secolare" . Accompagnato dal presupposto corrispondente, ovvero che il nazionalismo secolare mira a sostituire la religione e a "dare sia alla società che all'individuo un'identità che hanno perso con la perdita dell'identità religiosa", questa visione del mondo è "una comprensione stereotipata e unidimensionale della storia umana negli ultimi duecento anni".[16]

La visione più sfumata di Salmon alimenta la sua aspra critica a questa visione del mondo. Basandosi su ricerche contemporanee (che, nella maggior parte, non si sono occupate direttamente del sionismo) degli anni ’90, ricorda ai suoi lettori che "l'identità nazionale utilizza elementi della tradizione religiosa per formare la sua immagine, e talvolta è del tutto giustificata dalla differenza religiosa di un certo gruppo nazionale da altri". Alla fine, scrive, nazionalismo e religione sono legati insieme in un "nodo gordiano, che contiene il potenziale per un conflitto continuo tra le due componenti".[17]

Inoltre, per Salmon il caso sionista esemplifica chiaramente l'intensità di ciò che egli identifica come mutua co-dipendenza tra religione e nazionalismo: "Nel nazionalismo ebraico, non c'era un solo pensatore o persona influente che chiedesse la separazione tra religione e nazionalismo o ci credesse. Persino coloro che invocano la separazione tra religione e Stato non hanno esteso questa richiesta al movimento ebraico nazionale nel suo complesso".[18]

Salmon ammette che ci sia chi crede che il nazionalismo ebraico, o sionismo, abbia sostituito la religione ebraica; ma tali opinioni, scrive, "erano più diffuse tra gli storiografi e i sociologi del nazionalismo ebraico che tra i suoi principali pensatori". Salmon menziona Ben-Zion Dinur, David Vital e Baruch Kimmerling come coloro che offrono formulazioni simili della visione del mondo che egli giudica come una "comprensione stereotipata" della natura dell'interazione tra nazionalismo e religione. Questa visione del mondo è così legata all'idea che il sionismo sia "in sostanza un movimento che si è ribellato alla tradizione in generale e all'Ortodossia in particolare",[19] da considerare la nozione di "sionismo religioso" un'anomalia incoerente e apparentemente illogica. Tali storiografi e sociologi, avverte Salmon, "hanno proiettato sulla storiografia sionista un modello assiomatico soggettivo, che è in conflitto con la sostanza storica".[20] Salmon osserva che, se da un lato non c’è dubbio che il sionismo "sia la risposta ebraica alle sfide della modernità", è anche vero che sarebbe sbagliato presumere che questa risposta sia "identica alla secolarizzazione".[21]

Il sionismo, quindi, è per Salmon un "movimento moderno ma non secolare". Di conseguenza, riformula la questione decisiva facendo riferimento al ruolo della religione e al suo grado di influenza all'interno del movimento nazionale. La visione di Salmon sulla questione diventa quindi "revisionista", poiché mette in discussione la semplice nozione che il sionismo equivale a secolarizzazione: la religione, conclude, "nei suoi vari aspetti, è una componente della manifestazione storica del nazionalismo ebraico, ma non il suo soggetto".[22]

Questo revisionismo sfumato è stato ampiamente riconosciuto. Così, ad esempio, nell'insistenza di Avineri (circa due decenni dopo la pubblicazione del lavoro discusso in precedenza) sul fatto che il sionismo e lo Stato di Israele non dovrebbero essere visti come il risultato di un semplice processo di secolarizzazione dell'ebraismo. Rimanendo saldamente all'interno di una cornice di analisi hegeliana, questo discorso ora inquadra la discussione come avente a che fare con "The Dialectics of Redemption and Secularization".[23] Una narrazione semplicistica della secolarizzazione non è più ritenuta applicabile:

« The thesis I would like to propose in dealing with the question of Zionism and religion is that there exists a much more dialectical relationship between religion and nationalism. The secularization thesis, to my mind, has to be tested, and in testing it I suggest that it will be found wanting. [...]
[F]ar from being a clear break with the past, national movements are essays in reinterpretations of the past and its retrieval. And since one element of this past has to deal with religion, every national movement has to deal in an innovative and transformative way with the religious dimension of its past. Far from being imagined communities, national communities relate to a past made usable, reinterpreted and retrieved. »
(Avineri, ibid., 2)

Questo chiarimento si presenta come un'introduzione programmatica a un volume intitolato Zionism and Religion[24] che nel suo insieme manifesta uno dei tentativi più completi di studiare i vari aspetti della narrativa raccontata sotto questo titolo. Nonostante le cautelative note introduttive di Avineri, la maggior parte degli autori del volume tendono comunque ad accettare la tesi della secolarizzazione nella sua forma semplicistica. Ancora più importante, l'epistemologia di fondo che guida Avineri, come anche i curatori del volume e gli autori che contribuiscono – e apparentemente condivisa da studiosi come Yosef Salmon, che chiedono una visione più sfumata della realtà storico-sociale – è esattamente l'epistemologia che identifica religione e nazionalismo come due concetti discreti, che possono sì trovarsi in un complesso rapporto di reciproca influenza, ma sono a priori distinti ed essenzialmente diversi; e, tanto per cominciare, esistono come entità concettuali indipendenti.

Come discusso nel Capitolo 1, questa concettualizzazione fondazionale fa parte della più ampia epistemologia secolarista, che è costitutiva delle moderne scienze sociali e storiche. Questa epistemologia ci presenta un'intera litania di binari dicotomici come assi costitutivi della realtà umana (questi includono, tra gli altri, le distinzioni tra modernità e premodernità/tradizione, ragione e credenza, scienza e religione, e razionalità e credenza/pregiudizio). Inoltre, la sua visione del mondo si nutre di una concezione aculturale e astorica della modernità, considerandola un fenomeno universale del trionfo della razionalità strumentale, dell'utilitarismo, della tecnologia, della scienza e della burocrazia[25] — che identifica tutti con la secolarizzazione. Anche quando è attento al complesso rapporto tra i due organi della distinzione in questione (cioè tra religione e nazionalismo), è tuttavia fedele alla nozione fondamentale della distinzione essenziale tra i due e all'identificazione del nazionalismo con il nazionalismo col secolare.

Questa distinzione è di particolare importanza, poiché stabilisce la separazione ontologica, essenziale, tra lo Stato-nazione (sulla sua ideologia legittimante) e la religione, che è delegittimata proprio da questo atto di distinzione; è essenzialmente estranea allo stato-nazione. Può servire allo stato-nazione, ma non può presentare rivendicazioni politiche. Questa distinzione essenziale trova eco nella già citata introduzione di Avineri, così come nella raccolta di saggi che la seguono. Le sue tracce possono essere chiaramente individuate anche nel già citato lavoro di Salmon,[26] che mira a sfidare la nozione semplicistica di sionismo come secolarizzazione, ma rimane fedele alla distinzione concettuale tra religione e nazionalismo.

Per Salmon, la questione in ballo è la natura della complicata interazione tra i due organi essenzialmente distinti; il cambiamento dell'"equilibrio" tra loro è ciò che differenzia, nella sua lettura, il sionismo religioso dal sionismo tradizionale ("secolare"). Inoltre, sembra essere diviso tra gli argomenti che negano la narrazione storica della secolarizzazione e la narrazione principale della secolarizzazione. Così, ad esempio, apre un altro articolo, il cui stesso titolo ("Religion and Secularity in the Zionist National Movement") testimonia già la presenza di questo dualismo concettuale, con la seguente determinata affermazione:

« The Zionist national movement has been a secularizing phenomenon. Many of those joining it, mostly among the young, experienced through it the change in their way of life and belief from observance to nonobservance. From belief in a higher power overseeing and guiding reality to a human being responsible for his own fate and deeds. Many symbols taken from religious tradition have gone through a process of secularization. »
(Salmon, "Religion and Secularism in the Zionist National Movement", 1)

Per lo meno, questa distinzione mette in luce la natura "problematica" della discussione secolarista sul rapporto tra religione e nazionalismo (o, nella stessa ottica, tra religione e politica in Israele). Infatti, come notato dai curatori del volume Zionism and Religion, "Jewish nationalism [...] lacks some of the distinguishing marks of nationalism more generally",[27] e il ruolo della "religione" ebraica in esso sembra essere più significativo che in altri casi.

La persistenza della narrativa della secolarizzazione[modifica]

Ma la narrativa della secolarizzazione persiste. Nonostante tutte le riserve che sono abbastanza prevalenti oggi nell'identificare il sionismo come un semplice atto di secolarizzazione dell'ebraismo, è ancora una pratica comune vedere il sionismo come un progetto di ridefinizione dell'identità ebraica come secolare. "Sionism as Secular Jewish Identity"[28] è, per Gideon Shimoni – in un libro che offre l'analisi più completa dell'ideologia sionista – uno dei due temi fondamentali di questa ideologia (il secondo è "The Right to the Land"). "Zionist Ideology involved far more than an innovatory political program for the material welfare of Jews",[29] chiarisce Shimoni. Secondo lui l'essenza di questo programma è una reinterpretazione dell'ebraismo in termini di secolarismo, che è stato istigato dall'Illuminismo, dal razionalismo, dalla scienza moderna e dalla modernità in generale. Si noti come questa narrativa storico-ideazionale dia per scontate le distinzioni dicotomiche che costituiscono il fondamento dell'epistemologia secolarista: tradizione vs. modernità, razionalità vs. credenza, religione vs. scienza e, alla fine, anche religione vs. politica — tutto in poche brevi frasi:

« [Zionist ideology] redefined the nature of Jewish identity in nationalist terms. It was the legacy of emancipation and enlightenment, [...] that made this nationalist redefinition possible. Exposure to modernism in respect of the application of scientific criteria in order to expand the frontiers of knowledge about man, his society, and its history inevitably challenged the traditionalist understanding of Jewish identity. Belief in the transcendental origin of Jewish identity, that is to say, its creation by a divine force outside nature, was placed in question. An alternative understanding presented itself, according to which Jewish identity as the immanent, evolving product of natural, scientifically explicable developments within an ethnic group that came to be known as the Jews. »
(Shimoni, ibid.)

Il sionismo e le tradizioni ebraiche che lo hanno preceduto si trovano, secondo questa narrazione, sui lati opposti di una rottura epistemologica: "The schism between the traditionalist, transcendental self-understanding on the one side and the modernist, immanent self-understanding on the other side is the great divide in modern Jewish identity".[30] Questo scisma, chiarisce Shimoni, ha preceduto il sionismo: il pensiero sionista è nato in esso e lo ha accettato come la lente attraverso la quale vedere la realtà. Inoltre, all'interno del sionismo stesso, sono coesistite due posizioni opposte, ciascuna basata su uno dei poli opposti di questo scisma (cioè il sionismo "religioso" e il sionismo "secolare").

In altre parole, Shimoni, proprio come Salmon, vede la tensione tra religione (o teologia, metafisica e il trascendentale; la terminologia varia, gli argomenti sono essenzialmente gli stessi) e politica (o "stato"), che è proprio per questa definizione laica, come principale linea di divisione che separa "i sionisti nazional-religiosi" e "l'intellighenzia ebraica secolarizzata".[31] Per quanto riguarda i sionisti religiosi, Shimoni afferma che "although accommodating the modern concept of the nation" (da notare qui il tono evolutivo), "they have nevertheless clung to the traditionalist belief that this unique nation had been brought into existence by the terms of an essentially religious covenant emanating from God". Al contrario, quella "intellighenzia ebraica secolarizzata" rappresentava una posizione politico-laico-nazionale, nel contesto della quale la "religione" era incorporata nel – ma sicuramente non era uguale al – nazionalismo.[32]

La questione cruciale per comprendere il sionismo, quindi, è ciò che Shimoni, seguendo i pensatori sionisti, identifica come il dominio "inordinate" ed esilico della religione e la sua influenza corrosiva sul benessere della nazione:

« The aspiration toward a renaissance of Jewish culture that was to be accomplished by Zionism was predicated on the secularized understanding of Jewish identity as an outcome of immanent processes in the history of the nation. Religion was neither wholly coextensive with Jewish culture nor its original source; it was merely one of the ingredients of Jewish national culture. It was the condition of galut that had endowed religion with so inordinate an influence on Jewish existence, enabling it to consume, as it were, the nation. »
(Shimoni, ibid., 269–270)

La narrativa della secolarizzazione, quindi, persiste.

L'ideologia sionista e l'invenzione della "religione" ebraica[modifica]

La mia tesi è che un apprezzamento più accurato della cultura politica israeliana contemporanea richieda il superamento di due ostacoli: uno è l'argomento riconosciuto da Avineri e altri, implicitamente o esplicitamente, come ingenuo, ma che tuttavia gode di ampia diffusione e influenza, secondo cui il sionismo è un progetto piuttosto semplice e unidirezionale di secolarizzazione dell'ebraismo. L'altro, un ostacolo epistemologico e più elevato, trascurato dalla maggior parte degli autori (o, per essere precisi, accettato come premessa data per scontata e incontrastata, come strumento "oggettivo" per l'analisi della realtà umana) è l'epistemologia secolare, da cui nasce la distinzione categorica e concettuale tra religione e politica (o nazionalismo). Dobbiamo mettere in discussione la distinzione stessa tra religione e politica (sia di tipo nazionalista che di altro tipo) ed esaminare il valore epistemologico di queste categorie.

Questo, ovviamente, è lungi dall'essere un argomento nuovo e ha un carattere universale: non è limitato alle particolarità del caso ebraico o sionista. La sua introduzione nel caso sionista è particolarmente illuminante, poiché ci ricorda che la costruzione di storie e pratiche ebraiche, o l'"ebraismo" come "religione" è di per sé uno sforzo piuttosto recente (cfr. Capitolo 2), che presenta un'ampia varietà di implicazioni per lo studio del sionismo.

Uno dei modi più fruttuosi per comprendere il sionismo è, quindi, identificarlo non necessariamente come una (o la) secolarizzazione dell'ebraismo o della tradizione ebraica attraverso l'invenzione di una tradizione nazionale, ma piuttosto come una controreazione a un altro progetto di invenzione, che ha preceduto il sionismo. Questa precedente invenzione comporta la trasformazione dell'ebraismo in una religione, o, in altre parole, l'invenzione della "religione ebraica".[33]

La forza trainante del sionismo su cui desidero concentrare la discussione è, quindi, una forte negazione della tesi secondo cui l'ebraismo è una religione. Il sionismo, come ideologia politica, che adotta le sue idee costitutive dal moderno nazionalismo europeo, si oppone a un'interpretazione/lettura apolitica dell'ebraismo, su cui si basa il progetto storico dell'invenzione della "religione" ebraica. Contro questa nozione apolitica di religione, il sionismo cerca di promuovere una comprensione dell'ebraismo come nazione, nei termini del discorso ideologico e della struttura epistemologica del moderno nazionalismo europeo.

In altre parole, mentre Mendelssohn e i suoi successori hanno "inventato" l'ebraismo come "religione apolitica", l'idea sionista si concentra su una "invenzione" dell'ebraismo come "nazione" politicizzata. Se il principale motivo (politico) che guidava Mendelssohn era la speranza che una ridefinizione dell'ebraismo come religione consentisse l'assimilazione sociale, culturale e politica degli ebrei all'interno della comunità politica tedesca, allora la forza che guida l'idea sionista è esattamente l'aspirazione opposta: per dimostrare che l'assimilazione è impossibile e per chiedere l'espressione politica dell'identità collettiva degli ebrei all'interno del discorso nazionalista e statalista europeo.

Ma il sionismo non nega l'epistemologia da cui si nutre l'invenzione dell'ebraismo come religione. Condivide inoltre le nozioni costitutive della presente invenzione; tuttavia offre una lettura diversa della storia e giunge a conclusioni diverse. Il sionismo, in altre parole, si fonda su quella stessa dualità da cui emerge l’"invenzione" di Mendelssohn, vale a dire la distinzione tra religione apolitica e politica secolare, e tra moderno e tradizionale. Come Mendelssohn e i suoi successori, anche il sionismo adotta la sua filosofia, il suo linguaggio, il suo vocabolario e la sua grammatica ideologica – sulla base dei quali e attraverso i quali formula la sua negazione della lettura dell'ebraismo come religione – dall’ideologia politica, dalla cultura e dal linguaggio europei contemporanei.

Nelle sue formulazioni dominanti, il sionismo adotta l'ideologia dello stato-nazione sovrano come infrastruttura ideale per lo sviluppo di un'ideologia nazionalista ebraica. Questa idea, ovviamente, ha visto diverse formulazioni, e sarebbe sbagliato identificare il sionismo come un corpo di idee omogeneo e del tutto unificato. Ma è lecito sostenere che alla radice di tutte le diverse formulazioni dell'idea sionista c’è un consenso di base: che gli ebrei sono una nazione, come questo termine è inteso nell'Europa moderna, sotto la sovranità dello stato-nazione. La corrente principale e dominante del movimento sionista costituì anche uno stretto legame tra la tesi secondo cui gli ebrei formano una nazione e la richiesta di autodefinizione della nazione in uno stato-nazione sovrano, e affermò che il nazionalismo ebraico doveva essere espresso e materializzato nel quadro politico di uno stato-nazione, in cui verrà ricostituito il significato dell'identità ebraica come nazionalismo.[34]

Dobbiamo tenere presente che le due facce di questo presunto argomento ("l'ebraismo è una religione" contro "l'ebraismo è una nazionalità") sono nate insieme. La loro origine comune è il tentativo di forzare le storie e le tradizioni degli ebrei nel discorso europeo moderno, sulle sue radici particolaristiche (cristiane). Vale la pena ripetere qui che ciò che viene comunemente chiamato "ebraismo", "ebraicità", "identità ebraica" e "tradizioni ebraiche" (il fatto stesso di questa molteplicità di nomi è di per sé una testimonianza dell'errata percezione concettuale che caratterizza la discussione) hanno sempre rappresentato una sfida ardua per coloro che li volevano collocare all'interno dei quadri categoriali moderni, cristiani, europei. L'ebraismo, o, per essere precisi, le storie, le pratiche e le tradizioni di coloro che sono identificati come ebrei potrebbero, con alcuni aggiustamenti e a vari livelli di evidente discordanza, essere visti come applicabili a ciascuna delle categorie apparentemente distinte e mutuamente esclusive: nazionalità, etnia, razza, fede, cultura, folklore e religione. Oppure, se preferiamo la formulazione negativa dello stesso argomento, l'ebraismo non si adatta bene a nessuna di queste categorie.

Infatti, come chiarisce il Capitolo 1, queste categorie affrontano una devastante decostruzione critica anche all'interno del contesto cristiano ed europeo da cui emergono e all'interno del quale si sviluppano. Ma la loro importazione – e in particolare quella del binomio religione-nazionalismo – nel contesto ebraico esprime, consapevolmente o inconsapevolmente, una profonda rottura epistemologica. La lettura dell'ebraismo come religione (o, del resto, come una qualsiasi delle categorie sopra menzionate) comporta una ridefinizione complessiva del significato dell'ebraismo, nei termini di una tradizione straniera che in molti sensi profondi è estranea alle tradizioni e storie delle comunità ebraiche.

In certe interpretazioni di questi due argomenti concorrenti – cioè la visione dell'ebraismo come religione contro la visione dell'ebraismo come nazionalità – può sembrare che si neghino a vicenda. Come discusso nel Capitolo 2, uno degli argomenti impliciti nell'idea che l'ebraismo è una religione, e che come tale, e solo come tale dovrebbe essere compreso, è che l'ebraismo non è una nazionalità, come questo termine veniva inteso nella politica europea dello stato-nazione sovrano, cioè esattamente nel senso in cui il sionismo vede l'ebraismo come una nazionalità. In effetti, non è inverosimile considerare l'affermazione di Mendelssohn secondo cui l'ebraismo non è una nazionalità come guidata esattamente dal suo desiderio di consentire la riuscita assimilazione (nazionale) degli ebrei tra le nazioni non-ebraiche. Per Mendelssohn e i suoi contemporanei, l'identificazione dell'ebraismo come religione avrebbe dovuto risolvere l'ovvia tensione implicata nell'identificazione degli ebrei come nazione aliena, che vive in una nazione ospitante nativista. Mendelssohn permise agli ebrei, come recitava il famoso idioma, di diventare "cittadini tedeschi (o francesi, ecc.) di fede mosaica"; cittadini leali e servitori dello stato-nazione, patrioti senza dubbio, parte integrante della nazione (in maggioranza non-ebraica), che differiscono dagli altri membri della nazione solo nell'ambito privato e intrinsecamente limitato della fede religiosa, che è essenzialmente apolitico.

Il sionismo ha cercato di negare questo argomento.[35] Figure sioniste di spicco hanno presentato questo nazionalismo come un quadro di significato più ampio, più inclusivo – anzi, il più inclusivo – che contiene la "religione" ebraica, ma sicuramente non è asservito ad essa, ed essenzialmente non identico ad essa.[36] Questa percezione è anche una nozione costitutiva dell'identificazione dello Stato di Israele come stato (laico, o almeno "non religioso") della nazione ebraica.

Come in altri casi di movimenti nazionali emergenti e di articolazione di una rivendicazione nazionale-statalista, il progetto sionista comprendeva anche una missione ad ampio raggio di "invenzione", o costruzione, della tradizione nazionale. Al sionismo era richiesto di instillare contenuti significativi nella nozione di identità nazionale ebraica, e ai pensatori ebrei era richiesto di riscrivere la storia ebraica e di offrire una nuova interpretazione del significato e del contenuto ebraico, tale da corrispondere positivamente alla meta-narrativa nazionalista di affinità (politica) e coincidenza tra territorio e identità (siano esse etniche, nazionali, linguistiche, ecc.).

Inutile dire che il sionismo ha trovato gli elementi costitutivi per questa reinterpretazione e rivisitazione della storia collettiva ebraica nelle storie degli ebrei, cioè nelle tradizioni ebraiche, e lo ha fatto attraverso vari gradi di dialogo con queste tradizioni. Ma è arrivato a questo dialogo e a questa reinvenzione poiché è già stato posizionato profondamente nel contesto della "secolarizzazione" europea, presentando una concezione locale o particolaristica di una laicità ebraica che ha preceduto il progetto sionista.

In altre parole, il sionismo non offre un'epistemologia alternativa per comprendere gli ebrei rispetto a quella che orientava il pensiero di Mendelssohn; anche il sionismo accetta il discorso europeo dominante, sulla sua epistemologia secolare, e adotta come data per scontata la distinzione tra religione e secolare. Fin dall'inizio, l'idea sionista si basa sulla stessa distinzione tra "religione" ebraica e altri aspetti dell'identità ebraica (politica, nazionale, culturale, linguistica e così via), che sono, alla radice, "laici". Nelle sue iterazioni dominanti, l'idea sionista sottolinea questa distinzione per chiarire che l'aspetto secolare e nazionale di questa identità deve avere la precedenza sull'aspetto religioso o teologico dell'ebraismo, al fine di rimanere fedele alla nozione di uno stato-nazione di ebrei. Allo stesso modo, correnti influenti nell'ideologia sionista tendevano a vedere quella stessa "religione" ebraica come essenzialmente negativa, essendo, nella loro lettura, un agente inibitore che soffoca la vitalità nazionale. In effetti, per loro, la religione ebraica è responsabile di ciò che consideravano la diminuzione del popolo ebraico in "esilio".

Questa distinzione tra ciò che viene presentato come l'aspetto "religioso" o "teologico" e quello politico-nazionale dell'ebraismo non è limitata ai pensatori che adottano un'ideologia e un'identità "laica". Risuona anche nelle argomentazioni avanzate da coloro che vengono identificati come sionisti religiosi. In altre parole, la distinzione epistemologica tra religione e politica (e non, va sottolineato, la richiesta di separare le due a livello costituzionale-giuridico e politico-pratico) è al centro stesso dell'idea sionista, comprese le sue correnti identificate come "religiose". Salmon commenta:

« The controversy between those identified as holding on to a religious-public stance and those identified as holding to a secular stance revolves mainly around the relationship between these two entities [that is, religion and politics]; those demanded to make religion an instrument of the nation, while the others wanted to make the nation an instrument of religion. »
(Salmon, "Religion and Nationalism", 116)

Ciò che tende a sfuggire persino a Salmon, che è molto attento a notare la miopia del discorso che identifica semplicisticamente il sionismo come laicismo, è che la distinzione stessa tra religione e politica rimane del tutto incontrastata, ed è data per scontata da tutte le parti in questo dibattito. Anche il sionismo religioso, in altre parole, presuppone la laicità come un fatto scontato.

Ora, come osserva Yehouda Shenhav, il divario tra l'ideologia o la retorica sionista e la pratica politica è evidente. Un attento esame dell'interazione tra "religione" e "nazionalismo", "religioso" e "secolare" e altri binari simili nel nazionalismo moderno rivela chiaramente che l'intersezione tra gli opposti apparentemente mutuamente esclusivi "is simultaneously produced and obscured". Studiando il discorso sionista, Shenhav ritiene che esso evidenzi "both of these seemingly contradictory principles". È allo stesso tempo religioso e secolare, manifestando ciò che Bruno Latour[37] ritiene essere un tratto tipicamente moderno: ibridazione e purificazione.[38]

Se rimaniamo attenti all'argomentazione epistemologica con cui si è aperta la discussione attuale, dobbiamo, quindi, trascendere il discorso secolare sulla sua epistemologia costitutiva e riesaminare la questione della relazione del sionismo con le precedenti tradizioni ebraiche. I Capitoli successivi offriranno alcuni spunti che nascono da questa considerazione.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Un esempio più recente di ciò è Walzer, The Paradox of Liberation, in cui l'eminente filosofo politico mira a spiegare come questa "rivoluzione secolare" sia stata superata da una "controrivoluzione religiosa".
  2. Avineri, Varieties of Zionist Thought; una versione inglese di quest'opera è stata pubblicata come: Avineri, The Making of Modern Zionism; ci sono alcune differenze tra le due pubblicazioni e utilizzerò entrambe le fonti di seguito.
  3. Questa valutazione si basa sull'importanza accademica dell'autore, sul suo ruolo di intellettuale pubblico e funzionario statale e sul tono del libro. Quella di Avineri non è la prima recensione del pensiero sionista: l'ha preceduta il volume curato da Arthur Hertzberg che presenta i pilastri dell'idea sionista. L’introduzione di Hertzberg al volume rimane una delle migliori valutazioni del rapporto del sionismo con i concetti ebraici che lo hanno preceduto. Hertzberg, The Zionist Idea.
  4. Avineri, The Making of Modern Zionism, 217.
  5. Avineri, Varieties of Zionist Thought, 21.
  6. Avineri, Varieties of Zionist Thought, 16, 21.
  7. Avineri, The Making of Modern Zionism, 4.
  8. Stark, "Secularization, R.I.P.", 255.
  9. Come asserisce Rodney Stark nella sua critica devatsante di questo mito: "Everyone ‘knows’ that once upon a time the world was pious—that in olden days most people exhibited levels of religious practice and concern that today linger only in isolated social subcultures". Ibid.
  10. Cfr. Avineri, The Making of Modern Zionism, 3.
  11. Ibid.; la nuova edizione (EN) è appena un po'meno determinata: "The State of Israel put the public, normative dimension back into Jewish life. Without this having ever been defined or decided upon, it is a fact that to be Jewish today means, in one way or another, feeling some link with Israel"; Avineri, The Making of Modern Zionism, 219.
  12. Avineri, Varieties of Zionist Thought, 250.
  13. Ibid., 252.
  14. Lo studio del sionismo e di Israele ha prodotto numerosi tentativi di cogliere la relazione sfumata tra ciò che uno studioso descrive come l'incontro (ossimorico) di paralleli. Cfr. Luz, Parallels Meet; Luz, Wrestling with an Angel; Liebman e Don-Yehiya, Civil Religion in Israel.
  15. Salmon, Religion and Zionism; Salmon, "Religion and Nationalism".
  16. Salmon, "Religion and Nationalism", 115.
  17. Ibid., 115–116.
  18. Ibid., 116.
  19. David Vital, citato in ibid., 117.
  20. Ibid.
  21. Ibid.
  22. Ibid., 118.
  23. Avineri, "Zionism and the Jewish Religious Tradition", 1, mio corsivo.
  24. Almog, Reinharz, e Shapira, Zionism and Religion.
  25. Taylor, "Two Theories of Modernity".
  26. Salmon ha contribuito anche al volume discusso. Cfr. Salmon, "Zionism and Anti-Zionism in Traditional Judaism in Eastern Europe".
  27. "Editors’ Preface", Almog, Reinharz, e Shapira, Zionism and Religion, xi.
  28. Shimoni, The Zionist Ideology, 269.
  29. Ibid.
  30. Ibid.
  31. Ibid.
  32. Ibid.
  33. Inutile dire che questo punto di vista sul sionismo è lungi dall'essere esaustivo; distoglie la nostra attenzione (per motivi di concentrazione) da altri potenti motivi del progetto sionista, come la rivolta ebraico-europea contro quella che alcuni consideravano una passività ebraica patologica e, cosa forse più importante, il tentativo di liberare gli ebrei dalla autorità politica dei non-ebrei. Devo inoltre sottolineare che la mia argomentazione qui si concentra sulla corrente principale dell'ideologia sionista, che si considerava "laica".
  34. Voci provenienti dai margini del movimento sionista hanno esemplificato la possibilità di separare questi due lati dell'idea sionista tradizionale (che, nell'Israele moderno, sembrano essere sinonimi e identici). Cfr. Myers, "Rethinking the Jewish Nation"; Myers, Between Jew and Arab.
  35. Come asserisce Yosef Salmon, la forza trainante che spinse il sionismo negli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento fu "the opposition to the new Jewish perceptions—the reformists and culturalist—that draw a distinction in Judaism between nationality and religion". Salmon, "Religion and Nationalism", 119.
  36. In questo senso, spesso hanno preferito identificare questo nazionalismo (e se stessi) come "Hebrew", non "Jewish". Mentre il primo nome portava l'aura di un'identità nazionale sana, moderna e allo stesso tempo antica (anzi: "secolare"), il secondo era contrassegnato dalla macchia di "galut" (ebr. per "esilio") e dai tratti negativi di passività che l'accompagnavano, l'immaterialismo (cioè un'inclinazione sbilanciata verso lo spirituale, a scapito di una connessione naturale con il mondo materiale e politico), l'arcaismo e la negatività in generale. Questa manovra linguistica/nominale esprimeva quindi la sensazione a volte implicita, spesso esplicita dei sionisti che la loro identità – un'identità nazionale ebraica, allora ancora priva di uno stato che la sostenesse – sia distanziata, se non completamente separata, dall'identità religiosa di quegli altri ebrei "exilic". Sull'ebraismo come "cultura nativa" o "israelianità tradizionale", cfr. Even-Zohar, "The Emergence of a Native Hebrew Culture in Palestine: 1882–1948"; Regev e Seroussi, Popular Music and National Culture in Israel, 17.
  37. Latour, We Have Never Been Modern.
  38. Shenhav, "Modernity and the Hybridization of Nationalism and Religion", 1.