Sovranità Ebraica/Capitolo 6

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Bandiera Betar con il motto ebraico "Freedom Comes Before Peace", basato sull'originale del Beit Hatfutsot, tradotto come "La Libertà precede la Pace", identificata come bandiera usata da un'unità Betar austriaca nel 1935

Principali Correnti Sioniste e Tradizioni Ebraiche[modifica]

Questo Capitolo studierà le posizioni assunte dalle tre principali correnti sioniste – socialista, revisionista e religiosa – nei confronti delle tradizioni ebraiche che le hanno precedute e che hanno continuato a convivere accanto al progetto sionista nel suo insieme. Il Capitolo si occupa principalmente del sionismo socialista (discusso nelle prime parti del Capitolo), che è stata la corrente dominante e più influente nelle fasi formative del progetto sionista e dello Stato di Israele. In quanto tale, ha svolto un ruolo ineguagliabile nel plasmare la posizione generale sionista/israeliana nei confronti delle tradizioni ebraiche. In larga misura, sia il sionismo religioso che quello revisionista (di cui si parlerà nelle ultime parti del Capitolo) stavano reagendo a, o contro, questo dominio, e le posizioni che formarono dovrebbero essere intese nel contesto del dominio socialista-sionista.

Sionismo socialista: "cripto-religioso", "cripto-secolare" o altrimenti?[modifica]

Uno studio della posizione del sionismo socialista[1] nei confronti delle precedenti tradizioni ebraiche dà un'impressione piuttosto immediata della distorsione causata dalla struttura concettuale secolare. Questo quadro, che presuppone una distinzione essenziale – epistemologica oltre che ontologica – tra l'ideologia socialista-sionista e la "religione" ebraica, considerandole sfere separate della realtà umana (quella secolare e quella religiosa), fatica a trovare il modo corretto di come comprendere gli aspetti chiaramente "religiosi" dell'ideologia e della pratica socialista-sionista. Alcuni, nel tentativo di preservare la dicotomia, preferiscono vedere il socialismo-sionismo, come nel caso del socialismo in generale, come "simile a una religione". Tuttavia la distinzione resta confusa. Cosa distingue esattamente la presunta imitazione dalla religione autentica?

Gideon Shimoni, che, come accennato in precedenza, mostra completa lealtà alla narrativa della secolarizzazione mentre racconta la storia del "Zionism as a Secular Jewish identity",[2] offre un'espressione affascinante del tentativo di aggirare questo disagio concettuale preservando allo stesso tempo la distinzione essenzialista che comporta. Egli spiega che la combinazione di due organi ideologici contraddittori e che si respingono a vicenda – vale a dire il socialismo radicale (che è universale per la sua stessa autocomprensione) e il nazionalismo sionista (che è particolaristico per la sua stessa autocomprensione) – ha dato vita a "a comprehensive belief system which was a functional equivalent of religion".[3] Shimoni sembra adottare una definizione funzionalista di religione e allo stesso tempo insistere nel distinguere la "religione reale", che soddisfa determinate funzioni, da una "simile alla religione”, che soddisfa le stesse funzioni, ma che "non è realmente religione" poiché è, presumibilmente per sua stessa definizione, laica/secolare.[4] Così egli mantiene la distinzione, pur confutandola costantemente. Inoltre, sembra apprezzare il costrutto "simile alla religione" come preferibile alle sue alternative, "since it relieves Socialist Zionists of some of the ambivalence toward their traditionalist roots that so tortured the souls of liberal literary intellectuals like Berdyczewski".[5]

Come sosterrò qui, l'uso della retorica e della terminologia relativa alla natura "similar-to-religion-yet-essentially-different" del sionismo socialista, non ne promuove la comprensione. Inoltre, tende anche a offuscare alcuni dei principi centrali del confronto del sionismo socialista con le precedenti tradizioni ebraiche. Se invece ci concentriamo su questioni legate alla tradizione e ci liberiamo dalle catene dello schema concettuale laicista deformante, ci troviamo di fronte a un quadro piuttosto chiaro che non richiede tali acrobazie retoriche. Essendosi impegnato in due ideologie totalitarie parallele,[6] spesso contraddittorie, il sionismo socialista si è sforzato di promuovere un'agenda politica basata sull'invenzione di una nuova tradizione. Spesso considerava le tradizioni ebraiche precedenti come avversarie e si giudicava uguale in status e preferibile ad esse in termini di valore.[7]

La componente nazionalistica nel (nuovo) sistema tradizionale propagato dal sionismo socialista – una componente identificata come ebraica – conferisce al quadro la sua trama complessa. Questo perché, come ho discusso in precedenza, l'invenzione sionista della tradizione nazionale (di colore socialista, nel caso in questione) non voleva, né poteva, svincolarsi completamente da alcune componenti fondamentali del passato ebraico. Come vedremo più avanti, questo fu uno dei motivi principali per l'interpretazione conflittuale delle precedenti tradizioni ebraiche proposta dal sionismo socialista.

L'impegno totalitario verso un sistema tradizionale alternativo, in competizione con le precedenti tradizioni ebraiche, è ciò che spiega, almeno in parte, la mancanza di ambivalenza menzionata da Shimoni. L'ambiguità che caratterizzava le discussioni non-socialiste sulla storia e la tradizione ebraica si dissolse in un'assoluta negazione della "religione" ("vecchia" e "ebraica").

Naman Syrkin: Una nuova religione[modifica]

Nachman Syrkin, 1920
Nachman Syrkin, 1920
Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Nachman Syrkin.

Non è difficile vedere che questo sistema concorrente di significato e interpretazione, che cerca di prendere il posto di un sistema esistente, professa una totale negazione del suo predecessore-concorrente. In Nachman Syrkin, ad esempio, il quadro è colorato da una sorprendente opposizione di luce e oscurità, poiché ritrae rabbini "who hold the masses in their benighted state, while Zionist Socialism declares war on these forces of darkness in the name of the light". Questa immagine mette a fuoco la relazione "amico contro nemico".[8] Così Syrkin afferma nel suo "proclamation to the Jewish youth", pubblicato nel 1901: "Socialist Zionism sees practical Jewish religion,[9] which is, in [Heinrich] Heine’s masterful saying, not a religion but a disaster, as the main obstacle obstructing the Jewish People’s path towards culture, science, freedom, [and] liberty. Practical Jewish religion corrupts the Jewish mind and the Jewish soul, hinders any independent action, [and] chains the people in bondage".[10] Inoltre, egli celebra la profanazione del "vecchio" sacro ebraico.[11]

Per Syrkin, la realtà riguarda due paradigmi totalitari concorrenti:

« Since the people is resurrecting to life and to national existence, Judaism, too, is resurrecting from its Talmudic degradation, and arises as a creative spiritual and moral force of the movement of national revival. But this Judaism stands as a total opposition to medieval Judaism, to religious Judaism, to the Judaism of the exile. Zionism does indeed uproot religious Judaism in a more forceful and deeper manner than Reform and assimilation. This is so since while Reform and assimilation uprooted [‘aqrou] Judaism from the outside in an artificial way, and their result was either absorption [among the non-Jewish communities] or a revival of Talmudism, of traditional Judaism, [...] Zionism uproots [me‘aqeret] traditional Judaism from the inside, as it creates new contents of Judaism, as it changes the people’s spiritual values of life,—uproots and eradicates [meshareshet] it for once and for all.
The Judaism that is reviving on the occasion of Zionism, at a time in which Hebrew religion, Talmud, [and] the rabbinate have lost their value among [the People of] Israel because of the internal and external cultural currents, is a new ideology in Israel. As it develops, and as Zionism is realized, this ideology can rise to the level of a new worldview and a new view of life, [to become] a new religion [relegia adasha] that will hover over all aspects of life. »
(Syrkin, Kitvei, 169–170.)

Syrkin, quindi, non esita a identificare il sionismo socialista come una nuova religione. L'uso del termine non-ebraico qui è importante: gli permette di identificare l'ideologia socialista-sionista come una nuova "relegia" senza associarla alla malattia che ha afflitto la "vecchia" religiosità ebraica, l'ebraismo "medievale" e "esilico". Ma questo gioco di parole non offusca il quadro più ampio qui delineato. Il progetto socialista-sionista si identifica esplicitamente come un sistema tradizionale alternativo e onnicomprensivo, che nasce dal confronto diretto con le tradizioni ebraiche da cui emergono i portatori di questa nuova tradizione.

Questo modello conflittuale era prevalente tra coloro che erano associati alla "seconda ‘aliyah", gli immigrati ideologici sionisti provenienti dall'Europa orientale che arrivarono in Palestina all'inizio del XX secolo. Questi immigrati, che in seguito sarebbero diventati l'élite politica e culturale del progetto sionista e dello Stato di Israele, svilupparono, mantennero e propagarono l'etica sionista dominante del Movimento operaio. "In respect of their Jewish identity profile, they were a remarkably homogeneous group. Most had emerged out of a traditionalist religious background but had abandoned it in their youth".[12] Questa caratteristica biografico-storica è di particolare importanza: l'atto ribelle e conflittuale si basa su una conoscenza intima e non mediata dell'oggetto della rivolta (cioè le tradizioni ebraiche dell'Europa orientale).

Come conclude Shimoni, questi ideologi-immigrati preferivano l'approccio conflittuale di Syrkin e Berdyczewski all'approccio dialogico di Aad Ha‘am. La loro retorica era "antirabbinical, contemptuous of halakhic minutiae, and disdainful of the galut, past and contemporary. [...] The main ideological thrust was toward the divorce of the new Hebrew identity from all religious authority and influence and the normalization of the Jewish national culture on a secular basis".[13] Ancora una volta, il predominio della narrativa secolarizzante costringe a percepire questo confronto con la tradizione – come anche la costruzione di una nuova tradizione e di una nuova "relegia" — come "secolarizzazione". Ma questo chiaramente non coglie il significato più profondo del progetto in questione.

Yitzak El‘azari-Volcani: anti-teologia?[modifica]

Yitzhak Elazari Volcani, 1923
Yitzhak Elazari Volcani, 1923
Per approfondire, vedi Yitzak El‘azari-Volcani.

Come già accennato, Yitzak El‘azari-Volcani è considerato uno degli ideologi più metodici e articolati ad aver formulato questa posizione "secular". El‘azari-Volcani rifiuta il dialogo interpretativo di Aad Ha‘am con la tradizione, sostenendo che questo dialogo sostituisce una teologia – quella "religiosa" o "universale" – con un'altra, che egli definisce "teologia nazionale". Questa teologia non si accontenta del presunto fatto naturale dell'esistenza stessa della nazione, e richiede che la vita nazionale rimanga impegnata in un certo telos, come quello di essere un esempio morale per le nazioni del mondo. Secondo l'immagine di sé di El‘azari-Volcani (che Shimoni sembra accettare acriticamente) lui stesso – un ideologo del nazionalismo socialista-sionista – in effetti sviluppa "the Jewish self-understanding of the thoroughly secular national Jew".[14]

Non c’è dubbio che la posizione di El‘azari-Volcani sia "atea" – o, per essere precisi, nietzscheana.[15] Scrive sull'"illusione di Dio", chiarendo che "each nation created its God in its own image". Allo stesso modo, utilizza anche la narrativa delle "guerre religiose", ricordando ai suoi lettori che le nazioni hanno inutilmente versato il sangue le une delle altre in nome della religione.[16] Contro il mondo religioso delle bugie e delle illusioni El‘azari-Volcani traccia "another path, one in which the selfhood [or essence] of the free Jew gushes".[17] Chi è questo "free Jew", ebreo libero? Innanzitutto è un uomo senza Dio: "God has left him, and belief has been totally wiped out of his heart". Tale ebreo – e questo non deve passare inosservato: El‘azari-Volcani è parte attiva in un discorso identitario ebraico – vede chiaramente lo stato di "hypnotization" in cui Dio tiene i suoi adoratori. E sicuramente "he does not need this illusion for sensual mesmerization". È un superuomo nietzscheano, che incontra la natura con una visione chiara, pronta a condividerla:

« He faces the sights of nature in awesome respect [erdat qodesh], but not in self-annulment; He is not startled by the fear of thunder, nor is he broken by the great waves of the sea [...] He rules over the world of spheres [i.e., heavens above] [...] and tomorrow he will conquer what is impossible for him to achieve today. The empty space forming around him cannot be filled with ghosts of desolation and in false imaginings: He fills it with his actions, his deeds, [and] his creations [...] He cannot be attracted by the lure of illusions of worlds he has not seen. His creative powers, the manifestation of his selfhood, they, they are his God! »
(El‘azari-Volcani, Sefirot, 35–37)

El‘azari-Volcani dà ampia espressione a una posizione conflittuale nei confronti della tradizione ebraica. Egli descrive l’immagine dell'"ebreo libero" come un agente sovrano che può (e deve) giudicare la tradizione senza riserve. Questo ebreo può essere "indifferent to what his successors considered to be sacred"; El‘azari-Volcani non esita a dire che la tradizione nel suo insieme può essere considerata morta per tale ebreo libero: "He can view all of the estate that was passed over to us in inheritance as dead property that belongs to archives of antiquities". L'ebreo liberato non è vincolato da alcun credo, sistema morale o dottrina particolare; può adottare altre culture/tradizioni (la prima tra queste è, ovviamente, "the substance and wisdom of Greece", in cui l'ebreo liberato può trovare "the crowning glory of all generations"). Insomma, "everything, everything that was for our forefathers a source of life during their years of wonderings, does not have to be exalted and sublime in his eyes".[18]

Allo stesso tempo e contemporaneamente, El‘azari-Volcani riconosce la funzione costitutiva del passato: "We are a ring in the chain of generations. We cannot uproot everything and be released from all influences of our ancestors’ inheritance [...] It is not for man to choose the different elements from which his soul is composed, and he does not rule over it".[19]

Sangue, identità e tradizione[modifica]

Ciò rivolge necessariamente l'attenzione del lettore alla "questione ebraica", vale a dire: perché questo superuomo liberato non dovrebbe essere libero di liberarsi anche dalla sua identità ebraica? In alternativa, cosa lo rende ebreo? Nel rispondere a questa domanda, El‘azari-Volcani oscilla tra la nozione tradizionale di identità ebraica e quella biologica, o razziale, incentrata sul "sangue", affermando che "what entered our ancestors’ blood is endowed to us in spite of our opposition." Possiamo, ovviamente, essere autoriflessivi e, usando la nostra "ragione", "criticare severamente" le caratteristiche che ci sono state trasmesse come eredità; ma questa potrebbe rivelarsi una causa persa: "The psyche subjugates reason, too".[20] Tuttavia, poiché si tratta di una questione biologica di "sangue", non merita discussione: non si può veramente riflettere sul fatto naturale della propria "origine" o "razza", né si può cambiarla.

Ma un ideologo impegnato e pensatore sofisticato come El’azari-Volcani non può accettare la passività che questa interpretazione implica. E così, nonostante tutto il fervore nietzscheano, egli delinea una posizione piuttosto pratica, che in effetti comprende la tradizione come costitutiva, ma insiste nel preservare la soggettività riflessiva di chi la porta. Per questo trasforma la tradizione in una questione di eredità biologica:

« We can carve new tablets, but they will always carry over glimmers from the old ones, always, even if we try to extinguish them with all our might. We can create a new morality, to create another content of life, but we cannot escape the mode of creation, the form of expression, the mold into which the matter is cast. The “what” can be different than our forefathers’, but with the “how” we follow in their footsteps, driven by a hidden propelling force. [This is so] since if the axe cuts the tree trunk, another shoot will branch out, nourishing on the same roots hidden in the ground where it grows, upon which the “axe of generations” does not have any control. »
(El‘azari-Volcani, Sefirot, 37–38)

El‘azari-Volcani esonera così se stesso (o l'ebreo liberato) dal dovere di fedeltà alla tradizione. Ciò che suona all'inizio come un risentimento contro il potere coercitivo della tradizione, si rivela invece una licenza per liberarsene. Poiché ce l'abbiamo nel sangue, non dovremmo preoccuparci di smettere di essere ebrei. Siamo ebrei a priori – anzi, questo fatto ci perseguiterà – e questo in effetti ci libera anche dalla necessità di dialogare con il significato della nostra ebraicità.

L'ebraico di El‘azari-Volcani è carico di immagini relative a questa comprensione deterministica: dalla mitologia cabalistica dei "barlumi" (nitzotzot), passando attraverso la nozione di "sangue", arriva alle immagini botaniche del "tronco d’albero" e dei "rami". La fenomenologia in questione non è umana: non è una questione di scelta. È una questione di biologia, "some special essence [‘etzem meyuad] in us, remnants of generations that have been absorbed in our blood and milk",[21] la nostra (etno-)nazionalità non è soggetta alle nostre preferenze personali. Allo stesso modo, sangue/biologia è anche ciò che spiega l'antisemitismo.[22] Anche l'azione dell'individuo viene così resa irrilevante: El‘azari-Volcani chiarisce che non ci si può liberare dell'essenza nazionale, razziale (o "etnica"), finanche attraverso la conversione (religiosa): "The sin of race [aat hageza‘] is engraved in all of our thoughts and actions, and it shall by all means transfer also to the assimilated Jews [meshumadim]. Holly water cannot erase it".[23]

Il passo successivo è l'argomentazione secondo cui "ebraismo" è qualunque cosa facciano gli "ebrei": "Living Jews will create this or that kind of Judaism. Whether it is in the spirit of the prophets or not, it shall still be a bifurcation of their selfhood [hista‘afut ‘atzmiyutam]".[24] Questa, quindi, è la "linea di fondo" nazionale-tradizionale di una nozione biologica e razziale di identità: sangue/razza/etnia definisce la cultura. Tutto ciò che viene fatto o creato da persone di questo presunto "sangue" ebraico è considerato "ebraico" e perfino "tradizione ebraica".

Teologia nazionalista[modifica]

L'"individualità" o "essenza" nazionale (‘atzmiyut) è, quindi, il termine che richiede una spiegazione. Per El‘azari-Volcani, questa individualità nazionale equivale a un fatto di natura, che per definizione non è mitico o irrazionale. È questa nozione che consente a un ideologo entusiasta del nazionalismo sionista di considerare la sua dottrina come "secolare" e non "teologica".

L'individualità/essenza nazionale è vista in questo schema come uno scopo in sé e non come finalizzata al raggiungimento di un "bene" più elevato. Per El‘azari-Volcani, la posizione che promuove tale virtù è mera "teologia" o "religione"; invece l'ideologia nazionalista che è impegnata nella vita collettiva (essendo un organismo naturale), egli la considera "scientifica", "fattuale" e "laica/secolare".

E così, El'azari-Volcani, il sionista presunto vigorosamente secolarista e razionalista, non trova alcuna difficoltà nel parlare dell'"anima ebraica" (collettiva), che è trattenuta da catene in qualsiasi luogo che sia diverso dalla terra/stato del ebrei (cioè degli "Hebrews"; la tensione tra questi termini – "Jews" e "Hebrews" – perseguiterà l'identità sionista). Allo stesso modo, El‘azari-Volcani chiede che il sionismo si impegni solo negli aspetti "pratici" (ma‘asi) e "materiali" (gashmi) del progetto nazionale. Questi includono "settlement, the Hebrew language, and Jewish labor. The spiritual dimensions would follow naturally and spontaneously".[25] Si noti questo: la lingua e la lotta politica per la terra e il lavoro diventano questioni "naturali", materiali, e non culturali o tradizionali (nel caso della lingua) o teopolitiche (nel caso della lotta per la terra e il lavoro).

Per avere senso, questo argomento deve presupporre la metafisica, o teologia, nazionalista (data per scontata, quindi anche repressa, o addirittura negata). Solo sulla base di questa metafisica si può costituire il secolarismo.

La logica etno-nazionalista è, quindi, la base su cui avviene l'alienazione dalla tradizione. È questa logica che permette tale alienazione, poiché offre un'alternativa già pronta: qualunque cosa facciamo, le nostre azioni saranno considerate ebraiche, a livello nazionale se non religioso, poiché l'etno-nazionalismo ebraico è nel nostro "sangue". È, in altre parole, il "dato per scontato" dell'ideologia secolarista, il presupposto che l'esistenza della nazione sia un fatto biologico che consente a El’azari-Volcani di autoidentificarsi come "liberato" e alla storiografia sionista di identificarlo come “secular”, ignorando esplicitamente gli elementi mitici, anzi (per prendere in prestito la sua stessa critica ad Aad Ha‘am), nazionalisti-teologici, della sua visione del mondo.

Brenner e il "secolarismo radicale"[modifica]

Yosef Haim Brenner, 1910
Yosef Haim Brenner, 1910
Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Yosef Haim Brenner.

Si dice comunemente che Yosef Haim Bernner[26] abbia rappresentato la varietà "estremista" o "radicale" del secolarismo socialista-sionista. La sua posizione, identificata da Shimoni come una comprensione laica "radicale" e "open-ended secular understanding of the new Hebrew identity",[27] è stata al centro di un'accesa controversia tra gli ideologi sionisti del suo tempo. Brenner sembra essere stato in grado di mettere a fuoco (e formulare in modo chiaro) alcuni degli argomenti altrimenti confusi dei suoi contemporanei. Le sue posizioni controverse su una serie di questioni relative alla tradizione e alla "religione" ebraica, e la sua sfida categorica contro l'autorità dell'ebraismo rabbinico segnano il suo secolarismo come "radicale".

La biografia di Brenner non è dissimile da quella della maggior parte degli immigrati sionisti della "seconda ‘aliyah": anche lui era stato educato nelle tradizionali istituzioni ebraiche, che gli avevano conferito una familiarità immediata con la tradizione ebraica dell'Europa orientale, prima di adottare l'ideologia socialista.[28] Anche per lui questo cambiamento era associato a una "rottura" e a una ribellione contro la tradizione da cui era emerso come individuo. Come lo stesso Brenner ricorda ai suoi lettori, uno dei suoi critici gli aveva lanciato un'imprecazione: "A yeshiva student who converted" [baur yeshivah she-nitpaqer]. E la risposta di Brenner: "Very well: I accept this ‘cussing’ not without pleasure: Smolenskin and Gordon, Lilienblum and Berdyczewski, are also yeshiva students who converted, and their ‘sound of song and joy’ [qol ‘anot] has yet to expire."[29]

Tradizione, sovranità dell'individuo e "coscienza nazionale"[modifica]

Uno dei fondamenti centrali della posizione di Brenner è la sua visione di se stesso come sovrano nei suoi rapporti con la tradizione ebraica: "All that I think, and especially all that I do, I do not think or do exactly because Talmudist Judaism, in which I was educated, had taught me to think or do so, but rather because I want it or am compelled to".[30] Brenner descrive la sua "contemporary national consciousness as wholly secular, atheist, atheological", ma chiarisce che ciò non significa che la sua identità sia basata esclusivamente sulla negazione. Piuttosto, implica anche una scelta indipendente e totalmente libera di ciò che ritiene opportuno, pur essendo completamente liberato dall'autorità e dal dominio della tradizione, ebraica o meno: "I can be religious-vulgar [dati-hamoni], can be religious [religiozi] in the exalted meaning of the word, and can also be not only a- [i.e., non-], but even antitheist, antitheological [...] As I wish, according to my mood".[31]

Questo principio consente a Brenner di fare con la tradizione ciò che ritiene opportuno. In un caso famoso, dichiarò che questa sovranità gli permette di ignorare la santità dei testi tradizionali e di celebrare testi tradizionalmente visti come eretici.[32]

Brenner è disposto a considerare prezioso un uso limitato della tradizione/passato: il passato può offrire una prospettiva non-vincolante sul presente e sul futuro. La tradizione per lui non è che un orientamento generale, un consiglio, e non una legge o un decreto vincolante; possiamo affrontarlo "un po’", come è umanamente opportuno, ma "not in order to give directions [...] not to outline by it a path, not in order to make the deeds of wretched ancestors a sign for wretched successors".[33]

Tuttavia, la posizione individuale-sovrana, nel contesto di una generazione "ribelle", rimane focalizzata principalmente sull'emancipazione dalla tradizione, e non sulla ricerca dei suoi consigli. Si veda, ad esempio, come Brenner descrive, con apparente approvazione, l’atteggiamento degli ideologi "liberati" (o “secular”) come lui nei confronti della tradizione da cui si sono sollevati e contro la quale si ribellano. Egli parla a nome degli "the liberated Hebrews [ha‘ivrim haofshiim]" della sua generazione, dicendo: "The human feeling in us can relate in utter hatred to our whole past, all of our ‘history,’ in disrespect to our forefathers who had a ‘messianic idea,’ they themselves, who did not bequeath a thing to their succeeding generations but many books of nonsense [sifrei hevel]".[34] Questa, quindi, è l'espressione massima della posizione liberata, la chiara espressione della sovranità dell'individuo rispetto al passato e alla tradizione: la capacità di relazionarsi con loro in odio totale, vantandosi di mancare di rispetto agli antenati, di liberarsi dal peso di questi "books of nonsense".

Ma anche lo stesso Brenner riconosce che questo rapporto con il passato non risolve la questione del presente, cioè la questione del significato contemporaneo dell'identità ebraica (nazionale). La realtà contemporanea mette di fronte a questi ebrei liberati il chiaro pericolo del distacco, che può derivare proprio da quella sovrana emancipazione dal passato e dalla "religione" che ci ha imposto (vedi sotto). "La questione del presente" è chiara e difficile: cosa darebbe significato alla loro identità (nazionale) di ebrei?

« After all, we are alive, and it is not our religion that ties us to our people, nor would another religion take us from it, and we do not want to, nor can we, go to another society [...] Not only is “the religion and belief of our [non-Jewish] friends’ ancestors” foreign and unneeded for our free soul, for our true essence [‘atzmiyut], but also is the cultural society of our friends, of their sons, from which we wish to learn and which we want to imitate [...] foreign to us [and does not enable us] to enter it or assimilate in it. We want their culture on our very streets, on our very land, in our people, and we are willing to do what we would have done were we to assimilate among them, among ourselves, our way. »
(Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 13)

"Ebrei" ed "ebraicità"[modifica]

Cosa definisce allora l'ebreo? Cos'è che rende questo gruppo di individui liberati e sovrani, che non esitano a liberarsi del peso e delle tradizioni del passato, e dell'autorità dei loro predecessori (cioè quegli agenti e istituzioni che hanno "tradizionalmente" dato significato alla nozione di identità ebraica) – un gruppo di ebrei? Gli scritti di Brenner rendono piuttosto chiaro che la sua risposta basilare si nutre di quelle stesse nozioni etno-nazionali, razziali e orientate al "sangue" che erano prevalenti nell'Europa orientale dell'epoca. Come per altri ideologi discussi sopra, anche per Brenner questa domanda non è realmente valida, poiché l'ebraismo/ebraicità è un fatto naturale, un dato, una questione di "parentela etnica",[35] che non viene scelta né può essere cancellata. Essendo una questione di tale "etnicità organica", la propria ebraicità lascia una scelta limitata, o preoccupazione, vale a dire se essere leali a questa etnia (cioè alla sua espressione politica nazionale), o tradirla (o attraverso inutili ritualità religiose o per assimilazione).

Ciò significa che l'etnia/razza/sangue definisce ciò che conta come ebreo; o, per essere precisi, è il singolo agente ebreo – cioè la persona di origine ebraica – che definisce la sua creazione come ebrea. In breve, tutto ciò che Brenner e i suoi compagni ebrei liberati fanno è ebraico:

« What makes you Jewish, if you do not observe the Jewish religion?” We are Jewish in the real life, in our hearts and our feelings, with no intellectual definitions, no absolute truths, and no written commitments. All that is dear to us nowadays, all that we see as having value, all that emanates from our free essence—with no enforcement and coercion, of any kind—is our Jewishness [yahadutenu], if you insist on this word.
Moreover: Love for our people and for its positive aspects. »
(Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 16)

Di conseguenza, tutte le preoccupazioni per la tradizione sono fuori luogo; la critica rivolta a Brenner e ai suoi colleghi, accusandoli di essere sleali nei confronti della loro identità o tradizione ebraica (cioè, della loro ebraicità e dell'ebraismo), è fuorviante. Come Brenner si scaglia contro i suoi critici: "Hypocrites! We are telling you once again: There is no Judaism outside of our lives and us. There are no stable, eternal beliefs, which bound us".[36]

Questo, quindi, è un altro esempio di interpretazione materiale e biologico-razziale dell'identità ebraica. Ebraismo/ebraicità è ciò che fanno tali ebrei. Quanto a loro stessi, sono considerati ebrei perché sono nati così. Questo è un dato di fatto della loro esistenza, e questo fatto biologico detta la loro psicologia personale, che non possono cambiare. E – a differenza degli ebrei assimilati dell'Occidente e degli "totally savage or semi-savage Jews of the Eastern exile"[37] – scelgono di non alienarsene.

Tale comprensione è la condizione necessaria per identificare i creatori in questione come ebrei, e quindi anche le loro creazioni come ebraiche. Questo è lo sfondo pre-discorsivo dell'intera discussione: la loro identità come ebrei non è una questione di scelta, ed è questo fatto deterministico che definisce anche le loro azioni/creazioni come ebraiche, come ebraismo propriamente detto. Avi Sagi, che vede Brenner come un "esistenzialista ebreo", descrive questa idea come lo spostamento dell'attenzione dall'"ebraismo" agli "ebrei": "Brenner’s significant innovation, which reflects his existential stance, is that Judaism, in any meaning ascribed to the term, depends on the existence of Jews as real people. Indeed, only because there are Jews do they generate a culture that we call Judaism".[38]

Brenner rifiuta la concezione "essenzialista" dell'ebraismo di Aad Ha‘am, che identifica un contenuto concreto ed essenziale della tradizione ebraica: "Judaism was created for the Jews, and not the Jews for Judaism,—that is, Jews create Judaism and not the other way around [...] And so, wherever Jews live real life, [they will] produce something, that we shall call ‘Judaism’".[39]

Invece di preoccuparsi inutilmente dell'esistenza dell'"ebraismo" (o delle tradizioni ebraiche), l'attenzione dovrebbe essere focalizzata sull'esistenza degli ebrei, cioè dei discendenti dell'etnia/nazione ebraica:

« The Jewish question of our life is not the question of Jewish religion, the issue of “the existence of Judaism.” This crossbreed idea should be deracinated. Aad Ha‘am did it once and regretted it. But we, his liberated Jewish friends, we have nothing to do with Judaism, and nevertheless we are among the collective by any means no less so than [observant Jews]. »
(Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 8)

Brenner interpreta Aad Ha‘am come se sostenesse che "Judaism comes first, and whoever does not accept it, is not Jewish!"[40] A suo parere questo argomento è assurdo. Sagi lo riassume chiaramente:

« Brenner’s basic claim is that cultural creativity is secondary and contingent on the existence of actual people who create it. The existence of these people is not contingent on their creativity, just as the creator is not dependent on the creature. Brenner drew the conclusion warranted by this stance: if Judaism is not an autonomous entity, but contingent on the activity of Jews [...] Judaism has no essentialist features of its own. Judaism is Judaism because it is the Jews’ cultural creation, and only its being such a product determines its being Judaism. »
(Sagi, To Be a Jew, 111–112)

Ma, come lo stesso Sagi si affretta a notare, questa è lungi dall'essere una descrizione accurata della posizione di Brenner, poiché aggiunge una condizione: affinché un atto compiuto da ebrei sia considerato ebreo, deve essere mirato al telos, o scopo "of the continued existence of the Jewish collective [...] Only those practices unique to the Jewish environment, that is, practices that create a network of meaning and communication between Jews, are Judaism".[41] In altre parole: il quadro concettuale nazionale sostituisce le precedenti concezioni dell'essenza dell'ebraismo; l'essenzialismo "religioso" è sostituito da un essenzialismo nazionalista. Dopo tutto, Brenner non accetta l'assimilazione come una creazione ebraica.

La stessa concezione etnico-organica, o razziale, che sta alla radice del nazionalismo di Brenner, e che gli permette di vedere tutto ciò che viene fatto dagli "ebrei" (sionisti) come "ebraico", è anche quella che gli permette di presentare i suoi controversi (almeno in un primo tempo) apprezzamenti positivi del Nuovo Testamento e della teologia cristiana. Scrive:

« The ‘New-Testament’ is, too, our book, our own flesh and blood. We, the living Jews, whether we atone on Yom Kippur or eat during this day meat mixed with milk, whether we uphold the ethics of the Old Testament or are loyal students of Epicurus in our worldview—we do not cease to feel ourselves as Jews, to live our Jewish lives, to work and create labor-forms of Jews, to speak our Jewish language, to nourish spiritually from our literature, to labor for our free national culture, to protect our national honor and to fight our war of existence in any manifestation of this war. »
(Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 8)

La questione in ballo, quindi, non è la cultura, la storia, la pratica e la tradizione – tutto ciò che viene comunemente etichettato come "ebraismo" – ma ciò che può essere identificato come la "biologia nazionale", cioè l'esistenza materiale di coloro che sono di sangue/origine ebraici, che hanno anche una coscienza nazionale – ciò che il moderno discorso sionista, seguendo lo spunto di Brenner (vedi Capitolo 8) chiamerà con entusiasmo "whole Jews":[42]

« We are nationalists, zealous nationalists (leumiim qanaim) [...] Our nationalism is—the betterment of our life and the enrichment of our life-forms, which are pleasant to us. Therefore, do not attempt to subjugate us in its name to some tradition, because we will reject such nationalism. We are living Jewish persons—not more—and for us Jewish labor is important [...] and our language is dear to us [...] and our honor is sacred to us, the honor of our people, and this is our nationalism! »
(Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 16)

La misura decisiva, quindi, è la "coscienza nazionale" dell'ebreo. Gli scritti di Brenner mostrano che, anche se si identifica come "ateologico", anche lui mostra gli stessi sintomi di essere cieco nei confronti della propria teologia nazionale. Egli pone il nazionalismo come il metro di misura supremo ed esaltante, più alto persino della sua coscienza sovrana e individuale. È il nazionalismo che detta, in definitiva, il suo rapporto con il passato, con la religione, con la tradizione, con i testi ebraici, con il pericolo/possibilità di assimilazione, e così via. Inutile dire che il nazionalismo, o il politico, viene prima della "religione" e ne è indipendente: "The major life-forms of the individual and the nation do not nourish on religion, nor do they live by it".[43] Presumibilmente, questo è ciò che rende Brenner "secolare".

In questo senso, è la "coscienza nazionale" di Brenner che decide l'intera controversia che circonda il suo apprezzamento positivo dei valori e della morale cristiana, come anche la questione generale del suo atteggiamento verso la "religione":

« My national consciousness does not have anything to do with this [religion], has nothing to do with what is beyond and what is below the tangible visions, has nothing to do with heavens, with the creator of the world, and with what comes after death. My national consciousness does not prevent me from thinking about the value of our religion and the religions of the nations of the world, the belief of our masses and the belief of their masses. Our thoughts and their thoughts, our books and their books—as I wish. »
(Brenner, come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 7)

Vale a dire: la coscienza nazionale di Brenner come ebreo (e non, per dare solo due ovvie possibilità, la sua coscienza individuale come essere umano o la sua coscienza di classe), è ciò che gli consente di scegliere liberamente da qualsiasi tradizione desideri attingere – ebrei, cristiani o altro – e (punto qui decisivo) essere comunque ebrei.

La teologia nazionale impone anche che l'individuo rimanga impegnato in questa coscienza etno-nazionale. Sembra che ci siano pochi dubbi sul fatto che la sovranità dell'individuo venga relegata in secondo piano, se non addirittura negata, quando la discussione sposta l'attenzione dalla "religione" e dalla "tradizione" al "nazionalismo". Brenner e i suoi co-ideologi, "those liberated Hebrews of the generation",[44] sono orgogliosi di fare questa distinzione essenziale: sono fedeli al loro nazionalismo e disprezzano la religione dei loro predecessori. Hanno "an instinctive national sentiment [...] that makes them love their people, that is: themselves, and compels them to instill meaning in their life, a vital meaning to their present, and they see a danger in a life of peddling and not-working, but not in the negation of Judaism, which other than themselves is not real for them".[45]

Radicalismo secolarista e "ambivalenza" ebraica[modifica]

Nonostante il presunto radicalismo laicista di Brenner, anche lui è giudicato alla fine incatenato dall’"ambivalenza" nei confronti della sua eredità ebraica e "religiosa". Questo, ad esempio, è il modo in cui Shimoni riassume quello che sembra essere l'altro lato del “greater extremism” di Brenner:

« Not only the rebellious negations that characterized Berdyczewski are to be found in Brenner but also the countervailing ambivalences. His writings too are punctuated with contradictions and doubts. The pathos of personal crisis pervades the whole, and Brenner vacillates. At one moment there is the almost nihilistic assertion of individuality and total freedom of thought; at another, cognizance of the Jew’s deterministic bond with the national collectivity, the inescapability of Jewish national fate. »
(Shimoni, The Zionist Ideology, 299)

Qual è il significato di questa "ambivalenza"? O, più precisamente, che senso ha identificare l'atteggiamento multiforme e complesso dell'ideologo, che si ribella alla propria tradizione, come una questione di "ambivalenza"? È evidente che coloro che giudicano ambigua questa complessa posizione tendono a presumere che qualcuno che è "truly secular", che "truly" si ribella alla sua tradizione, dovrebbe definirsi in modo del tutto indipendente da questa tradizione. Il fatto che Brenner continui a corrispondere e a dialogare (in modo conflittuale o meno) con la tradizione contro la quale si ribella, che tuttavia veda la sua tradizione ebraica come un peso nella sua realtà, anche quando cerca la totale liberazione da essa, viene letto come una testimonianza di "ambivalenza", cioè la natura incompleta della sua posizione ribelle. Lo stesso Brenner sembra aver condiviso questa ipotesi. Non è difficile vedere che egli lotta per trovare la sua ricercata autodefinizione o identità ebraica, che è indifferente alla tradizione.

In questo senso Brenner, come molti dei suoi lettori e commentatori, non riesce ad apprezzare la natura costitutiva della tradizione. Egli riconosce erroneamente il ruolo della tradizione nella costituzione della sua identità privata, anche come ribelle contro di essa. In altre parole, propongo di comprendere la nozione di "ambivalenza" in un contesto "tradizionista", cioè nel contesto della tradizione. L'ambivalenza è il risultato della tensione tra un'autopercezione della sovranità individuale, prevalente tra Brenner e i suoi colleghi, che si considerano capaci di costruire o reinventare se stessi "da zero", nutrendosi di "qualunque cosa" desiderino (in realtà, questo "qualunque cosa" è spesso limitato alla cultura occidentale e cristiana, combinata con vari aspetti delle tradizioni ebraiche), e la loro determinazione a definirsi comunque ebrei, negando al contempo il ruolo della tradizione nella costruzione della loro identità. Si tratta di ebrei – per le loro origini così come per la loro autoidentificazione personale e collettiva – che cercano di ricostruirsi come ebrei indifferenti alla tradizione da cui sono emersi come ebrei, poiché si sono sradicati dal proprio background tradizionale. L'ambivalenza è il risultato della tensione tra l'immaginazione della sovranità individuale assoluta e la realtà esistenziale della costituzione dell'individuo (anche) attraverso il dialogo con le sue tradizioni.

La mia argomentazione può, quindi, essere inquadrata nei termini del fallimento del secolarismo "radicale" (in contrapposizione tra ebraico e universale): l'"ambivalenza" in questione è una testimonianza del fallimento del tentativo di formulazione radical-secolarista di un'identità ebraica nazionalista, che rifiuta l'ebraismo. È il risultato di un tentativo fallito di cancellare la tradizione, pur continuando ad autodefinirsi come un suo derivato. In questo, tali ideologi vantano una posizione contraddittoria. Si credono antitradizionali, "total seculars", che presumibilmente non hanno nulla a che fare con la tradizione ebraica, ma che tuttavia si affidano a una certa interpretazione di questa tradizione per la loro autocostituzione come cittadini ebrei.

La formulazione stessa da parte di Brenner della tensione in questione diventava, di per sé, costitutiva: "How can we be become not-us?",[46] si chiede. Questa domanda testimonia già la presunta "trappola" del progetto sionista, che si autoidentifica come secolare (nelle sue manifestazioni tradizionali, ovviamente), come ribelle al suo passato, cercando di costituire una "nuova" identità ebraica, che sembra essere tuttavia vincolata, tuttavia non libera, poiché è un'identità ebraica. È possibile la costruzione di una creazione-invenzione totalmente nuova, del tutto originale, di un'identità politica personale e collettiva?

« We nowadays live in a non-environment [ee-seviva] [...] and we must begin everything anew, to lay the first stone. Who would do this? Us? In our [current] character? This is the question. For our character to change as much as possible, we need our own environment. And in order for us to create this environment by ourselves, it is required that our characters will fundamentally change. »
(Brenner, Ketavim, vol. 4, pp. 1295–1296)

La risposta di Brenner a questo enigma potenzialmente devastante è semplicemente quella di rinunciare alla trappola analitica, apparentemente teorica (che ha a che fare con la sua ideologia sionista e l'identità ebraica), e di dedicare invece la sua attenzione alla causa socialista:

« Reason can present whatever questions it wishes to. The yearning for life [kosef haayim] in us, which is above reason, says differently. The yearning for life in us says: Everything is possible. The yearning of life in us whispers to us a hope: laborers’ settlements, laborers’ settlements.
Laborers’ settlements, this is our revolution. The one and only. »
(Brenner, Ketavim, vol. 4, p. 1296)

In altre parole, l'attenzione di Brenner per l'ideologia socialista, che funziona almeno come una tradizione surrogata, un sistema di significato volto a prendere il posto della tradizione ebraica contro la quale si sta ribellando, è ciò che gli consente di essere "meno angosciato"[47] riguardo alla sua ambigua identità ebraica. L'ideologia socialista consente a Brenner, come suggerisce la citazione supra, di mettere da parte la tensione essenziale che sta alla base della sua posizione nei confronti della tradizione ebraica, e di attenersi all'orizzonte offerto dalla nuova tradizione (sionista, socialista) che adotta e alla cui costruzione prende parte.[48]

In un quadro storico più ampio, come vedremo nei Capitoli successivi, l'agente che "salva" questa posizione secolarista-ebraica dall'imminente collasso logico e le permette tuttavia di perdurare non è il socialismo, ma lo Stato. Lo stato-nazione sovrano che si identifica come lo Stato (non religioso) degli ebrei, se non addirittura come uno stato ebraico, detta (o impone, "costringe") la "religione" e la tradizione ebraiche nella sfera pubblica e in certi aspetti della vita personale dei suoi cittadini. Lo Stato sostiene l'aspetto coercitivo di una teopolitica sovrana evidentemente non-nichilista. In tal modo, consente agli ebrei israeliani che si identificano come laici di essere allo stesso tempo "sovrani" in relazione alla loro tradizione e addirittura di ignorarla (come espressione della loro sana indipendenza da essa), e di continuare a sostenere, principalmente attraverso la pratica, una certa interpretazione di questa tradizione. Approfondirò questo aspetto più avanti.

Assimilazione e "religione"[modifica]

Il concetto di "religione" gioca un ruolo centrale anche nel risolvere l'"ambivalenza" di Brenner. L'insieme di significati che costruisce come alternativa all'"ebraismo" (o alla tradizione ebraica) è costruito anche su una definizione ristretta di questo ebraismo come "religione". Il ruolo svolto da questa costruzione può essere colto attraverso la posizione di opposizione di Brenner rispetto alla protesta generale riguardante la crescente assimilazione tra gli ebrei europei all'inizio del XX secolo. Brenner non ha altro che disprezzo per gli ebrei assimilati, come chiarisce: "The thousands, maybe tens-of-thousands among us who have already assimilated beyond repair, who already became ready to Christianize—we do not even spit on them".[49] Ma chiarisce anche molto apertamente di non essere affatto agitato dallo "spectacle of religious conversion",[50] che sembra catturare l'attenzione dei suoi contemporanei fuorviati e preoccupati. Egli considera la questione come avente a che fare con "religione e credo",[51] cioè come pertinente alla conversione religiosa (e non all'assimilazione culturale o nazionale). La causa del suo disprezzo verso gli assimilati è teologica-nazionale, non teologica-religiosa:

« Say what you want, I am not at all shocked to see in the Zionist German Viennese newspaper, time after time, the names of the converted, who are denunciated publicly. Moreover: I do not understand, whom those wretched Adolfs and Bernards, who have been alienated from Jewish society and religion from childhood, and for the purpose of entering Christian society also accepted its “faith,” harm? What did we have of them before, when they went to the Jewish temple, and what did we lose from them having pleasurably sprayed themselves with the holy water? »
(Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 8)

A differenza dei suoi contemporanei preoccupati, che considera isterici, Brenner è stoico. Per lui lo spettacolo della conversione religiosa è marginale. È così poiché è limitato fin dall'inizio da un quadro concettuale che assume un significato ristretto di "religione", che è irrilevante per le questioni essenziali del nazionalismo ebraico. Il metro autentico per sollevare preoccupazione, chiarisce Brenner, è quello nazionale, cioè la preoccupazione per la costruzione di una comunità politica sionista in Palestina. Brenner non è indifferente all'esistenza del "popolo ebraico"; ma definisce questa preoccupazione nel contesto di un discorso sionista e nazionalista.

Inoltre, una lettura attenta rivela il cinismo di Brenner contro le paure di assimilazione in quanto basato su una comprensione cristiana del significato della religione, che gli consente di rifiutarla come un residuo senza valore di un passato ottenebrato. Può così presentare una visione comparativa delle religioni nel mondo,[52] e identificare la "religiosità" (usando, nel suo ebraico, il termine religioziyut) nel corso della storia. Inoltre, Brenner non esita a lodare la religiosità "in the exalted sense of the word... In any event, religion itself, with all of it ceremonies and nonsense, is but part of the forms of life, which humans have created [...] Religion takes form, changes form, it is born, [and] it dies".[53]

La religione, in altri termini, ha – o meglio ha avuto – una valenza funzionale; i vari casi di "inganno [tarmit]" e di "sfruttamento" che caratterizzano la "storia delle credenze e delle religioni" soddisfano "bisogni molto profondi".[54] Ma una volta che la coscienza moderna e liberata ci consentirà di superare questo inganno, saremo sicuramente liberati dalla sua presa. Non c’è motivo di temere il fenomeno dell'abbandono della religione ebraica, poiché questa religione è solo una costruzione ingannevole. Brenner usa quindi un tono apertamente cinico e critico quando scrive che leggendo gli avvertimenti sul crescente fenomeno dell'assimilazione si può concludere che "religion in general, and the study of religion in particular, is the essence, the essence of life".[55] Se ciò fosse vero, la realtà sarebbe davvero minacciosa; tuttavia, le grida allarmanti dei leader ebrei e il senso generale di agitazione sono fuorvianti: "Please, do not mislead us to believe that the existence of the Jewish collectivity is in danger because of this [religious conversion], and do not make this an issue."[56] La religione è ridondante. La conversione religiosa non rappresenta una minaccia per il popolo ebraico.

Una volta inquadrato il problema dell'assimilazione come una questione di conversione religiosa, Brenner può accantonarlo, concentrandosi invece sulla teologia nazionale verso la quale, senza dubbio, è pienamente impegnato e per la quale è profondamente preoccupato. I giovani ebrei europei che sono infastiditi da questioni di identità "know and feel that they are not whole persons, that as Hebrew youth with no whole Hebrew language, with no Hebrew homeland and with no Hebrew culture, not all is well with them".[57] Ma le questioni relative alla morale ebraica vs la morale cristiana, "the nonsense of theology",[58] sono ovviamente trascurabili, poiché riguardano, per definizione, l'apolitico.

Secolarismo, ebraismo, esilio e negazione dell'altro[modifica]

Ammiel Alcalay, 2009
Ammiel Alcalay, 2009

Cosa diventa l'identità dell"ebreo – "Jew"(o "Hebrew") – quando accetta la propria identità come un dato di fatto? Come si identifica? Leggendo Brenner diventa piuttosto evidente che la negazione degli "Altri" di questo nuovo Hebrew gioca un ruolo importante in tale autocomprensione.

Ammiel Alcalay è uno dei lettori perspicaci ad aver identificato l'esercizio rivoluzionario e decostruttivo sionista – articolato, tra gli altri, da Brenner – come una transizione dalla comprensione dell'identità ebraica attraverso diverse tradizioni fino ad una definizione razziale e biologica di questa identità, vale a dire, "the exchange of the legal, covenantal, and communal basis of Jewish existence for the racial, the ethnic, and the national, a rupture whose further implications and deeper marks are only beginning to surface".[59]

Alcalay trova la testimonianza "archeologica" di questa rottura sionista "in the initial collapse of terminology used by European settlers"[60] in Palestina per descrivere sia gli ebrei che i non-ebrei. Egli rileva proprio uno dei momenti costitutivi di questo atteggiamento, nell'incontro di Brenner con la Terra Promessa. Alcalay ci rimanda alle prime impressioni del protagonista di Brenner, il narratore di uno dei suoi romanzi (che, come chiarisce Ehud Ben-Ezer,[61] sono basati sulle impressioni dello stesso Brenner): appena arrivato ad Haifa, incontra "a band of Arab urchins", che insultano lui e i suoi compagni. Al che osserva: "Well ... yet again ... there is yet another species of Gentiles in the world we must suffer ... We also have to suffer this filth".[62]

Il protagonista di Brenner cerca di vedere l'altro, o almeno dice di provarci, ma l'unica opzione che ha è quella orientalista: "And still, I made an effort to see mystery in the bloated bellies of the wretched sons of Hagar". Ma il suo fallimento sembra essere preordinato, e la sua negazione dell'altro raggiunge il suo apice quando si rivolge ad altri ebrei:

« But oh, oh ... the French colony[63]—what repugnance! [...]
This colony in its entirety gives the impression of a fat and contemptible beggar, who was seated at a master’s table, and is drawing from the bowl with his dirty, leprous, thick hands...
The colony’s clerks and officers—fattened pigs, whose feet are too weak to walk, from fat, to make even one step; But once they are no longer fattened, they are not capable of even lying like so, with no movement, alive...
The natives of the land, the naked and corrupted, the indolent and despicable, the majority in this place, sell all needs of food. One of them jumps suddenly and tells me in a Jewish-Romanian accent about a beast they have stolen and had sex with, and his eyes, filled with pannus and trachoma, wink and smile... »
(Brenner, Mikan Umikan, terzo taccuino, 71–72[64])

Il sionismo socialista di Brenner incarna la negazione dell'opzione orientale, o arabo-ebraica. Mette in luce il grande debito che l'identità ebraica laica (o “Hebrew”) dell'Europa orientale ha nei confronti di una tradizione tipicamente europea, in cui si fondono l'odio verso gli ebrei e l'Oriente. Come affermato da Ben-Ezer: "Everything [in the stories of Brenner’s] teems with a certain fear of assimilation in the East, and Mikan Umikan Brenner says—what did we leave Europe for, we would be better off among the Poles and Russians—and not to come here and assimilate among the Arabs".[65]

Ben-Ezer, e Alcalay che lo segue,[66] suggeriscono che l'ultimo romanzo di Brenner, Breakdown and Bereavement,[67] getta una luce speciale sulla questione in esame. Il protagonista principale del romanzo è tormentato dalla paranoia, il cui oggetto principale è "the image of the Arab [...] who threatens the existence of the Israeli man".[68] L'incontro con una famiglia araba, alla ricerca del figlioletto scomparso, suscita nel protagonista ansie di accusa del sangue. Ben-Ezer riassume così il nocciolo della questione: "This scene illustrates how, in Brenner’s protagonist, [...] the ring of hatred from which the Jew seeks refuge, that is, the East-European anti-Semitism—repeats itself in the surrounding of a Jewish minority by a hostile Arab majority in Palestine".[69]

Il rifugio del protagonista dall'"“accusa" (che è, ovviamente, frutto della sua paranoia) ritorna nel "sangue": il suo alibi è l'affermazione che il sangue che scorre nelle sue vene non è proprio ebreo, ma piuttosto slavo. "He knew that he will prove—his blood is gentile blood [...] He was born exactly nine months after the first pogroms, and he is not Jewish at all, he is gentile, eighty-percent Slavic race. How would the Arab girl not understand that her little one is not with him?"[70] Come nota Ben-Ezer: "Brenner’s tormented protagonist was born in 1881, the year of pogroms in Russia [...] and this is also Brenner’s own year of birth; he saw himself as of the same age as his protagonist [...] who, facing the absurd accusation, of a blood-libel [...] tells himself that he is not really a Jew, because his mother was raped, he is mostly gentile, hence her accusation does not hold".[71]

Alcalay e Ben-Ezer portano ulteriori testimonianze, attestando l'alienazione di Brenner dal suo ambiente non sionista. Ciò equivale a una grave negazione dell'Altro, che trasmette anche una negazione del sé. Colpisce piuttosto la sua incapacità di vedere l'"Oriente" non attraverso gli occhi tormentati degli ebrei dell'Europa orientale.[72]

La definizione razziale, biologica, orientata al sangue, dell'ebraismo trova dunque il suo significato nell'opposizione e nella negazione dell'Altro. In questo senso, Brenner descrive il gruppo più ampio di persone che condividono le sue opinioni, "the liberated Hebrews", attraverso la loro opposizione al "old Jew": parlando positivamente, questi sono "the best of the People of Israel, in Palestine and abroad, who do not believe in the messiah and have nothing to do with traditional, theological Judaism".[73] In contrasto con loro, l'Altro, l'ebreo "religioso" ed "esilico" riceve la negazione feroce e odiosa di Brenner. Come identifica Shimoni, "Brenner’s harangues against galut and the Jewish past were sometimes so harsh that he came close to justifying gentile hatred of the Jews".[74] Brenner presenta infatti un'articolazione severa della negazione dell'esilio, ritenendo l'ebraismo stesso responsabile della malattia dell'esilio: "There could be no liberation from the galut condition without prior liberation from that [i.e., normative, rabbinical] Judaism".[75]

Jacob Klatzkin: Radicalismo secolarista e sovranità statalista[modifica]

Jakob Klatzkin, 1940
Jakob Klatzkin, 1940
Per approfondire, vedi Jakob Klatzkin.

Il secolarismo "radicale" o "estremo" di Jacob Klatzkin (che gli è valso il titolo di "the most devastating antitraditionalist, of all the rebels within Zionism"[76]) può gettare ulteriore luce sull'argomento dell'attuale discussione. Particolarmente importante è la connessione tra la negazione da parte di Klatzkin della posizione dialogica di Aad Ha‘am nei confronti della tradizione e il suo impegno verso l'ideologia statalista-nazionale, culminato nel suo "favoring a maximalist political program aimed at sovereign statehood".[77] Come osserva Hertzberg, l'ideologia di Klatzkin, e in particolare la sua veemente negazione dell'esilio (vedi sotto), dovrebbero essere comprese attraverso la sua singolare enfasi sullo Stato. Klatzkin "is the most important Zionist thinker to affirm that a third-rate, normal, national state and culture would be enough".[78] Questi sembrano essere aspetti complementari dello stesso quadro: lo stato divinizzato assume l'autorità della tradizione.

Argomentando contro Aad Ha‘am, Klatzkin sostiene che l'identità nazionale – ebraica o meno – non è basata sulla tradizione, o su "putative fixed values and ideas—a so-called ‘spirit of Judaism.’".[79] Piuttosto, si basa su fondazioni materiali e politiche. Aderendo al vitalismo nietzscheano, Klatzkin propagava una concezione materialista del nazionalismo, che evidenzia l'importanza delle condizioni materiali o "formative" e "oggettive" (vale a dire la parentela etnica, la lingua e il territorio) nella definizione della nazione.

L'interessante paradosso sta nella concezione da parte di Klatzkin del collettivo di cui parla (cioè il popolo ebraico) come basato principalmente sulla storia – insieme alla parentela etnica o alla razza/sangue, ovviamente. Il suo punto iniziale è la negazione di una definizione "religiosa" di questo collettivo:

« The Hebrew experience means neither religious precepts nor philosophical principles. It has transcended its former religious and abstract meaning and assumed a purely national meaning. We are neither a religious denomination nor the embodiment of a philosophical system; neither the bearers of a single belief nor of a single world-outlook, but rather we are the sons of one family, bearers of a common history. That which unites us and distinguishes us from others is not an objective covenant of ideas but a subjective covenant born of a common history and future. Hence, the holding of heretical beliefs does not disqualify anyone from belonging to the nation any more than holding supposedly correct beliefs includes one. A Gentile does not become a Jew by virtue of belief in the religion of Israel or a Jewish spiritual outlook, and a Jew does not cease being one if he balks at religious precepts or at that supposed spiritual outlook. In short, national consciousness neither demands nor negates any specific views and ideas. »
(Klatzkin, Teḥumim, 18[80])

Non sono i sistemi di pensiero e di idee a definire l'ebreo, ma piuttosto la parentela/origine e la storia comune; la storia definisce gli ebrei ma non li plasma e non li carica di doveri. Oppure Klatzkin si riferisce solo alla storia politica?

Si noti che la sua argomentazione potrebbe essere interpretata come fatalistica, poiché postula che unirsi al popolo ebraico o abbandonarlo sia semplicemente impossibile: che il nazionalismo ebraico è un gruppo chiuso e predefinito. Klatzkin se ne rese conto e si sforzò di sostenere che la sua visione non è deterministica. Chiarisce così che "whoever evades the common war, the war of redemption", è da considerarsi uscito dalla nazione ebraica,[81] anche se è di origine ebraica. D'altra parte, un gentile per ascendenza e storia, che desidera "to take part in the life of the Hebrew nation acquires future Judaism".[82] Il metro per l'inclusione o l'esclusione, quindi, è la partecipazione attiva alla "guerra di redenzione", cioè al progetto politico della creazione di uno Stato-nazione. È la politica dello Stato-nazione a stabilire le coordinate per giudicare la realtà.

Come nel caso di Brenner, così è anche per Klatzkin: la nuova tradizione da lui adottata (in questo caso il socialismo sembra essere messo in ombra dalla teologia dello Stato nazionale sovrano) risolverebbe tutte le tensioni e i paradossi. Questo, nella lettura di Shimoni, è ciò che spiega "Klatzkin’s insistence upon the attainment of a Jewish territorial state".[83]

Il riorientamento verso lo stato sovrano come definizione dell'ebraismo/ebraicità dà vita alla seguente previsione riguardo al futuro degli ebrei: "Our people shall then [after the establishment of a sovereign nation-state of Jews] be parted into two collectives. A Hebrew collective in [Palestine] and a Jewish collective in exile ... Two nations with different faces".[84] Come vedremo più avanti, questa possibilità, che Klatzkin sembra celebrare, di distinguere il popolo “Hebrew” (o, dopo il 1948, "Israeli") da quello ebraico, e la concezione dello Stato-nazione come appartenente e rappresentante solo il primo, è arrivata a essere vista come una minaccia quasi esistenziale al sionismo tradizionale.

In ogni caso, secondo Klatzkin, questa distinzione tra il popolo o collettivo (“Hebrew”) definito dallo Stato-nazione e il popolo ebraico che non partecipa allo Stato comporta naturalmente la totale negazione dell'esilio: "Exilic Judaism is not worthy of survival. Exile [galut] distorts our national character [...] Exile corrupts the human in us [...] Exilic existence cannot be called life, neither from a national perspective nor from a human one".[85] Egli giunge così alla conclusione che gli ebrei sono destinati ad emigrare in Palestina, volontariamente o no; altrimenti saranno completamente assimilati e alla fine cesseranno di essere ebrei.

Il sionismo socialista in Palestina e le tradizioni ebraiche[modifica]

Le idee "teoriche" propagate da Aad Ha’am, Berdyczewski, Brenner e altri ideologi, presero una forma concreta e pratica nel progetto ad ampio raggio dell'invenzione della tradizione social-sionista in Palestina. Questo progetto ha, ovviamente, guadagnato molta attenzione accademica. Il campo accademico offre un esame completo della relazione tra "religione e nazionalismo" nel movimento sionista nell'Europa dell'Est,[86] e in Palestina;[87] uno studio sulla "religione civile" costruita dal movimento operaio sionista;[88] l'esame di elementi centrali di questa "religione civile", come la riscrittura dei rituali e dei testi pasquali;[89] e un'analisi del sistema narrativo-mitico che sta alla base dell'"invenzione della tradizione" sionista.[90] Inutile dire che questo elenco è lungi dall'essere esaustivo.

Queste analisi (che non intendo ripetere qui) offrono un ricco quadro dell'ampio progetto storico, politico e culturale dell'invenzione, o riscrittura, della tradizione nazionale, i cui inventori/creatori si identificarono come ebrei. Questo vasto progetto si basa sull'idea di una reinterpretazione e riscrittura delle tradizioni precedenti, che gli ideologi sionisti conoscevano come ebraiche, poiché erano determinati a riscrivere il significato della loro identità ebraica.

Radicalmente secolarista, ma non veramente laico[modifica]

Nel loro insieme, gli studi sopra menzionati tendono tutti ad accettare il quadro secolarista come il principale strumento analitico attraverso il quale vedere la realtà e interpretare la (re)invenzione socialista-sionista della tradizione. Inutile dire che tutti gli autori notano anche l'inefficienza di un'applicazione semplicistica di questo quadro. Da un lato, il presunto progetto ideologico "secolarista" in questione si basava notevolmente su elementi "religiosi", e si concentrava addirittura sull'invenzione di un nuovo "surrogato religioso" nazionale,[91] o addirittura di una "religione secolare".[92]

Ora, questo surrogato religioso è visto come “extremely secular”, poiché rifiuta con veemenza la tradizione "religiosa". Pertanto, mentre "the phenomenon of secularization has been prevalent in secular Zionism throughout its diverse manifestations, it was specifically, explicitly expressed in Socialist-Zionism".[93] Tuttavia, questo stesso "very secular system was ostensibly grounded in values that were present in Judaism itself, and many of the symbols which conveyed these values were derived from the Jewish tradition".[94]

In breve, lo studio della "religione civile" (socialista-)sionista, in contrapposizione alla religione "tradizionale" (o "reale"), inizia con il presupposto che il sionismo dovrebbe essere visto principalmente come un fenomeno secolare e secolarizzante. Ma non appena si pone questo presupposto, tale secolarizzazione si rivela impura, poiché si appoggia in modo essenziale alla tradizione (religiosa) ebraica. Si veda, ad esempio, la concisa sintesi di Don-Yehiya:

« The process of secularization was strikingly expressed in Zionism’s, and especially Socialist-Zionism’s secular attitude toward traditional Judaism [...] This emanated from, on the one hand, the adverse stance, prevalent among wide circles in the Labor Movement, towards many of traditional Judaism’s values and symbols [...] and, on the other hand, [these circles’] wish to instill their ideas and project with “Jewish legitimacy.” Hence the phenomenon of relying on concepts, phrases, and ritualistic patterns that are derived from the sources of traditional Judaism, while introducing far-reaching changes in their form and content, aiming at adapting them to Socialist-Zionism’s set of values and concepts. »
(Don-Yehiya, "Secularization, Negation and Accommodation", 30)

Ci si potrebbe chiedere: come è possibile che gli ideologi guidati da tale “militant secularism” si siano affidati ripetutamente e continuamente al sistema di simboli, valori e identità che essi stessi hanno identificato come "religiosi"? Se accettiamo la distinzione che contrappone il secolare e il religioso come opposti reciproci, e adottiamo la narrazione secondo la quale il sionismo-socialista è un fenomeno laico, secolarista e secolarizzante, la realtà politica che inizia con il progetto socialista-sionista in Palestina potrebbe infatti essere confuso. Oppure, se adottiamo una posizione ideologica-laicista,[95] potremmo sostenere che il sionismo inganna se stesso; che non si è realmente liberato dalla presa soffocante dell'ebraismo rabbinico e "religioso".

Non un paradosso, ma un quadro concettuale fuorviante[modifica]

Una lettura attenta della letteratura incoraggia a considerare questo paradosso come un indebolimento non del socialismo-sionismo, ma piuttosto dell'insieme di strumenti concettuali che guidano la discussione analitica tradizionale su di esso. Così, ad esempio, una lettura attenta della penetrante fenomenologia offerta da Liebman e Don-Yehiya nel loro lavoro pionieristico su ciò che concettualizzano come "religione civile" sionista[96] (vale a dire, l'ideologia nazionale come "surrogato secolare" della "religione reale") costringe a chiedersi: perché dovremmo identificare tutte quelle reinterpretazioni della tradizione ebraica, l'instillazione di contenuti ideologici nuovi e alternativi in vecchi simboli tradizionali e forme rituali, e persino la piena adozione di simboli e rituali tradizionali nel sistema ideologico sionista-socialista come "secolarizzazione"?

Una soluzione comune a questa tensione tra lo schema concettuale secolare e la realtà sociopolitica che mira a spiegare è l'espansione del significato dei concetti coinvolti. Don-Yehiya, ad esempio, spiega che la "secolarizzazione" di cui sta scrivendo può oscillare lungo un'ampia gamma di atteggiamenti nei confronti della tradizione religiosa – dalla "negazione totale ed esplicita"; attraverso la reinterpretazione, in cui la secolarizzazione si manifesta non nell'abbandono o nella negazione del religioso, ma "in the very phenomenon of emptying concepts of their original religious content and filling them with secular content, while copying from the traditional system in which these concepts have been created and developed, and integrating them in a new normative system, which has a quintessentially secular character"; a, abbastanza paradossalmente (si tenga presente che questa è la descrizione della secolarizzazione di Don-Yehiya), "the integration of traditional elements, ‘as is,’ with no explicit change of content and form, into the system of values and symbols prevalent in Jewish society".[97] Pertanto, la comprensione acuta e profonda da parte dello studioso dei modi in cui il sionismo socialista ha modellato la sua relazione con le tradizioni ebraiche che lo hanno preceduto lo costringe, anche se non lo riconosce esplicitamente, ad abbandonare il significato comune e accettato di “ secolarizzazione"; tuttavia si aggrappa al termine stesso.

Il lettore attento all'argomentazione epistemologica con cui ho aperto questa discussione può ora apprezzare più facilmente gli effetti distorcenti dell'introduzione e dell'applicazione del quadro concettuale "secolare vs religioso" nei/sui contesti ebraico e sionista. È questo schema concettuale che incoraggia l'aspettativa che il sionismo socialista (contrassegnato come “secular”) rifiuterà la "religione" ebraica; ed è la discrepanza tra questa aspettativa e – beh: la realtà – che rende necessario il contorto argomento “secular-in-principle-but...”. Inutile dire che il problema non è che la realtà storico-politica non cede alla dicotomia concettuale; né lo è per gli individui la cui pratica non corrisponde pienamente a questa dicotomia. Il problema è con la dicotomia concettuale stessa.

Va anche notato che gli ideologi socialisti-sionisti incoraggiano questa confusione, poiché si identificano attraverso la stessa narrativa della secolarizzazione. Vedono le loro azioni attraverso la lente concettuale (distorcente) della religione, del secolarismo, del nazionalismo, della modernità, ecc., e assumono su di sé l'etichetta di “secular”; quindi spesso si credono del tutto indifferenti all'"ebraismo tradizionale".

Questa identificazione ideologica richiede sensibilità interpretativa. Sarebbe paternalistico e insensato liquidare il dominio della narrativa della secolarizzazione, dell'autoidentificazione degli individui e dei collettivi attraverso di essa, come un errore concettuale, e ignorare il modo in cui questi concetti – per quanto sbagliati possano essere – funzionano nella costruzione dell'identità socialista-sionista, così come di altre identità ebraiche nella Palestina pre-statale e poi nello Stato di Israele. (Ciò verrà ulteriormente spiegato quando prenderemo in considerazione il sionismo religioso. Si veda oltre). L'importante fatto storico-sociale è che la dicotomia ha funzionato come un'ancora influente, che svolge un ruolo cruciale nella formazione delle identità politiche, private e sociali nella società sionista prima e dopo la creazione dello Stato. I coloni sionisti – socialisti o meno – seguiti dagli ebrei israeliani, si sono identificati, e lo fanno tuttora, principalmente come laici o religiosi, successivamente integrati da masorti.[98] E hanno costruito la loro autocomprensione, il loro essere nel mondo, attraverso questa struttura concettuale. Possiamo, ovviamente, individuare apparenti "punti ciechi" nelle identità e nelle visioni del mondo costruite lungo questi schemi interpretativi. Ma sarebbe estremamente sbagliato ignorare tali fatti socio-storico-politici.

"Confronto" con tradizione, forma e contenuto[modifica]

La questione importante in esame ha a che fare, quindi, con i modi in cui gli ideologi socialisti-sionisti, i rivoluzionari che hanno portato avanti il progetto sionista in Palestina durante la prima metà del XX secolo e hanno delineato le principali coordinate della nazione-stato israeliano, si riferiscono a precedenti tradizioni ebraiche. I commenti supra, che seguono i lavori di Liebman, Don-Yehiya e altri, hanno già toccato un concetto primario a questo riguardo: il progetto sionista, sotto una dominanza socialista, ha comportato un dialogo ad ampio raggio con la tradizione. È stato un dialogo conflittuale, pieno di risentimento.[99]

Questa posizione può essere descritta più accuratamente come una ribellione contro un'autorità riconosciuta. Gli individui che erano stati educati nelle istituzioni ebraiche tradizionali e cresciuti secondo i valori ebraici tradizionali, si reinventarono come socialisti-sionisti laici e cercarono di respingere l'autorità delle loro tradizioni ebraiche, o gli stili di vita in cui erano nati. Loro, che hanno avuto una conoscenza intima e immediata di queste tradizioni e modi di vivere, cercarono di reinterpretare, riscrivere e ricreare parti di queste tradizioni, valori e pratiche. In questo senso, sia esplicitamente e ideologicamente che implicitamente e attraverso l'abnegazione, il progetto socialista-sionista in Palestina accettò, come una questione di pratica, l'argomentazione di Aad Ha‘am riguardo alla necessità di identificare una "essenza" dell'identità ebraica e di reinterpretarla in modo da renderla applicabile a ciò che i suoi praticanti hanno identificato come un contesto nazionale radicalmente nuovo, moderno.

Lo hanno fatto attraverso un atteggiamento conflittuale e risentito. Così, per citare solo uno degli esempi più familiari, hanno riscritto il rituale della Pesach e il testo seder della haggadah attorno a cui ruota, in modo da adattarli alla loro ideologia e visione del mondo: hanno così tolto Dio dal testo, e sostituito, come salvatore, con il Lavoro, la Terra o addirittura Vladimir Ilyich Lenin. Anche altre festività ebraiche (come Shavuot e Chanukkah) sono state riscritte, mentre altre sono state abbandonate e dimenticate. Altre ancora sono state reinventate.[100]

Una delle caratteristiche sorprendenti del progetto di invenzione della tradizione sionista, o di reinterpretazione delle tradizioni ebraiche in modo da renderle applicabili all'agenda ideologica sionista, è la distinzione fondamentale tra forma (che è stata in gran parte preservata) e contenuto (che è stato riscritto in modo conflittuale). I rituali del seder e della presentazione dei bikurim (nuovi prodotti) durante Shavuot lo esemplificano chiaramente: gli elementi religiosi centrali della forma dei rituali sono stati mantenuti con piuttosto zelo; una cena rituale, incentrata sulla lettura di un testo sacro (del resto il testo, oggetto di riscrittura ideologica, è ancora identificato come una haggadah pasquale), svoltasi nella data “Hebrew” (Jewish) della "tradizionale" festa di Pesach; la raccolta dei bikurim, (interpretata liberamente, in modo da includere non solo i prodotti agricoli, ma anche le macchine e gli esseri umani) e la loro presentazione a una figura di autorità, anch'essa avvenuta nella data ebraica di Shavuot. Ma il contenuto di questi rituali, i loro messaggi e i loro oggetti normativi-ideazionali, sono stati radicalmente riscritti: il redentore al centro dell’haggadah del seder non è Dio ma il Lavoro, "lo Spirito Nazionale", o altri surrogati di Dio; i bikurim non vengono presentati a un cohen (sacerdote), ma al collettivo, o comune. E così via. La forma: preservata. Il contenuto: radicalmente, ideologicamente riscritto.

Come dobbiamo comprendere l'esercizio di un'osservanza puntigliosa, zelante e formale di questi rituali religiosi ebraici e la conseguente riscrittura conflittuale e ribelle del loro contenuto in modo da renderli coerenti con la presunta ideologia socialista-sionista secolare? Nello specifico, a quale delle tre posizioni ideologiche centrali esaminate sopra – il dialogo interpretativo di Aad Ha‘am, l'ambivalenza individuale di Berdyczewski o l'"esistenzialismo ebraico-secolare" di Brenner – corrisponde questo progetto socialista-sionista? In altre parole: quale ideologia, o "teoria", laicista guida questo progetto?

Come ho notato sopra, mi sembra che la nozione essenzialista di identità ebraica di Aad Ha‘am abbia avuto il sopravvento. Le pratiche ebraiche sviluppate dai coloni socialisti-sionisti sono così – cioè ebraiche – poiché sostengono l'idea di dialogare con la tradizione, per quanto risentito e conflittuale possa essere stato questo dialogo. I socialisti-sionisti non abbandonarono completamente questa tradizione, ma cercarono di riscriverla. Anch'essi, in definitiva, consideravano l'ebraismo/ebraicità come espressi (anche) nei rituali "tradizionali" tenuti dagli ebrei in determinate date ebraiche, dettando determinate pratiche, ecc. I socialisti-sionisti, in altre parole, si aggrappavano all'idea che per essere autentici, l'identità ebraica richiede una certa "essenza". Non si accontentarono semplicemente del loro sangue ebraico; il progetto politico ad ampio raggio da loro condotto è stato un progetto ebraico nazionale, ed è stato costretto a comprendere positivamente la sua ebraicità. Non poteva essere giustificato solo dalle origini dei suoi agenti, soprattutto quando la sua natura violenta e conflittuale (come lotta per la terra, il lavoro e il dominio generale contro gli abitanti nativi della terra) venne alla ribalta.

Tuttavia, un attento esame di questo dialogo rivela che esso è anche fedele all'idea esistenzialista propagata da Brenner, anche se solo implicitamente. Come abbiamo visto, Brenner tendeva a considerare il corpo ebraico (o, nella terminologia corrente: la forma), cioè l'origine etnico/razziale dell'agente come ebreo, quale garanzia che il "contenuto" degli atti di questo agente, qualunque esso sia, è anche ebreo. Se l'ebreo (sionista) lo fa suo, è ebreo: il corpo (ebraico), la forma, garantisce che anche il contenuto/identità sarà ebraico.

Se confrontiamo il rito socialista-sionista con l'identità ebraica proposta da Brenner, saremo in grado di comprendere l'essenza del progetto socialista-sionista di un dialogo conflittuale con la tradizione. I suddetti "nuovi" rituali, che sostituiscono contenuti ideologici e radicali ai valori tradizionali, sono considerati ebraici perché i loro "corpi", la loro "origine" (cioè la loro forma storica) è considerata ebraica; gli ideologi socialisti-sionisti possono quindi negare esplicitamente il significato o il messaggio tradizionale della festa,[101] e continuare a considerare questa nuova celebrazione come un atto (nazionale) tipicamente ebraico.

Va notato che questo confronto aggressivo con la tradizione, per quanto crudo possa essere (come richiesto dalla pesante mano ideologica che lo guida), è pur sempre espressione di un dialogo con la tradizione, basato su un'intima familiarità con essa. Ma una volta che il fervore ideologico si è calmato e la familiarità immediata con la tradizione è venuta meno, ai figli e alle figlie dei pionieri ideologici è rimasto un misto di amaro risentimento verso la tradizione e la religione e una generale ignoranza del loro contenuto. Rimangono ebrei nella loro identità, ovviamente. Ma il significato positivo di questa identità, al di là del loro impegno nel progetto di costruzione di uno Stato-nazione per gli ebrei, è diminuito. Il dialogo tra loro e la loro tradizione è rimasto silenzioso.

Sionismo religioso: un movimento nazionale[modifica]

L'errore della religione vs il secolare/politico/nazionalismo è messo in netto rilievo nel caso del sionismo religioso, sia in termini di studio accademico del movimento, sia in termini di autocomprensione.[102] Ciò, in una certa misura, è un riflesso – anzi uno specchio – del presupposto secondo cui la politica moderna del nazionalismo e dello stato-nazione sovrano è essenzialmente laica, mentre la religione è (o dovrebbe essere) apolitica. Pertanto, se il caso del sionismo tradizionale e "secolare" ha affidato ai suoi studenti il compito di rendere conto dell'"impurità" della sua laicità, lo studio del sionismo religioso si occupa principalmente dell'"infusione" dell'elemento religioso nel progetto sionista secolare-in-essenza. Intrappolato in questa epistemologia, il campo accademico (sul discorso politico connesso) non è riuscito a vedere il sionismo religioso come il movimento nazionalista dedito alla teopolitica dello stato-nazione sovrano quale in effetti è.

La dominanza dell'epistemologia secolare nello studio del sionismo religioso non può essere trascurata. Sebbene esistano letture diverse, a volte contraddittorie, del movimento alla luce di tale epistemologia, queste sono tuttavia tutte variazioni dell'idea che religione e nazionalismo sono due ambiti distinti dell'attività umana, categoricamente separati, che entrano in gioco reciproco nel caso del sionismo religioso. La questione principale da dibattere tra gli studenti del movimento è quindi la natura di questa interazione.

Religione, fondamentalismo e nazionalismo: un equilibrio delicato?[modifica]

Lo studio principale del sionismo religioso ha considerato la suddetta infusione della religione nella politica nazionalista come una sorta di perversione, un trasferimento di un elemento del passato – cioè la religione o la teologia – nella modernità (secolare). Questo anacronismo fa sì che il sionismo religioso sia nel migliore dei casi assente (pericoloso nel peggiore dei casi), poiché non tiene pienamente conto del senso rivoluzionario del secolarismo sionista. Come ho accennato in precedenza, Yosef Salmon, che rifiuta questa distinzione, osserva criticamente che alcuni storiografi e sociologi sono stati così intrappolati nel presupposto secolare da considerare la nozione stessa di sionismo religioso come incoerente, un'incoerenza logica se non un vero e proprio ossimoro.[103]

Questo approccio evidenzia l'elemento "religioso" come chiave per comprendere il sionismo religioso. Considera il movimento come un fenomeno essenzialmente teologico, religioso, che riprende elementi dell'ideologia nazionalista per promuovere le sue aspirazioni teologicamente messianiche e teocratiche. In questo contesto, il movimento storico-politico del sionismo religioso è stato inserito nel quadro della discussione distorta sul "fondamentalismo", culminata nel "Fundamentalism Project".[104] Una premessa fondamentale di questo progetto è che i movimenti fondamentalisti si trovano, per definizione, in una relazione conflittuale con lo stato-nazione moderno e secolare. Di conseguenza, il sionismo religioso deve essere inteso come un tentativo socio-storico (intrinsecamente fallito?) di superare l'apparente tensione comportata dal termine.[105]

Un approccio predominante a questa questione si concentra sul "fondamentalismo messianico" o semplicemente sull'"estremismo" come "norma religiosa".[106] Facendo eco al "mito della violenza religiosa", questa concezione considera illegittime le rivendicazioni religiose di autorità e legittimità (e i conseguenti usi della violenza), mentre quelle dello stato sovrano, essendo "secolari", sono considerate legittime per definizione.[107] Gli studiosi sono quindi tenuti a spiegare la posizione ampiamente "moderata" (in termini di presunto estremismo religioso) assunta dal movimento sionista-religioso nel corso della storia sionista e israeliana, soprattutto prima del 1967. Questa moderazione piuttosto innaturale è comunemente spiegata dai legami culturali, sociali e politici tra i sionisti religiosi e le loro controparti laiche. Si presume che la politica laica abbia tenuto a bada il DNA fondamentalista e messianico dei sionisti-religiosi.[108]

Gli sviluppi politici a partire dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967 sono intesi, in questo quadro, come un graduale rilascio e realizzazione del potenziale fondamentalista sempre presente del sionismo religioso. Si tratta, in altre parole, di una narrativa della liberazione dell'elemento "religioso" dalla presa "nazionale" moderatrice. Si è ipotizzato che ciò equivalga a un indebolimento della sovranità dello Stato; una volta che lo stato-nazione sionista israeliano si è discostato da un percorso messianico tracciato per lui dal fondamentalismo religioso – così si sostiene – il sionismo religioso sacrifica il significato e le istituzioni più cari della sovranità sionista per raggiungere i suoi obiettivi messianici e teocratici.[109]

Pertanto, se il termine composito implica due santità concorrenti: quella della Terra (vista come espressione di un credo religioso; una questione discutibile in sé) e quella dello Stato, allora la storia del sionismo-religioso viene letta come la graduale rottura del delicato equilibrio a favore della santità religiosa della Terra; una volta che lo Stato sovrano non aderisce più a questa sacralità, la sua politica diventa eretica.

Questa, in breve, è una narrativa evolutiva costruita sull'epistemologia secolarista. Considera il fenomeno in questione come essenzialmente instabile, poiché mescola la teologia con la politica e presuppone che la prima abbia gradualmente superato la seconda. Il nazionalismo, in questa lettura, serve solo alla teologia/religione, uno strumento progettato per facilitare la fine messianica dei tempi.

Gli studiosi "revisionisti" che hanno rifiutato la visione del sionismo religioso come movimento fondamentalista, mantengono tuttavia la dicotomia epistemologica di cui si nutre. Affermano quindi che uno studio della storia del sionismo religioso mostra che il patriottismo, o la santità dello stato, o semplicemente la "politica" è la parte più forte nella dualità del fenomeno in questione. I sionisti religiosi – così sostiene l'argomentazione revisionista – si trovano infatti in una tensione eterna tra i loro impegni religiosi e la loro affiliazione politica con lo stato sionista; ma hanno ripetutamente risolto la tensione aderendo alla sacralità della sovranità dello Stato.[110]

Questa, ancora una volta, è la storia di una collisione immanente tra l'impegno essenzialmente secolare-politico e quello teologico-religioso che caratterizza i sionisti-religiosi. Ma in questa prospettiva, lo statalismo è una parte centrale e organica dell'ideologia religioso-sionista. La sociopolitica del movimento viene quindi letta come un continuo tentativo di negoziare le tensioni poste a questo impegno da un credo religioso, al punto che i sionisti religiosi rinunciano al loro tentativo storico di ridefinire il significato di autentica ortodossia. Quest'ultimo compito è lasciato agli ultraortodossi che, mancando l'organo politico-sionista, hanno di fatto il monopolio sulla definizione di questo impegno teologico. In altre parole, questa posizione "revisionista", che si sforza di dimostrare che il sionismo religioso (ebraico) non minaccia la sovranità dello stato-nazione degli ebrei, aderisce alla stessa cornice epistemologica e concettuale del discorso sul fondamentalismo. Sostiene soltanto che la categoria non dovrebbe essere applicata al sionismo religioso, dal momento che ha, costantemente, preferito il politico, lo stato, a quello teologico.

Sionismo religioso oltre le dicotomie secolariste[modifica]

Questo, direi, è ancora un altro esempio dell'influenza distorcente dell'epistemologia secolarista. Un ampio campo di interpretazioni contrastanti si basa tuttavia su un'unica, coerente (e fuorviante) dualità tra politica e religione. Si presuppone che il termine "religioso" nel sionismo religioso sia una manifestazione della categoria universale che porta lo stesso nome. Questa nozione moderna e protestante difficilmente viene messa in discussione. In effetti, sarebbe difficile trovare studi che si occupino del fenomeno del sionismo religioso e che metta in discussione il "religioso" in questo titolo; si ritiene che sia chiaramente noto (e sottoposto a una visione comparativa, come nel Fundamentalism Project), il suo significato dato per scontato. Di conseguenza, queste diverse interpretazioni presuppongono che anche la natura essenzialmente secolare della seconda parte di questa dualità, il nazionalismo sionista, sia "un dato di fatto".

Come ho notato supra, ciò che sembra eludere questo sguardo epistemologicamente secolare sul fenomeno in questione è il grado sostanziale in cui questa è ancora un'altra iterazione della teopolitica dello stato-nazione sovrano. Il sionismo religioso è, alla radice, un'ideologia politico-nazional(ista). Inutile dire che i suoi aderenti vedono i loro rapporti con la loro tradizione in una luce diversa da quella di altri sedicenti sionisti "secolari"; la loro è una nozione ortodossa di preservare il "passato religioso" in modo piuttosto conservatore. Ma si basa comunque fin dall'inizio sul concetto che questa religione è categoricamente separata dal loro coinvolgimento politico come sionisti impegnati. La questione principale diventa, quindi, il modo in cui propongono di "colmare" il presunto abisso concettuale teso tra i due elementi che compongono la loro identità: conservatorismo religioso e nazionalismo laico. Essi potrebbero, seguendo il capostipite spirituale del movimento, Rabbi Abraham Isaac Kook,[111] considerare la loro missione quella di "sintetizzare" le due categorie, o elementi, rendendo la teologia e il nazionalismo, precedentemente separati, un insieme monolitico; oppure potrebbero voler preservarli ciascuno nel suo significato "puro", in modo da non disturbare la distinzione categorica tra i due (come fece, ad esempio, Rabbi Isaac Reines, che nel 1902 fondò il partito religioso-sionista Mizrai).[112] In ogni caso, il sionismo religioso è, come suggerisce il nome, basato sull'idea che esiste una "religione ebraica" e esiste un "nazionalismo ebraico", manifestazioni particolari delle presunte categorie o concetti universali.

In questo senso, il sionismo religioso ci fornisce ancora un'altra manifestazione degli effetti dell'imposizione della moderna categoria protestante di "religione" sulle storie e le tradizioni degli ebrei. Visto da questo punto di vista, anche il sionismo religioso testimonia il grado in cui l'invenzione della religione ebraica spinge e consolida l'idea sionista: una negazione, come teopolitica della sovranità dello stato-nazione, dell'idea che l'ebraismo è una religione, che è (la suddetta negazione) fondata sulla stessa epistemologia che dà vita a questa idea (cioè che l'ebraismo è una religione) in primo luogo.

Superando l'epistemologia secolarista, possiamo facilmente vedere fino a che punto il sionismo religioso dovrebbe essere inteso come un fenomeno nazional(ista), sionista, che aderisce ai dettami della teopolitica dello stato sovrano (presunto laico), leggendo, come lo fa, le tradizioni ebraiche in modo da servire questa stessa teopolitica. Come ha notato Yeshayahu Leibowitz,[113] ciò equivale a una corruzione di queste tradizioni, cioè della "religione" che i sionisti religiosi desiderano preservare. Le tendenze politicamente messianiche adottate dal movimento (soprattutto dopo la guida del rabbino Zvi Yehuda Kook) sono un esempio di questa teopolitica nazionalista. Questa teopolitica è incentrata sullo Stato sovrano e segue impegni corrispondenti, come il militarismo e lo statalismo. Come mostra chiaramente un'analisi interpretativa completa del discorso religioso-sionista,[114] questi non sono, come hanno sostenuto alcuni osservatori focalizzati sull'elemento "religioso fondamentalista" del movimento, esempi di messianismo-cripto-teologico del movimento. Si tratta piuttosto di una teologia politica in cui lo Stato, la sua sovranità, il suo potere militare, il suo controllo sul territorio e l'aspirata corrispondenza assoluta tra i suoi cittadini e la sua identità nazionale sono al centro della scena. In altre parole, si tratta di un esempio piuttosto generico di ideologia nazional(ista), in sintonia con le nozioni europee, occidentali e moderne della politica dello stato-nazione.

Ciò che distingue i sionisti-religiosi dalle loro controparti nonreligiose, è la loro visione contrastante del ruolo proscritto della "religione" ebraica in questa teologia politica. Mentre i sionisti “secular” si impegnano per lo più (come abbiamo visto nel caso dei sionisti-socialisti dominanti) in un dialogo contrastante con queste tradizioni, i sionisti-religiosi vedono la loro preservazione conservatrice al servizio della teopolitica dello Stato. Come affermato in modo conciso da Noam Hadad: "Religious Zionism is not a harmonious mixture of mutually corresponding nationalism and theology; rather, these manifest an ontological unity; patriotism does not contradict theology; rather it is in itself the essence of this theology".[115]

Prendiamo, ad esempio, due delle questioni centrali sostenute dai sionisti religiosi nella cultura politica israeliana contemporanea: militarismo e territorialismo – o la santificazione sia della Terra che dell'esercito. Lungi dall'essere esclusivi del campo sionista-religioso (storicamente, in entrambi i casi, il sionismo religioso segue in effetti lo spunto del sionismo-socialista), queste sono le manifestazioni più esplicite della sovranità dello stato-nazione. Riguardano il monopolio del potere da parte dello stato e l'aspirazione nazionalista a una completa omogeneità dell'identità nello stato-nazione. L'uso delle tradizioni ebraiche per servire queste aspirazioni politiche è, nella migliore delle ipotesi, problematico. In ogni caso, non testimonia la "presa in carico" della causa nazionalista da parte di un impegno religioso; piuttosto racconta dei modi in cui il sionismo religioso reinventa il significato delle tradizioni ebraiche che presumibilmente preserva per il bene del servizio allo stato sovrano. Il fatto che lo Stato moderno venga santificato "religiosamente" è una questione di teopolitica della sovranità; come ha notato lo stesso sionista impegnato Leibowitz, ha ben poco a che fare, se non nulla, con la "religione" ebraica.

Sionismo revisionista: la nazionalizzazione delle tradizioni ebraiche[modifica]

Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Vladimir Žabotinskij, Sionismo revisionista, Hatzohar e Organizzazione sionista mondiale.

Se la divisione sionista del lavoro per quanto riguarda la natura degli usi (e degli abusi) delle tradizioni ebraiche posiziona il sionismo socialista e il sionismo religioso come due "poli" opposti, allora al sionismo revisionista viene assegnato il ruolo di occupare gran parte del spazio compreso tra i due poli. In quanto tale, rappresenta un'appropriazione continua e non conflittuale delle tradizioni ebraiche al fine di servire la teopolitica dello stato-nazione sovrano. Significativamente, questa sorta di evoluzione – che parte da una negazione "secolarista" prototipica della "religione" ebraica e termina con un'adozione piuttosto "organica" di alcuni elementi di questa religione/tradizione in modo da servire il progetto sionista di sovranità ebraica – va ricercato nell'evoluzione politico-intellettuale di Vladimir (Zeev) Jabotinsky, lo stesso fondatore del sionismo revisionista. Ma ciò che sembra essere più importante di questo cambiamento graduale è il modo controverso in cui esso viene discusso e spiegato nella storiografia sionista.[116]

Dando vita a quello che potrebbe essere definito un "sottogenere" di tentativi per spiegarlo,[117] la crescente valutazione da parte di Jabotinsky del ruolo delle tradizioni ebraiche nella causa sionista è chiaramente considerata più importante della storia intellettuale personale in questione. È visto come un simbolo del più ampio schema di sviluppo storico-politico, soprattutto per quanto riguarda il governo dello Stato israeliano da parte dei successori politici di Jabotinsky. In effetti, leggendo le varie e concorrenziali esegesi di un corpus piuttosto uniforme di scritti di Jabotinsky, si resta colpiti dall'intensità che caratterizza il discorso sulla questione "Jabotinsky e la religione". Sia che venga vista come un allarmante tradimento degli esaltati valori del secolarismo o come una benedetta realizzazione del valore della "religione" ebraica, la posizione evolutiva di Jabotinsky è chiaramente considerata come una proiezione (positiva o negativa, a seconda della posizione dell'osservatore) sull'autenticità ultima dell'impegno sionista di Jabotinsky.

Vale a dire: le interpretazioni contrastanti si nutrono tutte di quelle stesse nozioni sulla natura essenzialmente laicista del progetto storico sionista. L'evidente consapevolezza in evoluzione di Jabotinsky che un semplice rifiuto secolarista della "religione ebraica" potesse non essere la posizione ideologica e pratica corretta da assumere è quindi intesa come un'implicazione diretta dei suoi impegni ideologici. Probabilmente il più indicativo di ciò è il tentativo del figlio di Jabotinsky, Eri, che affronta la questione con lo zelo della lotta contro la diffamazione, di mettere le cose in chiaro. Per Eri Jabotinsky, lui stesso profondamente impegnato in una comprensione laicista del significato stesso della rivoluzione sionista, l'affermazione secondo cui suo padre avesse, in effetti, gradualmente adottato – sia nella sua vita personale che nella sua visione ideologica del mondo – una posizione "più religiosa" equivale a calunnia. Come dice lui, un articolo che pretende di ripercorrere questo corso evolutivo di Jabotinsky non è semplicemente "riddled with distortions [...] It is one long distortion, from beginning to end".[118]

Eri Jabotinsky non lascia spazio a dubbi: l'argomento in questione comporta gravi implicazioni per la reputazione stessa di suo padre. Egli denuncia così "un glorioso elenco" di storici "who wish to Judaize the founders and leader of the Zionist movement... motivated as they are by the Religious-Socialist coalition ruling our state".[119] In altre parole, sono i sionisti-socialisti, l'amara nemesi politica e ideologica del sionismo-revisionista, accompagnati dai sionisti-religiosi, il loro partner minore della coalizione, che stanno tentando di delegittimare Zeev Jabotinsky "giudaizzandolo". Ciò, in effetti, non ha senso al di fuori di un quadro ideologico sionista che ritiene che il secolarismo veemente e antireligioso sia parte integrante del progetto sionista. Assume il valore essenziale e centrale della negazione secolarista della "religione" come fulcro della posizione sionista nei confronti delle tradizioni "religiose" ebraiche. Eri Jabotinsky si lamenta quindi delle tattiche di "censura e distorsione" adottate da questi interessati, che sono responsabili dell'errata convinzione che Zeev Jabotinsky non fosse veramente, sinceramente e assolutamente non-"religioso".

Nonostante le accuse di Eri Jabotinsky contro la censura e le distorsioni intenzionali, sembra esserci poco o niente disaccordo tra gli studiosi sulle prove testuali dell'evoluzione della posizione di Jabotinsky. (Gli argomenti sono riservati alle interpretazioni concorrenti dei motivi dietro il testo e del suo significato.)

Questa evoluzione può essere riassunta in tre fasi principali. Inizialmente, Jabotinsky aveva sostenuto una negazione nazionalista laicista piuttosto diretta della "religione". Si avvicinò alla religione "instrumentally and apprehensively".[120] Aderendo principalmente alle ideologie nazionaliste dell'epoca, vedeva la religione in un modo piuttosto generico secolarista-sionista: una questione del passato esiliato e passivo, destinata a essere respinta affinché il nazionalismo ebraico (secolare) potesse prendere piede. Come disse nel 1905: "not religion, but the national exceptionality is what have preserved the Jewish People throughout history".[121] La religione, in questo schema storico di negazione dell'esilio, ha funzionato come un agente preservatore, un "muro sigillato" che separa gli ebrei dai gentili, preservando allo stesso tempo l'unità della nazione. Questa, in altre parole, è una visione illuminista e liberalista piuttosto diretta della tradizione: la sua capacità di funzionare come agente preservante deriva dalla sua mancanza di dinamismo, dal fatto che è un pacchetto sigillato di direttive. L'esilio ha portato al congelamento della tradizione, che è resa, in definitiva, ridondante: "In exile, the internal development of Judaism as a religion has ceased [...] Once the People of Israel has lost its land [i.e., sovereignty] Judaism stopped changing and evolving".[122] La religione, in altre parole, è qui vista come un ostacolo alla forma moderna di vita nazionale sovrana.

La seconda fase intermedia del pensiero di Jabotinsky è caratterizzata da una graduale "moderazione" della sua posizione sul ruolo della religione ebraica – o meglio, in questo contesto meno negativo: patrimonio e tradizione – nel più ampio progetto sionista. Considerata sullo sfondo dei negoziati tra il movimento revisionista appena fondato da Jabotinsky nel 1925 e il movimento sionista-religioso, questa moderazione porta con sé un'aria di pragmatismo politico piuttosto facilmente distinguibile: consente a Jabotinsky di corteggiare più facilmente la fazione sionista-religiosa, evidenziando la differenza tra la sua posizione e quella dei socialisti-sionisti ora dominanti. In questa fase, Jabotinsky è lungi dall'esultare positivamente la tradizione ebraica. Notoriamente pose anche il veto al tentativo dei membri del suo movimento di sottolineare ufficialmente il ruolo positivo della religione nella rinascita nazionale ebraica. La sua posizione a questo punto "can be defined as a ‘neutral’ stance, mixed with expressions of, on the one hand, reservation, and on the other hand appreciation of certain aspects of religious tradition".[123]

Questa evoluzione è culminata nella terza fase, durante la quale "Jabotinsky did not become a religious person, but his attitude toward religion has become very positive. He assigned great importance to religion as a central element in the national life of the Jewish people".[124] Considerata nel contesto del ritiro dei revisionisti dall'establishment sionista e dell'istituzione della New Zionist Organization (nel 1935), questa fase traccia anche i contorni della pratica politica che avrebbe poi caratterizzato il partito erut e il partito israeliano (non-"religioso") di destra più in generale.[125] Questa posizione "positiva" consiste in un esplicito tentativo di "nazionalizzare" alcuni elementi della tradizione ebraica in modo da sostenere il progetto sionista. A differenza della posizione conflittuale assunta dai socialisti-sionisti, Jabotinsky non tenta di riscrivere o reinventare parti di questa/e tradizione/i. Piuttosto, evidenzia selettivamente alcuni elementi di queste tradizioni come favorevoli al più ampio progetto nazionalista.

Ora, come già accennato, una revisione della letteratura che tratta di questa storia evolutiva di un ideologo e della sua ideologia evidenzia il grado in cui le valutazioni concorrenti di questa evoluzione sono guidate da un senso di purezza (e dal pericolo di contaminazione che comporta) di la natura secolar(ista) dell'idea sionista. In altre parole, ciò che emerge come una difesa della purezza dell'ideologia di Jabotinsky tradisce il grado in cui la natura "secolare" dell'ideologia sionista/nazionalista da lui sposata è considerata essenziale per il concetto stesso di sovranità ebraica moderna.

Quelle che possono essere chiamate interpretazioni apologetiche affermano, in un modo o nell'altro, che l'apparente moderazione di Jabotinsky nei confronti della tradizione o della religione ebraica era motivata principalmente, se non esclusivamente, da considerazioni politiche, e non tradisce una tale potenziale "contaminazione" del suo nazionalismo secolarista da parte di un sentimento religioso di sorta. Come asserisce una tipica interpretazione di ciò, Jabotinsky è stato "un agnostico totale", che non credeva in Dio, e anche quando si riferiva a Dio ciò non era accompagnato da un "acknowledgment of the reality of God, nor did he have a need to refer to Divinity for establishing his political doctrine". In effetti, Jabotinsky usò "terms that are derived from the world of religious tradition", ma questo non significa che credesse sinceramente nei loro referenti: "Judaism for him was a heritage of a national culture [...] [for Jabotinsky] Religion is an instrument used by the nation... Similarly, his relation to the [Hebrew] Bible was [only] instrumental... The bottom line, then, is clear: Jabotinsky derived inspiration from religious tradition being a universal cultural heritage and a particular national heritage. Inspiration—yes, authority—not!"[126]

Significativamente, una manovra retorica fondamentale per affermare questa idea è quella di presentare Jabotinsky in modo negativo nei confronti della "religione". La sua amata laicità è costruita sulla negazione, come rifiuto o indifferenza verso ciò che gli autori considerano segni della religione ebraica (questi includono principalmente la fede in Dio e alcune pratiche ebraiche ben note). Così, ad esempio, Eri Jabotinsky sottolinea: "My father has never taken me to synagogue, and when I turned 13 he did not bother to organize for me a traditional ‘Bar-Mitzva’ [...] He did not observe kashrut, did not pray, did not fast on Yom Kippur, and did not observe the Shabbat".[127]

Un resoconto degli impegni ideologici alquanto contraddittori di Jabotinsky mostra che questi – o meglio la contraddizione che comportano – sono i principali determinanti della sua posizione in via di sviluppo nei confronti della tradizione ebraica. In questo contesto, il secolarismo di Jabotinsky, guidato dalle sue inclinazioni liberaliste dell'Europa del diciannovesimo secolo, si scontrava con la sua difesa del nazionalismo organico, che sottolinea la razza, o il sangue, come il principale determinante del'’identità nazionale.[128]

Jabotinsky, in altre parole, condivideva la nozione "incentrata sul sangue" dell'identità ebraica che, come ho discusso in precedenza, ha plasmato gran parte di quella che viene considerata la posizione sionista “secular”. Anche lui considerava il patrimonio culturale della nazione come derivato dal "fatto" biologico di parentela biologica nazionale. Ma a differenza dei ribelli sionisti laici, egli non considerava – almeno alla fine – questo fatto biologico sufficiente a preservare un autentico senso di ebraicità. La sua, senza dubbio, è una teopolitica della sovranità in tutto e per tutto. E in questo schema ideologico, la tradizione viene appropriata strumentalmente in modo da servire il progetto più ampio del nazionalismo. La sua è "an agnostic political theology, that wishes to erase the dichotomy between the theological and the political by including the theology in the realm of the political as one component of its essence".[129]

Muovendosi lungo questo (limitato) spettro di posizioni nei confronti della tradizione, Jabotinsky aveva previsto il modo in cui lo statalismo di David Ben Gurion avrebbe incorporato alcuni elementi della tradizione ebraica nella teologia politica dello Stato di Israele, sostituendo la posizione conflittuale del sionismo socialista.[130] Quest'ultima sembrava, alla fine, incompatibile con il crescente senso sionista della sovranità ebraica. Tale traiettoria fu ulteriormente enfatizzata dal governo dei successori politici di Jabotinsky dal 1977 in poi. Ora è in atto un apprezzamento dei modi in cui lo Stato di Israele ha costruito e gestito il significato della sovranità ebraica. Questo sarà il fulcro del resto del wikilibro.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie letteratura moderna.
  1. Prendo in prestito i termini “cripto-religioso” e “cripto-secolare” dalla discussione di Hamid Dabashi sulle fonti ideologiche della rivoluzione iraniana. Dabashi, Theology of Discontent, 10.
  2. Shimoni, The Zionist Ideology, 269–332.
  3. Ibid., 293.
  4. Come dimostra Cavanaugh (cfr. la discussione approfondita nel Capitolo 1 di questo wikilibro), questo è un esercizio prevalente tra gli accademici.
  5. Ibid.
  6. L'ideologia socialista-sionista, che ha chiaramente preferito i dettami del nazionalismo al socialismo, sostiene che i due sono in effetti complementari, non contraddittori. Cfr. Sternhell, The Founding Myths of Israel.
  7. In questo, il sionismo socialista è infatti diverso dalle ideologie propagate dai sionisti liberali o nietzscheani, ai quali mancava un’infrastruttura ideologica totalitaria simile al socialismo.
  8. Yosef Salmon identifica questo come il "modello ateo" del rapporto del sionismo con la religione ebraica. Come accennato in precedenza, anche Salmon rimane incatenato al quadro concettuale del discorso sulla secolarizzazione, anche quando mette in luce l'invalidità delle sue premesse e delle sue argomentazioni di base, e offre una descrizione molto più sfumata del rapporto tra nazionalismo sionista e tradizione ebraica. Salmon, Religion and Zionism; Salmon, "Religion and Secularism in the Zionist National Movement".
  9. Come notaq Shimoni, la frase in ebraico usata da Syrkin, "dat yehudit ma‘asit" (che Shimoni traduce con “Jewish religion in practice”) potrebbe alternativamente esser tradotta “religious praxis”. Shimoni, The Zionist Ideology, 294 ss. 64.
  10. Syrkin, Kitvei, 68–69.
  11. Ibid., 104; Shimoni, The Zionist Ideology, p. 294 ss. 65, in un apparente pilpul, lo interpreta come una parodia. Scrive: "That secular Zionists desecrate the sancta of Israel was a typical accusation made by orthodox rabbis. By quoting it thus, Syrkin was declaring provocatively that his policy was indeed to debunk certain orthodox religious beliefs". È facile capire perché l'apologetica sionista richiederebbe un simile pilpul. Non lo vedo come richiesto dal testo.
  12. Shimoni, The Zionist Ideology, 295; questa affermazione è una sintesi dei dati offerti da Gorni, "Changes in the Social and Political Sturcture of the Second ‘Aliyah, 1904–1914"; e cfr. Alroey, "The Demographic Composition of the ’Second ‘Aliyah.’"
  13. Shimoni, The Zionist Ideology, 295.
  14. Ibid., 296.
  15. Come dice: "The doctrine of morals and ethics, on which countries and people fight, has been nothing but a bifurcation of the self." El‘azari-Volcani, Sefirot, 34.
  16. Per sfatare questa narrazione, cfr. Cavanaugh, The Myth of Religious Violence, cap. 4.
  17. El‘azari-Volcani, Sefirot, 34, 36.
  18. Ibid., 37.
  19. Ibid.
  20. Ibid.
  21. L’immaginario biologico di El‘azari-Volcani merita una citazione estesa: "In the whole field of creation, and in all professions of our life; in poetry, in art, in concepts of ethics, in simple bargaining, in relationships between man and his God and between man and his fellow men, in practices, and in norms,—in everything there is some special essence [‘etzem meyuḥad] in us, remnants of generations that have been absorbed in our blood and milk, which are not absorbed in the organism of the masters of the land, who dictate our life". Ibid., 39.
  22. Dopo aver descritto l'esistenza "abnormal" della "Hebrew soul" in esilio, El‘azari-Volcani conclude: "Anti-Semitism is not a psychosis, it is not a sickness, nor is it a lie. Liberalism is a sickness and lie, as it burdens the soul with the empty declarations [of] equality and progress [. . .] Anti-Semitism is a necessary outcome of a collision between two kinds of selfhood [or ‘essence’]. Each people and its selfhood [. . .] Hate is dependent upon the amount of ‘agents of fermentation’ that are pushed into the general organism [i.e., the non-Jewish group], whether they are active in it and irritate it, or are neutralized in it—and the ‘fermenting agents’ are in the blood, not in dress and belief". Ibid., 39–40.
  23. Ibid., 40.
  24. Ibid., 43.
  25. Shimoni, The Zionist Ideology, 297.
  26. Su Brenner si veda Shapira, Yosef Haim Brenner; Brinker, "Brenner’s Jewishness"; Sagi, To Be a Jew.
  27. Shimoni, The Zionist Ideology, 297.
  28. Si veda anche Zameret, "Berdyczewski, Brenner and Gordon on the Sabbath".
  29. Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 15.
  30. Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 7.
  31. Ibid.
  32. Nelle parole di Brenner: "As for myself, for me the Old Testament, too, does not have the value that everyone calls clamorously as ‘Holly Texts,’ ‘The Book of Books,’ ‘The Eternal Book,’ and so on and so forth. I have long ago already been released from the hypnotization of the twenty-four books of the Bible [biblia in the Hebrew original] . . . — Many secular books [sifrei ḥol] from the last generations are closer to me, [and are] greater and deeper in my eyes. But the same importance I do find in the Hebrew Bible [tanach in the original], as remnants of memories of distant days and as the embodiment of the spirit of our people and the human spirit inside us during many generations and eras—this importance I also find and acknowledge in the books of the New Testament.” Ibid.
  33. Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 13.
  34. Ibid.
  35. Shimoni, The Zionist Ideology, 299.
  36. Ibid.
  37. Ibid., 13.
  38. Avi Sagi, To Be a Jew, 111.
  39. Brenner, "Avi Hapublitzistiqa".
  40. Brenner, "Avi Hapublitzistiqa".
  41. Ibid., 112.
  42. Ibid.
  43. Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 7.
  44. Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 13; o, nella formulazione di Shimoni: "the new national Hebrews"; Shimoni, The Zionist Ideology, 299.
  45. Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 16.
  46. Brenner, Ketavim, vol. 4, p. 1296; nella traduzione di Shimoni ciò si legge: "How can we, as ourselves, become other than ourselves"; Shimoni, The Zionist Ideology, 300.
  47. Shimoni, The Zionist Ideology, 300.
  48. Berdyczewski, che si è occupato del significato dell'identità ebraica all'interno di un quadro liberale, che vede l'ebraismo come un'idea, come una filosofia, non poteva "saltare fuori" dalla tensione: il liberalismo non offre un simile surrogato totalitario della tradizione, come fa il socialismo. Per un confronto tra i due cfr. Brinker, "Brenner’s Jewishness"; Shimoni, The Zionist Ideology, 300.
  49. Brenner; firmato come Yosef Ḥaver, "Ba‘itunot Uvasifrut", 8.
  50. Ibid., 6.
  51. Ibid.
  52. Brenner usa il terminbe "the history of beliefs and religions", e chiarisce che usa tale termine "intentionally". Ibid., 7.
  53. Ibid.
  54. Cfr. ibid.
  55. Ibid., 6.
  56. Ibid.
  57. Ibid.
  58. Ibid.
  59. Alcalay, After Jews and Arabs, 52.
  60. Ibid.
  61. Ben-Ezer, "Tzel"; cfr. anche Ben-Ezer, Sleep Walkers and Other Stories; Ben-Ezer, "Brenner and the ‘Arab Question.’"
  62. Brenner, Mikan Umikan, terzo taccuino, 71; la traduzione si basa su Ben-Ezer, "Brenner and the ‘Arab Question’", 20.
  63. Ben-Ezer, "Tzel" nota che questo si riferisce probabilmente a Zichron Ya‘aqov.
  64. Ben-Ezer, "Tzel", — commenta su questo: "[Brenner’s] protagonists [in this book] are all Jews. And through this hard cruelty towards us, to ourselves, one can also understand Brenner’s expressions regarding the danger of assimilating among the Arabs, which he calls, with a kind of maliciousness, “the natives of the land,” as we, the readers, do not exactly know if the natives of the land are only the colony’s Arabs, or also the first Sabra generation who was born in it, and is already so similar to the Arabs, so much so that it is impossible to distinguish between the dependents of the two peoples [. . .] This is a horrible description of a young boy, probably Arab, who already speaks the Romanian-Yiddish of Zichron’s farmers, and tells about bestiality."
  65. Ben-Ezer, "Tzel".
  66. Alcalay, After Jews and Arabs, 52–53.
  67. Brenner, (HE) Shechol Vekishalon; in (EN) : Brenner, Breakdown and Bereavement.
  68. Ben-Ezer, "Tzel".
  69. Ibid.
  70. Brenner, Shechol Vekishalon, 98.
  71. Ben-Ezer, "Tzel".
  72. Come lo riassume Alcalay: "Haifa, Jaffa, the Arabs, and even the Arab Jews simply become a backdrop for superimposed images from another world: the Cossacks, Poles, and Russians of the Ukraine. The space is transparent: for all their professed but idealized ‘love of the land,’ many of the early European settlers had x-ray vision, seeing through things without recognizing them". Alcalay, After Jews and Arabs, 53.
  73. Brenner, "Leverur Ha‘inyan", 16.
  74. Shimoni, The Zionist Ideology, 298.
  75. Ibid.
  76. Hertzberg, The Zionist Idea, 315.
  77. Shimoni, The Zionist Ideology, 321.
  78. Hertzberg, The Zionist Idea, 315.
  79. Shimoni, The Zionist Ideology, 322.
  80. Qui uso la traduzione di Shimoni: The Zionist Ideology, 323.
  81. Klatzkin, Teḥumim, 18.
  82. Ibid.
  83. Shimoni, The Zionist Ideology, 324.
  84. Klatzkin, Teḥumim, 64.
  85. Ibid., 76–77.
  86. Luz, Parallels Meet.
  87. Zeira, We Are Torn Apart.
  88. Liebman e Don-Yehiya, Civil Religion in Israel; Don-Yehiya e Liebman, "The Symbol System of Zionist-Socialism"; Don-Yehiya, "Secularization, Negation and Accommodation".
  89. Tsur, "Pesach in the Land of Israel".
  90. Zerubavel, Recovered Roots.
  91. Don-Yehiya e Liebman, "The Symbol System of Zionist-Socialism", 121.
  92. Almog, "Secular religion in Israel".
  93. Don-Yehiya, "Secularization, Negation and Accommodation", 29.
  94. Don-Yehiya and Liebman, "The Symbol System of Zionist-Socialism", 121.
  95. Come è stato fatto dal movimento “Young Hebrews” o “Canaanite” (cfr. Cap. 7), o dai suoi successori, che rifiutano lebraismo come derivante dal loro rigetto del sionismo, vedasi Sand, How I Stopped Being a Jew.
  96. Liebman e Don-Yehiya, Civil Religion in Israel.
  97. Don-Yehiya, "Secularization, Negation and Accommodation", 30.
  98. Masortiyut, o "tradizionismo" è stato originariamente concettualizzato attraverso la dicotomia "religioso vs secolare" come una categoria residua di coloro che non sono né laici né religiosi. Successivamente gli è stato positivamente instillato un significato che mira a trascendere la dicotomia. Cfr. Yadgar, Secularism and Religion in Jewish-Israeli Politics; Yadgar, "Traditionism"..
  99. Liebman e Don-Yehiya, in Civil Religion in Israel, 30, etichettano la posizione sionista-socialista verso la tradizione come "confrontation".
  100. Shoham, Let’s Celebrate offre una discussione esaustiva sulle "festività civili" israeliane e il loro rapporto con la tradizione ebraica; si veda anche il suo lavoro sulla riscrittura sionista di Purim: Shoham, Carnival in Tel Aviv.
  101. Così, ad esempio, nel caso della riscrittura socialista-sionista del messaggio di Chanukkah, in cui la dichiarazione “A miracle did not happen to us, we did not find a cruse of oil” è diventata una nozione centrale di un festa tradizionalmente celebrata per onorare questi miracoli. Cfr. Don-Yehiya, "Hanukkah and the Myth of the Maccabees in Ideology and in Society".
  102. Per una rassegna completa della storia e dell'ideologia del sionismo religioso, cfr. Schwartz, Religious Zionism.
  103. Salmon, "Religion and Nationalism", 117.
  104. Specialmente Marty e Appleby, Fundamentalisms Observed; Marty e Appleby, Fundamentalisms and Society; Marty e Appleby, Fundamentalisms and the State. Vale la pena riportare l'aspra critica di Peter Berger al Fundamentalism Project: "So-called fundamentalism was assumed to be a strange, difficult-to-understand phenomenon; the purpose of the Project was to delve into this alien world and make it more understandable. But here came another question: Who finds this world strange, and to whom must it be made understandable? The answer to that question was easy: people to whom the officials of the MacArthur Foundation [who funded the Project] normally talk, such as professors at American elite universities. And with this came the Aha! experience: The concern that must have led to this Project was based on an upside-down perception of the world. The notion here was that so-called fundamentalism (which, when all is said and done, usually refers to any sort of passionate religious movement) is a rare, hard-to-explain thing. But in fact it is not rare at all, neither if one looks at history, nor if one looks around the contemporary world. On the contrary, what is rare is people who think otherwise. Put simply: The difficult-to-understand phenomenon is not Iranian mullahs but American university professors. (Would it, perhaps, be worth a multi-million-dollar project to try to explain the latter group?) The point of this little story is that the assumption that we live in a secularized world is false." Berger, "Secularism in Retreat", 3.
  105. Aran, "A Mystic-Messianic Interpretation of Modern Israeli History"; Aran, "From Religious Zionism to Zionist Religion".
  106. Liebman, "Extremism as a Religious Norm".
  107. Cavanaugh, The Myth of Religious Violence.
  108. Cohen, "Changes in the Orthodox Camp and Their Influence on the Deepening Religious-Secular Schism at the Outset of the Twenty-First Century".
  109. Inbari, Messianic Religious Zionism Confronts Israeli Territorial Compromises; cfr. anche Ravitzky, Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism.
  110. Cohen, "Patriotism and religion".
  111. Su Kook cfr. Schwartz, The Religious Genius in Rabbi Kook’s Thought; Mirsky, Rav Kook.
  112. Cfr. Batnitzky, How Judaism Became a Religion, 95; Ravitzky, Messianism, Zionism, and Jewish Religious Radicalism, 34.
  113. Leibowitz, Judaism, Human Values, and the Jewish State.
  114. Hadad, "Religious Zionism".
  115. Ibid.
  116. Per un’attenta valutazione storica, politica e ideologica del sionismo revisionista, cfr. Kaplan, The Jewish Radical Right.
  117. Per un elenco completo della letteratura rilevante cfr. Naor, "Epicureans Also Have a Share in Sinai", 131 ss. 1. Anche Don-Yehiya, "Between Nationalism and Religion"; Ratzabi, "Jabotinsky and Religion".
  118. Jabotinsky, My Father, Zeev Jabotinsky, 95.
  119. Jabotinsky, My Father, Zeev Jabotinsky, 95. L'altro leader sionista a cui si riferisce è Theodor Herzl, la cui posizione antireligiosa sarebbe stata censurata dai suoi successori.
  120. Don-Yehiya, "Between Nationalism and Religion", 161.
  121. Jabotinsky, Ketavim, 116.
  122. Ibid., 119.
  123. Don-Yehiya, "Between Nationalism and Religion", 166.
  124. Ibid., 161.
  125. Ciò che Liebman e Don-Yehiya chiamano nel 1983 "la nuova religione civile", propagata da Menachem Begin. Liebman e Don-Yehiya, Civil Religion in Israel, cap. 5.
  126. Naor, "Epicureans Also Have a Share in Sinai", 131–133.
  127. Jabotinsky, My Father, Zeev Jabotinsky, 106.
  128. Ratzabi, "Jabotinsky and Religion".
  129. Naor, "Epicureans Also Have a Share in Sinai", 134.
  130. Liebman e Don-Yehiya, Civil Religion in Israel, cap. 4.