Sovranità Ebraica/Capitolo 9

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Israel - Small but Outstanding — Video promozionale del Ministero degli Affari Esteri dello Stato di Israele

A chi serve lo status quo? Ebrei statalisti e "coercizione religiosa"[modifica]

Inutile dire che gli ebrei statalisti non devono necessariamente conoscere la teologia offerta da A. B. Yehoshua e altri, né ci si dovrebbe aspettare che ne siano necessariamente d'accordo. Per questi israeliani, la questione critica è quella della pratica, vale a dire il modo in cui lo Stato mantiene la loro identità di ebrei. In questo contesto, l'accordo comunemente denominato "lo status quo" è uno dei quadri più importanti per la preservazione e il mantenimento dell'identità ebraica degli israeliani; è un meccanismo centrale della costituzione stessa dell'ebraicità statalista.

Per apprezzare meglio la mia argomentazione, dobbiamo esaminare, inizialmente, il modo in cui lo status quo è costruito e compreso nello stesso discorso statalista-ebraico. Come sosterrò, questa visione dominante contiene un'ampia misura di repressione e abnegazione: l'ebraicità statalista dipende dallo status quo, e allo stesso tempo tende a rifiutarlo retoricamente, o almeno alcune delle sue manifestazioni, dipingendolo come "coercizione religiosa". Gli ebrei statalisti spesso vedono lo status quo come il risultato della sottomissione della maggioranza israeliana – cioè degli ḥilonim – da parte della "minoranza religiosa", che, così si sostiene, riesce a imporre i suoi interessi particolaristici al pubblico più ampio. Ciò aiuta l'ebraicità statalista a preservare la propria immagine di sé come laica e illuminata (e allo stesso tempo, ovviamente, anche ebrea). Approfondirò questo aspetto più avanti.

Quanto segue si baserà, quindi, su un duplice esercizio. In primo luogo, ripercorrerò brevemente la narrativa dominante, che presenta lo status quo come un compromesso scomodo tra due posizioni contraddittorie e opposte sostenute da due schieramenti di forza politica diseguale. In secondo luogo, offrirò una "decostruzione" dell'accordo, concentrandomi sui modi in cui esso costruisce, serve e mantiene l'ebraicità statalista.

La narrativa "scissa" dominante[modifica]

"Lo status quo" (o, in una forma più lunga: "lo status quo secolare-religioso", e anche "lo status quo su questioni di religione e politica") è il nome comunemente assegnato a vari accordi, leggi, pratiche e norme politico-culturali che toccano la "combinazione unica" e controversa di "religione e politica" o anche di "secularity and religiosity" praticata in Israele. Questo nome emerge nelle discussioni accademiche e politiche come l'emblema dell'identità stessa dello Stato di Israele come stato ebraico che è allo stesso tempo "non-religioso", cioè "secolare" e, tuttavia, ebraico.

Questo termine di uso comune testimonia il modo in cui questi accordi sono solitamente interpretati sia dagli accademici che dai politici: lo status quo è visto come un compromesso, una tregua tra due parti in conflitto, ciascuna delle quali aspira a istituire un ordine politico, sociale e culturale, che è l'opposizione diretta alle aspirazioni dell'altra parte; è una sorta di gioco a somma zero, che invece di essere deciso è stato sospeso, tramite un compromesso, il che implica che ciascuna parte rinunci ad alcuni dei suoi obiettivi e aspirazioni in nome del mantenimento dell'unità nazionale.

In altre parole: secondo questa visione dominante, lo status quo è un esercizio di reciproche concessioni e di convivenza tra due partner che non erano destinati a vivere insieme in primo luogo, ma sono stati costretti a farlo a causa di questa o quella ragione storica (soprattutto l'antisemitismo).

In una formulazione (di per sé importante, poiché proviene da un membro anziano della magistratura israeliana, che spesso funge da arbitro in questo rapporto), le due parti in conflitto sono la legge dello Stato-nazione (che è secolare per definizione), e la "religione".[1] Un altro autore lo presenta addirittura come un compromesso (o, data la natura totalitaria e la forza politica ineguale delle due parti, come una sottomissione di una parte all'altra) tra lo stato di diritto e lo stato della halakhah.[2] Mentre tale concezione "legalistica" dell'accordo preferisce vedere le due parti in conflitto, la cui opposizione è "neutralizzata" dallo status quo, come legge vs religione, gli scienziati politici preferiscono, non a caso, vedere le due come "politica" o "stato"[3] (cioè il secular) e "religione". Inoltre, in altre formulazioni, che applicano ciecamente il modello cristiano al caso ebraico-israeliano, l'accordo in questione è un compromesso tra "stato e sinagoga"[4] (vale a dire, un caso ebraico locale della questione più ampia di "chiesa e stato").

In ogni caso, secondo questa interpretazione, lo status quo è un meccanismo relativo alla "regolamentazione dello status giuridico della religione";[5] si occupa della religione e del religioso. Si tratta di un meccanismo interessante di per sé, poiché apparentemente si basa su una "decision not to decide—that is, on preserving an existing status quo that acknowledges the priority of religious demands in some areas in a way that reflects a social-political compromise rather than a principled decision-making."[6]

Come ogni studente universitario di politica israeliana dovrebbe sapere, il nocciolo della questione è piuttosto semplice: lo status quo è un "compromesso" storico[7] che si è sviluppato nel corso degli anni in una pratica sociopolitica a tutti gli effetti, alla cui base sta quel divario essenzialmente incolmabile tra il secolare e il religioso, o tra politica/diritto e religione. Lo status quo è "the most familiar [...] conflict-neutralizing, consociational arrangement"[8] su questi temi. Si tratta di una manifestazione pratico-politica del modello consociativo di accomodamento,[9] che "enables the rivals to avoid a head-on clash on controversial issues while portraying themselves as continuing to adhere to their principles".[10]

Secondo questa narrativa tradizionale, lo status quo è diventato un paradigma per disinnescare la tensione tra i principi e le aspirazioni contrastanti delle due parti (il sionismo secolare e gli ortodossi non necessariamente sionisti, o gli ebrei religiosi), senza decidere la loro rivalità in un senso o nell'altro. Ciò, ovviamente, si basa su concessioni reciproche. In altre parole, in modo principale e fondamentale, gli obiettivi finali delle due parti si escludono a vicenda, negandosi a vicenda.

Ma quali sono esattamente queste presunte aspirazioni oppositive? Sebbene gli accademici di solito si astengano dall'affermare ciò in modo esplicito, la loro premessa basilare è piuttosto evidente: il "compromesso" è una reciproca concessione tra, da un lato, l'ambizione di imporre la Legge ebraica allo Stato di Israele e di trasformarlo in una teocrazia, e dall'altro, l'aspirazione a ripulire completamente la politica di questo Stato da ogni traccia di "religione" ebraica – ad attuare, cioè, una separazione totale tra religione e politica. Entrambe le parti presumibilmente comprendono che non possono raggiungere i loro obiettivi finali e sono disposte a rinunciare alla completa realizzazione delle loro visioni guida. Lo status quo, quindi, è un accordo di compromesso reciproco, in cui entrambe le parti cedono alcuni dei loro ideali. Questo accordo quindi "neutralizes the explosive political potential built around the ‘religious cleavage’ by ‘depoliticizing’ the tension around the cleavage".[11]

Shulamit Aloni, ca.1950
Shulamit Aloni, ca.1950

In questo contesto, lo status quo ha vinto le ire dei critici sionisti liberal-secolari. Questi critici vedono lo status quo come un modo per porre la laicità israeliana, che costituisce la maggioranza degli ebrei israeliani, in schiavitù della minoranza religiosa. L'accordo, in poche parole, è un’espressione di "coercizione religiosa". In questo senso, Shulamit Aloni ha identificato il documento comunemente indicato come il testo costitutivo dello status quo, la "status quo letter" (cfr. sotto) come fosse divenuto "the document that most strongly shackles the hands of Knesset members from the ruling parties, preventing them from legislating in accordance with their conscience and understanding".[12]

Secondo Aloni, questo documento e, soprattutto, la pratica che costituisce, aprono la strada alla trasformazione di Israele da uno stato governato dalla legge (civile) in una teocrazia, governata dalla legge ebraica (cioè, halakhah).[13] Come abbiamo visto nel Capitolo precedente, la teopolitica ebraica-statalista di A. B. Yehoshua condivide questo apprezzamento, poiché vede la religione come goffamente "saldata" nel corpo nazionale, mutante in un'escrescenza simile a tumore, che è imposta agli israeliani laici da "the religious on their various kinds and schools"[14] – attraverso, tra le altre cose, le disposizioni dello status quo.

Lo status quo come mito[modifica]

Come idea, questa immagine dominante dello status quo ha una "presenza mitica" nella cultura politica israeliana. Non si tratta solo di un "accordo" che fissa alcune regole del gioco socio-politico-culturale, ma anche di "a sign of the complexity of the sovereign Jewish identity". Adempiendo a questo ruolo di narrazione o simbolo mitico, lo status quo è, "in Roland Barthes’s terminology, both ‘meaning’ and ‘form’; it transforms the particular history of the term into one that carries meaning that exceeds its immediate denotation".[15]

Come altri miti, anche lo status quo ha una narrazione storica costitutiva. In effetti, "it does not have a starting point",[16] ma ha una storia di origine. Secondo la narrativa tradizionale, lo status quo era originariamente il risultato di un compromesso formativo tra la leadership sionista (laica) e i rappresentanti dei partiti ebrei ortodossi (non-sionisti) nella Palestina pre-statale. Questo compromesso, così dice la storia, aveva lo scopo di raggiungere l'unità intraebraica durante un periodo di formidabile lotta contro i non-ebrei. Col passare del tempo, ciò che era iniziato come una mossa tattica nella campagna strategica per la creazione di uno stato-nazione ebraico si trasformò in un principio fondativo della comunità politica ebraica nella Palestina pre-statale e poi nello Stato di Israele; è un principio politico quello di preferire il consenso intraebraico (di nuovo, in nome di una lotta contro nemici non-ebrei) rispetto al governo maggioritario.[17]

Questa storia delle origini evidenzia ulteriormente un certo evento, un momento fondamentale, che segna la nascita stessa dello status quo: la sigillatura del "documento originale"[18] dello status quo — una lettera inviata da tre membri del Jewish Agency Executive (organo di supervisione della World Zionist Organization pre-statale) alla leadership del partito ortodosso, Agudat Yisrael, il 19 giugno 1947. Questa lettera presumibilmente sigillava come ufficiale una pratica già osservata nella comunità politica ebraica della Palestina mandataria.

La lettera "was intended to persuade Agudat Yisrael to support the WZO’s campaign for acceptance of the partition plan for Palestine".[19] Le Nazioni Unite stavano prendendo in considerazione la creazione di uno "Jewish State" in Palestina (accanto a uno "Arab State"), e la semplice possibilità che i rappresentanti ebrei (ortodossi) si opponessero a questo piano di spartizione – dal momento che erano a disagio con il carattere secolare del movimento sionista – era visto come una minaccia alla leadership sionista. Quest'ultima, così si racconta, cedette alle pressioni ortodosse (in quello che sarebbe diventato un modello di "ricatto" ortodosso nei confronti della maggioranza laica) e promise, sotto forma di lettera ufficiale, che mentre "it is clear that the intention is not to establish a theocracy",[20] i principi politici del futuro Stato ebraico sarebbero stati attenti alle quattro dimensioni della "religione" ebraica. Queste includono: (1) l'osservanza dello Shabbat come giorno ufficiale di riposo; (2) l'osservanza della kashrut (regole dietetiche ebraiche) nelle cucine gestite da agenzie statali; (3) la legislazione sulle norme relative al matrimonio e al divorzio che impedirebbero i matrimoni tra ebrei e non-ebrei;[21] e (4) garanzia dell'autonomia del sistema educativo ortodosso. Torneremo presto su questa lettera.

Lo status quo ha attraversato ulteriori trasformazioni fondamentali nei primi anni dello stato sionista, e da allora è diventato, così dice la narrativa, il metro di misura primario – anche se non fisso e determinato ma piuttosto mutevole ed evolutivo – per regolare la relazione tra "religione" e "politica" in Israele.[22] Va notato che questo "essere" mitico non è congelato nel tempo; inoltre, è proprio il suo carattere "ever-changing", in continua evoluzione, a contenere la chiave per comprenderne la resistenza.[23] Ciò che potrebbe sembrare un ossimoro – ovvero la natura dinamica di uno status quo – è semplicemente una manifestazione della consapevolezza che, come altri accordi politici, "so does the status quo principle [...] not prevent changes in the existing situation; it merely limits them, restrains them, and prevents them from attaining public legitimacy and official validation by means of legislation".[24] In quanto tale, lo status quo è diventato un paradigma per risolvere-senza-decidere la tensione essenziale tra i principi contraddittori delle due parti (sionismo "secolare" e il "religioso" non-sionista).

Oltre la scissione: l'ebraicità statalista e lo status quo[modifica]

La distinzione epistemologica tra religione e non-religione (il secolare), seguita dall'opposizione tra identità "religiosa" e "secolare", sono, quindi, un fondamento della nozione stessa di status quo. Questa idea presuppone la precedente esistenza di due campi separati e opposti – incarnazioni sociopolitiche concrete di concetti universali – ciascuno con la propria ideologia, obiettivi e aspirazioni chiari riguardo alla formazione del sistema politico israeliano. Inutile dire che questa nozione costruisce, modella e reifica anche tali identità:

« The status quo is given to processes of reification [...] In order for it to function the status quo mechanism demands clear, defined and loyally represented identities. The status quo ideology promotes a symbolic imagery of wellentrenched camps facing each other. Sociological studies prove this to be a deceiving imagery; it turns out that reality is more complicated than the binary and dichotomous imagery [...] But as a tool in the service of the politics of accommodation, the status quo demands concrete essences in order to reconcile them. Who is religious? Who is secular? Who represents them? What represents them? These are questions that demand clarification for the mechanism of accommodation to work; These are questions that demand a reifying manipulation of social identities. »
(Boaz, "The Religious ‘Status Quo’" 112)

In altre parole, lo status quo, che è costruito sul discorso della scissione, reifica anche questo discorso, poiché assume un ruolo centrale nella costruzione di quelle stesse identità opposte che identifica in primo luogo come reciproche rivali. Esso tende quindi a preservare e rafforzare l’"istituzionalizzazione politica" delle fratture sociali, e in effetti gioca un ruolo decisivo nella loro stessa creazione e nel mantenimento di quella stessa opposizione che pretende di risolvere.[25]

Per esporre e criticare il modo in cui è costruito lo status quo dobbiamo trascendere la nozione limitata di un compromesso tra due identità intere, concrete, mutuamente esclusive e opposte. Questo, in effetti, è lungi dall'essere un argomento nuovo. Il campo accademico lo ha già spiegato abbastanza chiaramente. Alcuni, ad esempio, vedono chiaramente il modo in cui il meccanismo dello status quo perpetua non solo le identità, ma anche un ordine politico che preferisce un certo gruppo rispetto ad altri, e getta una luce critica sulla nozione di compromesso come spiegazione della permanenza dello status quo.[26]

Più importante della questione se il compromesso possa spiegare lo status quo è l'accordo stesso – che i critici sembrano condividere – sull'identificazione delle identità ebraico-israeliane come costruite principalmente lungo le due posizioni opposte nei confronti della religione. In altre parole, anche se i principali sostenitori dello status quo e i suoi critici non sono d'accordo sul suo merito politico, condividono tuttavia il quadro epistemologico secolare/secolarista. Anche quando gli studiosi riescono a evidenziare i modi in cui lo status quo stesso costruisce lo schema identitario di secolare vs religioso (reificando la stessa "scissione" attorno a cui queste identità sono presumibilmente costruite), continuano a pensare allo status quo in/attraverso concetti assoluti di "religione" e di "laicità/secularity". Anche se capiscono che "religioso" e "secolare" sono categorie costruite socialmente, nella costruzione delle quali lo status quo stesso gioca un ruolo centrale, pensano comunque allo status quo attraverso l'epistemologia secolarista, che è incentrata sulle dicotomia secolare vs religioso e religione vs politica. Pertanto, assumono come data l'universalità e l'assoluta rilevanza – anzi, la realtà stessa – dei concetti fondativi di religione, laicità, ecc.

Lo status quo oltre la "secolarizzazione"[modifica]

Ciò che è necessario, quindi, è un nuovo pensiero critico dello status quo come organo centrale della teopolitica della sovranità sionista, che si autoidentifica come "ebraica".

La "decostruzione" della narrativa dominante può iniziare con un'attenta considerazione del presunto documento costitutivo dello status quo, la già citata “status quo letter”. Ciò non avrà lo scopo di "provare" che il documento non costituisce le modalità seguite nella pratica (come hanno fatto alcuni critici della "coercizione religiosa", cercando di dimostrare che le pratiche osservate non hanno il loro supporto giuridico nella lettera).[27] Piuttosto, si concentrerà sulla problematizzazione dei presupposti fondamentali riguardanti le ideologie coinvolte e i compromessi che i loro aderenti avrebbero dovuto fare. A questo proposito, la lettera può essere utilizzata non necessariamente come un contratto quasi legale, ma piuttosto come un aneddoto che coglie un'essenza più profonda.

Menachem Friedman
Menachem Friedman

L'attenta considerazione da parte di Menachem Friedman del contenuto della lettera offre spunti illuminanti, che rimarcano ed evidenziano ciò che la corrispondenza in questione dà per scontato: un contesto essenziale che tende a offuscarsi nei lunghi scontri politici e pubblici che circondano lo status quo. Due aspetti importanti di queste intuizioni meritano particolare attenzione nel contesto della discussione attuale: uno ha a che fare con la natura nonimpegnativa, dichiarativa e complessivamente "aperta" del documento. Il secondo tocca la questione fondamentale delle ideologie, degli interessi e dei valori delle due parti, in particolare di quelli della Jewish Agency (che rappresenta il movimento sionista e presumibilmente parla a nome degli ebrei laici). I commenti di Friedman riguardo all'impegno sionista di osservare lo Shabbat come giorno di riposo del futuro Stato affrontano la questione di petto. Come osserva, la clausola che stipula questa promessa non si riferisce al concetto halakhico e "religioso" dello Shabbat, ma piuttosto alla nozione europea di un giorno di riposo come diritto legale al benessere dei lavoratori. Ed è qui che sta la questione fondamentale:

« One may ask: What is the novelty here? Would it be even conceivable that the weekly day of rest in the state of the Jews will not be Saturday? How is this “commitment” supposed to satisfy Agudat Yisrael? »
(Friedman, ibid., 51)

Friedman prosegue spiegando che questo impegno deve essere compreso alla luce delle pratiche accettate negli insediamenti appartenenti al movimento dei Kibbutz, dove l'ideologia socialista era dominante e in cui un membro della comune poteva scegliere qualsiasi giorno della settimana come suo giorno di riposo. La leadership di Agudat Yisrael era preoccupata che questa pratica potesse essere adottata dal futuro Stato, e la leadership sionista promise che non sarebbe stato così.

In altre parole, il chiarimento sionista e secolarista riguardo al "carattere pubblico" dello Shabbat ha ben poco, se non nulla, a che fare con la nozione halakhica o "religiosa" dello Shabbat; si tratta invece di un impegno di carattere nazionale, di una questione simbolica "secolare" (se insistiamo innanzitutto a preservare queste dicotomie fuorvianti). È una prima espressione del modo in cui il "politico" (qui personificato dal rappresentante dello Stato futuro), che si considera laico, costituisce la propria identità ebraica attraverso una certa interpretazione del tradizionale sistema di simboli. In effetti, come osserva Friedman, sarebbe difficile persino concepire uno Stato, che si identifichi come lo Stato degli ebrei, che non segni lo Shabbat come un giorno formale di riposo (il significato pratico di ciò è, ovviamente, dato a varie interpretazioni e comprensioni). D'altra parte, non si vede come questa dichiarazione non impegnativa riguardo al "carattere" dello Shabbat possa placare coloro che mirano presumibilmente all'instaurazione di una teocrazia ebraica, tale che segua i dettami dell'interpretazione ortodossa della legge ebraica riguardo ai divieti dello Shabbat, sia pubblici che privati.

Friedman sottolinea anche l'illusività del linguaggio della lettera, sottolineando che la lettera non promette alcuna delle regole che sarebbero poi diventate i parametri di riferimento dello status quo: il chiarimento in materia di matrimonio e divorzio lascia ambigui i concetti stessi di "questioni personali" (ishut); il presunto impegno a servire cibi kosher nelle istituzioni governative non promette che queste istituzioni non serviranno cibo non-kosher insieme all'opzione kosher: promette a malapena la disponibilità di cibo kosher per gli interessati, e così via. In breve: "This letter was meant, then, to ease suspicions and fears in the Agudat Yisrael camp. It holds no commitment that might be understood as relating to the status quo that was practiced in the [pre-state Jewish community of Palestine]".[28]

Friedman rivolge la nostra attenzione anche alla posizione compromessa del lato "religioso" in questo rapporto. Egli ritiene infondata la presunta minaccia di Agudat Yisrael riguardo al non sostenere la creazione di uno Stato per gli ebrei. Soprattutto dopo l'Olocausto, era concepibile che i rappresentanti ebrei negassero il diritto degli ebrei a costruire un rifugio nazionale sicuro?

Quale compromesso?[modifica]

L'importanza della “status quo letter” per la discussione attuale supera, quindi, l'enigma storico-giuridico se questo "original document"[29] costituisca davvero le disposizioni successivamente consacrate nella pratica politica come status quo, e la conseguente "coercizione religiosa". Tale lettera, come una considerazione dello status quo nel suo insieme, costringe a porsi una domanda semplice ma profonda: perché, allora, lo status quo è stato rispettato? Perché la leadership sionista, socialista, presumibilmente veementemente secolarista e sicuramente dominante,[30] ha insistito nell'istituire regole, leggi, pratiche e norme che vincolassero la sfera pubblica così come gli aspetti altamente sensibili della vita dei cittadini con determinati divieti, che alludono alla "religione ebraica"? A chi serve lo status quo? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prima decostruire la narrativa dominante del mito dello status quo.

Osservata da vicino, la premessa comune alla base della concezione dello status quo essenzialmente come un compromesso sembra, nella migliore delle ipotesi, dubbia. In che modo lo status quo è utile ai "religiosi" o agli "ortodossi"? Il collegamento tra le pratiche dello status quo e l'interpretazione ortodossa della legge ebraica è remoto e discutibile. Che significato ha una "parziale osservanza" della legge? Si noti che lo status quo si basa sull'identificazione di alcuni aspetti dei divieti dello Shabbat, per citare un esempio contestato, come più importanti di altri: vieta il trasporto pubblico di massa (cioè gli autobus gestiti da business aziendali) e consente il trasporto pubblico di "dimensioni minori" (taxi e minibus privati); e non ha nulla da dire sull'uso privato dell'auto durante lo Shabbat. Allo stesso modo, vieta l'apertura di attività commerciali durante lo Shabbat, a meno che non si tratti di "luoghi di piacere", come cinema, teatri e ristoranti. Inutile dire che la legge ebraica nella sua interpretazione ortodossa non ha nulla a che fare con tali distinzioni. Cerca di far rispettare le regole dello Shabbat, come tutte le altre regole, sia nella sfera privata che in quella pubblica, e non vede alcuna differenza tra un piccolo taxi e un autobus aziendale.

Ora, si noti che il presupposto basilare della narrativa del "compromesso" è che l'obiettivo finale della parte ortodossa è stato l'istituzione di una teocrazia ebraica – cioè la costituzione della legge ebraica (ortodossa) come legge del paese – in Israele. Anche se questo è altamente discutibile, supponiamo ai fini della discussione che sia stato effettivamente così. Come potrebbe, allora, un "frammento" di teocrazia, tale da imporre la legge ebraica solo "parzialmente", soddisfare chiunque sia interessato al governo completo ed esclusivo dell’halakhah? Che senso ha per chi è interessato al dominio della legge ebraica (non del "sentimento" ebraico) l'imposizione parziale e selettiva solo di alcune regole? Avrebbe senso, per fare un esempio piuttosto crudo, imporre norme che vietino il furto in modo parziale e selettivo, secondo cui solo un certo tipo di furto non è consentito?

In effetti, Menachem Friedman fornisce ampi esempi per dimostrare che la lettera sullo status quo non mirava a soddisfare, nemmeno parzialmente, qualsiasi potenziale aspirazione teocratica di Agudat Yisrael. Lo scopo era invece di rassicurare la leadership ortodossa che il futuro Stato sionista, governato da rappresentanti di un'ideologia che si considera radicalmente secolare e socialista, non perseguiterà loro, la minoranza non-secolare.

La lettera – come esempio dell'intero accordo e non come causa in sé – indirizza la nostra attenzione su questioni ancora più difficili riguardanti la natura stessa dello status quo: perché un partito non-sionista, che non accetta, almeno formalmente, l'idea di creare uno stato-nazione ebraico (bisogna tenere presente che la leadership di Agudat Yisrael preferì la continuazione del mandato britannico alla creazione di uno stato “secular” di ebrei; ciò non aveva a che fare solo con i loro timori provenienti dal campo socialista-sionista, ma anche con la loro interpretazione delle tradizionali nozioni teologiche di esilio e redenzione) – perché dovrebbe preoccuparsi del ruolo svolto dalle usanze ebraiche nella legge (secolare) del paese? Dopotutto, l'Ortodossia era già costituita a quel tempo come una comunità di ebrei privi di sovranità politica. E quindi la domanda rimane: a chi serve lo status quo?

Lo status quo e l'ebraicità statalista[modifica]

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Poema ebraico La Donna di valore dal Libro dei Proverbi (31:10-31) - Affresco in Israele

Mi sembra che la risposta piuttosto semplice sia inevitabile. Accordi nello spirito dello status quo, che impongono principalmente (come espressione di sovranità) simboli ebraici tradizionali (il cui collegamento con la legge ebraica nella sua interpretazione ortodossa è, nella migliore delle ipotesi, debole) sulla sfera pubblica, e vincolano gli individui in materia di matrimonio e divorzio all'autorità di un rabbinato ortodosso (che è istituito, finanziato e autorizzato dallo Stato come sovrano) serve principalmente al bisogno del sovrano appena incoronato (cioè dello Stato appena costituito) di identificarsi come ebraico e di preservare una maggioranza ebraica (un presupposto della sua stessa sovranità). Lo spiegherò di seguito.

Gli accordi sullo status quo impongono alla sfera pubblica israeliana rituali, simboli e significati riservati solo agli ebrei (sia ebrei "secolari" che "religiosi"). Questi accordi non servono un programma ortodosso o ultra-ortodosso, tale da voler essere quasi non autoriflessivamente leali a un'interpretazione ashkenazita conservatrice della legge ebraica. (Per cominciare, resta aperta la questione se il campo ortodosso non-sionista sia interessato alla sovranità politica. Dovremmo tenere presente che la posizione formale di questa leadership ortodossa si oppone "teologicamente" al progetto politico sionista.) Gli accordi sullo status quo manifestano una comprensione dell'ebraicità che è "politica" e "nazionale" – anzi, statalista – e non "religiosa" o "ortodossa".

L'imposizione di questa concezione da parte dello Stato sovrano alla sfera pubblica include quasi automaticamente coloro che sono identificati come "ebrei" nei gruppi maggioritari ed esclude, sempre per definizione, i non-ebrei, anch'essi contrassegnati come minoranza. Allo stesso modo, il vincolo degli ebrei israeliani ai tribunali rabbinici istituiti, sponsorizzati dallo stato e autorizzati dallo stato per la gestione delle loro questioni personali impedisce di fatto i matrimoni inter-"religiosi" o inter-etno-nazionali, garantendo in tal modo la preservazione della demarcazione essenziale tra maggioranza e minoranza etnonazionale.

Questa, quindi, è la chiave per comprendere lo status quo. Non si tratta di "compromesso" e di "sottomissione" della "maggioranza secolare" ai capricci della "minoranza religiosa", ma di un’espressione – senza dubbio cruda – della dipendenza dello Stato (uno Stato, deve essere tenuto presente, governato dalla leadership di questa presunta “maggioranza laica”) su una ristretta interpretazione "religiosa" del significato delle tradizioni ebraiche, per la regolamentazione della sfera pubblica e per la gestione della politica "nazionale" (presumibilmente secolare). E lo Stato impone questa interpretazione alla sfera pubblica e alla vita privata dei cittadini utilizzando tutti gli strumenti di cui dispone in quanto sovrano — principalmente la legge.

Lo Stato accetta comunque, ovviamente, l'idea di fare una distinzione tra questi due organi "saldati": la "religione" ebraica e il "nazionalismo"; ma come esemplificano piuttosto chiaramente i dibattiti sui presunti "paradossi" creati da questa distinzione, lo Stato e la cultura che ha costruito rimangono fedeli all'idea che queste due categorie siano viste come essenzialmente identiche.[31] Questa nozione è alla base del sistema educativo "statalista" (mamlachti, presumibilmente secolare e apertamente dominante), e alimenta un lungo elenco di leggi, pratiche e norme che impongono una certa, ristretta interpretazione della tradizione ebraica nella sfera pubblica.

Questo bisogna spiegarlo: la "maggioranza secolare" necessita della presunta "coercizione religiosa" dello status quo più di ogni altra parte in questa relazione. Tale coercizione è il meccanismo ultimo che preserva l'ebraicità degli ebrei statalisti. È questa coercizione che garantisce il loro posizionamento come ebrei nello Stato degli ebrei; garantisce la loro posizione come coloro il cui stato è Israele. Questa coercizione è ciò che consente di preservare e mantenere l'identità ebraica della "maggioranza secolare" nello stato-nazione che si identifica come appartenente agli ebrei.

Non sarà superfluo ricordare al lettore alcuni dei fatti più basilari della realtà politica in Israele. Essere ebrei in Israele significa appartenere alla maggioranza, che gode di una posizione privilegiata in ogni aspetto della vita pubblica. Chi è ebreo – o si identifica come appartenente a questa maggioranza – gode di un capitale politico, simbolico e culturale riservato solo agli ebrei. È il loro stato e quello di nessun altro. E senza l'imposizione da parte dello Stato – anzi la coercizione – della sua ristretta interpretazione dell'ebraicità o dell'ebraismo sulla sfera pubblica, molti membri di questa maggioranza – gli ebrei statalisti – non avrebbero avuto la possibilità di identificare positivamente il contenuto della loro identità ebraica. Lo Stato, in altre parole, impone la "religione" nella sfera pubblica, e così facendo garantisce la distinzione tra ebrei e non-ebrei, e la preferenza dei primi rispetto ai secondi.

Come ho notato nei Capitoli precedenti, lo Stato di Israele non ha mai investito le proprie risorse nella costruzione di un'identità nazionale israeliana, tale che sarebbe presumibilmente liberata dalla "religione" ebraica e includerebbe naturalmente anche la popolazione non-ebraica di Israele. Invece, lo Stato si è concentrato sulla costruzione di un'identità ebraica che, sebbene ovviamente contraddittoria, è tuttavia focalizzata su un significato primario: è un'identità nazionale riservata solo agli ebrei. Lo Stato ha visto la molteplicità e la diversità delle tradizioni e delle identità ebraiche come una minaccia alla "coesione nazionale" e ha dedicato le proprie energie e risorse al "melting" e alla cancellazione di queste tradizioni, sotto la bandiera dell'aggressivo progetto del "Melting pot". Ma non si è arreso all'imposizione di una certa interpretazione sionista-statalista della tradizione ebraica sulla sfera pubblica e sulla vita privata della popolazione dello Stato.

La cultura politica in Israele trasmette, anche se solo superficialmente, in modo confuso e incoerente, il semplice messaggio che gli israeliani devono rispettare la tradizione ebraica e impegnarsi nei confronti del popolo ebraico in generale. La sfera pubblica israeliana – e in particolare il reame dei mass media in cui l'israelianità si è continuamente costituita – serve, sostiene e riafferma questa comprensione. Lo fa più comunemente attraverso il marketing continuo (di solito come strumento per la costruzione di pubblico e consumatori) o l'imposizione (attraverso le agenzie statali) di queste nozioni.

Lo Shabbat e le festività ebraiche, per fare solo un esempio, sono "forzati" nella sfera pubblica israeliana per il semplice fatto che lo stato e le sue agenzie interrompono il loro lavoro quotidiano e i canali televisivi passano a un palinsesto "festivo"; anche se i programmi trasmessi in questo contesto hanno solo un collegamento limitato, se non nullo, significativo con il contesto tradizionale della festività ebraica, resta il fatto che Israele è probabilmente l'unico luogo in cui un ebreo può astenersi dal prendere parte attiva nel celebrare la festività ebraica e tuttavia "viverla" – se non altro per il semplice fatto che lui, come individuo nell'intimità della propria casa – viene "spostato" in una sfera temporale distinta, separata dal flusso quotidiano del tempo. E questo ha l'effetto, tra l'altro, di riaffermare la sua identità ebraica.

Pertanto, in un certo senso paradossalmente, ciò che molti identificano come "coercizione religiosa" soddisfa un bisogno essenziale e fondamentale della maggioranza laica, più di quanto serva a un’agenda "religiosa". Dopotutto, è questa imposizione che concede agli ḥilonim israeliani il privilegio storicamente unico di essere ebrei evitando l'osservanza pratica di tale identità. Inutile dire che i non-ebrei (vedi i cittadini palestinesi di Israele), che avrebbero difficoltà a identificarsi con questo sistema simbolico, sono predestinati a non trovare se stessi e la loro identità rappresentati in questa sfera pubblica.

Il gruppo principale che beneficia di questa coercizione – in effetti, un gruppo la cui stessa esistenza dipende da questa coercizione – è quello degli ebrei statalisti, coloro che hanno depositato, consapevolmente o inconsapevolmente, il mantenimento della propria identità ebraica presso il sovrano, lo Stato-nazione. Senza di esso perderebbero il significato della loro identità. In questo contesto, si potrebbe ricordare il fenomeno, piuttosto noto, degli israeliani (ebrei) che si autoidentificano come "totalmente secolari" (ḥiloni gamur nell'ebraico colloquiale), che si trovano ad aderire ad una comunità/congregazione ebraica, che si costituisce attorno ad un sinagoga, e prendono parte a una celebrazione "religiosa" delle festività ebraiche quando emigrano da Israele, anche se continuano a identificarsi come del tutto indifferenti alle questioni di "religione". Senza l'imposizione/mantenimento statalista della loro ebraicità, ora necessitano di un quadro istituzionale "religioso" per la preservazione e la manifestazione della loro ebraicità – e israelianità.

In effetti, una delle domande interessanti che sorgono nel contesto di una discussione sullo status quo – una domanda posta da quasi tutti gli studiosi che lo esaminano da vicino – ha a che fare con la persistenza stessa del mito che lo circonda. Com'è possibile che la narrativa dominante dello status quo resista e continui a raccontare una storia di estorsione e coercizione ortodossa, in nome di aspirazioni teocratiche, sull'ingenua, passiva e nel complesso sfortunata maggioranza secolare? La risposta ha a che fare con l'abnegazione dell'ebraismo statalista. Questa ebraicità desidera considerarsi fedele ai principi universali dell'illuminismo e del secolarismo, e immaginarsi come "non religiosa" e non-teologica. Come abbiamo visto sopra, l'identità e la teologia dell'ebraismo statalista si basa sulla dicotomia fondamentale tra religioso e secolare. Vede se stesso attraverso l'epistemologia secolarista e non può accettare l'idea di essere anch'esso, in definitiva, l'incarnazione di una teopolitica. Più specificamente, l'ebraicità statalista si basa sull'opposizione israeliana tra ḥiloni e dati; come dimostra chiaramente A. B. Yehoshua, si basa sulla concezione del dati (religioso) come il nemico principale dello ḥiloni israeliano. Questa identificazione attraverso la negazione del dati e dell'ortodosso significa, tra l'altro, che l'ebraicità statalista è minacciata dalla possibilità che in essa appaiano anche elementi di "religiosità"; che sia il gruppo che più fa affidamento sulla presunta "coercizione religiosa" per il mantenimento stesso della propria identità.

L'ebraicità statalista, le sue alternative e la possibilità di resistere alla sovranità[modifica]

Una comprensione dell'ebraicità statalista offre, quindi, una finestra per decifrare il paradosso o l'enigma dell'ebraicità secolare in Israele. Spiega come sia possibile che la maggioranza degli ebrei israeliani conduca uno stile di vita che è in parte radicato, in modo significativo, nelle tradizioni e nelle pratiche ebraiche che sono considerate "religiose", e tuttavia si consideri, essendo "secolare", come "indifferente" alla religione ebraica e alla sua tradizione. In altre parole, la comprensione dell'ebraicità statalista ci consente di vedere come viene resa possibile l'invenzione di una israelianità apparentemente "laica", negando o reprimendo al tempo stesso la sua dipendenza critica dalle tradizioni ebraiche; è lo Stato-nazione che mantiene l'identità ebraica degli israeliani, preserva la loro posizione privilegiata come membri della maggioranza, e consente loro anche di considerarsi fondamentalmente liberi dai dettami della religione ebraica, quindi implicitamente ignoranti ed esplicitamente indifferenti a contenuti e significati delle tradizioni ebraiche che hanno preceduto lo stato-nazione israeliano.

Il potere del sovrano è lungi dall'essere limitato solo a coloro che si identificano come ḥilonim. L'ebraicità statalista, o la nazionalizzazione dell'identità ebraica da parte del sovrano, è evidente anche tra i gruppi che non si identificano come laici, quali gli ortodossi e i tradizionalisti. È difficile non vedere come questi gruppi adottino la teopolitica dello stato-nazione apparentemente nonreligioso.

Ma questi gruppi offrono anche, seppur solo come opzione teorica, la possibilità di resistere alla politica sovranista e di ideare alternative all'ebraicità statalista che viene promossa. Questi gruppi identitari preservano, attraverso lo stesso stile di vita che mantengono, la possibilità di identità ebraiche che non dipendano dallo Stato. Se l'ebreo statalista affronta un pericolo esistenziale quando emigra da Israele (cosa preserverebbe l'identità dei suoi figli come ebrei laici?), allora si suppone che l'ebraicità di questi gruppi non-secolari e non-statalisti sopravviva ed sia mantenuta anche in contesti esterni allo Stato di Israele. L'individuo, la famiglia, la comunità, la legge, il costume e la tradizione sono ciò che mantiene e preserva questa identità, non il meccanismo politico-statalista. Questi ebrei non-secolari possono sentirsi politicamente carenti – nel senso che lo stato in cui vivono non è "loro" – ma questo non riguarda la loro ebraicità, o può riguardarla solo remotamente, escatologicamente. Questi ebrei presentano un diverso equilibrio tra la teologia dello Stato e le tradizioni ebraiche, tale da consentire un'espressione significativa delle identità non-"israeliane" (cioè ebraiche-non-stataliste) – principalmente identità e tradizioni etniche intra-ebraiche.

Ma il potere del sovrano è immenso. L'ebraicità statalista che ha promosso è riuscita a riscrivere il significato dell'identità ebraica per molti ebrei, che siano o meno secolari mediante la loro autoidentificazione, sia che vivano in Israele o all'estero. In effetti, è riuscito a conferire "ebraicità" a persone esplicitamente identificate come non ebrei. Uno dei più grandi successi dello Stato di Israele è stata l'identificazione quasi immediata e data per scontata da parte di molti – ebrei e non – sostenitori di Israele e non — tra ebraicità e politica dello Stato di Israele. Gli ebrei non-israeliani non accettano prontamente, è ovvio, l'affermazione di A. B. Yehoshua secondo la quale sono "parziali", rispetto alla "totale" identità ebraica sua e di qualsiasi israeliano; tuttavia, il discorso pubblico che condividono tende ad accettare l'affermazione che la loro relazione con lo Stato di Israele incarna il nucleo gravitazionale dell'identità ebraica moderna.[32] Parimenti, quando individui e gruppi cercano di opporsi violentemente allo Stato di Israele, possono tendere a dirigere la loro violenza contro gli ebrei non-israeliani per esprimere la loro opposizione allo Stato.

Non pretendo di offrire qui un'alternativa praticabile e autosufficiente alla visione globale del mondo propagata dallo stato-nazione sovrano sulla sua reinvenzione del significato dell'identità ebraica. Una tale spiegazione di un significato alternativo dell'identità ebraica richiede un intervento politico-filosofico, di tipo completamente diverso dall'interpretazione sociopolitica che ho qui delineato.[33] Mi sembra che, affinché tale alternativa abbia successo, deve nutrirsi delle tradizioni ebraiche. Ciò, sospetto, gli consentirebbe di resistere all'influenza dello Stato, che si autoidentifica come ebraico. Per lo meno, garantirebbe la rilevanza di tale alternativa per coloro che vedono la propria ebraicità come un elemento centrale e prezioso della propria identità. Ciò, infatti, può equivalere a un tentativo di pensare politicamente a un ordine che vada oltre quello oggi dominante, vale a dire quello dello Stato-nazione. Dato tale dominio, questo deve essere un compito alquanto arduo; deve, infatti, essere lasciato ad interventi futuri.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Barak-Erez, "Law and Religion", 2495.
  2. Aloni, The Arrangement.
  3. L'ebraico fa qui un doppio gioco, che serve alla vaghezza: medina denota sia politica che stato.
  4. Cfr. Ben-Porat, Between State and Synagogue.
  5. Barak-Erez, "Law and Religion", 2495.
  6. Ibid.
  7. Ibid.
  8. Cohen e Susser, Israel and the Politics of Jewish Identity, 18.
  9. Lijphart, The Politics of Accommodation.
  10. Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 35.
  11. Ibid., 34, 35, 54.
  12. Aloni, The Arrangement, 70. Qui sto usando la trad. data da Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 43.
  13. Aloni, The Arrangement.
  14. Yehoshua, "Mihu yisraeli".
  15. Boaz, "The Religious ‘Status Quo’", 107.
  16. Ibid.
  17. Per una spiegazione di questa narrativa cfr. Horowitz e Lissak, Trouble in Utopia.
  18. Aloni, The Arrangement, 90.
  19. Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 42.
  20. La lettera dello “status quo”, citata in Ibid. Tale lettera viene riportata per esteso in Friedman, "Status quo", 66–67.
  21. La mia formulazione qui più semplice rispetto al linguaggio complesso della lettera: "All the members of the Executive appreciate the seriousness of the problem and the major difficulties involved, and all those represented by the Jewish Agency will do everything possible to meet the profound need of the religious in this regard, so as to prevent the division of the Jewish people into two." Citato in: Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 42.
  22. Per un conciso racconto di questa storia, cfr. Ben-Porat, Between State and Synagogue, 32.
  23. Barak-Erez, "Law and Religion", 2495.
  24. Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 38.
  25. Don-Yehiya, Religion and Political Accommodation in Israel, 15.
  26. Per esempio: Levy, "Secularism, Religion and the Status Quo"; Boaz, "The Religious ‘Status Quo’".
  27. Menachem Friedman rende la questione alquanto chiara quando conclude che "no one had viewed the letter [during the period immediately following the establishment of the State of Israel] as a commitment to observe the status quo on matters of religion in the State of Israel". Friedman, "Status quo", 48.
  28. Ibid., 52.
  29. Aloni, The Arrangement, 90.
  30. Dobbiamo tenere presente che il quadro fondativo degli accordi sullo status quo si è formato durante un periodo in cui il campo socialista-sionista, guidato dal partito Mapai, godeva di una posizione dominante che garantiva il suo dominio sullo stato, e gli ha permesso di sostituire a piacimento i suoi partner di coalizione. I partiti ortodossi o religiosi sicuramente non avevano potere politico per “estorcere concessioni” in queste o altre questioni durante l'era del dominio Mapai.
  31. La storia dei dibattiti legislativi e giudiziari e delle decisioni sulla Legge del Ritorno e la questione che ne deriva di "Chi è ebreo" riflettono abbastanza chiaramente questa identificazione. Infatti, come abbiamo visto nel Capitolo 8, anche un credente sionista laico come A. B. Yehoshua è riluttante ad accettare, ad esempio, la viabilità di un ebreo nazionale di fede cristiana.
  32. Myers, "Rethinking the Jewish Nation", offre una rara formulazione di una posizione ebraico-americana che cerca una liberazione dal nucleo gravitazionale dello stato.
  33. Julie E. Cooper, che offre una rassegna completa dei tentativi di formulare una lettura (moderna) del pensiero politico ebraico, sottolinea la dipendenza essenziale della maggior parte di questi tentativi dalla sovranità dello stato-nazione, e chiede un'esplorazione del significato della tradizione politica ebraica al di fuori e al di là del quadro della sovranità statale. Cooper, "The Turn to Tradition in the Study of Jewish Politics".