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Storia della filosofia/Jean-Jacques Rousseau

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Storia della filosofia

Nato da un'umile famiglia calvinista di origine francese, ebbe una giovinezza difficile ed errabonda durante la quale si convertì al cattolicesimo (per poi tornare al calvinismo e approdare infine al deismo[1]), visse e studiò a Torino e svolse diverse professioni, tra cui quella della copia di testi musicali e quella di istitutore.[2] Trascorse alcuni anni di tranquillità presso la nobildonna Françoise-Louise de Warens; quindi, dopo alcuni vagabondaggi tra la Francia e la Svizzera, si trasferì a Parigi, dove conobbe e collaborò con gli enciclopedisti. Nello stesso periodo iniziò la sua relazione con Marie-Thérèse Levasseur, da cui avrebbe avuto cinque figli. Il suo primo testo filosofico importante, il Discorso sulle scienze e le arti,[3] vinse il premio dell'Accademia di Digione nel 1750 e segnò l'inizio della sua fortuna.[2][4]

Dal primo Discours emergevano già i tratti salienti della filosofia rousseauiana: un'aspra critica della civiltà come causa di tutti i mali e le infelicità della vita dell'uomo, con il corrispondente elogio della natura come depositaria di tutte le qualità positive e buone.[5] Questi temi sarebbero stati ulteriormente sviluppati dal Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini[6] del 1754: da questo secondo Discours emergeva la concezione di Rousseau dell'uomo e dello stato di natura, la sua idea sull'origine del linguaggio, della proprietà, della società e dello Stato.[7] Un altro testo, il Contratto sociale[8] del 1762, conteneva la proposta politica di Rousseau per la rifondazione della società sulla base di un patto equo – costitutivo del popolo come corpo sovrano, solo detentore del potere legislativo e suddito di sé stesso.[9] Questi e altri suoi scritti (soprattutto l'Émile,[10] sulla pedagogia) vennero condannati e contribuirono a isolare Rousseau rispetto all'ambiente culturale del suo tempo. Le sue relazioni con tutti gli intellettuali illuministi suoi contemporanei, oltre che con le istituzioni della Repubblica di Ginevra, finirono per deteriorarsi a causa di incomprensioni, sospetti e litigi, e Rousseau morì in isolamento quasi completo.[2]

Considerato per alcuni versi un illuminista, e tuttavia in radicale controtendenza rispetto alla corrente di pensiero dominante nel suo secolo,[11] Rousseau ebbe influenze importanti nel determinare certi aspetti dell'ideologia egualitaria e anti-assolutistica che fu alla base della Rivoluzione francese del 1789;[12] anticipò inoltre molti degli elementi che, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, avrebbero caratterizzato il Romanticismo, e segnò profondamente tutta la riflessione politica, sociologica, morale, psicologica e pedagogica successiva. Alcuni elementi della sua visione etica erano stati ripresi in particolare da Immanuel Kant.[13][14]

La critica della civiltà: il Discorso sulle scienze e le arti

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Il frontespizio del Discorso sulle scienze e le arti

Il testo filosofico d'esordio di Jean-Jacques Rousseau, il Discorso sulle scienze e le arti, costituiva la prima formalizzazione sistematica (resa possibile dall'epifania sulla via di Vincennes) delle idee che l'autore aveva maturato nel corso degli anni precedenti.[15] Pur essendo un testo totalmente originale, nel primo discorso si scorge l'influenza di una tradizione moralistica che, partendo da Seneca e Plutarco, arriva fino a Montaigne, Fénelon e Montesquieu.[11]

Il Discorso sulle scienze e le arti rappresenta un'aspra critica della civiltà (civilization) contrapposta allo stato naturale, di assoluta felicità, dell'uomo. Rousseau argomenta che i rapporti tra gli uomini all'interno della società sono profondamente viziati da un'attitudine ineliminabile alla menzogna e all'ipocrisia, tanto che è in generale impossibile distinguere l'apparenza di ciascuno dal suo essere reale:[11] «Come sarebbe dolce vivere tra noi, se l'atteggiamento esteriore fosse sempre l'immagine delle disposizioni del cuore. [...] Prima che l'arte avesse modellato le nostre maniere e insegnato alle nostre passioni un linguaggio controllato, i nostri costumi erano rozzi, ma naturali. [...] La natura umana, in fondo, non era migliore; ma gli uomini trovavano la base della loro sicurezza nella facile penetrazione reciproca.»[16] Nel momento in cui diventa impossibile rapportarsi al prossimo con assoluta sincerità, si ha l'emergenza del vizio:[11] «Che bel corteo di vizi accompagnerà quest'incertezza! Addio amicizie sincere, addio stima reale, addio fiducia fondata.»[16] È così, secondo Rousseau, che la depravazione dei costumi è avanzata di pari passo con il progresso delle arti e le scienze:[5] «L'astronomia è nata dalla superstizione; l'eloquenza dall'ambizione, dall'odio, dall'adulazione, dalla menzogna; la geometria dall'avarizia; la fisica da una vana curiosità; tutte, persino la morale, dall'umana superbia.»[17] Rousseau cita numerosi esempi storici (la decadenza dell'antico Egitto, la Grecia di Atene contrapposta a quella di Sparta, la Roma imperiale contrapposta a quella repubblicana) a suffragio della tesi per cui lo sviluppo della cultura (le arti e le scienze, appunto) sarebbe stato proporzionale alla degenerazione della virtù in vizio; questa serie di esempi culmina con la prosopopea dell'eroe romano Fabrizio, che condanna il lusso e il vizio che hanno soppiantato la semplicità, l'austerità e la virtù.[18]

La conclusione di Rousseau è che la perdita della virtù (virtù che originariamente era determinata dall'assoluta identità tra l'apparenza e la realtà nella condotta degli uomini) ha causato enormi abusi, ha generato una diseguaglianza convenzionale (indipendente dalla naturale differenza di forza o di ingegno tra due individui) molto maggiore della diseguaglianza naturale, e ha viziato in profondità la stessa costituzione delle società umane:[5] «Qual è la fonte di tanti abusi se non la diseguaglianza funesta introdotta fra gli uomini col valorizzare il talento mentre si avvilisce la virtù? Ecco il risultato di tutto il nostro studio, e la più pericolosa delle sue conseguenze.»[19] Ecco come, secondo Rousseau, «il bisogno elevò i troni; le scienze e le arti li hanno rafforzati.»[20]

Le tesi esposte da Rousseau nel Discorso sulle scienze e le arti erano evidentemente in aperto conflitto con la visione del mondo di un'epoca, quella illuminista, che riconosceva al progresso scientifico e culturale un ruolo molto positivo nel miglioramento dell'uomo, liberato dalla superstizione e affrancato dal suo stato di minorità.[11][13] Benché il primo discorso, premiato dall'Accademia di Digione, abbia avuto una significativa influenza, e benché sia stata l'opera che per prima diede a Rousseau una vera notorietà, si tende a evidenziare la necessità di minimizzarne la coerenza e l'importanza nell'ambito della riflessione rousseauiana considerata nel suo complesso: la critica della civiltà di questa fase va letta come una ricognizione del fatto che, storicamente, l'associarsi degli uomini ha prodotto effetti negativi più che positivi, e non come un'affermazione dell'intrinseca malvagità di ogni associazione.[21] La tensione retorica del primo Discours, inoltre, è considerata più cospicua della sua effettiva consistenza argomentativa.[22][23] Comunque, Rousseau non riteneva che il problema del male della civiltà potesse essere risolto con un ritorno allo stato di natura, e riteneva impossibile ripristinare l'originale innocenza negando la società o rigettando gli uomini nella barbarie:[24][25] «In quei miei scritti – scriverà Rousseau, riferendosi al primo e al secondo discorso, nella sua opera tarda Rousseau giudice di Jean-Jacques – bisognava distruggere l'illusione che ci colma di una folle ammirazione per gli strumenti della nostra infelicità, bisognava correggere quel falso apprezzamento per cui colmiamo di onori talenti dannosi e sprezziamo virtù benefiche. [...] Ma la natura umana non retrocede, né mai si può tornare al tempo dell'innocenza e dell'uguaglianza se da esse ci siamo allontanati una volta.»[26] Rousseau avanzerà la sua proposta di rifondazione della società e dello Stato, compiutamente formulata, nel testo Il contratto sociale.

Lo stato di natura e la nascita della società: il Discorso sulla diseguaglianza

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Prefazione e prima parte

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Il frontespizio del Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini

La seconda opera filosofica importante di Rousseau fu il Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini (Discorso sulla diseguaglianza o "secondo discorso" per brevità); esso, composto per l'edizione del 1754 del premio dell'Accademia di Digione, fu accolto con minore entusiasmo rispetto allo scritto precedente.[2]

Il secondo discorso si presenta notevolmente più lungo, più rigoroso e più filosoficamente profondo del primo.[13] Rousseau intende qui operare una decostruzione storica dell'uomo sociale per risalire all'uomo naturale, cioè ricostruire "genealogicamente" la storia dell'umanità dalla sua origine naturale alla società passando per il venir meno dell'isolamento e per l'istituzione del linguaggio e della proprietà:[27] questa operazione è paragonata, nell'importante prefazione metodologica al testo, al tentativo di ricostruire la fisionomia della statua di Glauco – persa in mare per lungo tempo e sfigurata dalla tempesta e dalla salsedine.[28][29] Il suo scopo è quello di arrivare a comprendere la natura originaria dell'uomo (dando così un nuovo significato all'antico imperativo «conosci te stesso» dell'oracolo di Delfi) per poter comprendere qual è il fondamento della diseguaglianza che regna nella società:[30] «Come conoscere, infatti, la fonte della diseguaglianza tra gli uomini, se non si comincia col conoscere gli uomini stessi?»[28]

Rousseau sottolinea in particolare l'importanza di non cadere nell'errore dei filosofi giusnaturalisti come Grozio, Pufendorf e Locke, che hanno posto alla base della società un contratto che gli uomini avrebbero stretto tra loro consapevolmente e razionalmente, laddove per Rousseau un uomo consapevole e razionale non è concepibile al di fuori (né, quindi, prima) della società;[31] ugualmente insidioso, secondo Rousseau, è l'errore di Hobbes che – pur identificando correttamente l'importanza di una ricostruzione filologica della storia dell'umanità come base della filosofia politica – ha proiettato arbitrariamente sull'uomo di natura caratteristiche di malvagità proprie dell'uomo civile, già corrotto dalla società.[2]

Nella prefazione, l'autore mette anche in evidenza il fatto che lo stato originario dell'uomo selvaggio da lui teorizzato (l'état de nature, lo «stato di natura») è concepito più come un'ipotesi teorica volta a comprendere i principi delle cose che come una fase storica realmente verificatasi in un passato più o meno remoto:[31] si tratta di «conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è mai esistito, che probabilmente non esisterà mai, e di cui tuttavia bisogna avere nozioni giuste per giudicare bene del nostro stato presente.»[32] Anche se a tratti sembra che la sua ricostruzione storica voglia essere molto realistica (basandosi sulle opere di etnografi e geografi, su resoconti di viaggio e sull'Histoire naturelle di Buffon)[31] Rousseau intende soprattutto produrre delle congetture,[13][31] «non [...] verità storiche, ma solo ragionamenti ipotetici e condizionali, più adatti a chiarire la natura delle cose che non a svelarne la vera origine.»[32]

Statua all'Île Rousseau, Ginevra

Dopo una dedica alla Repubblica di Ginevra, della quale loda la bontà della costituzione e la virtù dei cittadini (tanto che Ginevra, pur con qualche riserva, risulta in generale un modello che Rousseau come filosofo politico tiene sempre presente),[33] e la summenzionata prefazione, l'autore entra nel merito della sua ricostruzione della storia del genere umano e della nascita della diseguaglianza. Egli parte dunque dalla descrizione della condizione originaria dell'uomo, e (come già avevano fatto altri, tra cui Hobbes, Locke, Grozio, Pufendorf, Burlamaqui)[13] descrive questa condizione iniziale come uno stato di natura, in cui l'essere umano non si differenzia dagli animali se non per essere «meno forte degli uni, meno agile degli altri, ma, tutto sommato, organizzato meglio di tutti»[34] e caratterizzato da un'«accortezza» che gli consente di prevalere sulla maggior parte degli animali.[35][36]

Rimane costante rispetto al primo discorso la convinzione che questo stato di natura, in cui i bisogni dell'uomo si riducevano allo stretto necessario ed erano perfettamente commisurati ai suoi desideri, in cui esso non aveva né capacità di riflessione né facoltà di proiettarsi nel futuro, fu per l'umanità un'epoca massimamente felice;[31] la natura (concepita ora come lo stato originario dell'uomo selvaggio, ora come l'interiorità profonda, integra, e incorrotta, dell'uomo civile) ha in Rousseau una connotazione sempre benigna, e la vita a diretto contatto con essa è sempre considerata felice; per contro, «i nostri mali sono per la maggior parte opera nostra e li avremmo evitati quasi tutti mantenendo la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era prescritta dalla natura.»[37]

Dal punto di vista morale, vivendo in isolamento rispetto agli altri membri della sua specie (Rousseau nega recisamente l'esistenza nell'uomo di un'inclinazione istintiva alla socialità), non avendo quasi per nulla relazioni interpersonali e non avendo alcun dovere riconosciuto, l'uomo di natura non è né buono né cattivo.[31][38] Esso ha due istinti, o principi naturali innati, che regolano le sue azioni e le sue relazioni e che sono almeno in parte comuni all'uomo di natura e agli animali: il primo è l'amore di sé (amour de soi-même o solo amour de soi), il sentimento che lo spinge a evitare la sofferenza e il pericolo, che lo fa godere del suo benessere e che, pur senza conseguenze misantropiche, lo porta naturalmente a preferire sé agli altri; il secondo, che tempera il primo, è la pietà (pitié), il sentimento che genera ripugnanza al veder soffrire altri esseri sensibili.[31][39] Tuttavia l'uomo selvaggio si differenzia dagli animali per una qualità morale, la libertà, che gli consente – esercitando una scelta attraverso la volontà – di sottrarsi alla meccanica obbedienza agli impulsi della natura che caratterizza le bestie.[40][41] Da questa libertà deriva la facoltà più caratteristica dell'uomo, la perfettibilità (perfectibilité), cioè la sua capacità di cambiare sé stesso in meglio o in peggio. Mentre l'esistenza degli animali è senza tempo e rimane sempre uguale a sé stessa attraverso gli anni e le generazioni, l'uomo è un essere storico e capace di modificarsi, anche se la sua perfettibilità è ambivalente:[40] Rousseau si trova costretto ad ammettere che «questa sconfinata facoltà che ci distingue è la fonte di tutti i malanni dell'uomo; [...] che facendo sbocciare coi secoli la sua intelligenza e i suoi errori, i suoi vizi e le sue virtù, lo rende a lungo andare tiranno di sé stesso e della natura.»[41]

Dalla perfettibilità e dalla ragione latente nell'uomo selvaggio prende le mosse la ricostruzione storica di Rousseau: egli evidenzia come i suoi bisogni siano all'inizio estremamente limitati e facili da soddisfare; sottolinea che la condizione originaria degli uomini era quella dell'isolamento e che nemmeno la famiglia era un'istituzione permanente nello stato di natura, dato che l'accoppiamento avveniva in modo veloce e quasi casuale e la distanza tra l'atto sessuale e il parto rendeva difficile stabilire una connessione tra le due cose; mette in risalto il fatto che il linguaggio, che inizialmente poteva ridursi solo a urla inarticolate, deve aver avuto un'origine estremamente difficile, graduale, lunga e travagliata:[42] «se gli uomini hanno avuto bisogno della parola per imparare a pensare, anche più bisogno hanno avuto di saper pensare per inventare l'arte della parola.»[43]

Questa è, in sintesi, la condizione dell'uomo nello stato di natura: «Errando nella foresta, senza mestiere, senza parola, senza domicilio, senza guerra e senza legami, senza nessun bisogno dei suoi simili, come pure senza nessun bisogno di danneggiarli, forse addirittura senza conoscerne individualmente nessuno, il selvaggio, soggetto a poche passioni, bastando a sé stesso, non doveva avere che i sentimenti e i lumi del suo stato, non doveva sentire che gli autentici bisogni, guardando solo a ciò che riteneva di avere interesse a vedere, mentre la sua intelligenza faceva scarsi progressi, ma la sua vanità non ne faceva di più.»[44] Rousseau aggiunge che in questa fase ogni scoperta, incomunicabile per mancanza di linguaggio e di contatti, perisce con il suo inventore; che, non essendoci educazione, non c'è progresso di generazione in generazione; che la diseguaglianza tra gli uomini, i quali vivono allo stesso modo facendo tutti le stesse cose, è molto ridotta; che il dominio di un uomo su un altro, dovendosi basare unicamente su un rapporto materiale di forza, è inconcepibile, perché richiederebbe al dominatore un'attenzione costante e una fatica, a conti fatti, molto maggiore di quella che costui si risparmierebbe sfruttando il dominato.[45][46]

Seconda parte

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Nella seconda parte del Discours, Rousseau descrive il processo storico che ha visto la degenerazione dell'uomo dalla purezza e felicità dello stato di natura (condizione che l'autore ha tratteggiato nella prima parte del testo) all'avvilimento e degrado morale della società corrotta (condizione che l'autore aveva già precedentemente analizzato nel Discorso sulle scienze e le arti).

Secondo la sua ricostruzione, nonostante la semplicità e l'agio della vita nello stato di natura, le necessità di ogni giorno e le passioni che esse generano devono in qualche misura stimolare l'intelletto umano; l'insorgere di difficoltà di particolare gravità legate a fenomeni naturali straordinari e catastrofici porta gli uomini ad avvicinarsi gli uni agli altri, e questo «dové naturalmente generare nello spirito dell'uomo la percezione di certi rapporti»;[47] tali rapporti mentali lo portano a sviluppare delle idee. L'uomo comincia così ad avviarsi verso la consapevolezza e l'intelligenza e, acquisendo la facoltà di paragonarsi a se stesso e agli altri, va immediatamente riempiendosi di orgoglio e autocompiacimento.[48] Inizia a confrontarsi con i propri simili e, ognuno osservando che tutti si comportano come si comporta lui stesso, intuendo una serie di affinità reciproche, sviluppa una sorta di empatia e un rispettoso codice di condotta che, rafforzando il sentimento della pietà, va a vantaggio della sicurezza e della pace di tutti.[48] Gli uomini cominciano dunque a vivere insieme e a collaborare, raffinando gradualmente il linguaggio che usano per comunicare tra loro e sviluppando con l'abitudine a convivere le prime relazioni sentimentali – amore coniugale e affetto tra genitori e figli: «Fu l'epoca di una prima rivoluzione da cui nacque la fondazione e la distinzione delle famiglie e che introdusse una specie di proprietà; forse già da questo nacquero di gran liti e contese.»[49][50]

Rousseau in meditazione nel parco di La Rochecordon, presso Lione, in un dipinto di Alexandre-Hyacinthe Dunouy del 1770.

A questo punto, con il raffinarsi dell'intelligenza e con la disponibilità di crescenti risorse risultanti dal mettere in comune le forze di tutti, gli uomini iniziano a indulgere a delle comodità; questo è uno dei primi passi verso la corruzione, dato che tutte le comodità, secondo Rousseau, sono fin dall'inizio inevitabilmente destinate a degenerare in dipendenze e, quindi, a produrre nuovi bisogni limitando la libertà e l'indipendenza dell'uomo:[40] «In questa nuova condizione, con una vita semplice e solitaria, con bisogni molto limitati, coi mezzi che avevano inventato per provvedervi, gli uomini, godendo di molto tempo libero, lo impiegarono a procurarsi molte comodità ignote ai loro padri; fu questo il primo giogo che senza rendersene conto imposero a sé stessi, e la prima fonte dei mali che prepararono ai loro discendenti.»[51] Ciononostante, «questo periodo di sviluppo delle facoltà umane, tenendo il giusto mezzo tra l'indolenza dello stato primitivo e l'impetuosa attività dell'amor proprio, dové essere l'epoca più felice e duratura. Più ci si riflette e più si trova che questa condizione era la meno soggetta a rivoluzioni, la migliore per l'uomo.»[52]

Tuttavia, la crescente inclinazione a paragonarsi tra di loro porta gli uomini a dare sempre più peso all'opinione che si ha di ciascuno e, intanto che si inizia a desiderare di essere oggetto della pubblica stima, il fatto di apparire comincia a diventare più importante del fatto di essere; questo genera la prima vanità, che è a sua volta presupposto sia della diseguaglianza sia del vizio.[53] Gli uomini, che erano stati indipendenti «finché si dedicarono a lavori che ognuno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso di più mani» divennero dipendenti gli uni dagli altri «nel momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell'aiuto di un altro»; se inizialmente erano stati liberi e felici, «quando ci si accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l'uguaglianza scomparve.»[54] Lo sviluppo di arti come l'agricoltura e la metallurgia, che richiedono che la proprietà non solo dei frutti del lavoro di ognuno, ma degli stessi mezzi di produzione e della terra, sia riconosciuta a chi li lavora, porta un rapido incremento della diseguaglianza: per la prima volta infatti, in virtù di un accordo convenzionale, non soltanto il frutto del lavoro è considerato di proprietà di chi l'ha guadagnato, ma si legittima il possesso dei mezzi di produzione a prescindere dal bisogno che chi li utilizza può avere dei loro prodotti.[55] Questa, secondo Rousseau, è una svolta storica:[40] «Il primo che, cintato un terreno, pensò di affermare "questo è mio", e trovò persone abbastanza ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quante uccisioni, quante miserie e quanti orrori avrebbe risparmiato al genere umano colui che strappando i paletti o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: "Guardatevi dall'ascoltare questo impostore. Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno, voi siete perduti".»[56]

Da allora la degenerazione accelera sensibilmente. L'istituzione del denaro aumenta la distanza tra i beni e il lavoro di chi li possiede, l'istituzione del diritto di successione (eredità) scollega del tutto le nozioni di "bisogno" e di "lavoro" da quella di "proprietà" da cui sono naturalmente inscindibili. L'amor di sé degenera definitivamente in amor proprio (amour-propre) e diventa quindi un egoismo attivo, non più passivo, in cui si gode non tanto del proprio bene quanto dello star meglio di altri, non solo delle proprie fortune ma anche delle disgrazie altrui. La smania di possedere sempre più dei propri vicini si impossessa di tutti: «Di qui cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine.»[57] In questa fase evidentemente già molto lontana dallo stato di natura, secondo Rousseau, si arriva a quello stato di guerra di tutti contro tutti che Hobbes, concependo il suo homo homini lupus, aveva posto all'origine della storia dell'uomo.[40][58]

A questo punto, essendosi separata la classe dei ricchi da quella dei poveri, diventa evidente per i primi che la loro condizione è molto svantaggiosa, dal momento che dallo stato di guerra in cui si trovano hanno tutto da perdere, mentre i poveri hanno qualcosa da guadagnare con la rapina: «È da credere che i ricchi non tardassero ad avvertire quanto li danneggiasse una guerra di cui erano i soli a fare le spese, in cui il rischio della vita era comune [a ricchi e poveri] e individuale [solo dei ricchi] quello dei beni. D'altra parte [...] si rendevano abbastanza conto del fatto che le loro usurpazioni erano fondate su un diritto precario e abusivo e che, avendole conquistate solo con la forza, potevano esserne privati con la forza senza avere ragione di lamentarsene.»[59] È così che, per Rousseau, il ricco «finì con l'ideare il progetto più avveduto che mai sia venuto in mente all'uomo»:[60] propose un accordo al povero, offrendogli di unirsi allo scopo di proteggere i deboli dall'oppressione, di garantire a ciascuno il possesso del necessario, di stabilire degli ordinamenti di giustizia, cioè di istituire un sistema di leggi capace di «difendere tutti i membri dell'associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci in un'eterna concordia.»[60] Gli uomini, «grossolani, facili da lusingare, che, d'altra parte, avevano troppe questioni da dirimere tra loro per fare a meno di arbitri, e troppa avarizia e ambizione per potere a lungo fare a meno di padroni [...] corsero incontro alle catene convinti di assicurarsi la libertà.»[58][61]

Questo "contratto iniquo" è il fondamento su cui si regge tuttora la società, con tutta la sua corruzione, ed è il principio da cui si sono generate e moltiplicate con pretesa legittimità tutte le diseguaglianze che hanno finito per distruggere la libertà naturale. La tutela delle leggi istituite da questo patto, che inizialmente erano solo convenzioni generali senza garanzie, ha infatti richiesto ben presto l'istituzione di una magistratura (un potere esecutivo); essa, dovendo proteggere più le ricchezze che la libertà e trovandosi di fronte a un popolo ormai corrotto, non ha tardato a degenerare in un potere assoluto, che da elettivo come doveva essere originariamente diventa ereditario e sprofonda la civiltà in nuovi abusi, in nuove violenze, tanto da farla quasi tornare al disordine che aveva reso necessario il contratto.[40] «Qui tutti i privati tornano ad essere uguali, perché non sono niente, e i sudditi non avendo altra legge che la volontà del padrone, né il padrone altra norma oltre le proprie passioni, le nozioni relative al bene e i principi di giustizia tornano di nuovo a svanire. A questo punto tutto si riporta alla sola legge del più forte, e quindi a un nuovo stato di natura diverso da quello con cui abbiamo cominciato, in quanto l'uno era lo stato della natura nella sua purezza, mentre quest'altro è il frutto di un eccesso di corruzione.»[62] Aggiunge Rousseau che «la sommossa che finisce con lo strangolare o detronizzare un sultano è un atto che ha la stessa validità giuridica di quelli con cui il sultano il giorno prima disponeva delle vite e degli averi dei suoi sudditi. Si manteneva con la sola forza, con la sola forza viene rovesciato.»[62]

La conclusione del Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini è che la diseguaglianza naturale è pressoché nulla e che «la diseguaglianza morale, autorizzata dal solo diritto positivo, è contraria al diritto naturale. [...] Ovviamente, è contro la legge di natura, comunque vogliamo definirla, che un bambino comandi a un vecchio, che un imbecille guidi un saggio, e che un pugno d'uomini rigurgiti di cose superflue, mentre la moltitudine manca del necessario.»[40][63]

Il fatto di ricondurre l'origine di tutti i mali dell'uomo non alla natura dell'uomo stesso (considerata originariamente e intrinsecamente buona) ma al momento in cui l'essere umano si associa ai suoi simili, costituisce la risposta di Rousseau al problema della teodicea, cioè della giustificazione dell'esistenza del male nonostante la bontà e l'onnipotenza di Dio: la responsabilità non è attribuita né alla natura né a Dio né all'uomo in sé, ma alla società – in quanto causa del prevalere dell'amor proprio sull'amor di sé.[64] I dettagli sulla visione religiosa di Rousseau emergeranno con maggiore dettaglio dal Contratto sociale e dall'Émile.

Patto iniquo e patto equo: la proposta politica del Contratto sociale

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Diritto, popolo, sovranità e potere legislativo

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Il frontespizio del Contratto sociale

Se i primi due discorsi costituiscono una forte critica della civiltà e della società per come storicamente si sono date, il Discorso sull'economia politica e Il contratto sociale (il quale si apre con la famosa frase: «L'uomo è nato libero e ovunque si trova in catene»)[65] contengono la proposta politica di Rousseau, ovvero le sue risposte filosofiche ai problemi da lui stesso sollevati.[13][24]

Tenendo presente che Rousseau ritiene impossibile un ritorno allo stato di natura, e che secondo la sua visione i problemi posti dalla civiltà vanno superati nella civiltà,[24] nel Contratto sociale egli si propone di esporre quale sia l'ordinamento sociale e politico che meglio consente di coniugare ciò che il diritto autorizza e ciò che l'interesse suggerisce,[24] «in modo che la giustizia e l'utilità non si trovino separate.»[65]

Nel primo dei quattro libri di cui l'opera si compone l'autore ricapitola brevemente l'origine delle prime società per come l'aveva ricostruita nei testi precedenti, e quindi passa a dimostrare l'inconsistenza dell'espressione "diritto del più forte": per Rousseau la forza non fonda alcun diritto, non genera alcuna legittimità, perché chi si sottomette a un forte è costretto a farlo (lo fa per forza, appunto, e non per scelta o per dovere) e questo significa che la parola "diritto" non aggiunge nulla alla parola "forza"; d'altra parte, il più forte conserva il suo preteso diritto solo finché rimane tale, e lo perde non appena qualcuno si rivela più forte di lui.[66]

Quindi Rousseau analizza il problema della schiavitù, e procede con la confutazione delle tesi sostenute in proposito da Grozio. In primo luogo, secondo Rousseau, non è possibile che un individuo scelga di alienare la propria libertà, e con essa tutti i suoi diritti, all'arbitrio di un altro senza che sia uscito di senno (e «la pazzia non crea diritto»);[67] in secondo luogo, chiunque rinunci alla propria libertà non può con questo arrogarsi il diritto di rinunciare a quella dei suoi figli in loro nome, il che rende assurda la schiavitù ereditaria[66] (come Rousseau aveva già affermato nella seconda parte del Discorso sulla diseguaglianza, sostenere che il figlio di una schiava nascerebbe schiavo equivale a sostenere che un uomo non nascerebbe uomo);[68] in terzo luogo, l'atto con cui un uomo rinuncia alla propria libertà è diverso dall'atto con cui potrebbe rinunciare a una proprietà, perché degrada l'essere stesso dell'uomo ed è incompatibile con la sua natura portando a stabilire un contratto cui la mancanza di «equivalenza e reciprocità» toglie ogni valore giuridico.[69] Grozio sosteneva anche che l'atto con cui, in guerra, un vincitore risparmia un vinto rende il primo proprietario della vita e dei diritti del secondo (il quale diventa legittimamente suo schiavo); Rousseau risponde che lo stato di guerra può sussistere tra due uomini o tra due Stati, ma non tra un uomo e uno Stato, «dato che è impossibile stabilire un vero rapporto tra cose di natura diversa»:[70] quindi, dato che nel momento in cui un soldato viene vinto cessa di essere una minaccia per lo Stato suo nemico, il vincitore deve trattarlo semplicemente come un uomo con tutti i suoi diritti. Inoltre, poiché la conquista di uno schiavo per mezzo di questo presunto diritto del vincitore deriva dalla sola forza (prolunga cioè lo stato di guerra tra i due uomini piuttosto che interromperlo), è ancora una volta un non-diritto, il quale viene meno non appena lo schiavo riesce fisicamente a eludere le sue catene.[71]

Avendo rifiutato la fondazione della società sulla base della forza o della schiavitù, e rifiutando anche le fondazioni basate sul diritto divino o sul paternalismo politico,[24] Rousseau passa quindi a esaminare quello che secondo lui è l'atto propriamente costitutivo delle società umane, con cui si trasforma un gruppo inorganico e disorganizzato in una comunità regolata da precise convenzioni:[72] «Prima di esaminare l'atto attraverso il quale un popolo elegge un re sarebbe bene esaminare l'atto per il quale un popolo è un popolo, perché quest'atto, precedendo necessariamente l'altro, costituisce il vero fondamento della società.»[73]

Quest'atto, che Rousseau legge nella forma tradizionale del contratto sociale, è la risposta che una comunità dà al problema di «trovare una forma di associazione che protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a sé stesso e rimanga libero come prima.»[74] La clausola fondamentale di tale patto, quella che lo rende legittimo (l'unico, in effetti, legittimamente possibile)[75], è che ognuno (come singolo) si dia a tutti gli altri (come comunità) e (come membro della comunità) riceva tutti gli altri (come singoli). Se quest'alienazione dei diritti, dei doveri, del potere e dei beni di ciascuno avviene senza riserve, ognuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno, e nessuno ha interesse a rendere onerosa la condizione altrui (o renderebbe onerosa la propria):[24] «Non c'è associato sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su sé stessi, si guadagna l'equivalente di tutto ciò che si perde e più forza per conservare quello che si ha.»[76]

Dalla comunità, così costituita in un autentico corpo politico, si origina una volontà unitaria del popolo in quanto Stato che determina le azioni del popolo in quanto sovrano: è quella che Rousseau chiama la volontà generale (volonté générale). E il popolo, come comunità deliberante caratterizzata da una precisa volontà (quella generale, che va verso il bene della comunità stessa), è il depositario di tutta la sovranità; il Sovrano (cioè il corpo politico inteso in senso attivo, come autore delle leggi, laddove lo Stato, o insieme dei soggetti, è il corpo politico inteso in senso passivo, come destinatario delle leggi) è formato solo dai singoli, e non può avere interessi contrari ai loro. È chiaro che la volontà particolare di qualcuno può divergere dalla volontà comune del corpo politico: ma, per la simmetria di base del contratto sociale, «esso contiene implicitamente questo impegno, che solo può dar forza agli altri: chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale vi sarà costretto da tutto il corpo, il che non significa altro che lo si forzerà a essere libero.»[77][78]

La sovranità, che dunque può appartenere solo al popolo, non è né divisibile («La volontà è generale o non lo è; è quella del corpo del popolo o solamente di una parte»)[79] né alienabile («Il potere si può certo trasmettere, ma non la volontà. [...] Pur non essendo impossibile che una volontà particolare concordi su qualche punto con la volontà generale, è comunque impossibile che questo accordo sia durevole e costante, giacché la volontà particolare tende per sua natura ai privilegi e la volontà generale all'uguaglianza»).[80] Quindi è il popolo in[2]prima persona che deve detenere ed esercitare la sua sovranità: Rousseau nega che sia possibile, sulle questioni di interesse generale, alcuna rappresentanza.[81][82] Il parlamento non può rappresentare il popolo, come aveva invece affermato John Locke : in Rousseau il popolo è l'unico depositario del potere legislativo. Una legge è l'atto con cui tutto il popolo, in quanto sovrano, statuisce su sé stesso in quanto suddito su una materia generale; anche se le leggi possono essere (e in effetti sono) proposte da un legislatore che in qualche modo è esterno al popolo, nessuna legge è valida senza l'esplicita ratifica da parte del Sovrano, cioè ancora una volta il popolo stesso.[81][83]

All'interno dello Stato, la libertà per Rousseau non consiste e non può consistere nell'arbitrio di ogni singolo, ma piuttosto nell'indipendenza e nella protezione da ogni arbitrio particolare: «L'obbedienza alla legge che ci si è prescritta è libertà.»[84] Si è liberi quando tutti sottostanno alle stesse leggi, oggettive, necessarie e super partes come le leggi di natura, che la comunità si è data da sé; o, in altre parole, si è liberi non quando non si sottostà a nessuna autorità, bensì quando ci si sottomette volontariamente a un'autorità che impedisce il dominio di un uomo su un altro.[85][86]

Rousseau tiene conto della possibilità che, poiché «si vuole sempre il proprio bene, ma non sempre lo si scorge»,[87] la volontà di tutti possa non coincidere con la volontà generale: quest'ultima (che è più che altro volontà per tutti, cioè si caratterizza per una precisa finalità collettiva, e non solo per la sua origine collettiva)[88] tende sempre al bene pubblico, ma cionondimeno esistono sempre interessi particolari contrari ad essa. Tuttavia Rousseau rimane fermamente convinto che in uno stato ben costituito, dove non si dà peso alle fazioni particolari e i cittadini sono retti e virtuosi, la volontà della maggioranza tende sempre ad approssimarsi alla volontà generale.[81]

Potere esecutivo e governo

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Se l'aderenza alla volontà generale legittima il potere legislativo del popolo, d'altra parte nello Stato è necessaria un'autorità che, detenendo un potere esecutivo, abbia facoltà di far rispettare la legge nei casi particolari. Questa autorità spetta, secondo Rousseau, al governo, che egli separa nettamente dal sovrano: il primo detiene il potere di giudicare i casi particolari e di applicare puntualmente la legge, il secondo, invece, il potere di legiferare, cioè di esprimersi su casi di interesse generale. Il Governo quindi è un ministro, o magistrato, del Sovrano, un corpo intermedio tra il popolo in quanto sovrano e il popolo in quanto suddito.[81][89]

La volontà generale, naturalmente, ha la facoltà di scegliere la forma di governo che ritiene più vantaggiosa e più adatta alle determinate caratteristiche storiche e geografiche del popolo.[81] Le tre forme fondamentali che Rousseau individua (e che possono essere combinate in innumerevoli forme miste) sono tradizionalmente classificate in base al numero di persone a cui il popolo delega il potere esecutivo:[90][91]

  • Se tale potere è detenuto da una sola persona, allora si ha una monarchia. Bisogna sempre tenere presente che la concezione rousseauiana della monarchia è diversa da quella che tradizionalmente il termine significa, dal momento che il potere legislativo è sempre direttamente esercitato dal popolo (e quindi, in base alle definizioni di Rousseau, lo Stato è comunque repubblicano) e il re non è che un suo ministro demandato alle questioni particolari; la carica peraltro può non essere (e in generale non deve essere) ereditaria, ma elettiva. La monarchia ha il vantaggio di avere la volontà "di corpo" della magistratura identificata con la volontà particolare del re, e quindi la rapidità e l'efficienza decisionale è massima; tuttavia, dato che la volontà particolare di un singolo si distacca dalla volontà generale con più facilità che quella di un gruppo, il potere monarchico è quello che ha più probabilità di degenerare in tirannia quando il re tenta di usurpare il potere legislativo.[81][92]
  • Se il potere esecutivo è detenuto da un gruppo di persone (che può variare da una coppia fino alla metà meno uno del popolo, in modo che comunque ci siano più semplici cittadini che magistrati) si ha un'aristocrazia; essa può essere naturale (laddove, per esempio, il potere è affidato ai più anziani), elettiva oppure ereditaria. Se l'ultima forma è, insieme alla monarchia ereditaria, la peggiore possibile, invece le aristocrazie elettive o naturali (queste ultime essendo però adatte solo a stati piccoli, dove gli anziani sono in numero non eccessivo) sono le migliori: infatti, benché la magistratura abbia un interesse di corpo (generale rispetto al corpo della magistratura ma particolare rispetto allo Stato) che la porta a fare il suo bene prima di quello pubblico, tuttavia il fatto che il potere esecutivo sia detenuto collegialmente rende meno facile la sua degenerazione.[81][93]
  • Se il potere esecutivo spetta al popolo, cioè se ci sono nello Stato più magistrati che semplici cittadini, si ha una democrazia. Questa condizione, in cui la volontà generale si confonde con quella del corpo dei magistrati, è la più retta perché coloro che amministrano le leggi sono gli stessi che le hanno fatte, e quindi l'aderenza alla volontà generale anche nelle azioni particolari è massima. Tuttavia questa forma non è la più efficiente (si ricordi che si parla di potere esecutivo, cioè di tutte le prassi di governo: Rousseau intende la democrazia in senso più "forte" di quello corrente) e si rischiano pericolose confusioni tra la sfera dell'esecutivo e quella del legislativo.[81] Inoltre, per Rousseau «va contro l'ordine naturale che la maggioranza governi e la minoranza sia governata.»[94] «Se esistesse un popolo di Dei – conclude l'autore – si governerebbe democraticamente. Un Governo così perfetto non è adatto a degli uomini.»[95]

Gli altri due punti fondamentali del Contratto sociale, accennati già nel secondo discorso, riguardano la proprietà e la religione civile. Le condizioni di legittimità che Rousseau individua per il diritto di proprietà sono il fatto che si prenda possesso solo di oggetti che non sono già di qualcun altro, il fatto che si possiedano tali oggetti solo nella misura in cui se ne ha necessità o bisogno, e il lavoro:[96] «In generale, per autorizzare su un qualunque terreno il diritto del primo occupante, occorrono le seguenti condizioni. In primo luogo che non sia ancora abitato da nessuno; in secondo luogo che se ne occupi solo quel tanto che è necessario per la sussistenza; in terzo luogo che se ne prenda possesso non con una vana cerimonia, ma con il lavoro e la coltivazione.»[97] Rousseau non nega del tutto la possibilità che, all'interno della società, la proprietà generi diseguaglianze, ma insiste sul fatto che i limiti del diritto di proprietà siano uguali per tutti e che la diseguaglianza non si possa spingere fino al punto in cui qualcuno è costretto a vendersi a un altro, tanto opulento da poterlo comprare.[81]

Sulla religione Rousseau si esprime in senso fortemente tollerante, e tuttavia riconosce al culto della divinità un'importante finalità a livello sociale (oltre che un'origine storica fondamentalmente sociale). Egli distingue, in sostanza, la religione dell'uomo dalla religione del cittadino: se (come risulterà massimamente chiaro da quanto contenuto nella Professione di fede del vicario savoiardo) a livello individuale nessuno può essere costretto nel determinato sistema di dogmi di una certa religione positiva e se ognuno ha il diritto di approdare a Dio in modo autonomo e razionale, invece a livello sociale è indispensabile che al corpo politico siano imposti alcuni fondamentali dogmi di carattere morale (e quindi strettamente legati all'utilità pubblica) che nessuno potrebbe negare senza scuotere le fondamenta stesse dello Stato: l'esistenza di un Dio onnipotente e buono, l'immortalità dell'anima (con la premiazione dei buoni e il castigo dei malvagi nell'altra vita), la sacralità del patto sociale e delle leggi.[98][99] Dopodiché Rousseau non si esprime direttamente né a favore né contro le rivelazioni, e riconosce a tutti il diritto di crederle o predicarle, a patto che nessuno vi sia costretto;[100] tutto si può dire, tranne «fuori della Chiesa niente Salvezza»[101] perché l'intolleranza teologica implica necessariamente l'intolleranza civile, che apre la porta al collasso dello Stato:[100][102] «Ovunque l'intolleranza teologica viene ammessa è impossibile che non abbia qualche effetto civile e, appena ne ha, il Sovrano non è più tale, neppure nel campo temporale; da quel momento i Preti sono i veri padroni e i Re niente altro che loro funzionari.»[101]

L'uomo nuovo nella pedagogia dell'Émile

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Il frontespizio dell'Émile

Nell'opera Émile, o dell'educazione (1762) Rousseau espone – tramite la descrizione minuziosa dell'educazione di un allievo ideale, Émile appunto – una concezione pedagogica che riprende e ricapitola, al fine della formazione di un uomo e di un cittadino nel senso più alto di questi due termini, tutti i temi più cari all'autore: filosofia della natura, antropologia, psicologia, politica, religione.[103] La critica tende a sottolineare l'intima unità che lega l'Émile al Contratto sociale, pure composto nel 1762: secondo alcune interpretazioni l'ardita proposta politica di Rousseau richiede, per essere attuabile, un'umanità retta e virtuosa che solo un'educazione estremamente accurata e ponderata dei singoli individui può sviluppare; in qualche modo, per la società nuova di Rousseau è necessaria una nuova umanità, una generazione di cittadini consapevoli e buoni, di cui idealmente Émile è il primo rappresentante.[104] In alternativa, quello dell'Émile può essere letto come un «programma minimo», cioè come un tentativo di riforma morale e civile sulla piccola scala dell'individuo che viene intrapreso perché si riconosce l'impossibilità pratica di attuare una simile riforma sulla grande scala dello Stato.[105] Ancora, alcuni hanno interpretato l'Émile come un tentativo di portare l'uomo alla felicità all'interno dello Stato e della società, cioè come una riscrittura del Contratto sociale non più nell'ottica di modellare uno Stato legittimo, bensì nell'intento di formare alla moralità un singolo individuo, di renderlo capace di rapportarsi correttamente con la comunità e di fargli ottenere così l'unica felicità possibile al di fuori dello stato di natura: i due testi sarebbero quindi due facce della stessa medaglia, dal momento che Rousseau stesso sostiene che «quelli che vorranno trattare separatamente la politica e la morale non capiranno mai niente di nessuna delle due.»[103]

Il testo si compone di cinque libri: nel primo, che va da prima della nascita di Émile al momento in cui inizia a parlare, Rousseau descrive il tipo di cure di cui il bambino ha bisogno da parte della madre e della nutrice, scendendo anche nei dettagli della sua alimentazione e del suo accudimento; ciò che traspare con chiarezza fin dall'inizio, comunque, è che l'educazione di Émile deve essere un'educazione "delle cose", e non "delle parole", in modo che il bambino si abitui ad accettare come inevitabili le necessità imposte dalle circostanze e sia invece totalmente indipendente dagli uomini e dalle loro opinioni: ad esempio, il precettore (la cui figura coincide sostanzialmente con quella di Jean-Jacques) dovrà sempre essere in grado di distinguere i bisogni dell'infante dai suoi capricci, assecondando senza esitazione i primi e ignorando completamente i secondi.[106][107]

Illustrazione da un'edizione del XIX secolo dell'Émile

Nel secondo libro, che rispetto alla crescita di Émile va da circa tre anni a dodici anni, il bambino inizia a parlare, a giocare, a entrare in relazione sensoriale con il mondo in modo consapevole; in questo momento diventa essenziale il concetto rousseauiano di "educazione negativa":[107] dal momento che «tutto è bene quando esce dalle mani dell'Autore di tutte le cose [Dio], tutto degenera nelle mani dell'uomo»,[108] una buona educazione consiste in gran parte nel preservare l'originaria bontà e purezza del bambino contro la corruzione a cui la società che lo circonda lo farebbe altrimenti andare incontro; si cerca quindi di ritardare tutti i progressi del bambino in modo che nessuno degli errori che potrebbe commettere in questa età critica rimanga radicato in lui per tutta la vita;[107] Émile vive isolato, a diretto contatto con la natura, solo col suo precettore e con pochi servitori discreti. Consapevole che il bambino corre un elevato rischio di morire prima degli otto anni, il precettore insiste sull'importanza di far sì che sia felice nel presente (piuttosto che prepararlo a una felicità futura sfuggente e incerta) e quindi lo conduce nei suoi giochi e nelle sue attività in modo che essi gli risultino il più possibile piacevoli.[109]

Il secondo libro contiene anche una lunga dissertazione sulla dieta, con particolare riferimento al problema della liceità del mangiar carne. Già nella prefazione al secondo discorso Rousseau aveva sostenuto che «pare io sia obbligato a non fare alcun male al mio simile meno in quanto è un essere intelligente che non in quanto è un essere sensibile» e che quindi, «per via della sensibilità di cui sono dotati, è da ritenere che anche gli animali debbano partecipare del diritto naturale e che l'uomo sia tenuto nei loro riguardi a taluni doveri.»[110] Nell'Émile l'autore riprende questi temi e sottolinea, da un lato, che la dieta vegetariana è più salutare di quella che comprende anche la carne e, dall'altro lato, che il maltrattamento degli animali da parte dell'uomo (anche al fine di nutrirsene) non solo è illegittimo, ma costituisce anche il sintomo di una morale che rispetta solo i forti, senza farsi alcuno scrupolo a divorare esseri inermi e pacifici.[23][111] Rousseau riporta poi integralmente un lungo passo tratto dal saggio Del mangiar carne di Plutarco in cui si critica aspramente, in quanto innaturale e barbaro, il fatto di nutrirsi di carne.[23][112]

Nel terzo libro (il bambino ha da tredici a quindici anni) inizia la vera e propria istruzione del fanciullo: la sua ragione è ormai formata, ma egli è praticamente privo di pregiudizi; inoltre, dice Rousseau, egli ha molte forze (dovute al costante esercizio e alla vita sana e semplice) e pochissimi bisogni (non essendo stato aggiunto niente per mezzo dell'opinione, della vanità e dell'orgoglio a quello che è reso necessario dalla natura): queste circostanze massimizzano la capacità di Émile di dedicarsi ad attività impegnative come gli studi. Sempre condotto da un obiettivo pratico, cioè sempre immediatamente consapevole dell'utilità di quello che studia, Émile viene guidato alla scoperta della geometria, della fisica, della geografia: ma ogni insegnamento egli lo deve trarre direttamente dall'esperienza, e deve più ricostruire le discipline che impararle.[113] Nulla deve venire concesso all'autorità, e più che i contenuti (le verità) delle scienze che studia, Émile deve imparare ad apprezzare e a servirsi del loro metodo.[107][114]

Nel quarto libro, che va dai sedici ai vent'anni di Émile, il giovane comincia ad essere tormentato dalle passioni legate all'istinto sessuale. Non ha più solo sensazioni, ma (collegando e paragonando le sensazioni tra loro) sviluppa vere e proprie idee, e quindi in sostanza è tempo per il precettore di passare dall'educazione "della natura" a quella "della società".[107] Rousseau sostiene che il contatto di Émile con l'altro sesso debba essere ritardato il più possibile e che d'altra parte, se le indiscrezioni e le allusioni di coloro che lo circondano non avranno eccitato la sua immaginazione, l'emergenza del suo impulso riproduttivo sarà molto meno precoce di quello che normalmente è nei ragazzi. Il precettore deve essere in grado in questa fase di far entrare il giovane a contatto con l'umanità in modo che egli la capisca a fondo, e più che invidiare gli altri uomini li compatisca: fintanto che Émile proverà le forti passioni che lo spingono a negare il suo isolamento senza rendersi conto che esse sono dirette specificamente verso le donne, l'istitutore potrà trasformarle in un sentimento di empatia e solidarietà umana generalizzata. Comunque, per come è stato educato, il suo naturale amor di sé e la pietà verso il prossimo prevarranno sempre sull'amor proprio. Nel frattempo lo studio della storia contribuirà a far sì che Émile impari a capire gli uomini, e risposte discrete ma dirette alle sue domande gli chiariranno i principi della riproduzione. L'educazione sociale e morale del giovane viene completata dall'introduzione alla religione, alla quale è dedicata una larga parte del quarto libro sotto forma della Professione di fede del vicario savoiardo. Infine Émile (ormai ventenne) deve essere davvero introdotto in società: questo passo viene compiuto quando diventa necessario per il ragazzo trovarsi una compagna, sulla quale il precettore non ha mancato di alimentare le aspettative del discepolo in modo che egli non si accontenti di niente di meno di quello che merita. Inevitabilmente Émile disprezzerà la lussuosa e corrotta civiltà urbana, e la ricerca dell'amata si sposterà ben presto alla campagna.[115]

Nel quinto libro (che è di stampo più narrativo dei precedenti, improntati maggiormente a uno stile didattico) Émile entra finalmente in contatto con Sophie, una ragazza semplice, virtuosa e modesta, educata con buon senso e onestà da una famiglia di campagna già ricca ma ormai decaduta. Rousseau descrive nel dettaglio l'educazione delle ragazze e le sue differenze rispetto a quella dei ragazzi; egli ritiene che la ragione delle donne sia di ordine strettamente pratico, mentre quella degli uomini ha un carattere maggiormente speculativo:[13] di conseguenza, pur non apprezzando incondizionatamente nemmeno il fatto che gli uomini si dedichino allo studio delle discipline teoretiche, nega totalmente alle donne la facoltà di dedicarsi ad attività diverse dalla cura della casa e della famiglia. Afferma inoltre che, mentre gli uomini dipendono dalle donne solo per i loro desideri, le donne dipendono dagli uomini per i loro desideri e per i loro bisogni, essendo naturalmente meno indipendenti. Tuttavia, benché nel rapporto di coppia debba essere l'uomo a "comandare", Rousseau riconosce alla donna la capacità implicita di "governare" l'uomo manipolando i suoi desideri per mezzo della sua grazia e dei talenti specifici del sesso femminile, che per certi versi è ancora superiore a quello maschile.[13] Émile e Sophie si innamorano, e risulta presto chiaro che si sposeranno. Tuttavia, a questo punto giunge quella che forse è la prova più importante dell'educazione di Émile: il precettore vuole che si distacchi da Sophie per un periodo di almeno due anni. Le ragioni sono che i due sono ancora troppo giovani per essere buoni genitori; che Émile deve viaggiare, per completare la sua educazione con lo studio dei popoli e dei paesi del mondo, dei loro governi, delle loro istituzioni e dei loro costumi; che, soprattutto, la sua virtù deve essere messa alla prova della rinuncia agli affetti, cioè del dominio razionale delle passioni: questo è uno dei passaggi più significativi dell'opera di Rousseau, il quale avrà importanti influenze, in particolare, su Kant[100] (che annoverò l'Émile tra i suoi libri preferiti).[116] Per Rousseau «l'uomo virtuoso è colui che sa vincere i suoi affetti. Allora infatti segue la ragione, la coscienza, fa il suo dovere.»[117] La vera moralità, per Rousseau, la virtù, va oltre il semplice fatto di compiere azioni il cui contenuto è buono: non consiste nell'obbedire a istinti che portano verso il bene, ma nel dominare tutte le passioni (senza comunque che esse debbano essere represse) e nell'agire in accordo alla ragione, a una legge morale che ci si è dati da sé: l'etica della legge a livello personale è simile a quella legata alla volontà generale a livello statale.[118] Durante i suoi viaggi Émile completa la sua educazione studiando e comprendendo le forme istituzionali di popoli diversi da quello francese; con un breve riassunto delle tesi contenute nel Contratto sociale si compie l'ultimo passo di Émile verso la condizione di cittadino consapevole e responsabile.[100] Al suo ritorno egli sposerà Sophie e il suo destino sarà quello della vita semplice e campestre, che Rousseau riassume in un motto di Orazio: «Modus agri non ita magnus», «un pezzo di terra non tanto grande».[119]

Filosofia naturale e religione nella Professione di fede del vicario savoiardo

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La Professione di fede del vicario savoiardo, contenuta nel quarto libro dell'Émile e costruita come una rievocazione autobiografica romanzata, espone la visione di Rousseau a proposito della filosofia naturale e della religione – quest'ultima considerata non più a livello statale come nel Contratto sociale, bensì a livello individuale. Procedendo con un metodo fortemente anti-intellettualistico, fondato sul buon senso e su un sincero e modesto amore per la verità, Rousseau (che parla per bocca del personaggio di un vicario parrocchiale della Savoia) ricostruisce una "fede razionale" semplice e intuitiva, basata sulle più elementari evidenze sensibili e sui sentimenti intrinseci al cuore dell'uomo. Dalla sensibilità egli deduce l'esistenza, dalla libera volontà dell'uomo (indipendente dalle semplici relazioni meccaniche tra i corpi) deduce la dualità di spirito e materia; dal moto dei corpi deduce una causa prima, l'indipendenza della cui volontà originaria deve essere ricondotta a una volontà universale che anima il mondo; dalla regolarità di questa volontà, che opera per mezzo di leggi, deduce un'intelligenza; dalla volontà, dalla potenza e dall'intelligenza deduce la bontà di un ente che viene chiamato Dio; dalla bontà di Dio deduce l'immortalità dell'anima, che garantisce la punizione dei malvagi e il premio dei buoni oltre questa vita. Da queste semplici considerazioni, a suo avviso, si possono ricavare tutte le massime necessarie per regolare la propria vita secondo giustizia, cioè per comportarsi moralmente.[13][120]

Quindi Rousseau, sempre attraverso le parole del vicario, prende a criticare le religioni rivelate, quelle caratterizzate da dogmi positivi e formalizzate da testi sacri o autorità terrene. La sua critica è rivolta soprattutto contro il principio di autorità, considerato il fondamento di ogni intolleranza; per Rousseau non si può «credere a tutto sulla fede altrui, e sottomettere all'autorità degli uomini l'autorità di Dio che parla direttamente alla ragione. [...] Tutti i libri sono stati scritti da uomini? Allora come fa l'uomo ad averne bisogno per conoscere i suoi doveri, e di che mezzi disponeva prima che questi libri fossero stati scritti? O apprenderà questi doveri da sé stesso, o ne sarà dispensato.»[121] E in particolare: «Se il figlio di un Cristiano fa bene a seguire la religione di suo padre senza un esame approfondito e imparziale, perché il figlio di un Turco farebbe male a seguire allo stesso modo la religione del suo? Sfido tutti gli intolleranti del mondo a darmi su questo una risposta che soddisfi un uomo assennato.»[122] In conclusione, Rousseau afferma di aver «chiuso tutti i libri. Solo uno resta aperto davanti agli occhi di tutti, ed è quello della natura.»[123] A Émile, quindi, come a ogni altro uomo, deve essere concesso di scegliere la religione positiva che preferisce o di non sceglierne nessuna, attenendosi alla fede razionale e naturale in una forma di deismo.[124] Secondo il pensatore, se la nostra comprensione pondera circa l'esistenza di Dio, non incontra altro che contraddizioni. Per cui gli impulsi del nostro cuore hanno più valore della comprensione, e questo ci proclama chiaramente le verità della religione naturale, ovvero l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima[125]; questo lo differenzia dalla visione deista di Voltaire, che riteneva che l'esistenza dell'Essere Supremo fosse verità di ragione e non di fede. Rousseau ribadisce poi quello che aveva sostenuto nel Contratto sociale, che le religioni positive (purché siano oneste, veritiere e tolleranti) sono molto importanti come garanzia del rispetto delle leggi all'interno di uno Stato:[13] «Considero tutte le religioni particolari come altrettante salutari istituzioni che in ogni paese prescrivono un modo uniforme di onorare Dio con un culto pubblico. [...] Credo che siano tutte buone quando Dio vi è servito adeguatamente.»[126]

La visione della religione di Rousseau, che si caratterizza per una propensione per il Deismo, è critica sia rispetto all'atteggiamento sensista e materialista tipico dei philosophes dell'ambiente illuminista, in alcuni casi semplicemente atei e sempre critici verso le religioni positive,[100] sia rispetto alle chiese tradizionali, di cui attacca l'attitudine intollerante e presuntuosa.[13][100]

Rousseau si oppone inoltre a una visione pessimista della condizione umana, come emerge anche Lettera a Voltaire in occasione del disastro di Lisbona, in cui si sforza di vedere il bene nel disegno della natura, rivolgendosi anche a chi non crede nelle sue stesse convinzioni:

« Sapere che il cadavere di un uomo nutra vermi, lupi o piante non è, ne convengo, un modo per risarcirlo della sua morte: ma se nel sistema dell’universo è necessario, per la conservazione del genere umano, che vi sia un passaggio di sostanza tra uomini, animali e vegetali, allora il singolo male di un individuo contribuisce al bene generale: muoio, vengo mangiato dai vermi, ma i miei fratelli, i miei figli vivranno come ho vissuto io e faccio, per ordine della natura, ciò che fecero Codro, Curzio, Leonida, i Deci, i Fileni e mille altri per una piccola parte degli uomini (...) Ne convengo in tutto e per tutto, e tuttavia credo in Dio con la stessa forza con cui credo in qualunque altra verità, perché credere o non credere sono le cose al mondo che meno dipendono dalla mia volontà. Lo stato del dubbio è una condizione troppo violenta per la mia anima. Quando la mia ragione è indecisa, la mia fede non può restare a lungo in sospeso e decide senza di essa. Allora, mille motivi mi spingono di preferenza sul versante dove vi è maggior consolazione e aggiungono il peso della speranza all’equilibrio della ragione.[127] »

Commentando Candido di Voltaire, Rousseau nelle Confessioni rappresenta Voltaire come il personaggio del manicheo Martin, che crede che Dio esista e sia malvagio (malteismo), pur essendo un uomo che ha avuto fortuna nella vita. Rousseau - nell'ottica del romanzo - sembra quasi schierarsi dalla parte dell'ottimismo panglossiano (si veda anche la precedente e vivace corrispondenza sul terremoto di Lisbona del 1755)[128]:

« Il suo preteso Dio è soltanto un essere che fa del male e prende gusto solo a nuocere. L'assurdità di questa dottrina salta agli occhi, ma soprattutto è rivoltante in un uomo colmato di ogni bene che, dalla rocca della sua buona sorte, cerca di indurre alla disperazione tutti i suoi simili con l'immagine penosa e crudele di tutte le calamità da cui egli è immune. Poiché sono più autorizzato di lui a contare e pesare i mali della vita umana, ne feci un esame equilibrato e gli provai come di tutti questi mali non ve sia uno solo imputabile alla Provvidenza o che non abbia la sua matrice nell'abuso compiuto dall'uomo delle sue facoltà anziché nella natura stessa. »
(da Le confessioni)

Gli scritti tardi

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Con l'Émile si esaurì la produzione strettamente filosofica di Jean-Jacques Rousseau; tuttavia i suoi scritti degli ultimi anni – soprattutto Giulia o la nuova Eloisa, Le confessioni, Le fantasticherie del passeggiatore solitario e Rousseau giudice di Jean-Jacques – rimangono notevoli testimonianze del suo pensiero.[13]

Rousseau nel giardino dell'Ermitage in un'illustrazione delle Confessioni

La Giulia, un romanzo epistolare, è caratteristico soprattutto del "sentimentalismo" che animava Rousseau e che era destinato a contribuire ad aprire la strada al Romanticismo tedesco e francese. I temi, tra cui il contrasto dell'individuo con la società, la bontà della natura umana, l'importanza del dominio delle passioni, sono tutti tipicamente rousseauiani.[13][129]

Le Confessioni sono un'opera autobiografica fortemente introspettiva, in cui Rousseau ricostruisce la sua vita in modo a tratti impietoso verso sé stesso e a tratti invece quasi apologetico,[13] ma sempre nel tentativo di dare un'immagine complessivamente coerente della sua personalità e delle sue vicende.[130] Adottando un'ottica quasi psicanalitica, alcuni commentatori hanno visto in tale ricostruzione una serie di episodi in cui si ripete il motivo della "perdita dell'innocenza", della transizione di Rousseau dalla condizione di naturalità a quella di corruzione in un percorso parallelo a quello dell'umanità nel suo complesso.[131]

Nelle Fantasticherie Rousseau ripercorre, ancora in una prospettiva autobiografica, quelle che gli sembrano essere le cose buone che ha fatto nella sua vita – con particolare riferimento a come i suoi lavori hanno contribuito a migliorare l'umanità e a come, per contro, sono stati male interpretati.[13] Il testo si incentra su reminiscenze che, comunque, non vanno considerate solo come rievocazioni (o rimpianti) del passato, ma anche come significative riflessioni sul presente.[132]

Rousseau giudice di Jean-Jacques è un'opera composta in forma dialogica, in cui Rousseau commenta i suoi testi da una prospettiva "esterna", come se non li avesse scritti lui: da questo commento traspare, in primo luogo, la frustrazione del Rousseau incompreso, male interpretato e di fatto sempre più vicino alla paranoia e alle manie di persecuzione; in secondo luogo, l'affermazione dell'unitarietà e della coerenza complessiva della sua opera. La questione della coerenza dei testi di Rousseau è ancora oggetto di vivaci dibattiti, dal momento che, per esempio, lo statalismo radicale del Contratto sociale è apparentemente in contraddizione con l'individualismo e con l'esaltazione dell'indipendenza naturale che informa la maggior parte delle altre opere.[13][133]

  1. Dante Morando, Rousseau, 1946, pag. 141
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 2,5 Emilio Zanette, Jean-Jacques Rousseau. In F. Cioffi, F. Gallo, G. Luppi, A. Vigorelli, E. Zanette, Diálogos (volume secondo: La filosofia moderna), Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, 2000, p. 273, ISBN 88-424-5264-5.
  3. (FR) Jean-Jacques Rousseau, Discours sur les sciences et les arts in Wikisource. Testo completo in lingua originale.
  4. (FR) Chronologie de la vie de Rousseau, su MEMO – Voyagez à travers l'Histoire. URL consultato il 12 maggio 2012 (archiviato dall'url originale il 4 gennaio 2011).
  5. 5,0 5,1 5,2 Zanette, pp. 272-273.
  6. (FR) Jean-Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondements de l’inégalité parmi les hommes in Wikisource. Testo completo in lingua originale.
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