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Storia della filosofia/Teorie economiche del Novecento

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Storia della filosofia

Gli storici del pensiero economico valutano in modi diversi sia le singole scuole, sia il loro succedersi. Vi è un punto di vista "cumulativo", secondo il quale si è avuto e continua un progressivo avvicinamento alla verità e, pertanto, la storia del pensiero economico deve essere «storia delle verità economiche».[1] Vi è anche un punto di vista "competitivo", secondo il quale l'esistenza di diverse scuole mostra che sono possibili approcci diversi allo studio dei fenomeni economici, nessuno dei quali nettamente preferibile agli altri.[2] Qualsiasi teoria economica, quindi, può essere criticata o perché migliorata da altre successive, o perché basata su un approccio non condiviso da altre. Le varie correnti di pensiero della storia economica hanno influenzato profondamente le relative politiche economiche adottate dai vari Stati nazionali nel corso della storia moderna e contemporanea.

La rivoluzione marginalista

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Negli anni 1871-1874 vennero pubblicate le opere di tre economisti (Carl Menger, William Stanley Jevons e Léon Walras) che cambiarono radicalmente il corso della teoria economica. L'attenzione si spostò dalle classi sociali al singolo individuo (cosiddetto «individualismo metodologico»), alla soddisfazione dei suoi bisogni procurata da beni che posseggono un valore in quanto sia utili che scarsi. Concetto cardine della nuova impostazione, detta marginalismo, è l'andamento decrescente di tale soddisfazione all'aumentare della quantità consumata. Il prezzo di un bene non viene più ricondotto al suo costo di produzione, ma alla disponibilità dei singoli a pagare per ottenerlo, una disponibilità che diminuisce all'aumentare del consumo.

Walras e Pareto

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Léon Walras
Vilfredo Pareto

Léon Walras (1834-1910) si propose di descrivere il meccanismo di formazione dei prezzi mediante un sistema di equazioni che esprimessero l'incontro di domanda e offerta in un sistema economico nel suo complesso. Individuò a tale scopo:

  • n equazioni di offerta complessiva di «servizi produttivi» (terra, lavoro, capitale), ognuna dipendente dai prezzi sia dei servizi produttivi che dei beni di consumo;
  • m equazioni di domanda complessiva per i beni finiti, anch'esse dipendenti dai prezzi dei servizi produttivi e dei beni finali;
  • n equazioni in cui la quantità di ciascun servizio produttivo utilizzato nella produzione dei diversi beni viene posta uguale all'offerta totale di quel servizio;
  • m equazioni in cui il prezzo di ciascun bene viene posto uguale alla somma dei costi dei servizi produttivi impiegati.

In totale, 2m+2n equazioni, che si riducono tuttavia a 2m+2n-1 equazioni indipendenti, in quanto la legge di Walras consente di esprimere i prezzi in termini del prezzo di un unico bene, posto pari a 1 (i prezzi, cioè, sono prezzi relativi), quindi di eliminare una delle equazioni.

Le incognite sono anch'esse 2m+2n-1: m quantità di servizi produttivi offerti, n quantità di beni finali domandati, n prezzi dei servizi produttivi, m-1 prezzi dei beni finali. Sulla base di tale uguaglianza, Walras sostenne che il suo sistema di equazioni è compatibile e determinato, ovvero che è possibile una situazione di equilibrio espressa da prezzi determinati dall'uguaglianza tra domanda e offerta dei beni e dei servizi produttivi.

Vilfredo Pareto (1848-1923) proseguì l'opera di Walras, aggiungendovi una nuova definizione di benessere. Prima di lui prevaleva la definizione di Jeremy Bentham, che si basava sulla somma dei benesseri individuali, ben difficilmente misurabili. Pareto definì invece «ottima», quindi desiderabile, la situazione in cui è impossibile che un individuo stia meglio senza che un altro stia peggio, dimostrando che essa è conseguibile solo in regime di libera concorrenza.

Marshall e Pigou

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Alfred Marshall

Il lavoro di Walras e di Pareto non ricevette, inizialmente, grande attenzione. Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo risultò invece dominante l'insegnamento di Alfred Marshall (1842-1924), che applicò sistematicamente i principi del marginalismo sia alla teoria del consumatore, sia a quella dell'impresa, preferendo la statica comparata (confronto tra diverse situazioni di equilibrio) e l'analisi degli equilibri parziali (domanda e offerta di un singolo bene) alla teoria dell'equilibrio economico generale.

Definì i surplus del consumatore e del produttore; dette inizio ad uno studio dell'equilibrio dell'impresa che, attraverso suoi seguaci quali Arthur Cecil Pigou (1877-1959) e Jacob Viner (1892-1970), assunse a fondamento l'ipotesi delle curve a U dei costi medio e marginale; sottolineò l'importanza delle esternalità. Pigou, inoltre, riformulò l'economia del benessere nei termini del surplus del consumatore, mostrando che esso è massimo in concorrenza perfetta; previde peraltro apposite imposte (dette pigouviane) per correggere le esternalità negative.

Per il primo terzo del XX secolo furono Marshall e Pigou, più che Walras e Pareto, gli autori di riferimento di una scuola di pensiero che, per distinguerla dall'economia classica, venne definita neoclassica.

Va ricordata, per quanto seguì, la teoria di Pigou sulla disoccupazione: egli sosteneva che in presenza di disoccupazione e di un basso livello di prezzi e salari, si sarebbe avuto un aumento del valore delle scorte monetarie (grazie al minor prezzo dei beni), quindi un aumento della ricchezza ed una ripresa dei consumi, fino a riassorbire la disoccupazione (cosiddetto "effetto Pigou", o "effetto ricchezza reale").

La scuola austriaca

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Carl Menger (1840-1921), per quanto iniziatore del marginalismo, privilegiò l'aspetto soggettivo (secondo cui il valore di un bene dipende dalla sua capacità di soddisfare un bisogno) al punto da rifiutare l'approccio matematico di Walras e di Marshall; secondo Menger l'approccio matematico era errato in quanto "I dati che gli economisti studiano - gli esseri umani - hanno scopi individuali e quindi renderanno la realtà complessa e non precisa. Tutte le scienze hanno gradi di precisione".

L'approccio matematico, adatto a descrivere fenomeni fisici e chimici, ipotizza agenti economici che seguano regole fisse invece di perseguire scopi individuali. Questo approccio non permette di distinguere tra causa ed effetto (le equazioni sono atemporali) e nega la componente temporale dell'azione umana/economica e quindi l'importanza dell'incertezza e della conoscenza nell'azione economica. Fra i suoi collaboratori e seguaci vanno ricordati Friedrich von Wieser (1851-1926, il primo ad utilizzare l'espressione «utilità marginale») e Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914; a lui si deve, tra l'altro, un'originale teoria dell'interesse). Con essi nacque la cosiddetta scuola austriaca, di cui furono poi esponenti anche Ludwig von Mises (1881-1973) e Friedrich von Hayek (1899-1992).

Tra gli allievi di Böhm-Bawerk non appartenenti alla Scuola Austriaca, vanno ricordati: lo svedese Knut Wicksell e Joseph Schumpeter. Knut Wicksell (1851-1926), detto l'"Economista degli Economisti", che fondò la scuola di Stoccolma; influenzò fortemente il pensiero di John Maynard Keynes e dei premi Nobel Friedrich von Hayek, Gunnar Myrdal, Bertil Ohlin, James M. Buchanan. Joseph Schumpeter (1883-1950), a sua volta maestro di Paul Samuelson ( 1915-2009), Paul Sweezy (1910-2004), Paolo Sylos Labini (1920-2005). Schumpeter ha proposto una teoria dello sviluppo economico basata sulle innovazioni introdotte dagli imprenditori ed ha scritto una fondamentale Storia dell'analisi economica.

La rivoluzione keynesiana

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John Maynard Keynes

La Grande depressione del 1929 pose a dura prova la teoria economica neoclassica, in quanto il suo perdurare sembrava smentire la capacità di un'economia di mercato di ritrovare un equilibrio di piena occupazione delle risorse e di benessere.

John Maynard Keynes (1883-1946), che ha dominato il pensiero economico dagli anni '30 agli anni '60 del XX secolo, propose una sostanziale deviazione dalla scuola neoclassica.

In una prima fase (fino alla crisi del 1929), affrontò il problema dell'incertezza, distinguendo tra eventi per i quali è possibile esprimere un giudizio probabilistico («probabilità conosciuta») e eventi per i quali ciò non è possibile («probabilità sconosciuta»);[3]; considerò il rischio insito nell'attività imprenditoriale come elemento essenziale dell'instabilità monetaria e rifiutò la prospettiva di equilibrio automatico, nel lungo periodo, della teoria neoclassica, obiettando che «nel lungo periodo siamo tutti morti»;[4] criticò il socialismo, ma considerò il liberismo una risposta insufficiente.[5]

In una seconda fase (fino alla seconda guerra mondiale), argomentò che la crisi del 1929 era dovuta al fatto che la domanda aggregata risente di vari fattori tra i quali non esiste un meccanismo di equilibrio automatico: la propensione marginale al consumo, dipendente dal livello del reddito, gli investimenti, dipendenti sia dal tasso di interesse che dalle aspettative degli imprenditori, il livello del tasso di interesse, fortemente influenzato dalla preferenza per la liquidità. Sostenne quindi che, in un'economia funestata da una debole domanda aggregata, il settore pubblico ha la possibilità di incrementare la domanda aggregata tramite la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi, rendendo così possibile un aumento dell'occupazione. La sua opera principale, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936), pose i grandi aggregati economici (consumo, risparmio, investimenti ecc.) al centro dell'analisi economica, dando vita ad una disciplina detta "macroeconomia" per distinguerla dall'approccio individualista dell'economia neoclassica ("microeconomia").

Dopo la seconda guerra mondiale, infine, partecipò passivamente alla definizione di un nuovo assetto economico internazionale, anche guidando la delegazione inglese nella conferenza di Bretton Woods.

Gli anni dell'alta teoria

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Nei decenni centrali del XX secolo si ebbero anche sia approfondimenti notevoli dell'economia neoclassica, sia la proposta di approcci alternativi che andavano oltre le critiche di Keynes.

La teoria dell'equilibrio economico generale

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John von Neumann

La teoria di Walras sull'equilibrio economico generale venne ripresa negli anni '30 dal Mathematisches Kolloquium, un seminario periodico organizzato dal matematico Karl Menger (figlio di Carl).[6] Si considerò che l'uguaglianza tra numero delle equazioni e numero delle incognite non è sufficiente, come invece riteneva Walras, a garantire l'esistenza di soluzioni economicamente significative, in quanto potrebbero risultare quantità o prezzi nulli o negativi. Si avviò quindi un intenso lavoro di ricerca finalizzato a dimostrare in primo luogo l'esistenza di soluzioni. Ai lavori iniziali di Abraham Wald (1902-1950), John von Neumann (1903-1957) e Oskar Morgenstern (1902-1977), seguirono poi i contributi di altri, soprattutto John Hicks (1904-1989), Kenneth Arrow (1921-2017) e Gérard Debreu (1921-2004).[7]

Una volta dimostrata l'esistenza, sotto alcune condizioni, si trattò di dimostrare anche l'unicità e la stabilità della soluzione, essenziali per le analisi di statica comparata. Il compito si è rivelato più arduo, al punto che alcuni ritengono che si sia dimostrato piuttosto che l'equilibrio è instabile e che vi sono molteplici equilibri.[8] Si tratta di un argomento ancora dibattuto.[9]

La teoria delle forme di mercato

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Nel 1933 Joan Robinson (1903-1983), sviluppando alcune considerazioni contenute in un articolo di Piero Sraffa (1898-1983) del 1926, enunciò una teoria della «concorrenza imperfetta»; nello stesso anno, Edward Chamberlin (1899-1967) propose una teoria della «concorrenza monopolistica». Entrambi gli autori, pur se in modo diverso, considerarono il caso di imprese che si confrontino ognuna con curve di domanda decrescenti, come avviene nel monopolio. In particolare, Chamberlin sosteneva che le imprese non operano, in realtà, in un mercato perfettamente concorrenziale, ma, come se fossero "piccoli monopoli", possono imporre il prezzo ciascuna in un proprio mercato, grazie alla differenziazione di prodotto ed alla pubblicità. Nasceva così una teoria dei mercati che non sono né di concorrenza perfetta né di monopolio.

Pochi anni dopo, nel 1939, venne pubblicata una ricerca condotta dal gruppo di economisti di Oxford sul comportamento delle imprese. Da essa risultava che le imprese non cercano di massimizzare i profitti come supposto dalla teoria marginalista, tenendo conto di un prezzo dato e del costo marginale, ma usano fissare il prezzo aggiungendo al costo variabile una percentuale tale da coprire il costo fisso e da garantire un profitto (cosiddetto principio del costo pieno). Successivamente sono state formulate diverse teorie che tenessero conto di tali risultati; da un lato una teoria dell'oligopolio (Joe Bain, Paolo Sylos Labini), dall'altro teorie manageriali e comportamentistiche dell'impresa (William Baumol, Robin Marris, Herbert Simon).

La controversia sul capitale

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Paul Samuelson

Secondo la teoria neoclassica, i fattori produttivi (lavoro e capitale) vengono remunerati secondo la loro produttività marginale: il salario è posto uguale alla produttività marginale del lavoro, il saggio del profitto uguale a quella del capitale. Inoltre, se aumenta il costo di un fattore, gli viene preferito l'altro; quindi, se aumentano i salari si ha meno impiego del fattore lavoro (meno occupazione) e maggior impiego di capitale.

Joan Robinson e Piero Sraffa osservarono che risulta arduo misurare il capitale come base di calcolo per il saggio del profitto e che esso, in quanto aggregato di merci eterogenee, può essere misurato solo nel suo valore monetario, ma ciò richiede che sia noto il saggio del profitto. Nel suo Produzione di merci a mezzo di merci, inoltre, Sraffa aveva mostrato che sono possibili situazioni in cui l'aumento del salario comporta maggiore impiego di lavoro invece che di capitale (cosiddetto "ritorno delle tecniche").

Ne nacque una vivace controversia tra le due Cambridge, ovvero tra la Cambridge inglese (Robinson e Sraffa, poi Pierangelo Garegnani e Luigi Pasinetti) e la Cambridge americana (Paul Samuelson e Robert Solow). Vi fu una sorta di "vittoria anglo-italiana" sul piano teorico, a cui i neoclassici reagirono sia costruendo modelli in cui il capitale è un unico bene omogeneo (Samuelson), sia proponendo modelli di equilibrio in cui compare espressamente la moneta (Frank Hahn).[10]

La controrivoluzione monetarista

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In passato i periodi di stagnazione o di recessione erano accompagnati da riduzioni del livello generale dei prezzi. A partire dalla fine degli anni '60, tuttavia, inflazione e stagnazione iniziarono a presentarsi congiuntamente, una novità tale che per essa fu coniato il termine stagflazione.[11] Il nuovo scenario si concretizzò mentre si stavano consolidando alcuni risultati della teoria economica precedente, anche keynesiana, ma dette vita a proposte di diverso segno.

La sintesi neoclassica

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Franco Modigliani

Fin dagli anni '30 si era cercato di reinterpretare la teoria keynesiana nei termini della teoria neoclassica. Già nel 1937, John Hicks aveva proposto un modello, divenuto poi noto come modello IS-LM, in cui individuava un meccanismo di equilibrio simultaneo dei mercati dei beni e della moneta. Si astraeva dalle aspettative degli imprenditori (gli investimenti venivano visti come funzione solo del tasso d'interesse) e la teoria keynesiana diveniva solo un'eccezione, riservata al caso di "trappola della liquidità" (tasso d'interesse così basso che nessuno presta denaro).

Successivamente Franco Modigliani (1918-2003) estese il modello aggiungendovi il mercato del lavoro. Nel suo modello l'equilibrio macroeconomico può essere raggiunto con qualsiasi livello dell'occupazione e, come nella tradizione neoclassica, esiste un livello dell'occupazione per ogni livello del salario. Ne seguiva che l'intervento pubblico in economia si giustifica solo per smorzare oscillazioni di breve periodo.

In tal modo si riconduceva Keynes nell'alveo neoclassico, secondo un approccio denominato "sintesi neoclassica".

Milton Friedman

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Milton Friedman

Milton Friedman (1912-2006) fu più radicale. Secondo la teoria neoclassica i prezzi sono solo prezzi relativi, mentre il livello generale dei prezzi dipende dalla quantità di moneta (teoria quantitativa della moneta). Friedman ha sviluppato tale tesi, sostenendo che un aumento dell'offerta di moneta può influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo, mentre nel lungo il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori reali (risorse disponibili, tecnologia, preferenze ecc.) e un aumento della quantità di moneta può produrre solo inflazione.

Ha poi aggiunto che, in ogni caso, gli interventi di politica monetaria e fiscale volti a sostenere la domanda aggregata sono inefficaci, e rischiano di rivelarsi controproducenti, in quanto soggetti nella pratica a ritardi e incertezze nella valutazione della situazione, nel passaggio da tale valutazione alla scelta degli interventi, nell'attuazione degli interventi e nel dispiegarsi dei loro effetti. Da tutto ciò seguiva che le autorità dovrebbero solo far crescere l'offerta di moneta al ritmo richiesto dalla crescita economica reale, lasciando al mercato gli aggiustamenti di breve periodo.

L'insegnamento di Friedman ha dato vita ad una vera e propria scuola, detta scuola di Chicago, che ha esercitato notevole influenza a partire dagli anni '70.

La nuova macroeconomia classica

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Robert Lucas (n. 1937), prima studente poi docente a Chicago, è andato ancora oltre, affermando che i soggetti economici sono guidati da aspettative sostanzialmente uguali alle previsioni ricavabili dalla teoria economica. Da ciò segue che le misure di politica economica sono inefficaci, in quanto i singoli ne scontano in anticipo gli effetti; ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo (non finanziata mediante un aumento delle imposte) viene vanificata da una riduzione dei consumi, attuata per accantonare i risparmi necessari a pagare le imposte che prima o poi verranno richieste. Lucas, Prescott (n. 1940) ed altri hanno dato vita ad una scuola detta nuova macroeconomia classica.

Da tale impostazione Arthur Laffer (n. 1940) ha dedotto che sono ammissibili solo politiche dell'offerta (supply-side economics), tese a ridurre gli ostacoli al libero funzionamento del mercato.

Amartya Sen

La teoria neoclassica recava in sé una teoria del benessere che, a partire dal 1951, è stata sottoposta ad una profonda revisione. La diffusione delle teorie keynesiane e l'aumento del ruolo dello Stato in economia portavano con sé il problema della scelta, da parte dell'intera collettività, tra diverse alternative di impiego delle risorse. In quell'anno Kenneth Arrow pubblicò il libro Social Choice and Individual Values, in cui dimostrava che non esiste alcuna funzione di scelta sociale in grado di soddisfare un insieme di criteri di coerenza e moralità (Teorema dell'impossibilità di Arrow). Amartya Sen (n. 1933), prendendo spunto da tali conclusioni, ha dimostrato l'impossibilità del liberismo paretiano.

Dalla sintesi neoclassica è invece scaturita una "nuova economia keynesiana", che cerca di individuare le cause microeconomiche delle rigidità che, a livello macro, determinano i cosiddetti fallimenti del mercato, disoccupazione compresa. Principale esponente è Joseph Stiglitz (n. 1943), cui si deve la teoria delle asimmetrie informative.

Sono forse questi gli aspetti più interessanti, o almeno più noti, degli sviluppi recenti della teoria economica. Accanto ad essi potrebbero esserne ricordati altri (neoistituzionalismo, scuola neo-austriaca, teorie del disequilibrio ecc.) che, tuttavia, appartengono più allo studio dell'economia nel suo stato attuale che a quello del suo passato.

  1. Maffeo Pantaleoni, «Dei criteri che devono informare la storia delle dottrine economiche», Giornale degli economisti, 4 novembre 1898, ristampato in M. Pantaleoni, Erotemi di economia, vol. I, Laterza, Bari, 1924, pp. 211-245.
  2. Appraising economic theories. Studies in the methodology of research programs, a cura di N. de Marchi e M. Blaug, Edward Elgar, Aldershot, 1991.
  3. J.M. Keynes, A Treatise on Probability, Macmillan, Londra, 1921, capitoli III e XXX.
  4. J.M. Keynes, A Tract on Monetary Reform, Macmillan, Londra, 1923, cap. 3.
  5. J.M. Keynes, The End of Laissez-Faire, Hogarth Press, Londra, 1926; traduzione italiana in J.M. Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, UTET, Torino, 2005, pp. 107-133.
  6. Bruna Ingrao e Giorgio Israel, La mano invisibile. L'equilibrio economico nella storia della scienza, Laterza, Roma-Bari, 2006.
  7. K. Arrow e G. Debreu, «Existence of an Equilibrium for a Competitive Economy», Econometrica, vol. 22, 1954, pp. 265-290.
  8. Ernesto Screpanti e S. Zamagni, Profilo di storia del pensiero economico, Carocci, Roma, 2000, § 10.1.2 («La sconfitta sul terreno dell'unicità e della stabilità»), pp. 381-385.
  9. Per una rassegna introduttiva ma autorevole della discussione, v. A. Mas-Colell, M.B. Whinston e J.R. Green, Microeconomic Theory, Oxford University Press, New York e Oxford, 1995, cap. 17, pp. 578-651. V. anche la successiva sezione su «La controversia sul capitale».
  10. Nei modelli walrasiani i prezzi dei beni sono espressi in termini di un unico bene scelto come "numerario" e sono quindi solo prezzi relativi; non esiste una moneta che abbia funzione di riserva di valore o che sia oggetto di attività speculativa.
  11. La relazione tra inflazione e disoccupazione divenne centrale nel dibattito economico; v. Curva di Phillips.