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Storia della letteratura italiana/Modernità e avanguardie

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

I primi anni del Novecento in Italia sono caratterizzati da gravi conflitti sociali, ma anche da un miglioramento della qualità della vita, che porta a una maggiore diffusione della cultura tra la popolazione e alla diminuzione dell'analfabetismo (soprattutto nelle classi piccolo-borghesi). Per gli intellettuali si profila un nuovo pubblico, che cerca l'evasione nella letteratura di consumo, ma che si interessa anche alle ideologie politiche che stanno prendendo piede, nelle quali si palesa la scontentezza che serpeggia nel paese.[1]

In quegli anni, Benedetto Croce giudica molto severamente quasi tutti gli scrittori contemporanei, influenzando così un largo numero di critici accademici. La scena letteraria continua a essere dominata dai poeti della fine dell'Ottocento – Pascoli, Carducci e soprattutto D'Annunzio – mentre nuovi giovani intellettuali animano la vita culturale del paese. Molto importante è la fondazione, nel 1908, da parte di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini de La Voce, rivista di cultura e politica, le cui pubblicazioni continuano fino al 1916. È una delle più importanti riviste culturali italiane del Novecento, protagonista del dibattito intellettuale all'inizio del secolo.

L'eta giolittiana

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Età giolittiana.
Giovanni Giolitti

Sulla scena politica dei primi anni del XX secolo si impone la figura di Giovanni Giolitti, che sarà più volte presidente del Consiglio e avrà un ruolo di guida fino all'ingresso del paese nella prima guerra mondiale nel 1915. La situazione in quel periodo è relativamente stabile: il sistema liberale sembra trovare un proprio equilibrio, grazie soprattutto alle grandi doti di mediazione dimostrate da Giolitti nei conflitti sociali. La politica protezionistica favorisce inoltre la crescita dell'economia industriale nelle regioni settentrionali, mentre negli Stati Uniti e nei paesi avanzati d'Europa prendono piede nuove tecnologie. Nonostante le contraddizioni del periodo, si registra un miglioramento della qualità della vita, a cui si accompagna l'espansione della cultura e l'estensione dei servizi pubblici nelle città.[1]

Intanto, viene avanzato un nuovo piano imperialistico, che risponde alla generale scontentezza della popolazione sia circa l'esito del processo risorgimentale – e in particolare per l'«irredentismo» delle terre italiane ancora sotto il controllo straniero, come Trento e Trieste – sia per l'espansione in Africa, che vede l'Italia svolgere un ruolo di secondo piano rispetto alle altre potenze europee. In questo nuovo nazionalismo confluiranno anche elementi dell'ideologia mazziniana e repubblicana, a cui si associa il rifiuto del mondo borghese e la difesa della società agricola. Tra gli intellettuali-guida di questo movimento ci sono Alfredo Oriani (1852-1909) e soprattutto Enrico Corradini (1865-1931), fondatore nel 1910 dell'Associazione Nazionalistica Italiana e in seguito sostenitore del fascismo.[2]

Decisiva in questi anni è la crescita dei consensi per il socialismo. Mentre molti intellettuali guardano con sospetto e sdegno al suo affermarsi nell'età giolittiana, questa ideologia si fa strada nella popolazione, grazie anche alle conquiste della dirigenza riformista del Partito Socialista Italiano (PSI), riconosciute da Giolitti attraverso riforme che portano miglioramenti nelle condizioni della classe operaia. Al pubblico degli operai vengono offerti romanzi educativi a sfondo sociale, che riprendono i modelli della cultura popolare dell'Ottocento: esempio di queste produzione sono Gli ammonitori (1903) di Giovanni Cena (1870-1917) e La folla di Paolo Valera (1850-1926).[3]

Gli intellettuali e l'esigenza di rinnovamento

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La cultura italiana del primo Novecento è caratterizzata da una diffusa esigenza di rinnovamento. I giovani intellettuali, in particolare, vedevano nella cultura un'opportunità di promozione sociale, e in molti di loro cresce l'ambizione di diventare protagonisti della vita nazionale. Si ridefinisce in questo modo il ruolo degli intellettuali, e il bisogno di partecipazione induce gli uomini di cultura a fondare riviste e a svolgere un'intensa attività editoriale. Le riviste hanno una funzione programmatica, diventando uno strumento per diffondere le nuove idee sulla letteratura. In questi anni proliferano i programmi e le proposte letterarie, e si intensifica il dibattito tra innovatori e tradizionalisti.[4]

Firenze nei primi anni del nuovo secolo diventa il centro dei dibattiti culturali e letterari, in quanto sede delle principali riviste culturali del periodo. Enrico Corradini nel 1903 fonda la rivista Il Regno, inizialmente orientata su posizioni nazionalistiche. Queste saranno attenuate nel 1905, quando la direzione passerà a Aldemiro Campodonico. Giuseppe Antonio Borgese tra il 1904 e il 1906 è l'animatore di Hermes: rifacendosi all'esperienza dannunziana, si propone però un punto di vista critico, allo scopo di portare a un rinnovamento letterario.

Il Leonardo di Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini ha invece un orientamento più filosofico. È tra i primi a recepire le tendenze dell'irrazionalismo e si orienta verso il pragmatismo. Per la sua vivacità attira anche l'attenzione di Benedetto Croce. Con la fine della collaborazione tra i due fondatori, anche la rivista cessa le pubblicazioni: Papini si interesserà di spiritualismo ed esoterismo, mentre Prezzolini cercherà di coniugare in modo più stretto filosofia e impegno intellettuale.

Prima pagina della Voce

Nel 1908 Prezzolini dà vita a La Voce, di cui sarà anche direttore fino al 1914 (eccetto alcuni mesi del 1912, durante i quali la direzione passa a Papini). La rivista non ha però un programma preciso, poiché la sua funzione è di favorire il dibattito tra le diverse posizioni espresse dai suoi collaboratori. Si occupa di argomenti politici e culturali, toccando temi come la religione, l'analfabetismo diffuso, la funzione della scuola, l'emigrazione, l'irredentismo. Alla fine il gruppo però si spaccherà sotto la spinta delle diverse posizioni politiche, e Prezzolini dal 1912 le darà un orientamento antidemocratico e interventista.[5]

Nel 1911 Gaetano Salvemini, uscito dal gruppo della Voce, fonda la rivista L'Unità, con intenti marcatamente politici (da non confondere con l'omonimo quotidiano fondato da Gramsci nel 1924). Lo stesso fanno Papini e Giovanni Amendola con L'Anima, pubblicazione dedicata alla ricerca religiosa. Intanto, tra il 1914 e il 1916 Prezzolini cede la guida della Voce a Giuseppe De Robertis, che dà più spazio ai collaboratori che cercano nuove forme di espressione letteraria (è il periodo della cosiddetta Voce Bianca).[5] Come scrive Ferroni, la «letteratura vociana» si caratterizza per una fusione di moralismo, autobiografismo e frammentismo. Nella poesia come nella prosa il frammento è il principale modo di espressione, perché più autentico e immediato. A questo si accompagna una prospettiva polemica di autocritica, tutti elementi che la avvicinano alla corrente dell'espressionismo. Tra i principali collaboratori della Voce si ricordano Scipio Slataper, Renato Serra, Sibilla Aleramo.[6]

In seguito, dalla collaborazione tra Papini e Ardengo Soffici nasce Lacerba, organo di stampa del futurismo fiorentino: di orientamento interventista, termina le pubblicazioni con l'ingresso dell'Italia in guerra nel 1915. In precedenza, tra il 1905 e il 1909 Filippo Tommaso Marinetti era stato il principale animatore di Poesia, che pubblicava i testi dei nuovi poeti simbolisti europei e italiani, e preparava la strada ai futuristi. Si deve infine ricordare anche La Critica, la rivista letteraria fondata e diretta da Benedetto Croce, attiva tra il 1903 e il 1944.[7]

L'editoria libraria

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Nei primi due decenni del Novecento proseguono le dinamiche iniziate alla fine del secolo precedente. Da un lato la produzione guarda con sempre maggiore interesse ai nuovi lettori provenienti dai ceti popolari e operai. Dall'altro anche l'editoria libraria è interessata dalle spinte verso il rinnovamento politico e culturale. Uno schema molto utilizzato per interpretare le dinamiche editoriali di gran parte del Novecento distingue quindi tra una editoria di consumo, rivolta al pubblico popolare, e una editoria di cultura.[8]

Milano si conferma capitale italiana dell'editoria, molto forte sul mercato dell'intrattenimento e della divulgazione. Firenze, grazie anche all'attività di Papini e Prezzolini, è invece sede di editori più orientati a intenti pedagogici e civili. A Roma nel 1901 muove i primi passi l'Istituo Geografico DeAgostini (che nel 1908 trasferirà la sede a Novara), mentre a Bari nasce, nello stesso anno, la Giuseppe Laterza & Figli, che porterà avanti importanti progetti culturali sotto la direzione di Benedetto Croce.

Le maggiori case editrici del periodo puntano però sul vasto mercato della narrativa. Il più importante editore di questo settore sono i Fratelli Treves, che propongono nel loro catalogo vari titoli di facile consumo insieme a scrittori poi divenuti classici della letteratura italiana come D'Annunzio e l'esordiente Pirandello, di cui pubblicano Il fu Mattia Pascal. Si affacciano inoltre altri editori di narrativa, come Baldini e Castoldi (fondata a Milano nel 1896), che pubblica tra gli altri i romanzi di Fogazzaro e Guido Da Verona. Le opere di quest'ultimo, di argomento sentimentale e ispirate al dannunzianesimo, riscuotono in particolare un grande successo commerciale e si impongono come veri e propri best seller.[9]

Le avanguardie

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Avanguardia.

All'inizio del Novecento esplodono a livello europeo le avanguardie, movimenti artistici che nascono dalla collaborazione tra intellettuali e artisti che elaborano programmi e lavorano per diffonderli sulla scena cultuale.[10] Il loro intento è rompere definitivamente i ponti con le forme più tradizionali dell'arte e della letteratura, e la rottura vuole essere totale, coinvolgendo il linguaggio e il sistema di valori della società, e rimarcando la distanza tra artista e pubblico. Spesso inoltre si creano stretti rapporti tra l'avanguardia artistica e i partiti politici che si collocano su posizioni rivoluzionarie.[11]

Una delle prime avanguardie, che interessa da vicino la letteratura italiana, è il futurismo, fondato nel 1909 dal poeta Filippo Tommaso Marinetti. Molti futuristi, nel dopoguerra, seguendo l'ideologia superomistica e antiborghese espressa dal movimento, decideranno di aderire al fascismo. Non per questo bisogna identificare le avanguardie con l'ascesa dei regimi totalitari: basti pensare che molti artisti dell'epoca (non solo futuristi) si illusero che il fascismo avrebbe rappresentato una forza di rinnovamento, mentre un intellettuale di sinistra come Antonio Gramsci guardava al futurismo come base per creare una nuova letteratura proletaria. Inoltre il futurismo ha svolto sulla scena italiana un'importante opera di svecchiamento delle forme espressive. L'esperienza del movimento non si è limitata poi alla sola Italia ma si è allargata a tutta l'Europa e in particolare in Russia, dove il suo maggiore esponente è Vladimir Majakovskij.[11]

Tristan Tzara ritratto da Lajos Tihanyi (1927)

Parallelamente, questa attenzione per i linguaggi porterà alla nascista del formalismo, che si basa sul concetto dell'autonomia del significante, e cioè che le forme artistiche hanno un valore autonomo e superiore al contenuto. Principale esponente di questa corrente è Velimir Chlebnikov. La diffusione dell'avanguardia in Europa vede strettamente collegate tra di loro le diverse esperienze artistiche, da quelle letterarie a quelle musicali o figurative (per esempio cubismo ed espressionismo). In questo contesto è centrale la figura di Guillaume Apollinaire.[12]

Durante la guerra vede la luce un altro importante movimento destinato a incidere sull'arte Europea: è il dadaismo, nato dalle intuizioni del rumeno Tristan Tzara. Contestando il futurismo, le sue norme e la sua organizzazione, Tzara nel programma di "dada" (il cui significato non è mai stato chiarito) parla di un'arte anarchica e priva di regole. I dadaisti non si propongono un mondo nuovo, ma contestano quello presente, ricorrendo alle armi della parodia, del gioco, del non sense.[12]

Sarà un fuoriuscito del dadaismo, André Breton, a dare vita al surrealismo, insieme a Paul Eluard, Philippe Soupault e Louis Aragon. Il nuovo movimento si rifà alle ricerche freudiane sull'inconscio, portando in primo piano le componenti irrazionali presenti in "dada". In particolare, Breton teorizza la "scrittura automatica", in grado di esprimere e dare voce alle forze della psiche. Da qui deriva la valenza conoscitiva del surrealismo, che affermerà di dover liberare gli individui dai condizionamenti sociali. Anche per questo motivo, molti intellettuali surrealisti si impegneranno nel sociale e in politica, aderendo al comunismo.[12]

La tensione al rinnovamento coinvolge anche la poesia, sebbene sia importante sottolineare come nelle esperienze artistiche primo-novecentesche le differenze tra i generi letterari finiscono per sfumare. Si assiste allo sviluppo di elementi che erano già emersi nel decadentismo francese. Nella lirica sono progressivamente abbandonati i condizionamenti della metrica. Se con Gozzano e Pascoli le forme metriche vengono indebolite e sono apportate varie innovazioni, i poeti successivi finiscono per adottare definitivamente il verso libero, che caratterizzerà la produzione dell'intero Novecento. In questo modo la lirica viene incontro alle esigenze di libertà ed espressività proprie del poeta.[13] Come la poesia, anche la prosa narrativa rifiuterà le forme del romanzo ottocentesco e tenderà a descrivere le nuove concezioni dell'io, ricercando la brevità e l'essenzialità tipiche del frammento.[14]

I nuovi poeti, per la maggior parte di estrazione borghese, sono consapevoli che qualsiasi uso celebrativo della parola è illusorio, e avvertono la frattura tra l'arte e la modernità. Prendendo le distanze dall'esperienza dannunziana, cercano un linguaggio che non falsifichi la realtà ed evitano di partecipare al movimento del mondo. A dare voce a questa condizione di crisi saranno i crepuscolari, le cui poesie trattano di argomenti dimessi e di breve respiro.[15]

All'inizio del XX secolo si colloca l'esperienza artistica di Dino Campana, che nel 1914 pubblica i Canti Orfici. Negli stessi anni sono poi attivi Clemente Rebora e Camillo Sbarbaro, vicini all'esperienza della Voce. Ancora in parte legata al tardo romanticismo e al modello dannunziano è la poetessa Ada Negri (Lodi, 3 febbraio 1870 – Milano, 11 gennaio 1945), autrice di componimenti ispirati alle rivendicazioni sociali, per poi virare verso temi più intimi e autobiografici.[16] Il libro poetico più rilevante della fase primo-novecentesca è però L'allegria di Giuseppe Ungaretti.[17] Nello stesso tempo, intorno agli anni venti, si viene rafforzando una tendenza antinovecentesca, cioè ostile ai caratteri sperimentali tipici del Primo Novecento, che trovava il suo punto di riferimento nel Canzoniere di Umberto Saba.

La narrativa

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Nei primi decenni del Novecento è forte l'influenza sui giovani intellettuali di D'Annunzio da una parte e di Croce dall'altra. Rimane però diffuso il desiderio di partecipare ai cambiamenti che caratterizzano la modernità, entrando in polemica con la politica giolittiana. Vengono respinti i principi liberali e democratici, in favore di uno spirito di conquista ispirato al vitalismo dannunziano, che mira a imporre all'orizzonte sociale nuovi e assoluti spazi ideali.[18] Questo spirito tende a esaltare la figura dell'intellettuale e dello scrittore, inteso come promotore del movimento della storia.

La narrativa in Italia ha una tradizione molto meno forte rispetto alla lirica, ed è dominata per lungo tempo dal modello de I Promessi Sposi di Manzoni. Nel Primo Novecento continuano a occupare la scena della narrativa Gabriele D'Annunzio e Antonio Fogazzaro. Ma la critica tende oggi a individuare i testi più significativi fra quelli di Luigi Pirandello, che, pur partendo da premesse tardoveriste, si propone nel 1904 come sperimentatore e addirittura precorritore di alcune soluzioni metanarrative con Il fu Mattia Pascal, in cui si colgono le componenti della poetica pirandelliana più tipica: l'antipositivismo e l'antirazionalismo. Particolare rilievo viene data anche al triestino Italo Svevo e al senese Federigo Tozzi.

All'inizio del Novecento il teatro italiano conosce un periodo di crisi. Le compagnie teatrali sono soggette a continui spostamenti e l'organizzazione degli spettacoli è spesso sommaria. Anche la produzione teatrale conosce una fase declinante: il teatro verista riscontra scarso successo e si preferiscono rappresentazioni più commerciali. La maggior parte delle opere portate sulle scene provengono dall'estero, in particolare dalla Francia.

È ancora una volta D'Annunzio a rappresentare un riferimento per la cultura italiana di quegli anni. Il poeta tenta una via d'uscita proponendo un teatro che riprende le teorie wagneriane sull'opera d'arte totale, declinandole in chiave nazionalista e latina. Il suo scopo è invertire la tendenza in corso, esportando dall'Italia nel resto d'Europa i suoi drammi. D'Annunzio riuscirà nell'impresa: nel 1898 debutta al Théatre de la Renaissance di Parigi con La città morta, un dramma di ambientazione greca che, sebbene non riscuota applausi dalla critica, rimarrà in cartello fino agli anni quaranta. Sempre per il teatro francese scrive Le Martyre de Saint Sébastien (1911), musicato da Claude Debussy. È questa la sua opera teatrale più sperimentale, in cui mescola parola, musica, gesto e danza.[19]

Nel secondo decennio del Novecento, anche il teatro viene attraversato dall'avanguardia futurista. Nel suo manifesto del Teatro di varietà, pubblicato sul Daily Mail il 21 novembre 1913, Filippo Tommaso Marinetti teorizza un teatro nuovo che coinvolga attivamente il pubblico. Si tratta di un teatro antiaccademico e antipsicologico, che vuole rompere con la tradizione e far trionfare l'inverosimile e l'assurdo. Al 1915 risale la pubblicazione del Teatro futurista sintetico (Atecnico-dinamico-simultaneo-autonomo-alogico-irreale), scritto da Marinetti in collaborazione con Emilio Settimelli e Bruno Corra. La spinta del futurismo si può considerare ormai esaurita. Il nuovo manifesto, oltre a ribadire la distanza con il dramma storico e psicologico, sostiene la necessità di un teatro breve, dinamico e simultaneo, in una parola "sintetico". Per vincere la concorrenza del cinematografo, il teatro deve basarsi sull'improvvisazione, sull'intuizione e sulla relazione tra palcoscenico e pubblico.[20]

Contemporaneamente, accanto al filone dello spettacolo assoluto sostenuto da D'Annunzio, si fa strada nel teatro del Primo Novecento un'esigenza di rinnovamento dall'interno. In questo contesto, Silvio D'Amico promuove la nascita di un teatro nuovo, che guardi alla scena europea e ai suoi risultati, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della regia. Altra importante figura del teatro italiano di questi anni è Anton Giulio Bragaglia, regista e fondatore del Teatro degli Indipendenti. Aderendo al modello del teatro totale, Bragaglia contribuisce a sprovincializare la cultura italiano portando sulle scene testi dei maggiori drammaturghi europei contemporanei, come Strindberg, Wedekind, Apollinaire e altri.[21] A partire dagli anni venti, il teatro italiano sarà però dominato dalla figura di Luigi Pirandello, i cui drammi avranno risonanza internazionale.

Un intellettuale appartato: Carlo Michelstaedter

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Carlo Michelstaedter (autoritratto)

Isolata e solitaria è la posizione del giovane filosofo Carlo Michelstaedter (Gorizia, 3 giugno 1887 – Gorizia, 17 ottobre 1910), ricordato per la sua unica opera compiuta, La persuasione e la rettorica, la tesi di laurea che completò poco prima di togliersi la vita. Intriso di pensiero pessimistico, esperto di matematica, di letteratura greca, di Schopenhauer, Nietzsche e Leopardi, estraneo alla letteratura vociana, concentra la sua riflessione sulla contrapposizione tra la persuasione illusoria su cui si basa la vita umana (tesa ad allontanare la paura della morte) e la persuasione autentica della vita immediatamente presente a se stessa. «Persuaso» è chi sa impossessarsi del presente, ma la difficoltà di questa situazione dà origine alla rettorica, cioè un insieme di valori apparenti.[22]

  1. 1,0 1,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 857.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 859.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 860.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalla Scapigliatura al Postmoderno, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 34-35.
  5. 5,0 5,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalla Scapigliatura al Postmoderno, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 35.
  6. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 907.
  7. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalla Scapigliatura al Postmoderno, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 36.
  8. Alberto Cadioli e Giuliano Vigini, Storia dell'editoria italiana dall'unità ad oggi, Milano, Editrice Bibliografica, 2012, p. 43.
  9. Alberto Cadioli e Giuliano Vigini, Storia dell'editoria italiana dall'unità ad oggi, Milano, Editrice Bibliografica, 2012, pp. 44-47.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 875.
  11. 11,0 11,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 8.
  12. 12,0 12,1 12,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 9.
  13. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 1.
  14. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La poesia, la saggistica e la letteratura drammatica del Novecento, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 1.
  15. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 863.
  16. Alberto Asor Rosa (a cura di), Negri, Ada, in Dizionario della letteratura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1992, p. 365.
  17. Alberto Casadei, Il Novecento, Bologna, il Mulino, 2005.
  18. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 858.
  19. Franco Perrelli, Il teatro italiano del Primo Novecento, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 293-300.
  20. Franco Perrelli, Il teatro italiano del Primo Novecento, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 300-306.
  21. Franco Perrelli, Il teatro italiano del Primo Novecento, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 306-309.
  22. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 910.