Ascoltare l'anima/Capitolo 5

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La esfinge di Davegore (1988)

Enigmi e paradossi[modifica]

« How can I define aesthetics
Without thinking about
The beauty of the Universe?

If the Universe is the cornerstone
Of conceptual definition,
Then anything else loses meaning

Nothing can compare
Not a thing
The Nothingness of Aesthetics

The supreme beauty of indefiniteness
Since Beauty cannot be defined
Not by humans, surely
Not by me. »
(Daubmir, Beauty Values)

Problemi[modifica]

Nel Capitolo 4 ho spiegato come e perché le nostre risposte emotive sono un modo per comprendere un romanzo (o un'altra narrativa) e come possono, e spesso dovrebbero, servire come base per le interpretazioni. Avere le proprie emozioni evocate mentre si legge un romanzo realistico è spesso non solo desiderabile ma anche necessario per una corretta comprensione del romanzo. Ma nel definire questo punto di vista, ho ignorato una serie di potenziali problemi. Nel presente Capitolo affronterò alcuni di questi potenziali problemi. I lettori che non sono interessati ai dettagli delle argomentazioni filosofiche, e che sono già convinti di quanto dico, possono saltare questo Capitolo se lo desiderano.

Prima obiezione: molti romanzi non richiedono coinvolgimento emotivo[modifica]

Riconosco di certo che molti romanzi non richiedono un intenso investimento emotivo nei personaggi. Posso leggere un "giallo" o un "romanzo rosa" senza essere emotivamente turbato dai personaggi, semplicemente perché lo vedo solo come un membro caratteristico di un particolare genere. Non c'è bisogno che io entri nei sentimenti dell'investigatore o del signorotto di campagna o del maggiordomo: sono solo personaggi di serie che si comportano in modo scontato. D'altra parte, anche i generi della letteratura di consumo evocano alcune emozioni, sebbene possano essere emozioni di consumo, appunto. Sarebbe un giallo fallito se non ci rendesse curiosi e pieni di suspense su come finirà, e un fiasco se una storia d'amore rosa non suscitasse sentimenti di soddisfazione quando l'eroina viene salvata dal misterioso eroe ombroso e aitante.

Più interessanti sono quei romanzi che tentano deliberatamente di impedire al lettore di essere coinvolto emotivamente anche nello sviluppo della trama. Italo Calvino è un maestro in questo genere di cose: arringa il lettore come se fosse un personaggio che si comporta male e poi lo trasforma proprio in un personaggio del genere. Al lettore non è mai permesso dimenticare se stesso ed entrare emotivamente nelle disavventure e nelle tribolazioni di (altri!) personaggi. Un altro autore contraddittorio, Robert Coover, frammenta la sua narrativa come fa Calvino, e inventa anche personaggi che sono per eccellenza "personaggi", costruzioni comiche viste dall'esterno. Questi romanzi sono scritti come reazione al tipo di lavoro di cui ho discusso: mettono in primo piano gli aspetti formali del romanzo e minimizzano il contenuto della storia. (Avrò molto altro da dire sulla forma nel Capitolo 7.)

Un diverso tipo di trucco è giocato da Ian McEwan nel suo bestseller, Atonement (Espiazione). Il romanzo incoraggia il lettore a farsi coinvolgere emotivamente dalla storia e dai personaggi, solo per rivelare alla fine che l'epilogo della storia è una bugia: si scopre che (nella narrativa di McEwan) la storia è stata scritta da uno dei suoi personaggi e che ha manipolato il finale, in modo che ciò che avrebbe dovuto essere "successo davvero" in realtà non è successo. Nel cercare l'espiazione per un crimine commesso da bambina, questo personaggio/autore ha "sistemato le cose" nella finzione anche se nella "vita reale" sono andate terribilmente storte. McEwan conclude il romanzo con una meditazione nella mente del suo autore immaginario sul potere di un autore di manipolare il lettore: "how can a novelist achieve atonement when, with her absolute power of deciding outcomes, she is also God?" Il romanzo è profondamente inquietante proprio perché McEwan è così bravo a scrivere quello che apparentemente è un romanzo realistico e ad evocare le emozioni del suo lettore. È inquietante scoprire che uno ha "sprecato" tutta quell'energia emotiva in un romanzo, anche se ovviamente abbiamo sempre saputo che era un romanzo; solo non sapevamo che anche romanzescamente fosse un romanzo!

Tutti questi esempi sono di romanzi che giocano deliberatamente con le convenzioni e le tradizioni della narrativa realistica e sovvertono deliberatamente la nostra tendenza a essere coinvolti emotivamente in tale narrativa. Sono inoltre propenso a riconoscere che tali romanzi esistono e che in effetti oggi tendono ad essere tra i più interessanti. Quello che sto suggerendo è che una lettura priva di emozioni di Tolstoj o di Henry James o di altri romanzi realistici tradizionali, mentre senza dubbio rivela alcuni degli aspetti importanti di un romanzo, è seriamente inadeguata e che un coinvolgimento emotivo personale con i personaggi e la storia, è essenziale per una corretta comprensione di romanzi di questo tipo.

Seconda obiezione: Reagiamo veramente ai romanzi in modo corporeo?[modifica]

In effetti sudiamo e imprechiamo e piangiamo e gemiamo mentre sediamo a teatro a guardare uno spettacolo o in soggiorno rannicchiati con un romanzo? In altre parole, data la mia insistenza sul fatto che una risposta emotiva è una risposta fisiologica, si potrebbe obiettare che non reagiamo mai o quasi mai con autentica emozione alle opere letterarie. Una risposta a questa obiezione potrebbe essere quella di indicare il pubblico nel cinema più vicino durante un film di suspense, una scena d'amore, una routine comica o un film dell'orrore. Si udirebbero tutti i tipi di gemiti sommessi e maledizioni, singhiozzi, risate e improvvise aspirazioni. E se potessimo accendere le luci ed esaminare le pulsazioni e le risposte galvaniche della pelle, troveremmo molti cuori che battono, palmi sudati e simili. Alcuni spettatori mostrano sintomi ancora più chiari di coinvolgimento emotivo, gridando "Brava!" a Beatrice quando ha la meglio su Benedetto o, mentre Leonardo DiCaprio prende il veleno alla fine di Romeo e Giulietta, gridano spontaneamente "Oh no! Sta per morire?"

Meglio ancora, ora esiste una ricerca empirica che mostra che le persone sperimentano effettivamente i cambiamenti fisiologici caratteristici delle emozioni durante la lettura di un testo. Ad esempio, Vrana e i suoi collaboratori hanno mostrato che "recall of sentences that describe fearful situations resulted in greater heart rate increase than recall of less affectively arousing text".[1] Paul Harris esamina una serie di studi di Peter Lang e del suo gruppo che mostrano anche che quando leggendo un testo che descrive un incontro spaventoso, "some of the visceral accompaniments to fear (i.e. heart‐rate acceleration and skin conductance) are triggered".[2] È interessante notare che le reazioni di paura a un brano sui serpenti producono una reazione più potente nelle persone che hanno una paura fobica dei serpenti.

Forse ha senso che le persone rispondano con paura a pensieri di orrori che temono nella vita reale. Ma perché emozionarsi per Anna Karenina? Dopotutto, nessuno di noi conosce una nobildonna russa del diciannovesimo secolo. Perché dovremmo rispondere fisiologicamente ai suoi problemi? Ci sono alcune prove empiriche per far luce su questa domanda. In un esperimento di Jose e Brewer, ad esempio, i bambini hanno letto delle storie e poi è stato chiesto loro di valutare "how similar they were to the main character, how much they liked that character and how much they worried about the character when he or she was in danger".[3] L'esperimento ha mostrato che i bambini erano molto preoccupati per i personaggi buoni di una storia, che a loro piacevano di più quei personaggi, e anche che si giudicavano più simili a quei personaggi. Jose e Brewer hanno suggerito che fosse l’identificazione con i personaggi a preoccupare i bambini per tali personaggi, ma anche se non assumiamo questa ipotesi, l'esperimento suggerisce una connessione tra il coinvolgimento emotivo con un personaggio e pensare a loro come in qualche modo "come me" o, come ho detto in precedenza, come "me o i miei". Quindi ha senso reagire emotivamente ad Anna se stiamo rispondendo a lei come, per certi aspetti, a qualcuno come me (o alla mia cara vecchia mamma).

Può darsi che i film evochino risposte fisiologiche più potenti dei romanzi. Sarebbe interessante conoscere la verità su questa questione empirica. I risultati della frequenza cardiaca di Vrana sono indicativi in quanto è stato riscontrato un aumento della frequenza cardiaca sia nei soggetti che hanno articolato silenziosamente la frase che induce paura sia in coloro a cui è stato chiesto di formare immagini mentali appropriate, ma le risposte cardiache erano più marcate in quei soggetti che formavano immagini mentali.

D'altra parte, non voglio impegnarmi ad affermare che le risposte emotive, cioè fisiologiche, sono sempre presenti quando assistiamo a un film o leggiamo un romanzo. Forse possiamo formare il punto di vista appropriato per un particolare stato emotivo senza alcun cambiamento fisiologico. Se ciò sia possibile è una questione empirica. Ma ci sono almeno due modi per spiegare questa possibilità: o non mi interessa abbastanza di quello che sta succedendo nel romanzo o nel film affinché il mio punto di vista si sia registrato nei cambiamenti del corpo, oppure esibisco cambiamenti del corpo che vengono soppressi.

In primo luogo, come abbiamo visto nel Capitolo 3, è possibile nel linguaggio ordinario o in termini pop-psicologici essere arrabbiati per qualcosa senza provare emozioni al riguardo. Similmente, forse un romanzo o un film può riuscire a indurci a formulare pensieri appropriati sugli eventi e sui personaggi raffigurati, ma senza che ci sentiamo davvero emotivi nei loro confronti. Ci sono molte ragioni per cui ciò potrebbe accadere, dall'inadeguatezza da parte dell'autore alla distrazione e alla fatica da parte del pubblico. In questi casi, per qualsiasi ragione, presumibilmente non mi preoccupo abbastanza dei personaggi, o – che è più o meno la stessa cosa – non sento i miei interessi e desideri essere sufficientemente in gioco per evocare una risposta emotiva (fisiologica). Non sto reagendo ad Anna Karenina come farei con una dei miei. Ho pensieri compassionevoli su di lei, ma senza i concomitanti fisiologici della tristezza. Oppure temo per Romeo (o Leonardo) senza aumento del battito cardiaco o conduttanza cutanea. Detto questo, tuttavia, vorrei sottolineare che avere un punto di vista compassionevole o pauroso su qualcuno o qualcosa in genere produce una risposta fisiologica, proprio per il modo in cui siamo fatti. E resta da vedere se sia empiricamente possibile avere pensieri tristi o paurosi senza alcun disturbo fisiologico.

In secondo luogo, come ha mostrato Paul Ekman, le espressioni emotive sono spesso soppresse, secondo le regole espositive della propria cultura. Può darsi che nel caso delle risposte alla finzione, la valutazione non-cognitiva Questo non mi piace produca una risposta emotiva, ma che questa venga rapidamente soppressa a causa di una successiva valutazione cognitiva: È solo una storia. Anche se alcuni di noi ammetteranno di leggere un romanzo con le lacrime che ci rigano i volti, o di scoppiare a ridere per una storia mentre siamo soli nel nostro salotto, molte persone indubbiamente si sentono sciocche sedute da sole in lacrime "senza una buona ragione". Allo stesso modo, sospetto che, almeno nella nostra cultura, le donne avranno meno inibizioni al riguardo rispetto agli uomini. È interessante notare che, in un esperimento sull'ascolto della musica, Carol Krumhansl ha dimostrato che le risposte emotive alla musica sono più vicine alla condizione emotiva repressa proposta da uno studio di Gross e Levenson.[4]

Terza obiezione: ignoro le manipolazioni autoriali[modifica]

Un'altra obiezione alla mia immagine del coinvolgimento emotivo con i personaggi nei romanzi è che le mie risposte potrebbero in realtà non riflettere i miei interessi, obiettivi, desideri e bisogni, simpatie e antipatie. L'autore mi ha manipolato facendomi abbandonare i miei soliti interessi, obiettivi e desideri e adottando qualche nuovo set solo per gli scopi del romanzo. Un esempio inquietante si verifica nel film Pulp Fiction, quando in un episodio siamo incoraggiati a trovare divertante la vista del personaggio di John Travolta che spara a qualcuno in faccia. Se ridiamo, potremmo essere inorriditi in seguito quando riflettiamo sulla nostra risposta emotiva e forse arrabbiarci con Tarantino per averci manipolato in questo modo. Ci risentiamo d'essere incoraggiati ad agire in modi che, riflettendoci, riteniamo immorali. Dall'altra parte della medaglia, Susan Feagin ha sottolineato che ci sono "selfish sentimentalists" che piangono per dei personaggi di fantasia pur ignorando le loro stesse famiglie, i poveri, i senzatetto, ecc.[5] Tali persone sono manipolate dall'autore per farle essere (anche se brevemente) persone migliori di quanto non siano in realtà, mentre nell'esempio di Pulp Fiction siamo incoraggiati a essere peggiori.

Questo fenomeno è una vera preoccupazione e solleva l'intera questione del ruolo dell'autore nel guidare le nostre risposte emotive. Per ora, notiamo semplicemente che mentre leggo un romanzo o guardo un film o un'opera teatrale, i miei interessi, desideri e obiettivi potrebbero effettivamente differire da quelli che ho quando non leggo o non guardo. Questo non pregiudica il mio punto di base. Rispondiamo emotivamente a ciò che percepiamo e pensiamo, soprattutto se presentato in immagini vivide. Valutiamo affettivamente la situazione presentata come terribile, meravigliosa o altro, perché ci viene presentata come un ostacolo o un'agevolazione di quelli che in quel momento sono i nostri obiettivi, desideri e interessi. È importante ricordare che le reazioni emotive sono automatiche e istintive: non ci fermiamo a chiederci se, tutto sommato, consideriamo l'eroina sofferente o l'azione di Travolta divertente (anche se in seguito, ovviamente, potremmo fare proprio questo).

Quarta obiezione: che dire delle risposte emotive inadeguate?[modifica]

Un corollario di una teoria dell'interpretazione della risposta del lettore è che lettori diversi forniranno interpretazioni diverse in base alle loro diverse esperienze emotive dell'opera in questione. Questo credo sia un risultato positivo. (Come vedremo alla fine del Cap. 6, ciò è vero anche se accettiamo l'idea di un "lettore implicito" che dà un'interpretazione "corretta" di un testo.) La maggior parte delle persone concorda sul fatto che le grandi opere d'arte ammettono un'ampia gamma di interpretazioni "valide". Il mio punto di vista spiega come questo possa essere. Poiché le interpretazioni sono il risultato del monitoraggio cognitivo delle nostre valutazioni affettive non-cognitive e poiché è probabile che tali valutazioni non-cognitive siano diverse per persone diverse con obiettivi, desideri e interessi diversi, è probabile che ci sia disaccordo sulla risultante panoramica cognitiva di trama, personaggio e tema.

Ma che dire delle risposte che sembrano essere semplicemente inadeguate: odio implacabile per Strether, diciamo, o godimento divertito a Macbeth, o disgusto e ribrezzo per Anna Karenina? Si possono immaginare situazioni in cui una persona potrebbe avere tali reazioni. Ad esempio, il disgusto e il ribrezzo per Anna potrebbero essere vissuti da una donna che pensa che il lavoro più importante di una madre nella vita sia proteggere i suoi figli e che è sconvolta dall'adulterio in qualunque situazione. Per permettere a questi sentimenti di colorare la sua intera interpretazione del romanzo, una tale lettrice dovrebbe rifiutarsi di provare la sofferenza di Anna; dovrebbe ignorare o rifiutare gran parte di ciò che ha scritto Tolstoj. Posso convincere qualcuno a negare una tale interpretazione? Dipende. La persona potrebbe essere disinteressata o riluttante a vivere il romanzo in altro modo; potrebbe rifiutarsi di aprirsi agli aspetti del romanzo che le mancano. Ma quello che posso fare veramente è mostrare che tale lettrice sta ignorando gran parte del romanzo.

Un'interpretazione pretende di essere una panoramica, che dà un senso all'opera quanto più possibile e in modo coerente.[6] Questo rimane vero anche quando la base delle nostre interpretazioni è una serie di esperienze emotive. Ancora una volta, se odio Anna fin dall'inizio, solo perché è una russa o una nobildonna (o entrambi), allora non sarò in grado di risponderle con simpatia, e ancora una volta gran parte del significato della sua storia mi sfuggirà. Se non ho idea di cosa significhi vivere in un altro paese o in un'altra cultura, posso semplicemente essere sconcertato dalla storia di Anna o annoiato dalla mia incomprensione: non ho abbastanza in comune con il romanzo perché le mie emozioni siano del tutto coinvolte. Se tali letture suonano così bizzarre da non valere la pena parlarne, dovremmo ricordare che la maggior parte delle persone risponde ai romanzi in modo personale. Non è necessariamente una cosa negativa per le persone rispondere in modo personale, collegando ciò che leggono con le proprie esperienze e in grado di rispondere emotivamente perché i propri desideri e interessi sono stati suscitati con successo. Sarebbe una cosa negativa, tuttavia, se la nostra stessa mancanza di consapevolezza o i nostri interessi personali idiosincratici ci proibissero o ci impedissero di ampliare i nostri orizzonti emotivi interagendo empaticamente con persone che sono diverse da noi in modi significativi. Se il lettore non è in grado di trattare queste persone come parte dei "miei", allora potrebbe perdere del tutto il significato del romanzo.

Non è difficile sradicare tutte le interpretazioni che ignorano enormi porzioni del romanzo o che non mostrano una comprensione basilare delle parole sulla pagina. Ma di necessità si può dimostrare che ogni interpretazione ignori alcuni aspetti di un'opera. Interpretazioni diverse enfatizzano necessariamente alcuni aspetti e ne sottovalutano altri.[7] Ecco perché ci saranno sempre interpretazioni diverse, tutte valide in quanto tengono conto dell'opera nel suo insieme (più o meno). Nelle letture accademiche di romanzi spesso si soffre non tanto di un'emotività ingenua o dogmatica, ma di un problema diverso: il coinvolgimento emotivo insufficiente. L'ingegnosità cognitiva è spesso più apprezzata dell'intuizione emotiva. Ma un incontro significativo con una grande opera d'arte è spesso un insieme di esperienze altamente emotive.[8] Nella prospettiva che ho qui delineato, interpretazioni multiple della stessa opera d'arte non solo sono possibili ma vanno incoraggiate e celebrate; poiché rappresentano riflessioni su un coinvolgimento emotivo genuino con l'opera in questione.

Quinta obiezione: Il paradosso della fiction[modifica]

Passo ora all'obiezione più celebre contro l'idea che rispondiamo emotivamente ai personaggi e agli eventi nei romanzi, nelle opere teatrali e nei film: il cosiddetto paradosso della fiction. Come possiamo provare compassione per Anna, divertimento a spese di Strether e repulsione per Macbeth se sappiamo perfettamente che nessuna di queste persone esiste davvero? Quasi nessuna delle persone che hanno scritto su questo argomento ha proposto una valida teoria delle emozioni, tuttavia il modo in cui si risponde a questo problema dipenderà in gran parte da ciò che si pensa sia un'esperienza emotiva.[9] Il problema è sorto perché le persone pensavano che la teoria del giudizio emotivo fosse vera: se la compassione per Anna implica necessariamente la convinzione che ella si senta in terribile angoscia, allora ovviamente c'è un problema se allo stesso tempo so perfettamente che lei non esiste. Come posso provare compassione per una donna che sentiva la sua vita così intollerabile da buttarsi sotto un treno, quando so allo stesso tempo che non c'è tale donna, né alcuna situazione intollerabile e nessun treno?

In generale, la risposta a questa domanda è che sapere di essere emotivamente coinvolti con personaggi ed eventi immaginari o di fantasia non altera le nostre valutazioni affettive non-cognitive. Una risposta emotiva a qualcosa-o-qualcuno non richiede la convinzione che il qualcosa-o-qualcuno esista. Se ciò è giusto, allora il paradosso della finzione non è affatto un paradosso. Lasciatemi spiegare...

Abbiamo risposte emotive a ogni sorta di cose, sia reali che immaginarie, sia percepite che semplicemente pensate, sia possibili che impossibili. Posso sorridere tra a me e me, con amore e tenerezza, mentre penso a mia moglie che lavora nel suo laboratorio (cosa che in effetti sta facendo), ma posso anche portarmi piangere immaginandola morire in un incidente aereo (cosa che non ha fatto). Posso provare compassione per la mia vicina di casa tormentata, che esiste, come anche per Anna Karenina, che non esiste, ma la cui storia potrebbe plausibilmente rivelarsi non fittizia: dopotutto Tolstoj l'ha basata su un resoconto che aveva letto in un giornale riguardo a una giovane donna che si era davvero buttata sotto un treno. Ma posso anche provare compassione per qualcuno che so non può esistere, come quando provo compassione per Little Grey Rabbit che viene catturata dalle malvagie donnole e costretta a badare a una casa per loro. Provo compassione per lei, anche se non sono incline a riconoscere la possibilità dell'esistenza di una coniglietta che indossa un grembiule blu e tiene una casetta ordinata con uno scoiattolo e una lepre.[10] Sospetto che possiamo vedere qualsiasi cosa emotivamente, presente o assente, esistente o inesistente, concreta o astratta. Dopotutto, sembra che alcuni individui possano vedere persino i numeri emotivamente: "The mathematician Wim Klein has put this well: ‘Numbers are friends for me, more‐or‐less. It doesn't mean the same for you, does it—3,844? For you it's just a three and an eight and a four and a four. But I say, Hi! 62 squared!"[11]

Rispondiamo emotivamente non solo a ciò che sta accadendo davanti a noi, ma a qualsiasi cosa a cui prestiamo attenzione, sia nell'ambiente esterno che nell'ambiente interno della nostra mente. Tutto ciò che è minimamente richiesto affinché si verifichi una risposta emotiva è una valutazione affettiva non-cognitiva seguita da cambiamenti fisiologici di un certo tipo, seguiti a loro volta da una valutazione cognitiva della situazione (ogni aspetto del processo si alimenta con gli altri). Questo processo emotivo si innesca quando sentiamo che sono in gioco i nostri desideri, obiettivi, interessi, ecc. o quelli della nostra famiglia o del nostro gruppo. Quando sono emotivamente coinvolto con Anna Karenina, mi concentro su di lei, valuto ciò che leggo su di lei in modo affettivo (non-cognitivo) e questa valutazione si traduce in sintomi fisiologici e tendenze all'azione (che a loro volta rafforzano la mia attenzione), seguiti da valutazioni e rivalutazioni cognitive. Seguendo l'analisi della compassione proposta da Blum, quando rispondo ad Anna con una reazione emotiva di compassione, sto rimuginando con fantasia sul suo destino, ho una considerazione attiva per il suo benessere, la vedo come un essere umano e rispondo con "emotional responses of a certain degree of intensity". Niente di tutto ciò implica che io creda che Anna esista. Posso soffermarmi con immaginazione sul suo destino e avere speranze e desideri per lei anche mentre sono fermamente convinto della sua inesistenza.

Alcuni filosofi pensano che sia assurdo dire che sto reagendo emotivamente ad Anna Karenina poiché lei non esiste e so che non esiste, quindi forse sto reagendo a una qualche controparte reale di Anna Karenina: sto reagendo a una persona che è proprio come Anna in tutti i dettagli tranne per il fatto che questa persona, a differenza di Anna, esiste. Ma poi altri filosofi ribattono con l'argomentazione che non è per una qualche controparte di Anna che abbiamo pietà, ma per Anna stessa. Alcune persone dicono anche che la nostra pietà è diretta al pensiero di Anna, non una donna in carne e ossa, ma la risposta a questo argomento è che non siamo compassionevoli verso un pensiero (qualunque cosa significhi), ma verso una donna. E così via, in una discussione che dura da trent'anni.

Ciò che tutta questa discussione ignora è il fatto che sebbene i filosofi si guadagnino da vivere facendo questo tipo di distinzioni, la nostra psicologia no. Le valutazioni affettive precognitive non discriminano tra scenari reali e immaginari: rispondo emotivamente a tutto ciò che sembra avere attinenza con i miei interessi e con coloro a cui sono vicino (la mia famiglia, il mio gruppo, i miei simili). Non importa per i miei sistemi emotivi (paura, rabbia, tristezza, ecc.) se sto rispondendo al reale, al meramente immaginato, al possibile o all'impossibile. Una scultura di Maria affranta o un romanzo sul triste destino di una nobildonna russa possono evocare compassione con la stessa facilità di una situazione di vita reale percepita o pensata. In effetti, a volte un pensiero vivido può evocare un'emozione in modo più potente di una convinzione presa seriamente. Dopo la risposta iniziale, però, ci sarà il monitoraggio cognitivo, che ci dice subito se stiamo piangendo su un blocco di marmo o su una donna in carne e ossa, se abbiamo pietà di una persona reale o immaginaria. Questo monitoraggio cognitivo alimenterà la risposta originale e modificherà i sintomi fisiologici e le tendenze all'azione innescate. Possiamo piangere, ma non raccomanderemo alla Santa Madre una terapia sul dolore, né suggeriremo ad Anna di trovarsi un buon avvocato.

Recenti testimonianze empiriche hanno confermato questa conclusione. Paul Harris ha studiato come i bambini rispondono emotivamente alle situazioni fittizie anche quando sanno che le situazioni sono solo immaginarie.[12] Ci sono altri studi che dimostrano che le persone rispondono affettivamente anche quando sanno che la risposta è razionalmente ingiustificata. Alcuni buoni esempi vengono dalla letteratura sul disgusto: le persone si rifiutano di mangiare caramelle a forma di escremento di cane o di bere da un bicchiere di succo in cui è stato inzuppato uno scarafaggio sterilizzato. E se versi lo zucchero in due bottiglie vuote nuove di zecca, una delle quali è etichettata come zucchero e l'altra come veleno, e poi fai l'acqua zuccherata in due bicchieri, uno con lo zucchero della bottiglia contrassegnata come tale e l'altro dalla bottiglia contrassegnato come "veleno", le persone preferiscono di gran lunga assaggiare l'acqua zuccherata ricavata dal contenuto della bottiglia contrassegnata come zucchero.[13]

Reagire emotivamente[modifica]

Anna Karenina incontra suo figlio, illustrazione di Michail Vrubel (1878)

Anche se ho ragione sul paradosso della fiction, tuttavia, il punto originale di Colin Radford potrebbe essere comunque vero: le nostre reazioni emotive alle entità immaginarie potrebbero essere irrazionali (proprio come il comportamento dei soggetti zucchero-acqua è irrazionale).[14] È così? Molte persone non sono state disposte a concordare sul fatto che un'attività così normale, socialmente accettata e diffusa come la lettura (o l'ascolto) di storie dovesse rivelarsi irrazionale. Ma, a rigor di termini, Radford ha ragione. È irrazionale voler incontrare la donna perfetta, quando so o sospetto fortemente che non ci siano donne perfette (o uomini perfetti); è irrazionale piangere per lo scenario immaginario della morte di mia moglie in un incidente aereo; è irrazionale sentire in gioco i propri interessi quando Little Grey Rabbit viene rapita dalle donnole; forse è anche irrazionale amare il numero 3,844 (poiché non c'è molto che uno possa fare per dimostrare il proprio amore e l'amata probabilmente non ripaga il proprio affetto). Ma il fatto è che sentiamo che i nostri desideri, interessi e valori sono in gioco quando pensiamo a determinate persone, cose, situazioni ed eventi, anche quando sappiamo che in realtà non esistono, o non sono effettivamente avvenute.

Tuttavia, anche se da un punto di vista strettamente cognitivo è irrazionale avere desideri e obiettivi rispetto ad Anna Karenina e ai suoi simili, non è "emotivamente irrazionale" e non è certo disadattivo. Come abbiamo visto nel Cap. 1, Pat Greenspan ha affermato che esistono criteri diversi per la "razionalità emotiva" rispetto a quelli per la razionalità delle credenze.[15] Si ricordi che nel suo caso di "mixed feelings" ogni risposta emotiva conflittuale si basa solo su un sottoinsieme dell'evidenza totale disponibile. Quando provo contemporaneamente felicità e infelicità per il fatto che il mio amico Gianni abbia vinto il premio (che volevo vincere io), queste "emozioni contrarie" sono sia "appropriate" sia quindi "fondamentalmente" razionali".[16] Inoltre, sostiene la Greenspan, se pensiamo della "razionalità basilare" delle emozioni in quanto "non determinate da criteri cognitivi", come se le emozioni dovessero essere trattate quali giudizi o credenze, allora il caso dei sentimenti contrastanti risulta essere razionale dopo tutto, sebbene non su basi cognitive. "On a standard of rationality that evaluates emotions according to their behavioural consequences — which takes into account, for instance, the social value of identification with others — ambivalence might sometimes be more rational than forming an ‘all things considered’ emotion that resolves the conflict."[17]

Greenspan sottolinea l'aspetto motivazionale delle emozioni e asserisce che è un risultato più adattivo se mantengo sia il senso dei miei interessi sia anche la mia identificazione con quelli del mio amico. Una reazione ponderata alla vittoria di Gianni potrebbe forse rivelarsi "una reazione negativa alquanto temperata". Ma in questo caso "I would no longer participate in [my friend's] emotion, and share [his] point of view.". Parimenti, una reazione neutra "would also fail to express my identification with my friend's interests: I simply would not care who happened to win." Greenspan commenta:

« The philosopher's ideal of ‘perfect’ rationality is often an ideal of detachment from particular points of view. But with emotions taken as motivating attitudes, whose behavioral effects are ordinarily open to control, I think it is clear that conflict between emotional extremes may sometimes serve a purpose that would not be served by moderation. Commitment to different points of view, in short, can motivate behavior unlikely to arise from emotional detachment. »
(Greenspan, "A Case of Mixed Feelings", 240)

Il punto di Greenspan è che è più adattivo – e quindi "fondamentalmente" più "razionale" – simpatizzare con i sentimenti del mio amico, qualunque sia la mia visione generale della situazione, poiché è quindi più probabile che mi comporti in modi che rafforzino, piuttosto che danneggiare, l'amicizia. Inoltre, in generale, i comportamenti basati su questo tipo di simpatia favoriscono il bene sociale. "Genuine emotional identification with others, then, motivates spontaneous sympathetic behavior, behavior that expresses our concern for others' interests for their own sake. ...[Such] behavior facilitates social relations, and thus promotes an important human end, in a way that detached behavior, or behavior arising from tempered self‐interest, would not be likely to."[18]

Greenspan si concentra qui su un caso di "sentimenti contrastanti" e lo utilizza per sostenere la "basic rationality" delle emozioni, anche quando sembrano essere in conflitto su basi cognitive. Ma la sua conclusione ha ampie ramificazioni. In particolare, ha implicazioni per la "basic rationality" di rispondere emotivamente alle fiction. Poiché è uno degli scopi e delle ricompense importanti dell'impegnarsi emotivamente con storie e altre fiction, che ci incoraggi a simpatizzare e persino a identificarci con personaggi di fantasia. Ciò che l'argomento di Greenspan dimostra è che è "basically rational" e certamente adattivo rispondere emotivamente alle prove e alle tribolazioni, alle gioie e ai trionfi di altre persone (e persino delle conigliette). È adattivo essere in grado di percepire i propri desideri e bisogni, interessi e obiettivi, in ​​gioco quando si legge e si pensa ad Anna Karenina. Questo perché è adattivo rispondere a lei come se fosse una del mio "gruppo", proprio come nell'esempio di Greenspan, è adattivo rispondere al mio amico come se fosse veramente un amico. Quando rispondo con compassione ad Anna, sto simpatizzando con il suo destino in un modo che è socialmente adattivo.

Ulteriori complicazioni[modifica]

In un articolo introduttivo a un volume di saggi intitolato Emotion and the Arts, Jerrold Levinson esamina le numerose e varie proposte che sono state offerte nel corso degli anni come soluzioni al paradosso della fiction. Egli caratterizza il paradosso come generato dall'accettazione di tre proposizioni apparentemente inconsistenti:

(a) Spesso proviamo emozioni per personaggi e situazioni di fantasia noti per essere puramente immaginari;
(b) Le emozioni per gli oggetti presuppongono logicamente credenze nell'esistenza e nelle caratteristiche di quegli oggetti;
(c) Non nutriamo convinzioni sull'esistenza e sulle caratteristiche di oggetti noti come fittizi.[19]

Potrebbe aiutare a situare la mia proposta se mostro come si inserisce nella tassonomia di soluzioni possibili proposte da Levinson. In generale, nei termini di come Levinson ha descritto il paradosso, la mia soluzione assume la forma di negare (b).

1. La "non‐intentionalist solution" afferma che le risposte emotive alla finzione "are not, despite appearances, instances of emotions as such, but rather of less complex states, such as moods (e.g. cheerfulness) or reflex reactions (e.g. shock), which lack the full intentionality and cognitivity of emotions per se". Levinson commenta che questa soluzione proposta, anche se valida, si applicherebbe solo "to a small portion of the full range of developed responses to fictions".[20]

La mia replica sarebbe che le risposte emotive alla fiction, come a qualsiasi altra cosa, sono sempre basate su una valutazione non-cognitiva e automatica, e quindi sotto questo aspetto tutte le risposte emotive sono piuttosto simili a certe reazioni riflesse come il meccanismo del sussulto: seguono volenti o nolenti da valutazioni affettive automatiche. L'idea che le emozioni propriamente parlando debbano avere "piena intenzionalità e cognitività" è semplicemente sbagliata.

2. La "soluzione della sospensione dell'incredulità", dovuta originariamente a Coleridge, afferma che durante la lettura di un romanzo o la visione di un'opera teatrale "temporarily allow ourselves to believe in the non‐existent characters and situations of the fiction". Levinson commenta che la soluzione "turns on a denial of (c), but it unacceptably depicts consumers of fiction as having a rather tenuous grip on reality and an amazing ability to manipulate their beliefs at will".[21]

La soluzione non è così sciocca come fa sembrare questa descrizione. Le risposte emotive implicano un focus selettivo dell'attenzione, ed è vero che mentre mi concentro su Anna e sulle sue disgrazie, non sto prestando attenzione al fatto che Non è reale. La mia attenzione può oscillare su e giù, poiché ora mi concentro su Anna come persona e poi su Anna come "personaggio", un dispositivo immaginario in una struttura di tali dispositivi.[22] In parole povere, romanzi realistici come Anna Karenina cercano di mantenere la nostra attenzione fermamente fissata sui personaggi come persone, mentre le storie postmoderne, come The Babysitter di Coover o anche Tristram Shandy di Sterne, cercano deliberatamente di impedire che la nostra attenzione venga assorbita dai personaggi e continuano a ricordarci che stiamo leggendo un romanzo (sveglia!). Quindi, anche se non sarei d'accordo con Coleridge sul fatto che "sospendiamo l'incredulità", o che nutriamo convinzioni in personaggi che sappiamo essere fittizi, c'è un senso in cui ha ragione se intende sottolineare che temporaneamente smettiamo di dare attenzione al fatto che i personaggi sono di fantasia.

3. Un altro possibile tipo di soluzione è la soluzione "surrogate‐object", una versione della quale suona un po' come la mia soluzione: è l'idea che "the objects of response" non sono individui reali, ma "the descriptions, images, propositions, or thought contents afforded by the fiction."[23] Questa soluzione implica negare (b) piuttosto che (a) e in questa misura sono d'accordo. Levinson critica tale punto di vista sulla base del fatto che le nostre risposte hanno "characters and situations as their evident objects, and not... the thoughts through which they are delineated".[24]

In questo libro ho cercato di evitare ogni discorso sugli oggetti dell'emozione, poiché la trovo un'idea mal definita e inutile.[25] Ovviamente quando mi dispiace per Anna Karenina, non mi dispiace per un pensiero, quale che sia o significhi. La ragione per cui mi dispiace non è il pensiero che si trovi in una situazione dolorosa, ma il contenuto di quel pensiero. Ed è il contenuto del pensiero su cui la mia risposta emotiva aiuta ad attirare la mia attenzione. Ma è davvero il pensiero che Anna si trovi in una situazione dolorosa – o qualcosa del genere – che provoca la mia risposta emotiva di compassione per lei. Sono le vivide rappresentazioni che formo, sulla base delle parole di Tolstoj, a suscitare le mie risposte emotive ad Anna.

Una versione più letterale della soluzione dell'oggetto surrogato è la soluzione dell'"shadow object (= oggetto ombra)", secondo la quale "the objects of response are real individuals or phenomena from the subject's life experiences, ones resembling the persons or events of the fiction, and of which the fiction puts the subject covertly or indirectly in mind."[26] Come ho già suggerito, questa è una soluzione insoddisfacente, perché stiamo rispondendo a pensieri su Anna Karenina, non a pensieri su una persona reale che sembra essere proprio come Anna. Detto questo, tuttavia, vale forse la pena sottolineare che il nostro coinvolgimento emotivo con Anna Karenina non è spiegabile indipendentemente dalla nostra propensione a coinvolgerci emotivamente con le persone del nostro gruppo che hanno avuto momenti difficili nella vita reale. Il motivo per cui ci commoviamo per Anna è che normalmente ci commoviamo per quelli del nostro gruppo che si trovano vulnerabili in un tipo di situazione simile.

4. Di tutte le possibili soluzioni discusse da Levinson, la "antijudgmentalist solution (= soluzione antigiudiziale)" si avvicina di più alla mia. Questa soluzione afferma quanto segue: "Emotional responses to objects do not logically require beliefs concerning the existence or features of such objects, but only weaker sorts of cognitions, such as seeing a certain way, or conceiving in a certain manner, or regarding as if such and such."[27] Questa proposta mette in dubbio la verità di (b), come faccio io.[28]

Levinson sostiene che esiste un continuum di stati emotivi che vanno dal primitivo e non-cognitivo, come il sussulto, a quello altamente cognitivo, come la compassione, e pensa che solo le emozioni primitive potrebbero adattarsi alla soluzione antigiudiziale. La pietà e altre emozioni più complesse "are centrally mediated by representations of various sorts…that serve to characterize the object of response":[29] pertanto, Anna Karenina è giudicata, o concepita come, in una situazione dolorosa. Inoltre, anche se – implausibilmente – emozioni cognitivamente complesse come la pietà per Anna Karenina non richiedono convinzioni "caratterizzanti", cioè convinzioni sulle proprietà che Anna possiede, tuttavia "we must, on pain of incoherence, be taking [Anna] to exist or be regarding [her] as existent".[30]

Ho sostenuto a lungo che le valutazioni affettive sono sempre primitive e rapide, e sempre e immediatamente produttive di cambiamenti fisiologici. In questo senso, le risposte emotive non richiedono alcuna cognizione, debole o meno, sebbene ovviamente la cognizione entri in una fase successiva del processo emotivo. Quindi è empiricamente falso che dobbiamo credere che qualche cosa esista prima di poter rispondere emotivamente ad essa. Quando comincio a piangere perché penso a Little Grey Rabbit rapita e lontana da casa, non credo che Little Grey Rabbit esista. I sistemi emotivi rispondono quando si sente che i propri desideri e interessi sono in gioco, indipendentemente dal fatto che lo siano davvero o anche dal fatto che si creda veramente che lo siano. Le emozioni non richiedono la fede nei loro "oggetti" per decollare. Dire che dobbiamo credere nell'esistenza di Little Grey Rabbit "on pain of incoherence" significa semplicemente che, come abbiamo visto, le emozioni non sono governate dagli stessi standard di razionalità delle credenze.

D'altra parte, come abbiamo anche visto, le emozioni umane sono spesso scatenate da pensieri complessi. Se ho una genuina risposta emotiva di compassione per Little Grey Rabbit, questa è una risposta a una complessa rappresentazione mentale di lei e delle sue caratteristiche. La mia risposta emotiva di compassione è innescata – veloce e automatica – da un pensiero o da una rappresentazione mentale di una buona coniglietta rapita dalle donnole malvagie e che soffre lontano da casa. Naturalmente i miei pensieri su Little Grey Rabbit devono essere del tipo giusto per essere considerati compassionevoli. Come abbiamo appreso nel Cap. 4, la compassione richiede una concezione dell'altra persona come sofferente in qualche modo e tipicamente implica soffermarsi sullo stato dell'altra persona, avere una considerazione attiva per il suo bene, vederla come una persona simile (sebbene non una persona-coniglio), con reazioni di angoscia e dolore.[31] Ma se ho il giusto tipo di concezione di Little Grey Rabbit, e il giusto tipo di considerazione per lei come persona simile e così via, allora è del tutto appropriato dire che ho pietà per lei, anche se so perfettamente che è un personaggio di fantasia.

5. La soluzione "irrazionalista", secondo cui "while caught up in fictions, consumers of fiction become irrational, responding emotionally to objects that they know do not exist",[32] è quindi, come ho sostenuto in precedenza, in un certo senso corretta.

6. La "surrogate‐belief solution" è l'idea che alcune risposte emotive alle finzioni "require belief only that, in the fiction, the character exists and is or does such and such".[33] Questa soluzione mi è sempre sembrata che debba affrontare un'obiezione insuperabile: non esiste un meccanismo plausibile per cui credere che qualcuno che soffre nella fiction possa generare disturbi fisiologici nella vita reale.[34]

7. La "make‐believe, or imaginary solution" è la soluzione finale e favorita di Levinson al paradosso. Secondo questa soluzione, le risposte emotive alla fiction sono "instances of imaginary, or make‐believe, emotions".[35] Oppure, nel modo un po' più attento di parlare di Kendall Walton, è fiction o fittizio che proviamo paura della melma verde nel film dell'orrore o compassione per Anna Karenina.

La visione della finzione si basa sul presunto fatto che, a differenza delle "emozioni standard della vita", la finzione di essere in un particolare stato emotivo come la compassione non richiede di avere una convinzione o di fare un'assunzione simile a una credenza che ciò per cui uno è emozionato esiste e non ha conseguenze comportamentali. Ma come ho spiegato, questi presunti fatti non sono per niente fatti. In primo luogo, come ho appena affermato, le risposte emotive provocate da un pensiero su qualcosa o altro non richiedono che il qualcosa o altro esista. E in secondo luogo, il fatto che le risposte emotive a romanzi, opere teatrali e film normalmente non ci motivino ad agire per aiutare l'eroina o per punire il cattivo è il risultato di un monitoraggio cognitivo che supera la valutazione affettiva iniziale e si traduce nella soppressione delle relative tendenze ad agire. Il processo emotivo è lo stesso sia nella vita reale che nel caso immaginario.

Per concludere: lo prendo come supporto indiretto alla mia opinione che non solo risolve il paradosso della finzione, ma spiega anche perché varie altre soluzioni sono sembrate attraenti in vari modi.[36] Un'ultima nota. Non ho mai usato il termine "simulazione" in questa discussione. Il termine è stato usato in modi così diversi da persone diverse che è ormai difficile sapere cosa significhi.[37] Inoltre, spesso comporta l'implicazione che i lettori si identifichino in modo fantasioso con i personaggi della narrativa. Durante la mia discussione, ho parlato di come rispondiamo emotivamente alle persone e agli eventi sia nella vita che nella finzione senza fare supposizioni sul fatto che ci identifichiamo effettivamente con loro o meno, e cosa significherebbe se lo facessimo. Questa mia omissione è stata deliberata.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie dei sentimenti e Serie delle interpretazioni.
  1. S. R. Vrana, B. N. Cuthbert, e P. J. Lang, "Processing Fearful and Neutral Sentences: Memory and Heart Rate Change", Cognition and Emotion 3 (1989).
  2. Paul L. Harris, The Work of the Imagination (Oxford: Blackwell, 2000), 70. Lang è stato uno dei collaboratori di Vrana nel succitato studio del 1989.
  3. Richard J. Gerrig, Experiencing Narrative Worlds: On the Psychological Activities of Reading (New Haven: Yale University Press, 1993), 81, che cita P. E. Jose e W. F. Brewer, "Development of Story‐Liking: Character Identification, Suspense, and Outcome Resolution", Developmental Psychology 20 (1984).
  4. Si veda il Capitolo 12.
  5. Susan L. Feagin, Reading with Feeling: The Aesthetics of Appreciation (Ithaca, NY: Cornell University Press, 1996).Cfr. anche Roger Scruton, Art and Imagination (Londra: Methuen, 1974), 131.
  6. Si vedano i principi di congruenza e pienezza di Beardsley, al Capitolo 4 e note.
  7. Nel Capitolo 6 discuterò più in dettaglio i vincoli all'interpretazione, compreso il ruolo delle intenzioni dell'autore.
  8. Non manco mai di citare, in simili occasioni, la Sindrome di Stendhal: affezione psicosomatica che provoca tachicardia, capogiri, vertigini, confusione e allucinazioni in soggetti messi al cospetto di opere d'arte di straordinaria bellezza, specialmente se sono localizzate in spazi limitati.
  9. Noël Carroll fa eccezione, seguendo William Lyons. Cfr. Noël Carroll, "Art, Narrative, and Emotion", in Mette Hjort e Sue Laver (curr.), Emotion and the Arts (New York: Oxford University Press, 1997).
  10. Mi riferisco alla serie di libri per l'infanzia scritti da Alison Uttley, molto letta dai miei figli, quando erano bambini in Australia.
  11. Oliver Sacks, The Man Who Mistook his Wife for a Hat (New York: Harper & Row, 1987), 208-9.
  12. Harris, The Work of the Imagination.
  13. Tutti gli esempi sono presi da Paul Rozin e A. E. Fallon, "A Perspective on Disgust", Psychological Review 94 (1987), 30-1.
  14. Colin Radford, "How Can We Be Moved by the Fate of Anna Karenina?", Proceedings of the Aristotelian Society, suppl. vol. 49 (1975).
  15. Greenspan descrive il suo caso di "mixed feelings" come "perfectly rational in light of the special relationship between emotions and behavior". Patricia S. Greenspan, "A Case of Mixed Feelings: Ambivalence and the Logic of Emotion", in Amélie Rorty (cur.), Explaining Emotions (Berkeley: University of California Press, 1980), 238.
  16. Ibid. 236.
  17. Ibid. 238.
  18. Ibid. 240–1.
  19. Jerrold Levinson, "Emotion in Response to Art: A Survey of the Terrain", in Hjort e Laver (curr.), Emotion and the Arts cfr. n. 9 p. 429, 22-3. Ci sono altri modi di interpretarlo, ma questa è un'affermazione molto chiara di ciò che di solito si intende per paradosso della fiction.
  20. Ibid. 23.
  21. Levinson, "Emotion in Response to Art", 23.
  22. Esplorerò questa idea in modo più dettagliato nel Cap. 7.
  23. Levinson, "Emotion in Response to Art", 23. Aderenti a questa visione includono Peter Lamarque, "Fear and Pity", in Fictional Points of View (Ithaca: Cornell University Press, 1996), e Noël Carroll in The Philosophy of Horror: Or Paradoxes of the Heart (Routledge, 1990). Currie e Ravenscroft asseriscono che "there can be emotional responses to what is merely imagined", inclusi personaggi ed eventi fittizi. Gregory Currie e Ian Ravenscroft, Recreative Minds: Imagination in Philosophy and Psychology (Oxford: Clarendon, 2002), 196.
  24. Levinson, "Emotion in Response to Art", 23. Kendall Walton è critico in Mimesis as Make‐Believe: On the Foundations of the Representational Arts (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1990), 203.
  25. Cfr. J. C. Gosling, "Emotion and Object", Philosophical Review 74 (1965), per una vecchia ma utile ricognizione di alcuni dei tanti possibili significati del termine "oggetto di emozione".
  26. Levinson, "Emotion in Response to Art", 23.
  27. Ibid. 24.
  28. Cfr. anche John Morreall, "Fear without Belief", Journal of Philosophy 90 (1993).
  29. Levinson, "Emotion in Response to Art", 24. In una serie di articoli sul paradosso della fiction, Alex Neill ha affermato che mentre alcune reazioni alla fiction non sono completamente emotive (a suo avviso), essendo più simili a reazioni non-cognitive di sussulto o shock, altre reazioni simili, come la pietà per Anna Karenina, sono sinceramente emotive perché implicano l'assunzione di una certa prospettiva sui personaggi di fantasia senza doversi impegnare nell'esistenza di quei personaggi. Cfr. Alex Neill, "Fear, Fiction, and Make‐Believe", Journal of Aesthetics and Art Criticism 49 (1991); Alex Neill, "Fiction and the Emotions", American Philosophical Quarterly 30 (1993), e "Fear and Belief", Philosophy and Literature 19 (1995).
  30. Levinson, "Emotion in Response to Art", 24.
  31. Cfr. la discussione di Lawrence Blum e Anna Karenina nel Cap. 4.
  32. Levinson, "Emotion in Response to Art", 25.
  33. Ibid. cfr. Alex Neill, "Fiction and the Emotions".
  34. Salvo circostanze speciali, come la situazione in cui ho scommesso una grossa somma di denaro che ad es. Desdemona non soffrirà in Othello.
  35. Levinson, "Emotion in Response to Art", 26. L'idea ha avuto origine in Kendall Walton, "Fearing Fictions", Journal of Philosophy 75 (1978), ed è stata ulteriormente sviluppata in Walton, Mimesis as Make‐Believe.
  36. C'è una vasta letteratura su questo problema, di cui ho citato solo alcuni esempi. Per una buona bibliografia recente si veda Hjort e Laver (curr.), Emotion and the Arts.
  37. Per un resoconto recente, cfr. Peter Goldie, The Emotions: A Philosophical Exporation (Oxford: Clarendon, 2000), Cap. 7.