La vita e... tutto quanto/Capitolo 3
Qualcosa piuttosto che niente
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La posizione che abbiamo raggiunto è che, mentre la scienza mira a fornire una descrizione quanto più completa ed esauriente possibile dell'universo, non importa quanto riuscita e unificata sia la teoria con cui finisce, non può spiegare perché ci debba essere un universo da spiegare. Ci scontriamo con l'antica domanda filosofica "Perché c'è qualcosa piuttosto che niente?" e sembra chiaro, riflettendoci, che nulla nell'universo osservabile potrebbe davvero rispondere a questa domanda. Se esistesse una soluzione all'"enigma della vita nello spazio e nel tempo", dovrebbe trovarsi al di fuori dello spazio e del tempo. E qui ci imbattiamo in un altro muro cieco: se una tale soluzione deve trovarsi oltre i limiti dell'universo temporale e spaziale, fuori del "mondo fenomenico", come lo chiamava Immanuel Kant, allora non dovrebbe essere oltre l'orizzonte di ciò che è umanamente conoscibile? Se esiste un reame trascendente del "noumenico" – qualcosa al di là dei fenomeni, che spiega perché noi e l'universo siamo qui – allora c'è il rischio che non ci sia nulla che possiamo dire in modo coerente al riguardo.
Forse qui abbiamo raggiunto i limiti della scienza, ma non abbiamo necessariamente raggiunto i limiti del discorso umano. Esiste una ricca tradizione di linguaggio religioso, sia nella nostra cultura occidentale che altrove, alle prese con il compito di affrontare ciò che non può essere pienamente catturato nemmeno dal resoconto scientifico più completo del mondo fenomenico. Si potrebbe dire che è compito del discorso religioso tendere ai limiti del dicibile. Alcuni tipi di teologia, a dire il vero, hanno mirato a mantenersi interamente entro i confini dell'evidenza osservabile e della dimostrazione razionale, invocando Dio come ipotesi esplicativa per spiegare certi aspetti della realtà (come ordine, disegno, movimento e così via), piuttosto alla maniera di uno scienziato che cerca la migliore spiegazione dei dati. Questo filone duraturo della teologia naturale ha affascinato molti filosofi nel corso dei secoli, sebbene abbia subito una grave erosione nell'età moderna a causa del successo di spiegazioni nonteistiche rivali dei fenomeni rilevanti (in particolare il trionfo del darwinismo). Ma accanto a questo filone quasi-scientifico della teologia, esiste anche una vasta gamma di linguaggio religioso che invoca simboli, metafore, poesia, narrativa e altri elementi apprezzati per il loro presunto potere rivelatore piuttosto che per la loro rigorosa forza dimostrativa; il discorso religioso è qui volto ad affrontare ciò che non può essere pienamente espresso a parole, almeno nelle parole della nostra cultura scientifica razionale, ma che può ancora in qualche modo essere mostrato, svelato, reso manifesto.
Tale discorso religioso brancola verso qualcosa al di là del mondo fenomenico che può dare significato all'universo e alle nostre vite umane. Potrebbe non fornire una soluzione scientifica razionale al vecchio enigma del perché esista qualcosa piuttosto che nulla, poiché, come abbiamo visto, questa è una domanda che potrebbe trovarsi oltre i limiti della conoscenza sistematica. Ma i suoi sostenitori sostengono che esso allevia comunque la vertigine, la "nausea", come la chiamava Jean-Paul Sartre, che proviamo nell'affrontare il vuoto mistero dell'esistenza. La risposta religiosa – una delle numerose risposte al problema del significato della vita che sarà esaminato nelle pagine che seguono – mira a collocare le nostre vite in un contesto che fornirà loro significato e valore. Invece di sentirci gettati in un mondo alieno arbitrario dove alla fine nulla conta, ci offre la speranza di poter trovar casa.