Gli dèi della Grecia/Le caratteristiche di un dio greco

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La dea Afrodite (Aφροδίτη) a cavallo di un cigno (dalla tomba F43 Kameiros, Rodi). Il cigno animale sacro alla Dea e compagno di Apollo, nella tradizione religiosa greca è una ierofania vivente della luce.
Statua di Iupiter alta circa 3 metri, risalente alla fine del I secolo d.C., ma restaurata nel XIX secolo. Proveniente dalla villa di Domiziano a Castel Gandolfo questa statua è oggi conservata presso il Museo statale Ermitage di San Pietroburgo.
La statua di Iupiter è probabilmente ispirata alla statua di Zeus, quest'ultima opera di Fidia (cfr. Pausania V, 10,2) e ospitata nell'omonimo tempio a Olimpia, ma andata poi perduta, probabilmente a seguito dell'incendio dello stesso provocato in base a un editto di Teodosio II[1].
Considerata una delle "Sette meraviglie"[2] ne resta la seguente descrizione di Pausania:
« Il dio, fatto d'oro[3] e d'avorio[4], è seduto in trono. Gli sta sulla testa una corona lavorata in forma di ramoscelli d'ulivo. Nella mano destra regge una Nike, anch'essa criselefantina, con una benda e, sulla testa, una corona. Nella mano sinistra del dio è uno scettro ornato di ogni tipo di metallo, e l'uccello che sta posato sullo scettro è l'aquila[5]. D'oro sono anche i calzari del dio e così pure il manto. Nel manto sono ricamate figurine di animali e fiori di giglio. »
(Pausania, Viaggio in Grecia (Libri V e VI), V, 11, 1-2. Traduzione di Salvatore Rizzo, Milano, Rizzoli, 2001, p.161.)

Il termine con cui in lingua greca antica si indica genericamente un dio è Theós (Θεός; pl. Theoí Θεοί)[6]. Se l'equivalenza tra l'italiano e il greco antico è questa, tali termini si differenziano però nei loro significati. Già Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff aveva evidenziato come il termine theós non dispone in greco antico del vocativo, osservazione dirimente se prendiamo in considerazione l'importanza del culto in questa religione. Infatti con il vocativo vengono indicati esclusivamente i nomi propri degli Dei. Károly Kerényi[7] osserva in aggiunta che theós possiede la funzione di predicato, chiarendo che «è specificatamente greco dire di un evento: "È theós!». Kerényi cita ad esempio Euripide che in Elena fa sostenere che «O dèi! Perché è dio quando si riconoscono i propri cari.»[8]. Theós è quindi l'irrompere dell'"evento divino" (theîon θεῖον). E tale "divino" è, per la concezione religiosa dei Greci, nota Walter F. Otto:

« il fondamento di ogni essere e di ogni accadere, e tale fondamento traspare così chiaramente attraverso ogni cosa e fatto, che essa è obbligata a parlarne anche in rapporto alle cose e ai fatti più naturali e comuni »
(Walter F. Otto. Gli dèi della Grecia. Milano, Adelphi, 2004, p. 25)

Sulla domanda inerente alla natura del "dio" greco lo studioso statunitense di origini tedesche, Albert Henrichs[9], chiarisce infine che le risposte possono risultare diverse, dipendendo soprattutto da chi pone la domanda. Così se ponessimo questa domanda a un greco del periodo classico, questi probabilmente risponderebbe che potrebbe descrivere tale "dio" solo nel momento in cui, per mezzo di visioni o sogni, lo ha incontrato; anche se un greco più attento potrebbe subito aggiungere che un incontro con la manifestazione reale di una divinità è sempre estremamente pericoloso vista la loro “potenza” [10].

Henrichs ci ricorda inoltre che un’importante risposta alla domanda in cosa consista un dio greco è conservata in un oracolo riferito ad Apollo Klarios (Κλάριος), inciso su un altare rinvenuto nella città di Oinoanda (nord della Licia) e risalente al III secolo d.C.

In questo oracolo il dio è indicato come "autogenerato", "innato", "privo di madre", "incrollabile", "privo di nome", "pieno di nomi", "dimorante nell’etereo fuoco"[11].

Il nome, e quindi le caratteristiche misteriose del dio greco, di per sé eterno, ingenerato e dimorante nel fuoco etereo, è ineffabile ma al contempo pieno.

Un quadro descrittivo del "dio" greco che si riscontra nelle teologie, in altri testi oracolari, negli inni orfici e nei papiri magici. Un "dio" circondato dai suoi messaggeri, gli ἄγγελοι, che sono sue emanazioni, fino agli uomini, che in età imperiale saranno considerati, nelle cerchie filosofiche, parti stesse del "dio"[12].

La nozione greca della divinità[modifica]

Come ha acutamente evidenziato Jean-Pierre Vernant[13] gli dèi greci non sono persone con una propria identità, quanto piuttosto risultano essere "potenze" (δύναμις) che agiscono assumendo poliedriche forme e segni non identificandosi mai completamente con tali manifestazioni. Gabriella Pironti[14] ricorda a tal proposito l'Anabasi (VII, 8, 6-1) di Senofonte (430-354 a.C.) il quale si trova in condizioni di difficoltà economiche perché pur avendo onorato Zeus Basileus (βασιλεύς, Re) si è dimenticato di onorare Zeus Meilichios (μειλίχιος termine che evoca il miele) collegato alle fortune familiari e quindi economiche.

Queste potenze sono, come già ricordava Walter F. Otto nel classico Die Götter Griechenlands. Das Bild des Göttlichen im Spiegel des griechischen Geistes (Bonn 1929)[15] "il motore del mondo".

E André Motte aggiunge:

« Non cessano mai di muoversi e di agire al suo interno e condizionano l'esistenza umana attraverso l'ambiente naturale, i mezzi di sussistenza e tutti gli aspetti della vita sociale e politica. Ma agiscono anche all'interno degli uomini, nella loro intimità più profonda, quella che, per brevità, noi chiamiamo anima, sapendo bene, tuttavia, che può essere rischioso, usare questo concetto in relazione all'esperienza greca del divino »
(André Motte. Il mondo greco. Il sacro nella natura e nell'uomo: la percezione del divino nella Grecia antica in Le civiltà del Mediterraneo e il sacro (a cura di Julien Ries). Trattato di Antropologia del sacro vol.3. Milano, Jaca Book, 1992, p. 250)
« Nel mondo proprio dell'uomo greco le forze che dominano la vita umana e che noi conosciamo come disposizioni dell'animo, inclinazioni, entusiasmi, sono figure dell'essere, di natura divina, che come tali, non hanno solo da fare con l'uomo, ma, infinite ed eterne, dominano la terra e il cosmo: Afrodite (l'incanto d'amore), Eros (la forza dell'amore e della procreazione); Aidós (il delicato pudore); Eris la discordia ecc.. I moti dell'anima non sono che l'afferramento da parte di queste forze eterne, che, sotto figura divina, sono ovunque operose. »
(Walter F. Otto. Theophania. Genova, Il Melangolo, 1996, p. 62-3)

Così in Omero non si sostiene che si 'ha' un modo giusto di vedere, ma si 'comprende' tale modo, e lo si comprende perché esso ci appare per mezzo delle divinità[16] (nozione della atē ἄτη espressa anche dal verbo aasasthai, in quest'ultimo caso senza l'intervento divino[17]). E tale apparizione può essere da loro offuscata come denunciano Omero e i tragici, quindi chi sbaglia non lo fa per cattiva volontà ma perché gli dei decidono di offuscargli la mente[16]. Allo stesso modo «in ogni azione importante dell'uomo agisce un Dio»[18].

Anche se, come evidenzia Max Pohlenz, persino nei momenti in cui è condizionato da tali "potenze" egli non si percepisce come privo di "libera scelta":

« Anche quando, nel corso di un ragionamento, il pensiero prende una direzione inattesa, l'ispirazione divina non fa altro che portare a quella decisione che risponde alla sensibilità dell'individuo. »
(Max Pohlenz L'uomo greco. Milano, Bompiani, 2006, p. 21)

Gli dèi greci sono dunque "potenze" caratterizzate dall'essere estranee agli affanni (ἀκηδής akēdḗs) e dalla sofferenza (ἀχεύω acheúō) come ricorda l'eroe Achille:

(IT)
« Questo destino hanno dato gli dèi ai mortali infelici:
vivere afflitti, ma loro sono immuni da pena »

(GRC)
« ὡς γὰρ ἐπεκλώσαντο θεοὶ δειλοῖσι βροτοῖσι
ζώειν ἀχνυμένοις• αὐτοὶ δέ τ' ἀκηδέες εἰσί. »
(Iliade XXIV, 525-6. Traduzione di Guido Paduano p. 781)

Anche se, notano Giulia Sissa e Marcel Detienne[19], questa demarcazione tra dèi e uomini non sempre è rispettata come nel caso, ad esempio, di Efesto e di Teti che si qualificano come colpiti dal dolore (achnymenoi)[20][21].

Il corpo fisico, spesso di forma umana, con cui possono manifestarsi gli dèi non coincide con quello naturale: in esso, infatti, non circola il sangue ma un altro umore, l'ichór (ἰχώρ). Questo perché gli dèi non si alimentano di cereali e di vino[22]:

(IT)
« l'icore che scorre nelle vene agli dèi beati,
perché non mangiano pane, non bevono il vino lucente:
per questo non hanno sangue e sono chiamati immortali. »

(GRC)
« ἰχώρ, οἷός πέρ τε ῥέει μακάρεσσι θεοῖσιν•
οὐ γὰρ σῖτον ἔδουσ', οὐ πίνουσ' αἴθοπα οἶνον,
τοὔνεκ' ἀναίμονές εἰσι καὶ ἀθάνατοι καλέονται.
 »
(Iliade V, 340-3. Traduzione di Guido Paduano p. 145)

Purtuttavia questi corpi fisici si manifestano come potenze come quando Apollo colpisce con la mano Patroclo[23], e sono individuabili anche se utilizzano corpi simili agli uomini, proprio per mezzo delle loro tracce (ichnos, ἴχνος) come osserva Aiace Oileo dopo aver scorto Posidone[24].

Resta che, come notano Giulia Sissa e Marcel Detienne:

« Camminare, e anche strisciare (herpein), è una modalità tipicamente mortale di avere a che fare con lo spazio; laddove gli dei "posseggono" il luogo che abitano, e sono "coloro che hanno l'Olimpo", hoi Olympon echousi, i mangiatori di pane sono coloro che percorrono un terreno che non appartiene loro e che, a prestare fede ai Canti Ciprii, nemmeno basta a sostentarli. »
(Giulia Sissa e Marcel Detienne. La vita quotidiana degli dei greci. Bari, Laterza, 2006, p. 23)

Gli dèi greci posseggono inoltre la caratteristica di differenziarsi nell'ambito delle loro rispettive "potenze" e di pagarne caro il prezzo qualora si avventurassero in ambiti che non gli sono propri, come ricorda Zeus ad Afrodite ferita da Diomede dopo il suo tentativo di proteggere Enea[25]. O ancora corrono a chiedere il sostegno della potenza altrui, come fa Era, ottenendo il nastro ricamato "dov'erano tutti gli incanti" proprietà di Afrodite, allo scopo di sedurre il re degli dèi Zeus[26].

Separati dagli uomini per natura, condizione e destino, gli dèi vengono rappresentati dai greci secondo i canoni assoluti della bellezza. In questo, sottolinea Mircea Eliade, si distingue un tratto preciso della religione greca:

« L'antropomorfismo degli dèi greci, quale lo possiamo cogliere nei miti e che sarà più tardi aspramente rimproverato dai filosofi, ritrova il suo significato religioso nella statuaria divina. Paradossalmente, una religione che proclamava la distanza irriducibile tra il mondo divino e quello dei mortali, considera la perfezione del corpo umano come la rappresentazione più adeguata degli dèi. L’elemento che più mi preme sottolineare è però la valorizzazione religiosa del presente; il semplice fatto di esistere, di vivere nel tempo, comporta già una dimensione religiosa. La gioia di vivere scoperta dai Greci non è però un godimento di tipo profano: rivela la beatitudine di esistere, di partecipare – anche in modo fuggevole – alla spontaneità della vita e alla grandiosità del mondo. Come tanti altri prima e dopo di loro, i Greci hanno appreso che il mezzo più sicuro di sfuggire al tempo è quello di sfruttare fino in fondo la ricchezza, a prima vista insospettabile, dell’attimo fuggente. »
(Mircea Eliade. Storia delle credenze e delle idee religiose vol.1. Milano, Rizzoli, 2006, p. 287 e segg.)

Origine del termine e nozione di "politeismo"[modifica]

La religione greca è dunque indubbiamente, almeno nei suoi aspetti più diffusi, una religione politeistica. Occorre tuttavia precisare che sia il termine che la nozione di "politeismo" non sono conosciuti nel mondo greco.

Il termine "politeismo" è attestato nelle lingue moderne per la prima volta nella lingua francese (polythéisme) a partire dal XVI secolo [27]. Il termine polythéisme fu coniato dal giurista e filosofo francese Jean Bodin, e quindi utilizzato per la prima volta nel suo De la démonomanie des sorciers (Parigi, 1580), per poi finire nei dizionari come il Dictionnaire universel françois et latin (Nancy 1740), il Dictionnaire philosophique di Voltaire (Londra 1764) e, l'Encyclopédie di D’Alembert e Diredot (seconda metà del XVIII secolo), la cui voce polytheisme è curata dallo stesso Voltaire. Utilizzato in ambito teologico in opposizione a quello di "monoteismo"; entra nella lingua italiana nel XVIII secolo [28].

Il termine polythéisme, quindi "politeismo", è formato da termini derivati dal greco antico: πολύς (polys) + θεοί (theoi) ad indicare "molti dèi"; quindi da polytheia, termine coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone di Alessandria (20 a.C.-50 d.C.) per indicare la differenza tra l'unicità di Dio nell'Ebraismo rispetto alla nozione pluralistica dello stesso propria delle religioni antiche[29], tale termine fu poi ripreso dagli scrittori cristiani (ad esempio da Origene in Contra Celsum).

Note[modifica]

  1. Cfr. Salvatore Rizzo nota 2 p.485 e nota 1 p.491, in Pausania, Viaggio in Grecia (Libri V e VI). Milano, Rizzoli, 2001.
  2. Cfr. Igino Astronomo, 223.
  3. «Figlio di Zeus è l’oro, non lo intacca né tarma né tarlo» (Pindaro, fr. 222 M.). «Le statue dedicate a Zeus venivano ritualmente decorate con il prezioso metallo che, essendo l'unico materiale immutabile nel colore, nella lucentezza e nella resistenza veniva destinato in Grecia, come in tutto il Mediterraneo all'ambito del sacro.» Lia Luzzatto e Renata Pompas. Il significato dei colori nelle civiltà antiche. Milano, Bompiani, 2005, p. 189.
  4. L'avorio è considerato "carne divina" e quindi destinato all'arte sacra, questo sia per la sua preziosità sia per il fatto che rappresentava meglio del "bianco" il fulgore divino (cfr. Valentina Manzelli. La policromia nella statuaria greca arcaica. Roma, L'Erma di Bretschneider, 1994, p. 64; Lia Luzzatto e Renata Pompas. Il significato dei colori nelle civiltà antiche. Milano, Bompiani, 2005, p. 108).
  5. Cfr. anche:
    « Sullo scettro di Zeus
    l'aquila la regina degli uccelli
    dorme calando l'una e l'altra
    rapida ala [...] »
    (Pindaro. Pitiche I, 11-4, Per Ierone e per Etna. Traduzione di Enzo Mandruzzato. Pindaro Tutte le opere. Milano, Bompiani, 2010, p.209)
  6. L'origine è incerta, dopo una disamina sulle possibili connessioni, Pierre Chantraine, nel suo Dictionnaire étymologique de la langue grecque Tomo II, Parigi, Klincksiec, 1968 pag. 430, conclude:
    « Finalement l'ensemble reste incertain »
    Émile Benveniste, tuttavia, nel suo Le Vocabulaire des institutions indo-européennes(2 voll., 1969, Paris, Minuit. Ed. italiana, a cura di Mariantonia Liborio, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Torino, Einaudi, 1981) collega theós a thes- (relazionato sempre al divino). Quindi thésphatos (θέσφατος stabilito da una decisione divina), thespésios (θεσπέσιος, 'meraviglioso' inerente al canto delle sirene, "enunciato di origine divina"), théskelos (θέσκελος, più incerto, "prodigioso o divino"); e questo a *dhēs che si ritrova nel plurale armeno dikc (gli "dèi", -kc è il segno plurale). Quindi per Émile Benveniste: «è del tutto possibile -ipotesi già avanzata da tempo- che si debba mettere in questa serie Theós 'Dio' il cui prototipo più verosimile sarebbe proprio *thesos. L'esistenza dell'armeno dikc 'dèi' permetterebbe allora di formare una coppia lessicale greco armena»(cfr. Volume II, pag. 385).
  7. Cfr. Károly Kerényi. Griechische Grundbegriffe. Zurigo, Rhein-Verlag, 1964.
  8. Cfr. Károly Kerényi. Religione antica (Antike Religion). Milano, Adelphi, 2001, p. 209.
  9. Albert Henrichs. What is a Greek God? In The Gods of Ancient Greece. Identities and Transformations (a cura di Jan N. Bremmer e Andrew Erskine). Edinburgh University Press, Edinburgh, 2010, pp. 19 e sgg.
  10. Cfr. Iliade XX, 131
  11. αὐτοϕυής, ἀδίδακτος, ἀμήτωϱ, ἀστυϕέλικτος, οὔνομα μὴ χωϱῶν, πολυώνυμος, ἐν πυϱὶ ναίων, τοῦτο θεός· μικϱὰ δὲ θεοῦ μέϱις ἄγγελοι ἡμεῖς
  12. Albert Henrichs. What is a Greek God? In The Gods of Ancient Greece. Identities and Transformations (a cura di Jan N. Bremmer e Andrew Erskine). Edinburgh University Press, Edinburgh, 2010, pp. 19 e sgg.
  13. Cit. in Gabriella Pironti Op.cit. p. 31
  14. Gabriella Pironti. Op.cit. p. 31.
  15. Traduzione in italiano: Gli dèi della Grecia, Adelphi, Milano 2004.
  16. 16,0 16,1 Walter F. Otto. Theophania, pagg. 63-4
  17. Eric R. Dodds. I greci e l'irrazionale. Milano, Rizzoli, 2009, p.47.
  18. Walter F. Otto. Theophania, p. 67
  19. Giulia Sissa e Marcel Detienne. La vita quotidiana degli dei greci. Bari, Laterza, 2006, p. 20
  20. Iliade I, 588; XIX, 8
  21. In tal senso Fritz Graf in Gli dèi greci e i loro santuari, "Storia Einaudi dei Greci e dei Romani" vol.3. Torino-Milano, Einaudi/Sole 24 Ore, 2008, p.346 dove evidenzia che gli dèi greci conoscono il dolore sia fisico che spirituale: ciò che li distingue dagli uomini è il fatto di essere immortali, sempre giovani e "singolarmente irresponsabili di tutto ciò che fanno".
  22. Qui va citata la nota n.8 (del capitolo II) di Giulia Sissa e Marcel Detienne. La vita quotidiana degli dei greci. Bari, Laterza, 2006, p. 20 dove si evidenzia che non è la carne a rendere tale il sangue agli uomini.
  23. Iliade XVI 789 e segg.
  24. Iliade XIII, 43 e segg.
  25. Iliade V, 330 e segg.
  26. Iliade XIV, 198 e segg.
  27. Paolo Scarpi, Politeismo in Dizionario delle religioni, Torino, Einaudi, 1993, p. 573.
  28. Alberto Nocerini, L'Etimologico, Firenze, Le Monnier, edizione elettronica
  29. Gabriella Pironti. Il "linguaggio" del politeismo in Grecia: mito e religione vol.6 della Grande Storia dell'antichità (a cura di Umberto Eco). Milano, Encyclomedia Publishers/RCS, 2011, pag.22.