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Storia della filosofia/Giambattista Vico

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Indice del libro
Statua di Giambattista Vico nella Villa Comunale di Napoli

Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, Vico ebbe modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio, Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neoplatoniche, rielaborate dalla filosofia rinascimentale, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Francesco Bacone e Galileo Galilei e del pensiero giusnaturalistico moderno di Grozio e Selden.[1] Dal neostoicismo cristiano di Malvezzi Vico riprende l'intuizione che il corso storico sia retto da una sua logica interna.[2][3][4] Questa varietà di interessi farebbe pensare alla formazione di un pensiero eclettico in Vico, che invece giunse alla formulazione di un'originale sintesi tra una razionalità sperimentatrice e la tradizione platonica e religiosa.

Il De antiquissima Italorum sapientia

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Il De antiquissima doveva constare di tre parti: il Liber metaphysicus, che uscì nel 1710 senza l'appendice riguardante la logica che, nell'intenzione di Vico, avrebbe dovuto avere; il Liber Physicus, che Vico pubblicò sotto forma di opuscolo col titolo De aequilibrio corporis animantis nel 1713, che andò smarrito, ma ampiamente riassunto nella Vita;[5] e infine il Liber moralis, di cui Vico non abbozzò nemmeno il testo. Nel De antiquissima Vico, considerando il linguaggio come oggettivazione del pensiero, è convinto che dall'analisi etimologica di alcune parole latine si possano rintracciare originarie forme del pensiero: applicando questo originale metodo, Vico risale ad un antico sapere filosofico delle primitive popolazioni italiche[6].

Il fulcro di queste arcaiche concezioni filosofiche è la convinzione antichissima che

(IT)
« Per i Latini il "vero" e il "fatto" sono reciproci, ossia, come afferma il volgo delle scuole, si scambiano di posto. »

(LA)
« Latinis "verum" et "factum" reciprocantur, seu, ut scholarum vulgus loquitur, convertuntur[7] »

che cioè «il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto»: per cui possiamo dire ad esempio di conoscere le proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati, definizioni, ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura perché non siamo noi ad averla creata.

Conoscere una cosa significa rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento aristotelico, veramente la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, «provare per cause una cosa equivale a farla».

Le obiezioni a Cartesio

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Il principio del verum ipsum factum non era una nuova e originale scoperta di Vico ma era già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che richiedeva l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che, tramite la tradizione scotista, era presente nella cultura filosofica napoletana del tempo di Vico. La tesi fondamentale di queste concezioni filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che Vico inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità.

Vico però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto.

« L'uomo, egli dice, può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno...Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato (René Descartes) svela che il primo vero è questo: "Penso dunque sono" »
(Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di Paolo Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.70)

Il criterio del metodo cartesiano dell'evidenza procurerà dunque una conoscenza chiara e distinta, che però per Vico non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce. In questa prospettiva, dell'essere umano e della natura solo Dio, creatore di entrambi, possiede la verità.

Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica, la geometria crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno certa della fisica.

« Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare »
(Ibidem, pag.82)

Mente umana e mente divina

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« I latini... dicevano che la mente è data, immessa negli uomini dagli dei. È dunque ragionevole congetturare che gli autori di queste espressioni abbiano pensato che le idee negli animi umani siano create e risvegliate da Dio [...] La mente umana si manifesta pensando, ma è Dio che in me pensa, dunque in Dio conosco la mia propria mente. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 6)

Il valore di verità che l'uomo ricava dalle scienze e dalle arti, i cui oggetti egli costruisce, è garantito dal fatto che la mente umana, pur nella sua inferiorità, esplica un'attività che appartiene in primo luogo a Dio. La mente dell'uomo è anch'essa creatrice nell'atto in cui imita la mente, le idee, di Dio, partecipando metafisicamente ad esse.

Imitazione e partecipazione alla mente divina avvengono ad opera di quella facoltà che Vico chiama ingegno che è «la facoltà propria del conoscere...per cui l'uomo è capace di contemplare e di imitare le cose». L'ingegno è lo strumento principe, e non l'applicazione delle regole del metodo cartesiano, per il progresso, ad esempio, della fisica che si sviluppa proprio attraverso gli esperimenti escogitati dall'ingegno secondo il criterio del vero e del fatto.

L'ingegno dimostra, inoltre, i limiti del conoscere umano e la contemporanea presenza della verità divina che si rivela proprio attraverso l'errore:

« Dio mai si allontana dalla nostra presenza, neppure quando erriamo, poiché abbracciamo il falso sotto l'aspetto del vero e i mali sotto l'apparenza dei beni; vediamo le cose finite e ci sentiamo noi stessi finiti, ma ciò dimostra che siamo capaci di pensare l'infinito. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 6)

Il sapere metafisico

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Contro lo scetticismo Vico sostiene che è proprio tramite l'errore che l'uomo giunge al sapere metafisico:

« Il chiarore del vero metafisico è pari a quello della luce, che percepiamo soltanto in relazione ai corpi opachi...Tale è lo splendore del vero metafisico non circoscritto da limiti, né di forma discernibile, poiché è il principio infinito di tutte le forme. Le cose fisiche sono quei corpi opachi, cioè formati e limitati, nei quali vediamo la luce del vero metafisico. »
(Giambattista Vico, De antiquissima, 3)

Il sapere metafisico non è il sapere in assoluto: esso è superato dalla matematica e dalle scienze ma, d'altro canto, «la metafisica è la fonte di ogni verità, che da lei discende in tutte le altre scienze.» Vi è dunque un "primo vero", «comprensione di tutte le cause», originaria spiegazione causale di tutti gli effetti; esso è infinito e di natura spirituale poiché è antecedente a tutti i corpi e che quindi si identifica con Dio. In Lui sono presenti le forme, simili alle idee platoniche, modelli della creazione divina.

« Il primo vero è in Dio, perché Dio è il primo facitore (primus Factor); codesto primo vero è infinito, in quanto facitore di tutte le cose; è compiutissimo, poiché mette dinanzi a Dio, in quanto li contiene, gli elementi estrinseci e intrinseci delle cose »
(Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di P.Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.62)

La metafisica di Vico

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Il platonico Vico

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Attraverso i propri scritti Vico fa capire la sua conversione dalla filosofia lucreziana e gassendiana a quella platonica, egli descrive la metafisica del filosofo di riferimento come tale che:

« conduce a un principio fisico che è idea eterna, che da sé educe e crea la materia medesima, come uno spirito seminale, che esso stesso si fermi l’uovo »
(Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista Vico, Opere Filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze 1971, p.11")

Egli illustra nell'Autobiografia i suoi capisaldi:

« 1) «nella nostra mente sono certe eterne verità che non possiamo sconoscere riniegare, e in conseguenza che non sono da noi», cioè che non sono fatte da noi 2) «del rimanente sentiamo in noi una libertà di fare, intendendo, tutte le cose che han dipendenza dal corpo, e perciò le facciamo in tempo, cioè quando vogliamo applicarvi, e tutte in conoscendo le facciamo, e tutte le conteniamo dentro di noi: come le immagini con la fantasia; le reminescenze con la memoria; con l’appetito le passioni; gli odori, i sapori, i colori, i suoni, i tatti co’ sensi: e tutte queste cose le conteniamo dentro di noi. […] Ma per le verità eterne che non sono da noi e non hanno dipendenza dal corpo nostro, dobbiamo intendere essere Principio delle cose tutte come una idea eterna tutta scevera da corpo, che nella sua cognizione, ove voglia, crea tutte le cose in tempo e le contiene dentro sé...». »

La coerenza della filosofia ‘timaica’ di Vico può essere analizzata anche da questi due punti, infatti, nel primo caso, questa si riferisce ad un principio materiale, immateriale, ideale, eterno e attivo; nel secondo caso si riferisce al principio di materia che è prodotta da ὗλη (materia) e conserva la propria capacità di muoversi a causa di questa origine.

La religione secondo Vico

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Anche per Vico le religioni non sono vere, ma in esse non è nemmeno possibile che tutto sia falso. Infatti, avrebbe senso se tutte le loro parti fossero sbagliate, in quanto provocherebbero paura e odio, ma non possono spiegare come abbiano saputo restituire la loro "tenerezza" secondo il metodo della separazione […] "; Tuttavia, per il filosofo Herbert Spencer (in maniera liberale), la religione assume così la "rutunda Dei religio" nella sua forma puramente circolare, che ritroveremo nel De Uno e in quella ricomparsa nella teoria del ciclo storico di Vico; ci sono molti punti in comune tra le filosofie di Herbert e quella di Vico, anche se la causa finale è in Vico determinata come ‘conservazione’, dunque non sbaglieremmo a leggere la filosofia vichiana e la filosofia di Herbert contemporaneamente ponendo punti di connessione e paragone tra le due. Un altro punto di contatto di Herbert con un capitolo del De Antiquissima di Vico parte dal concetto di provvidenza e sostiene l’inconciliabilità di questa con le divinità dei ‘gentili’ e va quindi alla ricerca di alcuni elementi che possano accordare le due cose (media sufficientia), perché, per lui, il Dio è buono e la maggior parte degli uomini deve potersi salvare, egli trova tale conciliazione nella capacità inventiva della mente umana che l’ha indotta nella ‘ divinatio ’ o alla ‘ deificatio ‘, cioè a forme di sublimazione che esprimono l’idea della bellezza del mondo, anche se l’errore ci può far vedere rotonda la torre quadrata.

Si giunge dunque a uno dei punti cardine della metafisica vichiana: il conato, si tratta del nocciolo di ciò che Vico chiama zenonismo, ossia la dottrina dei punti metafisici, riassumibile nella tesi che il punto in quanto momentum “non è esteso, ma genera l’estensione”.

Il punto-momento è il conatus che si allarga al di là della geometria e comprende la fisica cosicché la triade dominante è: quiete=Dio; conato = materia =virtù =idea; moto = corpo. Il moto non ha mai inizio autonomo, perché è sottoposto al controllo dell’etere. Il conato, espressione fisica del punto-momento, come non è punto né numero, ma il generatore di entrambi. È come se le ricerche di Galilei sulla dinamica e sul continuo fossero state trasferite nella metafisica, e alla fisica fossero stati lasciati solo i moti, una tesi che merita di essere riscontrata nei testi.

Vico dà ai punti-conati (sia nella prima forma numerica sia in quella più vicina alla fisica) una capacità ‘ impulsiva ‘ simile a questi indivisibili. Egli dice che:

« La metafisica trascende la fisica perché tratta delle virtù e dell’infinito; la fisica è parte della metafisica perché tratta delle forme e degli oggetti finiti »
(Vico, "Opere Filosofiche, pp. 93-94")

Poi Vico aggiunge:

« L’essenza del corpo consiste in indivisibili; il corpo tuttavia si divide: dunque l’essenza del corpo non è: dunque è l’altra cosa dal corpo. Cosa è dunque? È una indivisibil virtù, che contiene, sostiene, mantiene il corpo, e sotto parti diseguali del corpo vi sta egualmente; sostanza, della quale è solamente lecito raramente si somiglia alla divina, e perciò unica a dimostrare l’umano vero »
(Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista Vico, p. 94")

Da un punto di vista matematico il conato può essere paragonato all’Uno, esso è indivisibile perché uno è l’infinito, e l’infinito è indivisibile, perché non ha in che dividersi, non potendo dividerlo in nulla.

Possiamo raccontare Vico come un seguace di Galilei; tuttavia, lo critica per aver sostenuto la diversità tra infinito e indivisibile. Quando Galilei parla dell’infinitezza, per esempio, della percossa, ovvero di quella espansiva degli ignicoli, egli, per Vico, non fa che trasferire erroneamente il conato infinito nel moto al fine di dare a quest’ultimo (che non è che occasione) un rilievo maggiore. L’accumulo di moto, che Galilei vede risultare dall’infinitezza della percossa, secondo Vico, che dà una interpretazione più rigida dell’equazione conato=momento=punto indivisibile, è un tipo di energia potenziale che il conato sviluppa in ogni sito e attimo dell’universo e che, dal punto di vista metafisico, non varia mai, giacché il conato non è a base della dinamica ma della struttura dell’universo. La questione del rapporto tra sentire e pensare è ripresa nei capitoli V e VI del De Antiquissima. In quello intitolato De animo et anima, Vico sostiene che:

« gli stessi muscoli del cuore sono contratti e dilatati dai nervi, sicché il sangue è continuamente fatto circolare per un processo di sistole e diastole ricevendo dai nervi il proprio moto »
(Nicola Badaloni, "Introduzione a Gianbattista Vico, p. 104")

Dunque l’aria è lo spirito vitale che muove il sangue; l’etere è lo spirito animale; la prima costituisce l’anima, il secondo l’animo, la cui immortalità è spiegata col suo tendere all’infinito e all’eterno. Entro l’animo è la mente che è mens animi, cioè la parte più raffinata dell’animo stesso. Passando dalla teoria dell’anima a quella dell’animo e di qui al primo cenno di quella della mente, Vico commenta, in modo platonico-spinoziano, che “forse importa più deporre gli affetti che allontanare i pregiudizi”. Il capitolo VI è intitolato De Mente; il suo oggetto è appunto la animi mens che corrisponde alla libertà sui moti dell’animo. La facoltà di desiderare in vari termini e modi “è Dio a ciascuno” ma la libertà dell’arbitrio, cioè la mens animi rappresenta il momento di fuoriuscita dall’ambito della psicologia e d’ammissione in quello di una libertà umanamente inventiva. La mens animi è il punto di maggiore avvicinamento al creare reale, talché “in Dio dunque conosco la mia stessa mente”.

La metafisica vichiana a confronto

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In letture recenti si è ripresentata l’antica analogia tra Kant e Vico (a parte le diverse capacità analitiche dei due filosofi), la reale divergenza tra loro sta nel fatto che l’oggetto del primo è il sistema scientifico, già costruito da Newton, e da Kant posto in relazione colle possibilità e coi limiti delle facoltà umane; l’interesse di Vico è invece rivolto a un ‘ oggetto ’ del tutto nuovo che è il rapporto strutturato tra la scienza e la sua genesi, nella mente dell’uomo primitivo e le situazioni e istituzioni sociali che hanno accompagnato le sue modificazioni.

Vico è a conoscenza della discussione sul platonismo precedente e seguente il suo saggio sulla metafisica, conobbe sicuramente il libro di Brucker e a cui anzi rivolse una critica importante. Scrive infatti nella Scienza Nuova (1744) che:

« le scienze debbono incominciare da che ‘ncominciò la materia; esse ebbero inizio alle ch’i primi uomini cominciarono a umanamente pensare, non già quando i filosofi cominciarono a riflettere sopra l’umane menti (come ultimamente n’è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dotto col titolo Historia de ideis, che si conduce fin all’ultime controversie che ne hanno avuto i due primi ingegni di questa età, il Leibnizio e ‘l Newtone »

Con questa osservazione, Vico integra l’esposizione del platonismo moderno con un progetto d’interpretazione della genesi di questo modo di pensare e del suo svolgimento. I sottoinsiemi scientifici, che egli si appresta a costruire, sono condizionati da questo punto di arrivo, che nella sua ‘ idealità ’ è metastorico, in senso quasi trascendentale, e, nel suo contenuto, difficilmente nasconde il carattere‘ semilibertino ’ della struttura sistematica sottesa. La critica di Vico a Brucker ci mette dunque in condizione di valutare il significato che egli attribuisce alla scienza nuova. L’ ‘ oggetto ’ costituito dalle idee platonico-galileiane è nato, riferendosi al mondo tuttora in divenire, è la trasformazione strutturata di un complesso di tradizioni, istituzioni e conoscenze umane che si sostengono reciprocamente e si modificano conflittualmente. Il punto di attacco delle scienze della natura di tipo galileiano (integrato nella filosofia del platonismo moderno) con la scienza dell’uomo, è dato dal costituirsi di un diverso ‘ oggetto ’ ad esse legato, che ha però la sua autonomia, le sue regole, costituendo un sottosistema aperto all’invenzione di nuovi strumenti interpretativi.

La scienza vichiana si organizza in modo da delimitare un campo di ricerche concrete. La critica a Brucker ha già dato un’idea del modo come Vico, partendo dalla scienza moderna e violentemente ributtandola sui suoi principi ne ricerchi gli elementi genetici e formativi per recuperarne, poi, gli aspetti complessi.

La Scienza nuova

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Frontespizio della terza edizione 1744 della Scienza nuova

Se l'uomo non può considerarsi creatore della realtà naturale ma piuttosto di tutte quelle astrazioni che rimandano ad essa come la matematica, la stessa metafisica, vi è tuttavia un'attività creatrice che gli appartiene

« questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i principi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana »
(Giambattista Vico Scienza nuova, terza ediz., libro I, sez. 3)

La storia creatrice

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L'uomo è dunque il creatore, attraverso la storia, della civiltà umana. Nella storia l'uomo verifica il principio del verum ipsum factum, creando così una scienza nuova che avrà un valore di verità come la matematica. Una scienza che ha per oggetto una realtà creata dall'uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta. La storia rappresenta la scienza delle cose fatte dall'uomo e, allo stesso tempo, la storia della stessa mente umana che ha fatto quelle cose.[8]

Filosofia e "filologia"

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La definizione dell'uomo e della sua mente non può prescindere dal suo sviluppo storico se non si vuole ridurre tutto a un'astrazione. La concreta realtà dell'uomo è comprensibile solo riportandola al suo divenire storico. È assurdo credere, come fanno i cartesiani o i neoplatonici, che la ragione dell'uomo sia una realtà assoluta, sciolta da ogni condizionamento storico.

« La filosofia contempla la ragione, onde viene la scienza del vero; la filologia[9] osserva l'autorità dell'umano arbitrio onde viene la coscienza del certo...Questa medesima degnità (assioma) dimostra aver mancato per metà così i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità de'filologi, come i filologi che non curarono d'avverare la loro autorità con la ragion dei filosofi »
(Giambattista Vico Ibidem Degnità X)

Ma la filologia da sola non basta, si ridurrebbe a una semplice raccolta di fatti che invece vanno spiegati dalla filosofia. Tra filologia e filosofia vi deve essere un rapporto di complementarità per cui si possa accertare il vero e inverare il certo.

Le leggi della 'scienza nuova'

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Compito della 'scienza nuova' sarà quello di indagare la storia alla ricerca di quei principi costanti che, secondo una concezione per certi versi platonizzante, fanno presupporre nell'azione storica l'esistenza di leggi che ne siano a fondamento, com'è per tutte le altre scienze:

« Poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini; poiché tali cose ne potranno dare i principi universali ed eterni, quali devon essere d'ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano le nazioni »
(Giambattista Vico Ibidem, libro I, sez. 3)

La storia quindi, come tutte le scienze, presenta delle leggi, dei principi universali, di un valore ideale di tipo platonico, che si ripetono costantemente allo stesso modo e che costituiscono il punto di riferimento per la nascita e il mantenimento delle nazioni.

L'eterogenesi dei fini e la Provvidenza storica

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Rifarsi alla mente umana per comprendere la storia non è sufficiente: si vedrà, attraverso il corso degli avvenimenti storici, che la stessa mente dell'uomo è guidata da un principio superiore ad essa che la regola e la indirizza ai suoi fini, che vanno al di là o contrastano con quelli che gli uomini si propongono di conseguire; così accade che, mentre l'umanità si dirige al perseguimento di intenti utilitaristici e individuali, si realizzino invece obiettivi di progresso e di giustizia secondo il principio della eterogenesi dei fini.

« Pur gli uomini hanno essi fatto questo mondo di nazioni...ma egli è questo mondo, senza dubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle volte tutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari ch'essi uomini si avevan proposti »
(Giambattista Vico Ibidem, Conclusione)

La storia umana in quanto opera creatrice dell'uomo gli appartiene per la conoscenza e per la guida degli eventi storici, ma nel medesimo tempo lo stesso uomo è guidato dalla Provvidenza che prepone alla storia divina.

I corsi storici

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Secondo Vico il metodo storico dovrà procedere attraverso l'analisi delle lingue dei popoli antichi «poiché i parlari volgari debono essere i testimoni più gravi degli antichi costumi de' popoli che si celebrarono nel tempo ch'essi si formarono le lingue», e quindi tramite lo studio del diritto, che è alla base dello sviluppo storico delle nazioni civili.

Questo metodo ha fatto identificare nella storia una legge fondamentale del suo sviluppo che avviene evolvendosi in tre età:

  • l'età degli dei, «nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli»;[10]
  • l'età degli eroi, dove si costituiscono repubbliche aristocratiche;
  • l'età degli uomini, «nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana».[11]

La storia umana, secondo Vico, inizia con il diluvio universale, quando gli uomini, giganti simili a primitivi "bestioni", vivevano vagando nelle foreste in uno stato di completa anarchia. Questa condizione bestiale era conseguenza del peccato originale, attenuata dall'intervento benevolo della Provvidenza divina che immise, attraverso la paura dei fulmini, il timore degli dei nelle genti che «scosse e destate da un terribile spavento d'una da essi stessi finta e creduta divinità del cielo e di Giove, finalmente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luoghi; ove fermi con certe donne, per lo timore dell'appresa divinità, al coverto, con congiungimenti carnali religiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero certi figlioli, e così fondarono le famiglie. E con lo star quivi fermi lunga stagione e con le sepolture degli antenati, si ritrovarono aver ivi fondati e divisi i primi domini della terra»[12]

L'uscita dallo stato di ferinità quindi avviene:

  • per la nascita della religione, nata dalla paura e sulla base della quale vengono elaborate le prime leggi del vivere ordinato;
  • per l'istituzione delle nozze che danno stabilità al vivere umano con la formazione della famiglia;
  • per l'uso della sepoltura dei morti, segno della fede nell'immortalità dell'anima che distingue l'uomo dalle bestie.

Della prima età Vico sostiene di non poter scrivere molto poiché mancano documenti su cui basarsi: infatti quei bestioni non conoscevano la scrittura e, poiché erano muti, si esprimevano a segni o con suoni disarticolati. L'età degli eroi ebbe inizio dall'accomunarsi di genti che trovavano così reciproco aiuto e sostegno per la sopravvivenza. Sorsero le città guidate dalle prime organizzazioni politiche dei signori, gli eroi che con la forza e in nome della ragion di stato, conosciuta solo da loro,[13] comandavano su i servi che, quando rivendicarono i propri diritti, si ritrovarono contro i signori che, organizzati in ordini nobiliari, diedero vita agli stati aristocratici che caratterizzano il secondo periodo della storia umana.

In questa seconda, dove predomina la fantasia, nasce il linguaggio dai caratteri mitici e poetici. Infine la conquista dei diritti civili da parte dei servi dà luogo alla età degli uomini e alla formazione di stati popolari basati sul «diritto umano dettato dalla ragione umana tutta spiegata». Sorgono quindi stati non necessariamente democratici ma che possono essere pure monarchici poiché l'essenziale è che rispettino «la ragione naturale, che eguaglia tutti».

La legge delle tre età costituisce la «storia ideale eterna sopra la quale corrono in tempo le storie di tutte le nazioni». Tutti i popoli indipendentemente l'uno dall'altro hanno conformato il loro corso storico a questa legge che non è solo delle genti ma anche di ogni singolo uomo che necessariamente si sviluppa passando dal primitivo senso nell'infanzia, alla fantasia nella fanciullezza, e infine alla ragione nell'età adulta:

« Gli uomini prima sentono senza avvertire; dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura »
(Giambattista Vico Scienza Nuova, 3a ediz. Degnità LIII)

La verità divina nella storia

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Se nella storia, pur tra le violenze e i disordini, appare un ordine e un progressivo sviluppo, ciò è dovuto secondo Vico all'azione della Provvidenza, che immette nell'agire dell'uomo un principio di verità che si presenta in modo diverso nelle tre età:

  • nelle prime due età il vero si presenta come certo
« gli uomini che non sanno il vero delle cose procurano d'attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l'intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degnità IX)

Questa certezza non viene all'uomo attraverso una verità rivelata ma da una constatazione di senso comune, condivisa da tutti, per cui vi è «un giudizio senz'alcuna riflessione, comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutta una nazione o da tutto il genere umano»

La sapienza poetica

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Vi è poi, nella seconda età della storia e dell'uomo, caratterizzata dalla fantasia, un sapere tutto particolare che Vico definisce poetico. In questa età nasce infatti il linguaggio non ancora razionale ma molto vicino alla poesia che «alle cose insensate dà senso e passione, ed è proprietà dei fanciulli di prender cose inanimate tra le mani e, trastullandosi, favellarvi, come se fussero, quelle, persone vive. Questa degnità filologica-filosofica ne appruova che gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti.»[14]

Se vogliamo quindi conoscere la storia dei popoli antichi dobbiamo rifarci ai miti che hanno espresso nella loro cultura. Il mito infatti non è solo una favola e neppure una verità presentata sotto le spoglie della fantasia ma è una verità di per sé elaborata dagli antichi che, incapaci di esprimersi razionalmente, si servivano di universali fantastici che, sotto spoglie poetiche, presentavano modelli ideali universali: come fecero ad esempio i Greci antichi che non definirono razionalmente la prudenza ma raccontarono di Ulisse, modello universale fantastico dell'uomo prudente.

Vico si dedica poi a definire la poesia che innanzitutto

  • è autonoma come forma espressiva differente dal linguaggio tradizionale. I tropi della poesia come la metafora, la metonimia, la sineddoche ecc. sono stati erroneamente ritenuti strumenti estetici di abbellimento del linguaggio razionale di base, mentre invece la poesia è una forma espressiva naturale e originaria i cui tropi sono «necessari modi di spiegarsi di tutte le prime nazioni poetiche»
  • La poesia ha una funzione rivelativa, custodisce le prime immaginate verità dei primi uomini;[15]
  • Il linguaggio non ha quindi un'origine convenzionale perché questo presupporrebbe un uso tecnico del linguaggio che invece sorge spontaneamente come poesia.

Poiché il linguaggio e i miti costituiscono la cultura originaria e spontanea di tutto un popolo, Vico arriva alla discoverta del vero Omero che è non il singolo autore dei suoi poemi ma l'espressione del patrimonio culturale comune di tutto il popolo greco. È comunque da respingere la interpretazione platonica di Omero come filosofo,[16] «fornito di una sublime sapienza riposta»

« Farsi intendere da volgo fiero e selvaggio[17] non è certamente (opera) d'ingegno addomesticato ed incivilito da alcuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia umanato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza e fierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sanguinose battaglie, tante sì diverse e tutte in istravaganti guise crudelissima spezie d'ammazzamenti, che particolarmente fanno tutta la sublimità dell'Iliade »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova)

Verità e storia

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La sapienza antica ha per contenuto princìpi di giustizia e ordine necessari per la formazione di popoli civili. Questi contenuti si esprimono in modi diversi a seconda che siano formati dal senso o dalla fantasia o dalla ragione. Questo vuol dire che la sapienza, la verità, si manifesta in forme diverse storicamente, ma essa come verità eterna è al di sopra della storia che di volta in volta la incarna. La verità della storia è una verità metafisica nella storia. Nella storia si attua la mediazione tra l'agire umano e quello divino:

  • nel fare umano si manifesta il vero divino
  • e il vero umano si realizza tramite il fare divino: la Provvidenza, legge trascendente della storia, che opera attraverso e nonostante il libero arbitrio dell'uomo.

Questo non comporta una concezione necessitata del corso della storia poiché è vero che la Provvidenza si serve degli strumenti umani, anche i più rozzi e primitivi, per produrre un ordine ma tuttavia questo rimane nelle mani dell'uomo, affidato alla sua libertà. La storia quindi non è determinata come sostengono gli stoici e gli epicurei che «niegano la provvedenza, quelli facendosi strascinare dal fato, questi abbandonandosi al caso», ma si sviluppa tenendo conto della libera volontà degli uomini che, come dimostrano i ricorsi, possono anche farla regredire:

« Gli uomini prima sentono il necessario; dipoi badano all'utile; appresso avvertiscono il comodo; più innanzi si dilettano nel piacere; quindi si dissolvono nel lusso; e finalmente impazzano in istrapazzar di sostanze »
(Giambattista Vico, Scienza Nuova, Degnità LXVI)

A questa dissoluzione delle nazioni pone rimedio l'intervento della Provvidenza che talora non può impedire la regressione nella barbarie, da cui si genererà un nuovo corso storico che ripercorrerà, a un livello superiore, poiché dell'epoca passata è rimasta una sia pur minima eredità, la strada precedente.

La filosofia

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Paradossalmente la criticità del progresso storico appare proprio con l'età della ragione, quando cioè questa invece dovrebbe assicurare e mantenere l'ordine civile. Accade infatti che la tutela della Provvidenza che si è imposta agli uomini nei precedenti due stadi, ora invece deve ricercare il consenso della «ragione tutta spiegata» che si sostituisce alla religione: Così "ordenando la provvedenza" : che non avendosi appresso a fare più per sensi di religione (come si erano fatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia le virtù nella lor idea»[18] La ragione infatti, pur con la filosofia, custode della legge ideale del vivere civile, con il suo libero giudizio, può tuttavia incorrere nell'errore o nello scetticismo per cui «si diedero gli stolti dotti a calunniare la verità».

La ragione non crea la verità, poiché non può fare a meno dal senso e dalla fantasia senza le quali appare astratta e vuota. Il fine della storia infatti non è affidato alla sola ragione ma alla sintesi armonica di senso, fantasia e razionalità. La ragione poi è ispirata dalla verità divina per cui la storia è sì opera dell'uomo, ma la mente umana da sola non basta poiché occorre la Provvidenza che indichi la verità. La filosofia è succeduta alla religione ma non l'ha sostituita anzi essa deve custodirla:

« Da tutto ciò che si è in quest'opera ragionato, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza porta indivisibilmente seco lo studio della pietà,[19] e che, se non siesi pio, non si può daddovero esser saggio »
(Giambattista Vico Scienza Nuova, Conclusione)

Teorizzazione sul riso

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La concezione di Vico sul riso è riportata in Ridere la verità di Rosella Prezzo che scrive: «La teorizzazione vichiana sul riso, rimasta per lo più sconosciuta, si trova celata in una digressione di un opuscolo polemico dal titolo Vici vindicae», dove il filosofo napoletano scrive che «il riso proviene dall'inganno teso all'ingegno umano, avido del vero: ragion per cui scoppia tanto più abbondante quanto maggiore è la simulazione di questo».[20] Già Niccolò Tommaseo parlando della grandezza del Vico lo presentava come non invaghito per nulla dalla novità «che nuove (dic'egli) son anco le cose ridicole e mostruose» né cercando l'arguzia «siccome col riso le arguzie sterili, sono con la malinconia i concetti possenti».[21] Francesco Flora riporta il racconto che Vico fa dell'origine dell'interiezione: «Seguitarono a formarsi le voci umane con l'interiezioni, che sono voci articolate nell'émpito di passioni violente, che 'n tutte le lingue son monosillabi», causate dalla meraviglia alla vista dei primi fulmini, ad esempio, da cui l'immaginazione di Giove. Il riso intravede la «goffaggine di tali giganti» e vi si inserisce.[22]

  1. Giambattista Vico, La scienza nuova (a cura di Paolo Rossi), pp.6-7, Biblioteca Universale Rizzoli, 2008.
  2. Fausto Nicolini, La giovinezza di Giambattista Vico: saggio biografico, Società editrice Il Mulino, 1992, p. 142, ISBN 9788815038326.
  3. Croce, Nuovi saggi sul Seicento, pp. 91-105.
  4. Per una silloge di «pensieri» del Malvezzi, Politici e moralisti del Seicento, ediz. Croce-Caramella, Bari, Laterza, 1930.
  5. Vico nel perduto De equilibrio corporis animantis esponeva una concezione secondo cui «...riponevo la natura delle cose nel moto per il quale, come se fossero sottoposte alla forza di un cuneo, tutte le cose vengono spinte verso il centro del loro stesso moto e, invece, sotto l'azione di una forza contraria, vengono respinte verso l'esterno; e sostenni anche che tutte le cose vivono e muoiono in virtù di sistole e diastole». Secondo un'ipotesi di Benedetto Croce e Fausto Nicolini l'opera era stata concepita come appendice al Liber physicus e fu donata in forma manoscritta al suo grande amico, il giurista Domenico Aulisio tra il 1709 e il 1711. La trattazione di quella teoria di ispirazione cartesiana e presocratica venne poi inserita più ampiamente nella Vita.
  6. Stefania De Toma, Ecco l'origine delle scienze umane: aspetti retorici di una contesa intorno al De antiquissima italorum sapienti, in «Bollettino del Centro di Studi Vichiani», XLI, 2, 2011 (Roma : Edizioni di Storia e Letteratura, 2011).
  7. G.B. Vico, Opere, Sansoni, Firenze, 1971, I, 1 p. 63
  8. Vico è considerato da alcuni interpreti del suo pensiero come il primo costruttivista. Infatti Vico sostiene che l'uomo può conoscere solo ciò che può costruire, aggiungendo poi che in effetti solo Dio conosce veramente il mondo, avendolo creato lui stesso. Il mondo quindi è esperienza vissuta e al suo riguardo non vale per gli uomini alcuna pretesa di verità ontologica. (In Paul Watzlawick, La realtà inventata, Milano, Feltrinelli, 2008, pag 26 e sgg.)
  9. Per Vico la filologia non è solo la scienza del linguaggio ma anche storia, usi e costumi, religioni...ecc. dei popoli antichi.
  10. «L'età degli dei nella quale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini governi, e ogni cosa esser loro comandata con gli auspici e gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storia profana: l'età degli eroi, nella quale dappertutto essi regnarono in repubbliche aristocratiche, per una certa da essi rifiutata differenza di superior natura a quella de' lor plebei; e finalmente l'età degli uomini, nella quale tutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e perciò vi celebrarono prima le repubbliche popolari e finalmente le monarchie, le quali entrambe sono forma di governi umane» (G.Vico, Scienza Nuova, Idea dell'Opera)
  11. G.Vico,Scienza Nuova, Idea dell'Opera
  12. Ibidem
  13. La ragion di stato «non è naturalmente conosciuta da ogni uomo ma da pochi pratici di governo» (Ibidem)
  14. Ibidem Degnità XXXVII
  15. Sull'immaginazione nei primitivi secondo la filosofia vichiana si veda: Paolo Fabiani, La filosofia dell'immaginazione in Vico e Malebranche, Firenze University Press, 2002 Archiviato il 2 agosto 2016 in Internet Archive.
  16. La rivendicazione dell'assoluta autonomia dell'arte e della poesia nei confronti delle altre attività spirituali fu uno dei meriti che Benedetto Croce riconobbe al pensiero vichiano:
    « [Vico] criticò tutt'insieme le tre dottrine della poesia come esortatrice e mediatrice di verità intellettuali, come cosa di mero diletto, e come esercitazione ingegnosa di cui si possa senza far danno fare a meno. La poesia non è sapienza riposta, non presuppone logica intellettuale, non contiene filosofemi: i filosofi che ritrovano queste cose nella poesia, ve le hanno introdotte essi stessi senza avvedersene. La poesia non è nata per capriccio, ma per necessità di natura. La poesia tanto poco è superflua ed eliminabile, che senza di essa non sorge il pensiero: è la prima operazione della mente umana »
    (Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico)
  17. [qual era quello dei tempi d'Omero]
  18. G.Vico, Scienza Nuova, Conclusione
  19. Nel senso di pietas, sentimento religioso.
  20. Rosella Prezzo (a cura di), Ridere la verità. Scena comica e filosofia, Minima, n. 24, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1994, pp. 14-18 e 64-70.
  21. Niccolò Tommaseo, Storia civile nella letteraria, in Studii, Roma-Torino-Firenze, Loescher, 1872, pp. 104 sgg.
  22. Francesco Flora, Giambattista Vico, in Storia della letteratura italiana. Nuova edizione riveduta e ampliata, Volume terzo, Il Cinquecento (parte seconda) Il Seicento-Il Settecento, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1958, pp. 441-452.