Identità e letteratura nell'ebraismo del XX secolo/Primavera breve: in Germania tra le due guerre

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Indice del libro

È cosa nota che gli ebrei di Germania nei primi anni del XX secolo ebbero a giocare una parte sproporzionata rispetto alla loro relativamente bassa percentuale demografica. Fino alla dichiarazione di quella che fu chiamata la "guerra contro gli ebrei",[1] esemplificata dalla venuta al potere di Hitler nominagto cancelliere nel 1933, gli ebrei costituivano non più dell'uno per cento circa della popolazione della Germania come tale, cioè approssimativamente mezzo milione. A Vienna, sebbene non altrove in Austria, esisteva una più ampia concentrazione di ebrei, che era stata incrementata da un'ondata di emigrazione dall'Est sulla scia della Grande Guerra. La popolazione ebraica raggiungeva circa 170000 persone in quella grande città, mentre in Cecoslovacchia c'erano circa 200000 ebrei, equamente distribuiti tra quello che Hitler prese nel marzo 1939 come "Protettorato" (Bohemia e Moravia — a formare parte autonoma unificata del Reich) e la Slovacchia.[1]

Nelle precedenti pagine si è già parlato dell'ascesa di antisemitismo in Germania/Austria nel tardo XIX secolo. Tuttavia, sembrò in seguito che emergesse un sorprendente livello di fioritura culturale tra ebrei e tedeschi — sogno che divenne incubo tra gli anni '30 e '40. Gli storici della cultura distinguono il contributo ebraico in campi particolari: "Ci fu un forte elemento ebraico, come accadeva spesso nelle prime file dell'avanguardismo. Ma il ruolo degli ebrei nelle arti figurative fu minimo."[2] Questo apparente (illusorio o temporaneo?) rinascimento procedette, come viene ora dolorosamente riconosciuto, tra rigetto e alienazione. Non si può mai essere sicuri del perché una particolare concatenazione di eventi sia occorsa e qualsiasi speculazione la si fa ssempre col senno di poi. Gli ebrei del tardo XIX secolo e primo XX secolo hanno connesso due culture: quella dalla quale erano emersi e quella alla quale aspiravano. La prima sembrava coercitiva e restrittiva, la seconda attraente e stimolante. Fu forse il vigore della risposta, spinto dalla fermezza e dalla forma storica della rispettiva formazione, che rese possibile l'eccellenza dei risultati.[2]

Dopo la Grande Guerra tutto sembrava fluire: i confini politici, le ipotesi sulla guerra — fino ad allora un esercizio limitato ai professionisti e agli sfortunati, ma che ora interessava tutti — e persino la natura umana stessa. L'arte e la filosofia dovevano soddisfare una mutata gamma di esperienze, e nessuna nazione esemplificava tale differenza più vividamente della Germania. Aveva perduto la guerra, l'Impero e il Kaiser, e insieme a quelli la presunzione della propria grandezza. Poi non aveva accettato di buon animo il repubblicanesimo. Interpretazioni estreme della sconfitta diedero seguito a estremi rimedi, o meglio estremisti.[2] Sviluppi rivoluzionari, come quello della Lega Spartachista guidata da Rosa Luxemburg, furono seguiti da episodi di continue violenze (la stessa Luxemburg fu assassinata nel gennaio 1919).[3] Il Trattato di Versailles fu unilaterale e presentò richieste non negoziabili basate sulla supposizione dell'esclusiva colpa tedesca. Il crescente antisemitismo fu uno degli aspetti del sentimento antirepubblicano. In realtà gli ebrei non erano prominenti nella politica tedesca, ovviamente e comunque non alla destra ma neanche all'estrema sinistra. Il più noto, l'industriale diventato ministro degli esteri, Walter Rathenau venne assassinato nel tentato putsch del 1922. Ciò avvenne all'apice della superinflazione. Miracolosamente il marco si stabilizzò alla fine del 1923 e seguirono gli "anni d'oro" della Repubblica — dal 1924 al 1929 — quando il collasso di Wall Street costrinse l'America a ritirare il suo appoggio alla Repubblica di Weimar. Questo diede seguito alla nota disintegrazione.[4] La scelta di una terribile dittatura aveva una risonanza psicologica, ma anche un rispondente contesto economico e politico.[2]

Quindi la Germania ed il mondo germanofono godettero di uno splendore esilarante seppur breve. "Ma fu gloria precaria, una danza sull'orlo del vulcano. La cultura di Weimar era la creazioni di estranei, spinti dalla storia verso l'interno e per un breve attimo vertiginoso e fragile."[5] Gli storici del periodo attraversano le solite difficoltà di definizione. Gli elementi caratteristici della "cultura di Weimar" erano già manifesti prima della guerra. "Espressionismo", per esempio, era un termine che era stato già coniato da Wilhelm Worringer nel 1911 a caratterizzare le nuove mode della letteratura. Venne tuttavia espanso a coprire una vasta gamma di forme artistiche, che furono principalmente associate agli orrori della guerra, all'uomo di massa, all'universalizzazione dell'esperienza particolare e della tecnologia moderna. L'architettura (la scuola Bauhaus), la pittura (come quella di Beckmann), il teatro (Frank Wedekind, già attivo nel XIX secolo, e anche Bertholt Brecht), la poesia (Gottfried Benn), la narrativa (Thomas Mann aveva già prodotto opere importanti nel primo decennio del secolo) indicavano nuove prospettive. Lo scrittore ebreo poteva solo riaggiustare penosamente la propria prospettiva, portandosi sulle spalle quello che sembrava un passato defunto. La politica si allontanava dalla cultura — c'era una "mancanza di collegamento tra cultura e politica a Weimar, e di influenza degli intellettuali sull'ordinamento politico."[2]

Ciò che verrà esaminato qui di seguito non è l'intera gamma dell'espressione ebraica in questo contesto: sarebbe enormemente complicato, difficile da districare, ed inevitabilmente pedante. Tuttavia, nell'ambito di questo mondo confuso ed eccitante, alcune voci inquisitive si fecero sentire, che cercavano di combinare un senso storico all'autoidentificazione etnica del Fato — insieme alla scelta di un percorso specifico attraverso il mondo contemporaneo. Voci di stupore, perplessità, tentativo di interpretazione: profeti, guide, o semplicemente echi di vero smarrimento. Alcuni scrittori, teologi e critici trovarono nuovi modi per descrivere l'esperienza dell'uomo perplesso che fugge dal giudizio anonimo nel tentativo di autogiustificarsi — dell'uomo nell'universo dinanzi a Dio e alla Storia, alla società e a se stesso.[5]

Franz Kafka

Franz Kafka (1883-1924), le cui opere si profilano sempre più importanti man mano che passano gli anni, rimane costantemente enigmatico. "Uno sguardo ad una qualsiasi bibliografia sugli scritti di Kafka," scrive il critico Eric Heller, "dimostra come sia sempre crescente la già esistente sovrabbondanza di libri e articoli su di lui."[6] E continua: "Parte della colpa è di Kafka stesso, creatore della più oscura lucidità nella storia della letteratura, un fenomeno che, come la parola che uno ha sulla punta della lingua, perpetuamente attrae e allo stesso tempo rifiuta la ricerca di cosa sia e cosa significhi." Questa "oscura lucidità" ha portato ad una straordinaria serie di interpretazioni testuali e contestuali (e infuocato scontri tanto intensi quanto quelli degli storici...) In termini contestuali, Kafka è apparso come ebreo nevrotico, ebreo religioso, mistico, autodistruttivo, criptocristiano, gnostico, messaggero di un tipo antipartriarcale di freudismo, marxista, esistenzialista quintessenziale, profeta del totalitarismo o dell'Olocausto, e via dicendo; in breve, è diventato la figura culturale più proteiforme del secolo passato. E al di là di tali identificazioni onnicomprensive o monotematiche si estende una giungla accademica di interpreti, spesso lamentata ma pur sempre crescente.[7]

Kafka non fu un costruttore di teorie, né architetto di sistemi; seguiva i sogni, creava metafore e associazioni inaspettate; raccontava storie; era un poeta. Il suo uso frequente di allusioni religiose (sia direttamente che implicitamente, sia ebree che cristiane) possono creare confusione, ma tali allusioni sono spesso unite ad ironia e non indicano una fede religiosa. Principalmente, Kafka fu il poeta del proprio disordine mentale. I suoi tre romanzi non solo rimasero inediti (fatta eccezione per brevi stralci) mentre era in vita, ma rimasero anche incompleti. E un romanzo di Kafka rimane incompletabile per definizione, anche se l'autore vorrebbe introdurre una risoluzione. Tale è la natura del labirinto.[7]

Molte sono le interpretazioni degli scritti kafkiani. Comiche, disperate, ambiziose, le sue figure si muovono o roteano in un mondo invaso dal fumo: la luce sembra poter filtrare, ma invece diventa un'illusione. Il personaggio di Kafka si concentra sulla ricerca e sul percorso (anche in senso religioso). Tuttavia il lettore non può mai esser certo che tale ricerca avvenga e tale percorso sia seguito nel significato tradizionale di cammino religioso. Se si tiene un processo, certamente ci devono essere giudici ed una legge. Ma c'è una qualità di giustizia astratta e può l'uomo giudicato conoscer mai la legge con la quale viene giudicato? C'è evidentemente un "castello", ma potrà K raggiungere mai l'autorità che ci sta dietro? Persino l'"America", terra delle opportunità descritta nell'opera più felice (in senso emotivo) di Kafka, non viene totalmente dipanata.[8]

I romanzi ed i racconti somigliano più a parabole che a narrativa moderna. E l'autore adotta la modalità letteraria tradizionale della parabola (mashal) coi suoi canoni e anonimità autoriale. Il "saggio" parla. Il mondo riprodotto sembra il vecchio mondo delle certezze, quando Dio regnava supremo e la funzione dell'uomo era quella di anticipare il volere divino e agire di conseguenza. Le sue "Similitudini" (Von den Gleichnissen, 1931)[9] affermano la defe nell'Imperatore, ma, d'altra parte, potrebbe anche essere la fede agganciata ad un'àncora enigmatica in un mare di confusione: "La stessa Pechino è molto più strana per la gente del nostro villaggio di quanto non lo sia l'altro mondo." Ciò non significa che la Legge possa essere abrogata. Al contrario, essa è sacrosanto in ogni suo particolare — ma viene registrata solo nei testi antichi e non ne esiste una vera vivida comprensione. "La nostra vita", viene annotato, "non è soggetta a nessuna legge contemporanea e si attiene solo alle esortazioni e ammonimenti che ci provengono dai tempi antichi." E paradossalmente è proprio questa incerta connessione che "sembra essere (zu sein scheint) una delle maggiori influenze unificatrici del nostro popolo... proprio la vera base su cui viviamo." L'autorità del passato, per quanto oscuro, arbitrario o peculiare, è la sola base solida dell'esistenza presente.[9][8]

Esistono due modi di leggere Kafka. L'autore stesso, in una lettera alla sua fidanzata Felice (che naturalmente non sposò mai), scrisse: "Non ho interessi letterari, ma sono fatto di letteratura. Non sono nient'altro e non posso essere nient'altro" (14 agosto 1913).[10] Come nel suo famoso racconto (grandemente valutato, anche da Kafka stesso) "Un digiunatore" (Ein Hungerkünstler, letteralmente "Un artista della fame")[11] egli vide un contrasto in definitiva preclusivo tra letteratura e vita. In una nota nel suo diario dello stesso periodo, di Felice scrive: "Non posso vivere senza di lei, né con lei" (12, 13 maggio 1913). Non poteva sposarsi né non sposarsi. Se non scriveva si sentiva impotente, e se scriveva ne veniva totalmente posseduto. Era letteralmente, ai propri occhi, inadatto a vivere e adatto soltanto alla letteratura. Max Brod, suo amico intimo, esecutore testamentario e biografo, tuttavia, giudicandolo scrive: "La categoria della sacralità (e non proprio quella della letteratura) è la sola categoria giusta nella quale la vita e l'opera di Kafka possa essere considerata."[8] Secondo questa interpretazione, Kafka non produce materiale estetico, ma una sorta di testo sacro. Quello che ha scritto deve essere giudicato come verità e non come ornamento o esperienza piacevole.[8][7]

Il tema del giudizio pervade gli scritti di Kafka. Però è uno strano tipo di giudizio, dove la colpa non viene mai dubitata: come nella storia "Nella colonia penale" (In der Strafkolonie, 1914),[12] dove l'uomo condannato non conosce il perché sia stato condannato, e neppure quale sia la sentenza. E certamente non c'è opportunità di difesa. Un critico scrive:

« La legge senza un legislatore, il peccato originale senza un dio da disobbedire: questa è l'essenza della teologia negativa che pervade i racconti ed i romanzi di Kafka. I loro personaggi sono peccatori quasi perché non c'è un Dio contro cui peccare, colpevole quasi perché non c'è Sinai, dato che — sebbene non ci sia un Dio e un legislatore — le loro anime sono incastonate nello stampo in cui il timore di Dio e l'obbedienza alla Sua legge sono plasmate. È una situazione dove il peccato e la colpa, più spesso di quanto non paia, giace non in cosa si fa ma in come si è, nell'essere un individuo separato. »
(Eric Heller, Kafka, cit., 1974[6])
Der Prozess di Kafka, edizione postuma originale in tedesco (1925)

Il critico Heller quindi caratterizza il mondo kafkiano come una totalità di perfezione e unità, in cui l'uomo ha peccato distaccandosi nel formare una vita individuale. L'illuminazione, cioè la conoscenza della fonte della Legge, può essere ottenuta, ma solo (come nella succitata storia) al momento della morte. Brod cerca di rendere Kafka più realistico, di situarlo nel mondo della realtà politica, e argomenta che l'autore "non lotta con Dio, ma con se stesso."[8] Per Brod, Kafka scrive con ansia per il mondo contemporaneo e, specificamente, per gli ebrei. "Kafka scrive, oltre che della tragedia del genere umano, in particolare delle sofferenze del proprio popolo infelice, dell'ebraismo senza casa, perseguitato, la massa senza forma, senza corpo, e lo fa come nessuno l'ha mai fatto. Lo scrive senza che la parola ebreo appaia mai in nessuno dei suoi libri." Brod vede Kafka come un autore di parabole politiche con risonanza contemporanea, che parla con la cognizione di un'esperienza ebraica locale, cioè degli ebrei senza patria. Vede Kafka persino come sionista o sionista potenziale, che vorrebbe correggere questa anomalia mediante una riconcentrazione territoriale del popolo ebraico in una patria ricostruita.[8] Ma le parole stesse di Kafka, per lo meno in una reazione specifica, mettono in dubbio tale interpretazione — dopo un incontro con Brod e le sue nozioni sioniste, scrive: "Cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune con me stesso, e dovrei nascondermi silenziosamente in un angolo, contento del fatto che riesco a respirare" (Diari, nota dell'8 gennaio 1914). Queste non sono le parole di un attivista politico, ancor di meno di un simpatizzante sionista. È l'espressione di qualcuno che cerca di dare un senso a se stesso, di ottenere una pace interiore e fors'anche un'armonia col mondo, piuttosto che credere in soluzioni pubbliche o politiche come terapia della condizione umana. Kafka svolge un viaggio interiore tramite il personaggio di K o i suoi altri eroi, dove l'"eroe" vien posto dentro i confini di un mondo confuso (un labirinto), dove il giudizio viene dato e deve essere eseguito secondo una legge misteriosa, arbitraria e del tutto impenetrabile. È pur vero che la figura di Kafka debba combattere situazione e giudizio e venirne inevitabilmente sconfitto. Tuttavia lo svolgersi della lotta non avviene nell'arena politica entro i reami del sistema politico pubblico. I canali di comunicazione sono già prestabiliti e le regole del gioco sono accettate e adottate. K ne Il Processo deve accettare l'Avvocato assegnatogli, oppure rimpiazzarlo con un altro simile. La Legge è sempre lì.[13]

Kafka all'età di circa cinque anni

E anche nel racconto "Il verdetto" (Das Urteil, 1912),[14] tale "verdetto" (qui pronunciato dal padre) deve essere accettato. Come ne Il Processo, la sentenza (per che cosa?) è la morte. Brecht infine dichiarò Kafka un fallito come romanziere, perché la domanda "dove va a finire la colpa?" non trova mai risposta.[6] Quindi la sua opera è destinata a rimanere frammentaria. Nulla arriva mai a destinazione, poiché tutte le scale sono perennemente a spirale. Ne "Il verdetto", la morte è liberazione e forse (ma solo forse, perché non si può precedere oltre quel punto) la soluzione. La storia si conclude al momento del suicidio per affogamento. "In quell'istante passava sul ponte un traffico addirittura interminabile."[15] Il flusso di traffico (in tedesco verkehr) è anche la parola usata per il "rapporto sessuale" che permette lo sfogo, l'eiaculazione. Qui abbiamo una storia dell'assurdo che l'autore stesso non può dipanare, procedendo da una narrazione a diversi livelli fino ad una autocontraddizione. L'eroe del racconto, Georg Bendemann, viene visto mentre scrive ad un amico che si trova in Russia, informandolo del suo fidanzamento. Tuttavia Bendemann, prima di spedirla, deve mostrare la lettera al padre, che si arrabbia negando ogni conoscenza dell'amico e poi ammettendo di conoscerlo così bene da augurarsi di averlo come figlio — una prospettiva che l'amico avrebbe molto gradito. Poi il padre riempie di accuse d'immoralità il proprio vero figlio, rinfacciandogli anche di volerlo "mettere sotto" (soffocare, ammazzare, rimpiazzare):

« ...Ma fortunatamente non occorre che nessuno insegni al padre a penetare il figlio. Quando ha creduto di averlo messo sotto, messo sotto in modo da potercisi sedere sopra, e che lui non si muova più, allora il mio signor figlio ha deciso immediatamente di sposarsi! »
(I racconti di Kafka, cit., p. 33.)

È il padre che non permetterà al figlio di sposarsi. E in un momento profondamente irrazionale ma ostinatamente determinato di opposizione isterica, il padre condanna il figlio al suo fato.

"Il verdetto" è un "racconto", ma è simile come trama e tono alla cosiddetta "Lettera al padre" (Brief an den Vater, 1919),[16] una vera lettera che non fu mai spedita (e che fu, naturalmente, come tanti degli scritti kafkiani, pubblicata soltanto postuma). Come la narrativa con Kafka si sfuma in autobiografia, così l'autobiografia diventa narrativa. Infatti, Heller scrive: "La vicinanza tra letteratura e autobiografia mai è stata così aderente come in Kafka, anzi ammonta quasi ad identità. Sebbene in tale forma sia a lui peculiare, sembra allo stesso tempo il culmine di un capitolo di storia della letteratura, la storia della letteratura tedesca fatta principalmente da scrittori ebrei della generazione di Kafka."[6] La lettera mai spedita di Kafka allude a molte delle ossessioni dell'autore. Il padre viene presentato come colui che emette un "giudizio" sul figlio. Viene visto come "troppo forte" rispetto alla tyenue forma del figlio, che è più un Löwy (cognome da nubile della madre) di carattere, dolce e sensibile. Il padre è ambizioso, di successo, e soprattutto "con voglia di vivere" — totalmente dominante, arbitrario. La metafora del verdetto continua a riproporsi. Il figlio è uno schiavo che opera "secondo leggi che erano state escogitate soltanto per me". Il "tuo" mondo (cioè, quello dei capi) è remoto, inaccessibile, irraggiungibile. Anche i due poli dell'"attività" di Kafka sono dominati dal padre: la scrittura ed il matrimonio, la prima coinvolta nervosamente col padre e il secondo da questi ostacolato.

« Scrivevo di te, scrivendo lamentavo quello che non potevo lamentare sul tuo petto. Era un addio da te, intenzionalmente tirato per le lunghe, soltanto che, per quanto imposto da te, andava nella direzione da me determinata. Ma quanto era poco, tutto ciò! »
(Franz Kafka, Lettera al padre.[16])

Lo scrivere era il medium di Kafka per esprimersi e l'unica fonte di indipendenza. Il matrimonio gli era comunque impossibile:

« Il matrimonio mi è precluso proprio dal fatto che è il terreno che più ti è proprio. Talvolta immagino di oter aprire davanti a me la carta terrestre e di stendertici sopra; mi pare allora che per la mia vita si possano prendere in considerazione solo quei territori che né copri col tuo corpo né sono comunque alla tua portata. E data l'idea che mi son fatto della tua grandezza, questi territori non sono molti né molto confortanti, e il matrimonio in particolare non ne fa parte. »
(Lettera al padre, cit..[16])

Il padre è un giudice onnipotente — imperativo, minaccioso, dominante. Il figlio si dibatte e si contorce inutilmente nella sua ombra.

Amerika di Kafka, edizione originale in tedesco (1927)

Nessuna interpretazione di Kafka può mai essere definitiva, perché i fili delle trame ordite non vengono infine legati assieme in una conclusione. Il romanzo (come al solito, incompleto) America,[17] come suggerisce il titolo, specialmente per uno che là non c'è mai stato, punta alla novità, eccitazione, potenzialità e scoperta. È la più ottimista tra le storie di Kafka, come preannunciato in apertura, dove si legge: "un'improvvisa esplosione di sole sembrò illuminare la Statua della Libertà". Ma l'insieme di immagini ritorna familiare al lettore di Kafka: si incontrano infatti casi, giudizi (del fuochista, per esempio), percorsi labirintici (per es. in giro per la nave alla fine del viaggio), autorità impersonali (come quella dello zio Jacob), emissione arbitraria di sentenze (la cacciata di Karl da parte dello zio) e la ricerca (iniziando a vagare, in giro per l'America). C'è un mistero. Al momento della sua cacciata, è ignoto a Karl il "perché ogni minuto che mi tiene lontano da mio zio sia così importante per me."[17] Pertanto, nonostante il tono apparentemente leggero della scrittura, Karl porta i segni caratteristici delle figure centrali kafkiane. Se ne esamini la relativa biografia: è rifiutato da casa sua in Europa, bandito dallo zio dalla rispettiva casa nel nuovo mondo, licenziato dal lavoro presso l'hotel, sfruttao dai compagni di strada, specialmente dal prepotente francese Delamarche. Viene accettato soltanto dal Nature Theatre of Oklahoma nel capitolo finale incompleto. Secondo un poscritto Max Brod, in questo ultimo capitolo l'autore avrebbe voluto riservare al lettore la sorpresa di una conclusione ottimistica, col ritorno in patria e la riappacificazione con i genitori. Naturalmente però, come si può constatare, l'opera è incompleta e la riappacificazione incerta e potenziale piuttosto che compiuta. Forse il Nature Theatre sta veramente per quella totalità della Natura che dovrebbe assorbire ogni cosa e ogni persona, tutti i peccatori (coloro che falliscono) e Karl stesso, altra forma dell'onnipresente K nella narrativa di Kafka.[7]

Monumento a Franz Kafka dello scultore Jaroslav Róna (2003), vicino alla sinagoga spagnola di Praga

Ci si deve tuttavia chiedere quale sia il senso kafkiano del giudizio. Chi è che giudica, come, secondo cosa e perché? L'opera forse più duratura tra tutte, Il processo, naturalmente si impernia su questo.[13] Si impernia, ma senza dare una risposta. K viene arrestato all'inizio della storia ed è giustiziato alla sua fine. Non si conosce quale sia l'accusa e, in verità, K stesso finisce di chiederlo poco dopo il suo primo arresto. Il romanzo venne considerato anche dall'autore come incompiuto. Altri affermarono che fosse condannato all'incompiutezza, poiché il processo non sarebbe mai arrivato ai livelli più elevati della corte giudiziaria. La storia si svolge nel corso di un anno, cioè dall'arresto all'esecuzione. Tuttavia K non progredisce affatto nei risultati, nella comprensione o verso una possibile salvezza. Egli è, come viene percepito dall'esterno anche dal più superficiale degli osservatori nella storia, condannato a priori. Ha tutte le apparenze dell'uomo condannato, e le sue proteste sono semplicemente ridicole. Come Franz dice di lui nella storia: "Vedi Willem, egli ammette di non conoscere la Legge, eppure sostiene di essere innocente." In verità K non può conoscere la Legge (come indica la parabola dell'illusione), né gli avvocati, né i funzionari: "I funzionari più importanti si tengono ben nascosti." La giustizia è fuori vista, insondabile. E la Legge stessa? È suscettibile di interpretazione, ed esistono molti commentari, molta casistica. Ma non importa quanto egli possa imparare, non sarà mai sufficiente.[13] Il pittore, personaggio deprecabile che K pensa gli possa essere d'aiuto, gli spiega la distinzione tra ciò che viene imposto e l'esperienza stessa. Nella cattedrale dove va K per un presunto incontro, gli viene raccontata una parabola dal Prete che deve illustrargli il tipo di illusione che K sta provando.[18] Tale parabola è l'introduzione che precede la Legge stessa: si riferisce ad un visitatore proveniente dalla campagna e che persegue la legge, sperando di conquistarla entrando in un "portone". Il guardiano del portone dice all'uomo che non può passarvi in quel momento. L'uomo chiede se potrà mai farlo e il guardiano risponde che c'è la possibilità che vi riesca. L'uomo aspetta presso l'entrata per anni, tentando di corrompere il guardiano con i suoi averi; il guardiano accetta le offerte, ma dice all'uomo "Le accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa." L'uomo non tenta né di ferire, né di uccidere il guardiano per raggiungere la Legge, ma attende presso il portone fino a che non sta per morire. Un attimo prima che ciò accada, chiede al guardiano perché, seppure tutti cerchino la legge, nessuno è venuto in tutti quegli anni. Il guardiano risponde che nessun altro poteva entrare per il portone, perché tale ingresso era destinato soltanto all'uomo, e ora (cioè, al momento della sua morte) sarebbe andato a chiuderlo. Perché la pazienza, perché la supplica? Che senso ha tutto questo? Chi decide? Perché non è stato informato prima? Tutto è suscettibile di interpretazione. Tuttavia uno si potrebbe chiedere quale sia lo scopo del portone. L'uomo di campagna aveva presupposto che quello fosse il potenziale punto d'accesso per realizzare la sua aspirazione ultima. Ma non serviva invece a tener fuori l'uomo, piuttosto che a farlo entrare? Kafka chiaramente sta giocando sulla parte centrale della liturgia del Giorno dell'Espiazione (Yom Kippur), quando si intona la preghiera all'Altissimo: "Apri a noi una porta al momento della chiusura della porta." La congregazione di Israele chiede di entrare nel regno divino attraverso il pentimento dell'uomo e la grazia di Dio. Nella parabola de Il processo, ciascun uomo deve soffrire il rigetto alla porta creata soltanto per lui. L'uomo di campagna muore senza ricompensa e senza grazia. Alla fine del romanzo, K viene condannato a morte, sopporta la sua punizione di buon grado e viene giustiziato — senza onore, indegnamente. Deve morire "come un cane".[13] Il "procedimento" del processo (la parola tedesca implica movimento continuo) raggiunge il suo apice al giudizio/verdetto (Urteil). K non ne conosce l'esito ab initio, ma tutti gli altri — inclusi i suoi amici (Fraülein Burstein, per esempio) — sembrano prevederlo. L'uomo di campagna era arrivato speranzoso e si era messo pazientemente in attesa. Ma il guardiano del portone era a conoscenza dell'esito sin dall'inizio.[18]

Kafka nel 1906
Das Schloß di Kafka, edizione originale in tedesco (1926)

Anche Il castello (anch'esso incompleto)[19] rappresenta un dominio morale: è fonte di autorità, ma non di autorità benevola, e neanche ragionevole. Tuttavia K pazientemente si divincola e cerca di farsi strada nella ragnatela della burocrazia, sempre inutilmente. Brod afferma che l'autore intendeva concludere la storia positivamente:

« Il presunto Agrimensore doveva almeno arrivare ad una parziale soluzione positiva. Non doveva abbandonare i suoi sforzi, ma ne doveva morire sfiancato. I villici dovevano riunirsi attorno al suo capezzale, e dal Castello stesso doveva giunger nuova che, sebbene la sua istanza legale di vivere nel villaggio non fosse valida, tuttavia, prendendo in considerazione certe circostanze ausiliarie, gli veniva concesso il permesso di abitare e lavorare lì. »
(Brod, Franz Kafka, cit.[8])

Sarà pur stato così, ma Kafka interrompe il romanzo prima. Può darsi che, nonostante le sue ripetute affermazioni di concludere la storia in tal modo positivo e dopo ripetuti insuccessi nel dar seguito a questo intendimento, l'autore fosse incapace d'introdurre il lieto fine. Sebbene a K "venisse permesso di restare nel villaggio e lavorarci" (a significare un'indicazione di Grazia), alla fine la sua istanza era comunque "non valida". La Legge, cioè quella peculiare, ineffabile, inavvicinabile, incognita Legge del mondo che è, opera contro l'agrimensore K. Il tono viene stabilito all'inizio del primo paragrafo, dove si apprende che "la collina del Castello era celata" a K. Non sarà mai esposta significativamente alla vista, alla conoscenza o alla penetrazione. Quanto all'uomo della storia, quella figura spregevole e agitata, una Kappa senza nome completo — può solo essere rimpicciolita, ridotta finanche a "gigantesco insetto" come ne "La metamorfosi" (Die Verwandlung, 1915).[20] Qui la condizione è la proiezione concreta della stima che l'eroe ha di se stesso, e viene assorbita del tutto naturalmente nel corpo del racconto. Gregor Samsa stesso non sembra affatto sorpreso della sua mutata forma.[20]

Franz Rosenzweig e commilitoni (1917)

Per Kafka, nella parabola il mondo è rappresentato dall'immagine del portone presso il quale l'uomo di campagna aspetta pazientemente nella speranza di entrare. Ma aspetta invano, ed il portone gli viene chiuso in faccia proprio al momento della sua morte. Sembra che la preghiera dell'ebreo, nella funzione liturgica di chiusura del Giorno dell'Espiazione (Yom Kippur), in cui supplica l'apertura della porta, sia respinta. Per un altro teologo ebreo-tedesco dell'epoca, Franz Rosenzweig (1886-1929),[21] l'unico scopo di vita come scrittore sia quello di tenere la porta aperta. Il movimento della sua opera maggiore, La stella della redenzione (1921), avviene dalla realtà della morte "alla vita", che viene realizzato non con l'immortalità personale, bensì tramite la vitalità dell'essere ebreo.[22] Rosenzweig scrisse tale opera principalmente dalle trincee, verso la fine della guerra, inviando il testo a casa su cartoline postali dell'esercito. Tuttavia solo alcuni mesi prima dello scoppio della Grande Guerra, l'autore, la cui principale preoccupazione era la rivitalizzazione dell'ebraismo, aveva contemplato la conversione al cristianesimo — ma voleva entrare nel cristianesimo come ebreo "attraverso l'ebraismo".[23] Si recò quindi per l'ultima volta, o così pensava, a far visita alla sinagoga nel Giorno dell'Espiazione del 1913 — e ne uscì trasformato in ebreo.[24] Da quel momento in poi, Rosenzweig ha cercato la fonte dell'ebraismo tradizionale e la sua forza nella vita contemporanea. Iniziò a vedere l'ebraismo come al di là della storia, metastorico, fisso nella sua verità, costantemente valido, posto nel tempo ma oltre qualsiasi moento specifico. Il suo grande maestro, Hegel (1770–1831), aveva postulato un sistema nel quale la Storia era diventata Dio, ed era poi stata racchiusa nelle sue leggi. Per Rosenzweig, Dio doveva risiedere fuori della Storia e quindi controllarla. La libera azione divina implica un processo a tre fasi: 1) creazione — che stabilisce la relazione tra Dio da un lato e, dall'altro, la transitorietà e la morte; 2) rivelazione — il punto in cui Dio chiama l'uomo; 3) redenzione — che libera l'uomo dalla finalità della morte tramite il ciclo dell'anno sacro. Kierkegaard (1813-1855) aveva cercato tale sviluppo nel cristianesimo, il "salto" personale del cristiano nella fede, oltre la legge fissa della razionalità. Rosenzweig vide questa trascendenza espressa nell'esperienza passata ma continuativa del popolo ebraico. Non attraverso l'"essenza dell'ebraismo", come ebbe a dire in riferimento al filosofo e rabbino Leo Baeck (1873–1956), ma in risposta all'invocazione costante "Ascolta, O Israele" (Shema Israel)[25]

Perché Rosenzweig aveva considerato la conversione al cristianesimo? In un senso, era semplicemente perché, come egli ammise, si trovava a vivere in un contesto cristiano — società cristiana, letteratura cristiana, architettura, musica, tutto cristiano, e quindi l'ebraismo si ritrovava in enorme svantaggio; mentre il cristianesimo poteva essere accettato e assorbito naturalmente nell'ambiente, l'ebraismo doveva essere affermato contro ogni probabilità e difeso con immagini concrete di rituale e pratica. Inoltre il cristianesimo era visto (dai cristiani, naturalmente) come la consumazione ed il compimento dell'ebraismo — sebbene compimento necessario. Per chi sentisse aneliti religiosi nella Germania del XX secolo, il cristianesimo era una scelta naturale.[26]

Allora perché l'ebraismo, dopo tutto? Il cristianesimo postulava la necessità di Cristo, altrimenti era impossibile raggiungere il Padre. Tuttavia, dopo questo suggestivo periodo del 1913, Rosenzweig concluse che un intermediario era necessario solo per coloro che non fossero già col Padre:

« Ma la situazione è alquanto differente per colui che non deve raggiungere il Padre perché risiede già in Lui. E ciò è vero per quanto riguarda Israele (sebbene non gli ebrei individualmente). Scelto dal suo Padre, il popolo di Israele contempla fissamente tutto il mondo e la storia, fino a quell'ultimo e tanto distante tempo in cui il Padre, il Solo e Unico, sarà "tutto per tutto". »
(Lettera a Rudolf Ehrenberg, 31 ottobre 1913)

Fu a questo punto che Rosenzweig si pronunciò in totale conformità con l'insegnamento ebraico e decise di "render chiaro a se stesso l'intero sistema della dottrina ebraica. E la chiave di questa dottrina è il "mistero psicologicoè del monoteismo... Per quanto mi riguarda, Dio può essere ciò che vuole, ma deve essere Uno." E la nozione della rivelazione deve far seguito a tale riconoscimento, in modo che venga stabilito il contatto con l'uomo.[26]

Rosenzweig al matrimonio di Hans ed Else Ehrenberg, 1913[27]

Rosenzweig, dall'essere un ebreo marginale, mise l'ebraismo al centro della sua vita — e nel farlo, insistette che "nell'essere ebrei non dobbiamo rinunciare a nulla, ma ricondurre tutto all'ebraismo. Dalla periferia nuovamente al centro, dall'esterno all'interno" (discorso all'apertura del Freies Jüdisches Lehrhaus a Francoforte). Gli intellettuali ebrei del mondo germanofono all'inizio del secolo avevano in genere indossato le tracce residue dell'ebraismo con orgoglio, ma non avevano di certo considerato l'ebraismo quale fulcro del loro essere. Quindi l'attività Buber/Rosenzweig indicava un riorientamento radicale. Rosenzweig reputava insoddisfacenti le principali tendenze dell'ebraismo contemporaneo. Sia gli assimilazionisti che i sionisti correvano il rischio lottare per un obiettivo irraggiungibile, ed entrambi, se avessero avuto successo nel realizzarlo, avrebbero spezzato la connessione con l'ebraismo storico e diasporico. Essere in contatto con l'ebraismo era come essere in contatto con una forza viva, dinamica, e non un sistema chiuso — e, come aveva affermato quando era ancora un giovanotto, il mondo è lo strumento col quale il ricercatore può trapassare l'abisso: "Le parole sono lapidi / le parole sono ponti sopra baratri. Di solito li si attraversa senza guardar giù. Se uno guarda giù, rischia di sentirsi mancare. / Le parole sono anche assi poste sopra un fosso, a nasconderlo. / Essere un filosofo è come aprire tombe, scrutare gli abissi, calarsi nei fossi" (Diario, nota del 17 novembre 1906). La filosofia (e, naturalmente, la teologia) non è un'impresa sicura, ma come un aprire forzatamente accessi serrati. La sua funzione in qualità di teologo ebreo era di sconvolgere il compiacimento borghese delle forme fisse ma morte, onde poter far risorgere il vecchio ma ancor vitale ebraismo. Un ebraismo, tra l'altro, che, come aveva scoperto durante i suoi distaccamenti militari, era tutt'altro che decadente o moribondo, tra le comunità sefardite in Jugoslavia o tra le masse di ebrei in Polonia. Lì otteneva un modello di appartenenza ad un popolo ben oltre la comprensione di coloro che lo disprezzavano, i tedeschi benestanti, occidentalizzati e assimilati: l'ebraismo piuttosto era in disfacimento in Germania, dove si era cristallizzato in forme morte.[26] Altri importanti eventi nella vita di Rozenzweig sono la sua fondazione del Frankfurt Lehrhaus per lo studio dell'ebraismo nel 1920, e la sua paralisi progressiva, che notò per la prima volta non molto più tardi, nel 1921, poco dopo la pubblicazione de La stella.[26] Accettò la malattia come parte necessaria del tutto. Del fatto dice: "Io stesso ne ebbi deboli e rari preannunci... ma ora è semplicemente la realtà: morire è ancor più bello che vivere" (lettera a Gertrud Opperheim, sua amica di sempre, maggio 1922). E anche dopo, cercò di integrare la morte senza sentimentalità: "La sentimentalità appartiene agli spettatori. Chi muore non è sentimentale... Non scambierei posto con nessuno." La sua situazione fisica non interruppe mai la sua continua devozione all'esperienza e promozione dell'ebraismo. Egli caratterizza il significato del suo pezzo "I costruttori" (un'epistola indirizzata a Martin Buber nel 1923, che tratta del posto che la Legge ha nell'ebraismo) come segue: "In che modo gli ebrei cristiani, gli ebrei razionali, gli ebrei religiosi, gli ebrei in autodifesa, sentimentalità, lealtà, in breve gli ebrei con il "trattino" qualificativo, come ne ha prodotti il diciannovesimo secolo, possano nuovamente, senza pericolo per se stessi o per l'ebraismo, deventare ebrei" (lettera a Eugen Rosenstock, 25 agosto 1924). Passò i suoi ultimi anni collaborando con Buber ad una nuova traduzione della Bibbia (Die fünf Bücher der Weisung), e presentando le nozioni centrali de La stella al pubblico generale. Ciò faceva parte della sua missione educativa che includeva la direzione della Lehrhaus o, almeno, farne parte attiva nonostante la sua grave condizione fisica. Sempre consapevole di tale condizione terminale, Rosenzweig si rappresenta la via della conoscenza come sbarrata da una porta che verrà presumibilmente aperta al momento della morte. Ma a tale porta non riesce ad avvicinarcisi: "Quando un uomo sta vicino ad una porta sbarrata, non riesce a vedere cosa c'è dietro, proprio come non riesce a vederlo neanche quando se ne trova lontano" (lettera a Hans Ehrenberg, 21 giugno 1925). Questa immagine, condivisa con Kafka, potrebbe esserne stata ingluenzata. Certamente Rosenzweig aveva una fortissima ammirazione per il romanziere, ed ebbe ad affermare che Il castello gli ricordava della Bibbia più di qualsiasi altro libro, "e questa è la ragione per cui leggerlo non può dirsi un piacere."[26]

Il pensiero di Rosenzweig è esistenziale, cioè prende il punto di partenza dalla persona pensante stessa: "Credo che una filosofia, per essere adeguata, debba scaturire dal pensare generato dal punto di vista del pensatore. Per ottenere l'obiettività, il pensatore deve procedere arditamente dalla sua situazione soggettiva." (La stella della redenzione) E "tutta la conoscenza del Tutto trova la sua fonte nella morte, nella paura della morte."[22] In questa sua grande opera, l'autore senza sosta oppone il dualismo anima/corpo, il circolo chiuso disegnato da Hegel, e qualsiasi preteso sforzo di formulare il pensiero uscendo dall'esperienza del soggetto sofferente. Mentre la filosofia annullerebbe la morte non riconoscendola come significativa, il suo "nuovo modo di pensare" procede da essa. La morte è il riconoscimento della vita — non è una macchina fuori dal corpo che scrive filosofia. La sfida di questo nuovo pensare (da Schopenhauer e fino a Nietzsche) fu che rimpiazzò la concezione del mondo (Weltanschauung)[28] con la concezione della vita (Lebensanschauung). La filosofia tradizionale " ha sempre indagato l'essenza delle cose" (Il Nuovo Pensiero, 1925)[29] Ma "in verità ciò che fa la nuova filosofia, il nuovo pensiero, è di impiegare il metodo del gran buonsenso quale metodo del pensare scientifico." Il pensiero è legato al suo tempo e situazione. "In qualsiasi momento, la cognizione è legata proprio a quel momento e non può rendere il suo passato non passato, o il suo futuro non futuro." Anche la rivelazione è centrale allo schema, perché sebbene Dio debba essere separato (altrimenti l'uomo adorerebbe se stesso), tuttavia deve essere anche conoscibile. Il nuovo pensiero si interessa del linguaggio, la sua dinamica, modificazione e cambiamento, delle relazioni umane e del modo in cui queste vengono modificate, e anche di Dio, ma nel modo in cui uno entra in una relazione diretta con Lui. Pertanto Dio non è una categoria astratta, postulata dalla logica — se lo fosse la rivelazione sarebbe superflua e quindi impossibile. Inoltre sarebbe valutabile soltanto da coloro di grande e specializzato intelletto, non da ogni essere umano. La "nuova teoria della conoscenza" richiede che il contatto con Dio sia realizzato nella vita attiva. Non è interessata in verità accettate generalmente, in verità matematiche verità tautologiche, bensì in quelle questioni che l'uomo è disposto a pagare di persona, anche con la vita. Il nuovo pensiero oppone gli "ismi" con quello che sembra un altro "ismo" ma non lo è — "l'assoluto empiricismo".[26]

Martin Buber, ritratto in Israele (ca. 1950)

Qui bisogna ricordare, scaturito da questa caratterizzazione fidelista del pensiero ebraico, Martin Buber (1878-1965), collaboratore e collega anziano di Rosenzweig, e più noto al pubblico generale dello stesso Rosenzweig.[30] Buber è stato contemporaneamente un rivitalizzatore dell'ebraismo, un proponente di un sionismo umanistico, un riscopritore dello Chassidismo, un interprete della parola biblica e un sostenitore del dialogo significativo, tra uomo e uomo, e tra uomo e Dio. L'opera di Buber L'io e il tu (1922)[31] viene caratterizzata da Rosenzweig come facente parte del nuovo pensiero. Quest'opera è centrale nelle problematiche teoriche di Buber su materie sociali, religiose ed ebraiche. Come Rosenzweig, egli cerca un punto di partenza a procedere. Come Rosenzweig, egli prende l'individuo che sperimenta la vita come situazione primaria. Tuttavia per Buber, l'esperienza primaria è la relazione — e questa relazione è fatta di due tipi: Io-Tu e Io-Esso. L'Io non esiste di per se stesso, ma è dipendente dal carattere della sua relazione. E quanto alla seconda categoria: "L'Io della parola primaria Io-Esso, cioè, l'Io non contrapposto dal Tu ma circondato da una moltitudine di contenuti, non ha presente, solo passato." Pertanto Io-Tu contiene l'Esso, categorizzandolo. "Esso" diventa un "fu". D'altra parte, "Tu non ha limiti". "Tu" non viene legato, "tu" continua a vivere — un'esperienza vitale, continuativa, automodificante dell'"Io".[31]

Martin Buber in classe, all'Università Ebraica di Gerusalemme (ca. 1952)

Buber è stato molto discusso e analizzato, ed i suoi scritti sono così diffusi e disponibili da rendere superflui ulteriori apprezzamenti. Tuttavia deve essere giustamente riconosciuto non solo come portavoce dell'ebraismo tedesco, ma come un'importante voce contemporanea. L'ebraismo tedesco fu di molteplici ambizioni, fini e successi intellettuali. Rappresenta inoltre il primo tentativo nel mondo moderno di costruire un ebraismo totale, intransigente, che da una parte non si ritiri dal mondo moderno (e dal suo rispettivo pensiero), né, dall'altra, si restringa per potersi adattare a tale mondo. Assorbe piuttosto che farsi assorbire. Nessuno ha mai inciso la sua atmosfera e gli oscuri problemi in maniera più agghiacciante di Kafka in una serie di immagini conturbanti. Ma anche altri hanno tentato di rendersene conto tramite la reinterpretazione, lo studio e la revisione delle fonti tradizionali ed dell'esperienza attuale. Purtroppo il relativo completamento durò poco e quindi, forse, venne falsificato. La vita ebraica in Germania (e nel mondo germanofono) attraversò l'assimilazione, l'ortodossia, la simbiosi culturale ed il revivalismo. Tuttavia, dopo la Grande Guerra, durò circa una generazione: il suo fato dopo il 1933 è un'appendice patetica ad una storia affascinante.[2]

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 Lucy S. Davidowicz, The War Against the Jews 1933-45, Penguin Books, nuova ed. 1990.
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 2,5 E. Laqueur, The Weimar Republic: A Cultural History 1918-1933, Londra, 1974, pp. 24-32. Si veda anche Sharon Gillerman, Germans into Jews: Remaking the Jewish Social Body in the Weimar Republic, Stanford University Press, 2009, 128-140; Wolfgang Benz, Arnold Paucker, Peter Pulzer (curatori),Judisches Leben in Der Weimarer Republik /Jews in the Weimar Republic (Schriftenreihe Wissenschaftlicher Abhandlungen Des Leo Baeck), Mohr Siebeck, 1998, pp. 96-108.
  3. Su Rosa Luxemburg e la Lega Spartachista si vedano i relativi articoli su Wikipedia.
  4. John R.P. McKenzie, Weimar Germany, 1918-33, Littlehampton Book Services, 1971).
  5. 5,0 5,1 Peter Gay, Weimar Culture: The Outsider as Insider, W. W. Norton, 2001, cap. I.
  6. 6,0 6,1 6,2 6,3 Eric Heller, Kafka, Londra: Fontana Modern Masters, 1974.
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 Saul Friedlander, Franz Kafka: The Poet of Shame and Guilt, Yale University Press, 2013, "An ultimate quest for meaning".
  8. 8,0 8,1 8,2 8,3 8,4 8,5 8,6 Max Brod, Franz Kafka: A Biography, Praga 1937/New York 1960; Da Capo Press, 1995, passim. Max Brod (Praga, 27 maggio 1884 – Tel Aviv, 20 dicembre 1968) è stato un giornalista, scrittore e compositore ceco — ebreo cecoslovacco, è famoso soprattutto per essere stato biografo ed esecutore testamentario dell'amico Franz Kafka.
  9. 9,0 9,1 Racconto incompleto incluso in Durante la costruzione della muraglia cinese (Beim Bau der chinesischen Mauer), raccolta di racconti postumi di Franz Kafka il cui titolo deriva da uno di loro, così come sono stati editi da Max Brod con l'aiuto di Hans-Joachim Schops nel 1931, e ordinati in edizione italiana da Ervino Pocar.
  10. Lettere a Felice (Briefe an Felice Bauer, 1912-17), lettere a Felice Bauer.
  11. Un digiunatore (Ein Hungerkünstler, letteralmente "Un artista della fame"), racconto scritto da Franz Kafka che venne pubblicato inizialmente nel periodico Die neue Rundschau nel 1922, e successivamente nel 1924 nella raccolta omonima.
  12. Nella colonia penale è un racconto di Franz Kafka. Il titolo originale dell'opera, in tedesco, è In der Strafkolonie. Scritto tra il 5 e il 18 ottobre 1914, venne pubblicato per la prima volta da Kurt Wolff, editore di Lipsia nel 1919. Non si è conservato il manoscritto.
  13. 13,0 13,1 13,2 13,3 Il processo (Der Prozess) è un romanzo incompiuto di Franz Kafka, pubblicato per la prima volta nel 1925. È una storia surreale di un impiegato di nome Josef K che viene accusato, arrestato e processato per motivi misteriosi. Il romanzo si compone di 10 capitoli, scritti principalmente fra l'agosto del 1914 e il gennaio del 1915, ma riveduti a più riprese da Kafka fino al 1917. Sebbene l'opera sia incompiuta, l'ordine dei capitoli rispecchia le indicazioni dell'autore, e sono presenti sia il capitolo iniziale che quello finale. Il manoscritto giunse nel 1920 nelle mani di Max Brod che lo valutò come la più grande opera dello scrittore. Brod esaminò il manoscritto, eseguendo alcune piccole modifiche per compensarne le lacune, e contrariamente alla volontà dell'autore, che desiderava che l'opera fosse bruciata dopo la sua morte, pubblicò il romanzo nel 1925. Cfr. int. al., la trad. it. di Lieselotte Longato, Firenze: Giunti, 2006.
  14. La condanna (Das Urteil), conosciuto in italiano anche come Il verdetto o La sentenza, è un racconto di Franz Kafka, scritto nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1912, dalle 22 alle 6 di mattina (come dice Kafka stesso nel Diario). In esso è particolarmente evidente il tema del conflitto tra padre e figlio. Il racconto è stato pubblicato la prima volta con la dedica alla signorina Felice B. (Felice Bauer) su Arkadia, rivista a cura di Max Brod, presso l'editore Kurt Wolff di Lipsia nel 1913 e in volumetto presso lo stesso nel 1916 (con qualche variante).Cfr. Wikipedia Stralci del testo sono presi dall'edizione I racconti di Kafka, trad. Henry Furst, Longanesi, 1965.
  15. I racconti di Kafka, cit., trad. Henry Furst, p. 37.
  16. 16,0 16,1 16,2 Lettera al padre (Brief an den Vater) è una lettera di Franz Kafka al padre, scritta nel 1919 e pubblicata postuma nel 1952. In questa lettera, come nei Quaderni in ottavo, lo scrittore rende con chiarezza quei presupposti filosofici e psicologici che nei suoi romanzi tanto sono nascosti dallo stile e dai temi volutamente surreali e oscuri. Per le relative edizioni in italiano, si veda Wikipedia, s.v. "Lettera al padre". Per il testo, si veda anche Lettera al padre, su violettanet.it per le edizioni newton compton.
  17. 17,0 17,1 America (Amerika) è un romanzo giovanile di Franz Kafka scritto tra il 1911-14, rimasto incompiuto e pubblicato postumo in Germania nel 1927. Il titolo originario dell'opera era Il disperso (Der Verschollene), ma Max Brod, che ne curò la pubblicazione, lo cambiò in America. Inizialmente ideato come racconto dal titolo "Il fochista", la storia descrive le quanto mai bizzarre peregrinazioni di un emigrante europeo di sedici anni nel "Nuovo Mondo". Cfr. int. al., la trad. it. di Umberto Gandini, Milano: Feltrinelli ("UE" n. 2130), 1996.
  18. 18,0 18,1 Tale parabola fu scritta dall'autore precedentemente ed intitolata "Davanti alla legge" (Vor dem Gesetz) ed è contenuta nel romanzo Il Processo (Der Prozess). In qualità di racconto breve fu pubblicata mentre Kafka era ancora in vita, la prima volta nell'edizione di Capodanno del 1915 del settimanale ebraico indipendente Selbstwehr, poi, nel 1919, fu inserita nella raccolta Ein Landarzt (Un medico di campagna). Il Processo, tuttavia, non fu pubblicato fino al 1925, l'anno successivo alla morte di Kafka.
  19. Il castello (Das Schloß), scritto intorno al 1922 e pubblicato postumo nel 1926, è l'ultimo dei tre romanzi dello scrittore praghese. Rimasto incompiuto, Il castello, spesso oscuro e a volte surreale, è centrato sui temi della burocrazia, della legge come ordine globale, e quindi dell'alienazione e della frustrazione continua dell'uomo che tenta di integrarsi in un sistema che mentre lo invita, contemporaneamente lo allontana emarginandolo. Si veda l'introduzione di Roberto Fertonani, per l'edizione it. Il castello, trad. di Anita Rho, Oscar Mondadori, 1979.
  20. 20,0 20,1 La metamorfosi (Die Verwandlung) di Kafka è stata pubblicata per la prima volta nel 1915 dal suo editore Kurt Wolff a Lipsia. La storia comincia col protagonista Gregor Samsa che, risvegliatosi una mattina, si ritrova trasformato "in un gigantesco insetto": la causa che ha portato ad una tal mutazione non viene mai rivelata. Tutto il seguito del racconto narra dei tentativi compiuti dal giovane Gregor per cercar di regolare - per quanto possibile - la propria vita a questa sua nuova particolarissima condizione, soprattutto nei riguardi della famiglia, i genitori e la sorella. Cfr. int. al. la trad. it. di Enrico Ganni per Einaudi, 2008.
  21. Franz Rosenzweig (Kassel, 25 dicembre 1886 – Francoforte sul Meno, 10 dicembre 1929) è stato un filosofo tedesco, allievo di Heinrich Rickert e di Friedrich Meinecke. Come il suo amico e collaboratore, il filosofo Martin Buber, fu un esponente di quell'ebraismo più aperto al Cristianesimo. Nato da una famiglia ebraica non troppo osservante, la sua formazione è stata prettamente secolare, studiando storia e filosofia presso le Università di Gottinga, Monaco di Baviera e Friburgo. Dopo un primo avvicinamento alle posizioni esistenzialistiche in funzione anti-idealistica, in polemica soprattutto con il grande e unitario sistema filosofico di Hegel, del quale è considerato uno specialista, s'incamminò in una nuova elaborazione che denominò "filosofia esperiente" o "empirismo assoluto" che troverà formulazione scritta nella sua opera più importante La stella della redenzione del 1921. Visse perlopiù a Francoforte in un periodo in cui la cultura ebraica molto attiva era rappresentata dai nomi dello psicoanalista Erich Fromm, dal noto esperto del misticismo ebraico e della Kabala ebraica, Gershom Scholem, e dal filosofo Martin Buber che allora stava lavorando alla sua concezione del "principio dialogico". Con quest'ultimo Rosenzweig ha inoltre lavorato per la traduzione della Torah dall'ebraico al tedesco, ed è stato il fondatore della Casa dell'educazione ebraica, un posto dove gli ebrei possono riscoprire le loro radici e la propria cultura. Dal 1924 fino alla morte tenne la cattedra di filosofia e teologia ebraica dell'Università di Francoforte. Egli soffriva di una grave malattia muscolare, la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) e continuò a scrivere solo con l'aiuto della moglie. Tra gli autori nei quali si risente un'influenza del suo pensiero va annoverato l'esponente della Scuola di Francoforte e critico d'arte Walter Benjamin.Cfr. Wikipedia
  22. 22,0 22,1 La stella della redenzione (Der Stern der Erlösung, 1921), nelle intenzioni di Franz Rosenzweig, è un'opera intesa come ultima parola e solo in quanto tale definitiva e però relativa (al pensiero della morte). Anche se alcune spiegazioni si troveranno nel successivo Das neue Denken, pubblicato nel 1925, il libro resta di fatto un poco misterioso e seppure viene venduto nelle comunità ebraiche con una certa frequenza, è di fatto poco letto, e soprattutto, in vita l'autore, piuttosto travisato o del tutto ignorato. In qualche modo quindi, è un libro ultimo, di comprensione e accettazione in ambito filosofico (non solo ebraico) quale postumo. Scritto durante la prima guerra mondiale dapprima su cartoline postali, il libro si basa sulla figura della stella a sei punte (stella di David) che conta a partire dall'alto verso destra gli elementi di Dio, Rivelazione, Uomo, Redenzione, Mondo, Creazione, nei due triangoli dunque di tre essenze (divino, umano, cosale) nelle loro tre relazioni, al quale si applica una lettura intrecciata e non scomponibile di tre ambiti di pensiero: la teologia cristiana, la riflessione religiosa ebraica e la filosofia. Nonostante l'opera fosse conosciuta e citata direttamente dalle diverse edizioni tedesche, una traduzione completa italiana è apparsa solo nel 1985, a cura di Gianfranco Bonola, presso Marietti editore di Genova e poi altrove.Cfr. Wikipedia
  23. Leonello Levi, Franz Rosenzweig - Filosofo, Teologo dell'Ebraismo nella Germania del primo '900, Ed. Sometti, Mantova 2012, pp. 34-46 & passim.
  24. Tale esperienza non viene registrata nei suoi scritti, ma è riportata dalla madre al suo biografo Nahum Glatzer. Cfr. Nahum Norbert Glatzer, Franz Rosenzweig - his life and thought, New York: Schocken Books, 1953, s.v.
  25. Lo Shema in ebraico שמע, "Ascolta" (a volte detto Shema Israel, שמע ישראל) è una preghiera della liturgia ebraica. È in genere considerata la preghiera più sentita, forse assieme al Kaddish. La sua lettura (Qiriat Shema) avviene due volte al giorno, nella preghiera ebraica mattutina ed in quella serale.
  26. 26,0 26,1 26,2 26,3 26,4 26,5 Nahum Norbert Glatzer, Franz Rosenzweig - his life and thought, New York: Schocken Books, 1953/1961. In partic. si veda l'edizione Hackett Publishing, 1998, pp. 23-31 e capp. segg.
  27. Prima fila, seduti (da sin. a destra): Franz Rosenzweig (in piedi), Victor Ehrenberg e Paul Ehrenberg (dietro a Victor), Else Ehrenberg (sposa), Hans Ehrenberg (sposo), Emi Ehrenberg (madre dello sposo, seduta). Seconda file, da sin. a destra: Rudolf Ehrenberg (in piedi), sorella della sposa (dietro), madre della sposa (davanti), Victor Goldsmith (dietro), sorella della sposa (davanti), Mona Philips (moglie di Carlo). Terza fila (da sin. a destra): Otto Ehrenberg (padre della sposo), Richard Ehrenberg, Carlo Philips, il padre della sposa.
  28. Il termine Weltanschauung appartiene alla lingua tedesca ed esprime un concetto fondamentale nella filosofia ed epistemologia tedesca, spesso applicato in vari altri campi, in primis nella critica letteraria e della storia dell'arte. Non è letteralmente traducibile in lingua italiana perché non esiste nel suo lessico una parola che le corrisponda appieno: essa esprime un concetto di pura astrazione che può essere restrittivamente tradotto con "visione del mondo", "immagine del mondo" o "concezione del mondo" e può essere riferito a una persona, a un gruppo umano o a un popolo, come a un indirizzo culturale o filosofico o a un'istituzione ideologica in generale e religiosa in particolare.Cfr. Wikipedia
  29. Das neue Denken (1925), trad. it. Il nuovo pensiero, a cura di Gianfranco Bonola, commento di Gershom Scholem, Venezia: Arsenale, 1983.
  30. Martin Mordechai Buber (Vienna, 8 febbraio 1878 – Gerusalemme, 13 giugno 1965) è stato un filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano. Si deve a lui l'emersione alla cultura europea del movimento chassidim, ma soprattutto a lui si deve l'idea che la vita è fondamentalmente non-soggettività, bensì intersoggettività, anzi per Buber soggetto e intersoggettività sono sincronicamente complementari e ne era talmente convinto che non esitò ad affermare: "In principio è la relazione".
  31. 31,0 31,1 Ich und Du, Berlino, 1922; trad. it. L'io e il tu, tr. Anna Maria Pastore, Pavia: Irsef, 1991.