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Storia della letteratura italiana/Le origini

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Storia della letteratura italiana

A partire dai primi secoli del Medioevo il latino parlato dal popolo si distacca da quello classico o ecclesiastico. Questa rottura prelude alla nascita delle lingue romanze in molti dei territori che un tempo erano controllati dall'impero romano. Verso la fine dell'XI secolo sorgono due importanti tradizioni letterarie in lingua d'oïl e lingua d'oc, rispettivamente nel nord e nel sud della Francia;[1] queste sono designate attraverso le due parole, "oïl" e "oc", che venivano utilizzate per dire "sì".

Anche nella penisola italiana si formano vari idiomi differenti tra loro, nati dalla mescolanza tra le lingue autoctone (dette di substrato), quelle degli invasori germanici (dette di superstrato) e il latino.[2] Solo a partire dal XIII secolo, quindi più tardi rispetto ad altre parti d'Europa, sorgono delle vere e proprie tradizioni letterarie nel volgare italiano, principalmente in Sicilia e in Umbria. È però importante sottolineare come questa letteratura si manifesti da subito in forme sofisticate. Gli autori hanno infatti alle spalle la tradizione classica antica, la cui conoscenza fa parte del loro patrimonio culturale; a questa poi si devono aggiungere le esperienze letterarie che durante il Medioevo si erano sviluppate in mediolatino (latino medievale), in lingua d'oc e in lingua d'oïl.[3]

Dalla fine dell'impero romano all'età cortese

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Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Alto Medioevo e Feudalesimo.
Carlo Magno incoronato da papa Leone III

Romolo Augustolo, ultimo imperatore romano d'Occidente, viene deposto nel 476, anno che per convenzione segna la fine dell'antichità e l'inizio del Medioevo. Il crollo dell'impero è il risultato della disgregazione politica, economica, sociale e militare in corso dal III secolo; al suo posto sorgono vari regni romano-barbarici nei quali, pur sopravvivendo elementi dell'apparato amministrativo romano, i popoli invasori introducono nuovi costumi, nuove leggi e nuovi elementi linguistici. Unico fattore unificante di questo scenario frammentato è la religione: la Chiesa svolgerà quindi un ruolo politico essenziale. Una tappa importante è la formazione del Sacro Romano Impero di Carlo Magno. Incoronato imperatore a Roma nell'800, Carlo riunisce sotto il suo regno vasti territori delle attuali Francia, Germania e Italia, con l'intenzione di far risorgere la potenza dell'impero romano nella nuova Europa cristiana. Negli stessi anni, la Spagna è sotto l'egemonia araba, mentre l'Italia meridionale è sottoposta dapprima alla dominazione araba e in seguito a quella normanna.

A caratterizzare l'economia e la società europee in questi secoli è il feudalesimo. Negli anni del suo regno, Carlo Magno aveva ricompensato i guerrieri che lo avevano aiutato nelle sue imprese assegnando loro porzioni di territorio, definite con il termine germanico di feudi. Ben presto però la proprietà di questi territori comincia a essere trasmessa per via ereditaria, e i grandi signori feudali, che godono di amplissimi poteri all'interno dei loro feudi, iniziano ad assegnarne porzioni ai loro seguaci più fedeli. Ne deriva l'estrema frammentazione territoriale e amministrativa che caratterizza lo Stato feudale: le lotte tra i signori locali, a cui il debole potere centrale non riesce a porre rimedio, generano una condizione di perenne instabilità. Solo nel XIII secolo si delineeranno i primi Stati assoluti con un forte potere centrale.

La società feudale è inoltre statica e fortemente gerarchizzata, suddivisa in tre ordini: bellatores (guerrieri), oratores (religiosi), laboratores (contadini). Questa tripartizione è ritenuta immutabile perché corrisponde alla Trinità e al disegno divino che regola l'universo. Alla prima classe appartiene l'aristocrazia feudale, a cui spetta l'esercizio delle armi, attività da cui deriva grande prestigio. Il clero rappresenta invece il ceto intellettuale, impegnato nella conservazione e trasmissione del patrimonio culturale, mentre ai contadini è demandata la produzione dei beni materiali di sostentamento. Questi ultimi non godono di libertà o diritti personali, sono legati alla terra che lavorano (servitù della gleba) e la loro condizione viene tramandata di padre in figlio, senza possibilità di riscatto o ascesa sociale.

La frammentazione politica ha ripercussioni anche sull'economia: le invasioni, e le devastazioni che ne seguono, compromettono la possibilità di dar vita a un'economia fondata sullo scambio di merci. Al contrario, quella feudale è un'economia chiusa, basata sull'agricoltura, in cui i beni sono consumati dagli stessi che li producono. L'uso di strumenti agricoli rudimentali, poi, pone gravi limiti alla produzione, determinando carestie ed epidemie. Molto diffusa è la pratica della corvées: il contadino lavora per il signore senza ricevere un salario, ma ottiene in cambio protezione e piccoli appezzamenti per il proprio sostentamento. Le città di conseguenza si spopolano, mentre castelli e monasteri diventano i nuovi centri della vita associata.[4]

La situazione migliorerà gradualmente a partire dall'anno Mille, quando la maggiore stabilità politica e la fine delle invasioni da est saranno accompagnate dal perfezionamento delle tecniche agricole. L'aumento della produzione farà rinascere gli scambi e la figura del mercante acquisirà sempre maggiore importanza.

Le lingue romanze e la letteratura cortese

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Lingue romanze.
L'attuale diffusione delle lingue romanze in Europa (clicca sulla cartina per ingrandirla)

Con il crollo dell'impero il latino classico lascia il posto alle lingue volgari o romanze. In età carolingia la locuzione romana lingua viene utilizzata per distinguere le lingue derivate dal latino, sempre più diffuse, dal latino vero e proprio e dalle lingue germaniche. L'avverbio vulgaris, invece, era impiegato già nella Roma di età repubblicana per indicare una variante del latino classico molto diffusa tra la popolazione e nelle province romane. Il latino volgare conobbe però delle varianti significative a partire dal III secolo, dovute ai contatti con le lingue parlate nelle diverse regioni dell'impero. A intaccare in modo decisivo l'unità linguista del latino intervengono da un lato il crollo del potere centrale dell'impero romano, dall'altro la diffusione del cristianesimo, che preferisce la lingua volgare in modo da avere un contatto più diretto con il popolo. A tutto questo si aggiungono poi gli scambi linguistici con i nuovi dominatori germanici. I primi documenti scritti nelle varie lingue romanze si affacciano tuttavia in momenti diversi a seconda dei paesi.[2]

Le lingue romanze producono, tra l'XI e il XII secolo, una letteratura molto ricca, che spezza il dominio del latino e allarga la platea del pubblico: se il latino rimane la lingua dei dotti, il volgare si rivela una valida alternativa per le classi cavalleresche. D'altra parte, come già ricordato, la letteratura romanza non può prescindere dalla produzione latina a essa precedente, a cui però si associano esperienze che erano estranee alla cultura alta e che avevano circolato per secoli a livello popolare. Dal mondo del folklore e dei miti nascono generi come il romanzo e la lirica d'amore. Si diffondono anche nuove strutture metriche, definite dalla posizione degli accenti nelle parole e non più, come accadeva nella metrica classica, dalla quantità delle sillabe.[5]

Particolare fortuna avrà la letteratura volgare in Francia: la produzione nelle lingue d'oc e d'oïl avrà infatti ampia diffusione in tutta Europa. Bisogna però precisare che non si tratta di forme linguistiche fissate in modo rigoroso, e nelle diverse trascrizioni di uno stesso testo è possibile riscontrare varianti locali di una stessa espressione. In Inghilterra, in particolare, la lingua d'oïl importata dai Normanni relegherà in secondo piano la letteratura anglosassone, molto sviluppata tra il VII e il X secolo (l'opera più importante è il poema Beowulf). Al 1140 risale invece il primo poema epico castigliano, il Cantar de mio Cid. I modelli francesi saranno accolti anche fuori dall'area romanza, come dimostra il Nibelungenlied (1200 circa), poema in lingua tedesca che raccoglie le leggende germaniche.

La chanson de geste

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Canzone di gesta.

A partire dalla seconda metà dell'XI secolo, nella letteratura in lingua d'oïl nel Nord della Francia, si sviluppa un nuovo genere epico destinato ad avere grande fortuna in Europa: la chanson de geste (canzone di gesta). In origine dovevano essere trascrizioni di testi orali più antichi; ben presto però le canzoni di gesta si sono evolute in un genere letterario scritto, dotato di caratteristiche proprie. Sono componimenti intrisi di spirito religioso, ma nei quali trovano espressione i valori più alti della società feudale. Le opere più conosciute e prestigiose sono quelle che compongono il ciclo carolingio, così chiamato perché hanno per protagonisti Carlo Magno e i suoi paladini, impegnati nella guerra contro i saraceni. Attraverso le loro imprese sono esaltati non solo le gloriose imprese del passato, ma anche le virtù militari della classe cavalleresca presente. I paladini vengono rappresentati come modelli di eroismo e in quanto tali sono opposti agli infedeli saraceni, destinati a soccombere.

Tra le testimonianze della fase più antica di questa produzione c'è la Chanson de Guillaume, risalente alla metà del XII secolo e composta da 3 554 decasillabi. La canzone, nata dalla fusione di due chanson precedenti e ricca di elementi provenienti dalla forma orale, racconta dello scontro tra l'eroe Guillaume (identificabile con Guglielmo, conte di Tolosa) e il saraceno Deramé durante la battaglia di Larchamp (forse ispirata alla battaglia dell'Orbieu, del 793). Un'altra opera da ricordare è la Chanson de Gormont et Isembart, di cui abbiamo solo un lungo frammento di 661 versi, databile al 1130, in cui racconta lo scontro tra i franchi e i vichinghi (chiamati però "saraceni").

Il più celebre componimento di questo genere è però la Chanson de Roland (Canzone di Orlando), composta verso il 1100 e conservata in una decina di manoscritti tra loro molto diversi (in genere però ci si riferisce al manoscritto di Oxford, che comprende circa 4 mila versi). La trama è molto semplice e narra in chiave epica un episodio avvenuto nel 778 sui Pirenei. Durante il ritorno di Carlo Magno in Francia dalla Spagna, la retroguardia guidata dal paladino Orlando viene assaltata dall'esercito saraceno a Roncisvalle: l'attacco è stato reso possibile da Gano, un paladino che ha tradito il re. Lo stesso Orlando rimane gravemente ferito, ma prima di spirare riesce a suonare il corno e richiamare l'esercito del re, che vendica la sua morte compiendo una strage. Il canto si chiude con la punizione di Gano: riconosciuto colpevole, viene ucciso e squartato.

Se questi primi esempi, più arcaici, risentono ancora di elementi derivati dalla tradizione orale, l'evoluzione successiva porta a vere e proprie riscritture di canzoni antiche. Nascono così componimenti destinati esplicitamente alla lettura, e tra i vari autori il più importante è Adenet (seconda metà del XIII secolo), noto come le roi des menestrels. D'altra parte, le trasformazioni dell'aristocrazia e la diffusione dei valori cortesi porteranno le canzoni di gesta ad abbracciare temi e caratteristiche proprie del romanzo cavalleresco. L'esaltazione delle imprese militari lascia così il posto al gusto per l'avventura e per il fantastico, dando un'importanza centrale al ruolo dell'amore e della donna.[6]

Il romanzo cavalleresco

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Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Letteratura cavalleresca e Chrétien de Troyes.
Yvain soccorre il leone in una miniature del XIII secolo, Princeton University Library

Il genere che ha conosciuto la più durevole fortuna nella letteratura d'oïl è però il romanzo, che si sviluppa a partire dalla metà del XII secolo, imponendosi in gran parte d'Europa. È una narrazione di ampio respiro, generalmente scritta in ottosillabi rimati a coppie, che mescola temi storici con elementi fantastici e meravigliosi. Nata come trascrizione di contenuti dotti in lingua romanza (da cui il nome), in modo che fossero accessibili al vasto pubblico che non conosceva il latino, il romanzo si è presto evoluto in un genere a sé stante, nettamente distinto dall'epica. Alla base di questa evoluzione c'è il gusto per la narrazione dimostrato dagli autori, che nelle loro opere danno vita a una società ideale, caratterizzata dai valori aristocratici "cortesi".[7]

Il protagonista, molto spesso un cavaliere, è chiamato a raggiungere beni preziosi, e spesso le sue imprese sono compiute in nome di una donna. Il cavaliere è infatti un modello di vita cortese: è un individuo superiore, che si distingue sia per la sua impareggiabile prestanza fisica sia per i nobili ideali che persegue. È fedele al proprio destino ma al tempo stesso è attratto dalle avventure, che lo portano lontano dalla banalità della vita comune. L'aggettivo "cortese" acquista quindi un nuovo valore: se in origine veniva usato per designare i membri della corte del sovrano, ora assume il significato di "elegante, gentile", opposto a tutto ciò che è "villano". Nel romanzo cortese, inoltre, ci sono i primi esempi di introspezione psicologica nella letteratura europea. Diversamente dagli eroi dell'epica classica, il cavaliere è chiamato a fare scelte spesso difficili, e attraverso lunghi monologhi dà voce al suo tormento. Centrale è poi il tema dell'amore cortese, cioè dell'amore come forza assoluta che trova giustificazione in se stesso, al di là di ogni riconoscimento sociale. Spesso il sentimento dei due amanti arriva a sfidare l'autorità di un terzo, il marito della donna, e trova il suo compimento nella morte.

Talvolta i romanzi sono ispirati a eventi della storia antica (come la guerra di Troia o le conquiste di Alessandro), ma i testi più importanti prendono spunto dalla tradizione bretone, cioè dall'insieme delle leggende celtiche che hanno per protagonisti re Artù e i cavalieri della Tavola Rotonda. L'insieme di questi romanzi compone il cosiddetto ciclo bretone o arturiano. La prima opera che raccoglie queste leggende è la Historia regum Britanniae, scritta in latino da Geoffrey di Monmouth; questa è stata poi ampliata dal chierico Wace, che l'ha tradotta in francese con il titolo di Roman de Brut (1155 circa).[8]

Il principale autore di romanzi sul ciclo bretone è però Chrétien de Troyes. Vissuto nel nord della Francia e attivo tra il 1160 e il 1180, ha scritto varie opere, ma solo cinque romanzi sono giunti fino a noi: Erec et Enide, Cligès, Lancelot, Yvain, Perceval. In questi affronta temi divenuti celebri nella cultura europea, come l'amore di Lancillotto per la regina Ginevra e la ricerca del Graal (il calice usato da Gesù nell'Ultima Cena e in cui, secondo la tradizione, Giuseppe di Arimatea raccolse il sangue di Cristo). Al ciclo bretone è riconducibile anche la tragica storia d'amore di Tristano e Isotta, di cui si è occupato anche Chrétiene in un romanzo oggi perduto. A questo tipo di produzione sono legati i lais, brevi componimenti narrativi intessuti di elementi lirici. Tra i più famosi ci sono quelli scritti, tra il 1160 e il 1170 circa, da Marie de France.

Oltre a questi si sviluppa, a partire dal XIII secolo, un filone di romanzi detti "realistici", che rifiuta il meraviglioso tipico del ciclo arturiano. Le narrazioni sono ambientate in un passato vicino e gli autori cercano di creare situazioni verosimili; tuttavia i personaggi si muovono ancora in un mondo idealizzato, vivendo peripezie ben poco realistiche.[9]

La lirica provenzale

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Trovatore.
La prima poesia composta al ritorno dalla crociata del 1101 da Guglielmo IX d'Aquitania, raffigurato nella miniatura del manoscritto come un cavaliere

Contemporaneamente alle chanson de geste in lingua d'oïl, nelle corti della Provenza e della Francia meridionale si sviluppa in lingua d'oc (occitano) una nuova forma di poesia lirica, estremamente colta e raffinata, in cui parola e musica sono strutturalmente legate. È anche uno dei primi esempi di poesia in cui viene espressa una visione del mondo separata da quella religiosa. Gli autori, detti trovatori (troubadours, dal verbo trobar, "comporre, inventare"), sono di varia estrazione sociale, compongono sia i testi sia la musica e seguono il modello dell'amore cortese. Il trovatore esprime attraverso la poesia la propria gioia per l'amore perfetto (fin'amors), tessendo le lodi della donna-signora per la quale il poeta è un vassallo, pronto a servirla in modo assoluto. Nel farlo, ricorre a una serie di luoghi letterari (topoi) codificati. La donna è solitamente una principessa o la moglie del signore, e la sua bellezza e il suo potere la rendono perennemente distante e inaccessibile.

Nei suoi componimenti il trovatore canta la distanza ma allo stesso tempo esprime il desiderio di raggiungere la donna, nel tentativo di instaurare un dialogo. La richiesta è però destinata a restare inesaudita. La ripetizione della domanda manifesta la potenza di Amore, che mescola astrazione ed erotismo. D'altra parte, i sentimenti del poeta sono minacciati dalle maldicenze, che gli fanno correre il rischio di essere allontanato dall'amata. Per questo, la donna non viene mai menzionata direttamente, ma è invocata attraverso un nome fittizio (senhal). La passione amorosa ha quindi effetti contraddittori, sottilmente analizzati dalla poesia: da un lato la gioia e il godimento, dall'altro la sofferenza.[10]

La lirica provenzale è una produzione inizialmente destinata alla trasmissione orale e solo dal XIII secolo le poesie trobadoriche vengono raccolte in forma scritta nei canzonieri, che contengono anche la biografia romanzata dell'autore (vidas) e commenti di carattere stilistico e retorico (razos). Di tutta la produzione provenzale ci sono giunti 2 542 componimenti, e conosciamo i nomi di 460 autori. Secondo la tradizione il primo trovatore fu il duca Guglielmo IX di Aquitania (1071-1127), un signore feudale i cui possedimenti si estendevano dalla Loira ai Pirenei. Appassionato di guerra e amante dei piaceri, compose opere su vari argomenti, a volte lieti e capricciosi a volte più lascivi, oltre a canzoni d'amore in stile cortese. Altri importanti autori furono Bertrand de Born, Jaufré Rudel e Arnauld Daniel. Quest'ultimo è il principale esponente del cosiddetto trobar clus (poetare chiuso), uno stile molto elaborato, artificioso e oscuro. Da questo si differenzia il trobar leu (poetare dolce) di Bernart de Ventadorn, più limpido e aggraziato.

Non è ancora chiaro quali siano le origini della poesia trobadorica, che probabilmente si sviluppò da forme orali molto più antiche. Alcune forme strofiche si ritrovano comunque sia nella poesia religiosa latina sia nella lirica andalusa (in arabo ed ebraico), da cui probabilmente deriva la centralità del tema amoroso.[11] Il genere principale della lirica provenzale è la canso, la canzone d'amore, che nella maggior parte dei casi prevede dalle 5 alle 7 strofe di 6 o 12 versi ciascuna, che possono essere legate oppure no dalla stessa rima.[12] Ci sono poi la sestina (sei versi per strofa in cui tornano in rima sempre le stesse parole), il sirventes (lungo componimento di argomento politico), il compianto (solitamente per la morte di un personaggio importante), la tenzone (discussione in versi tra due poeti), la pastorella (un cavaliere tenta di spiegare l'amore a una ragazza di campagna), l'alba (lamento dell'amante che al sorgere del sole deve lasciare l'amata), il plazer (elenco di cose piacevoli) e l'enueg (elenco di cose noiose).

La civiltà cortese della Provenza tramonta all'inizio del XIII secolo in seguito alla crociata contro gli albigesi indetta da papa Innocenzo III. Le corti feudali passano così sotto il controllo della corona francese, mentre la lingua d'oc perde progressivamente la propria importanza letteraria, riducendosi a dialetto quando il francese (evolutosi dalla lingua d'oïl) diventa lingua nazionale. Contemporaneamente, nel nord si sviluppa una lirica in lingua d'oïl affine a quella provenzale grazie ai trovieri (trouvaires), mentre i trovatori si spargono in varie località, sia al nord sia in Italia e Spagna. Sorgono così vari imitatori: all'inizio del Duecento nell'Italia settentrionale molti autori scrivono componimenti secondo lo stile della Provenza, utilizzando la lingua d'oc, considerata lingua letteraria per eccellenza. L'influenza di questo modello sarà presente anche in componimenti in volgare italiano a partire dalla scuola siciliana, e persisterà fino a Petrarca e ai rimatori del Trecento.[13]

Altri generi

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Accanto ai romanzi cortesi vi sono anche i cosiddetti «romanzi d'amore e peripezia», che narrano di due innamorati separati da varie vicissitudini (ne sono esempi il Floire e Blanchefleur oppure Aucassin e Nicolette). La diffusione di un uso profano dell'allegoria, figura retorica precedentemente utilizzata solo dalla cultura ecclesiastica, fa inoltre sorgere il nuovo genere del romanzo allegorico, con al centro l'amore cortese. Il più celebre esempio è il Roman de la Rose, composto per i primi 4 000 versi dal chierico Guillaume de Lorris attorno al 1230 e terminato quarant'anni dopo da Jean de Meung, che ne scrive i restanti 18 000 versi. La prima parte è un'«arte di amare», mentre la seconda è ricca di elementi didascalici, filosofici e satirici. Jean de Meung espone le proprie teorie naturalistiche, mostrandosi contrario all'amore cortese e tributando lodi all'amore fisico. Le idee borghesi che vengono espresse e la critica degli ideali cortesi sono d'altra parte sintomo della nuova cultura urbana che si sta diffondendo.[14]

Esiste poi un tipo di produzione satirica che irride i generi alti e la cultura ufficiale: sono i fabliaux (favolelli), componimenti in versi che narrano vicende comiche e popolari tratte dalla quotidianità. In contrapposizione alla letteratura cortese, questi autori anonimi impiegano un linguaggio libero e disinibito, e insistono sugli aspetti più plebei e volgari, fino ad arrivare all'oscenità. Elementi satirici sono d'altra parte presenti anche in favole dal contenuto morale che hanno per protagonisti animali parlanti, come nel caso del Roman de Renard, un raccolta di racconti medievali in lingua francese del XII e XIII secolo,.

L'età dei Comuni in Italia

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Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Comune medievale.
Federico Barbarossa ritratto in una miniatura di un manoscritto del 1188, Biblioteca Vaticana

Con un secolo di ritardo rispetto alla Francia, la letteratura in volgare italiano prende piede alla fine del Duecento. Il contesto è però diverso: tramontato il sistema feudale, la vita associata ha come centro la città, in cui vige un'economia di scambio e il cittadino ha una forte partecipazione politica. Anche laddove esistono ancora le corti, come per esempio nel regno di Federico II in Italia meridionale (1220-1250), il sovrano mira a costituire uno Stato centralizzato, limitando i poteri dei feudatari. La letteratura in volgare italiano che nasce in questi secoli risentirà dell'influenza dei modelli in lingua d'oc e d'oïl, così come della letteratura greca, latina e mediolatina.

Tra il XII e il XIV secolo la penisola italiana è suddivisa in due realtà. Al centro-nord si era formata, già dall'XI secolo, una rete di città politicamente autonome rette da ordinamenti repubblicani, i Comuni. Al sud invece si succedono varie monarchie: dapprima i normanni, poi gli Svevi e infine la dinastia angioina (insediatasi a Napoli nel 1266) e quella degli aragonesi (che dominano la Sicilia dopo la guerra dei Vespri, a partire dal 1283). Nell'Italia centrale si consolida poi lo Stato della Chiesa. Mentre al sud persiste ancora il feudalesimo, al nord si sviluppa una vivace vita civile. Tuttavia, a causa del fenomeno del particolarismo municipale, i diversi Comuni sono contrapposti gli uni agli altri. L'autorità di imperatore e papa viene sempre più svuotata di valore reale, mentre il tentativo di Federico Barbarossa di conquistare le città del nord fallisce contro la resistenza di queste, che riunite nella lega lombarda trionferanno alla battaglia di Legnano del 1176. La crisi del potere imperiale favorisce quindi il rafforzamento dell'autonomia dei Comuni.

Guelfi e ghibellini

I due termini indicano le due fazioni che, nella Germania del XII secolo, si spartirono il potere. Con l'elezione a imperatore di Federico I Barbarossa (1155-1190) lo scontro si spostò in Italia. I ghibellini erano filo-imperiali e lottavano per limitare i poteri della Chiesa, mentre i guelfi erano favorevoli al papato. I guelfi fiorentini si divisero in due fazioni: i bianchi, filo-papali ma favorevoli anche alla signoria, e i neri, che sostenevano l'intervento dell'autorità pontificia negli affari interni della città.

All'inizio del Duecento la Chiesa fronteggia l'avanzata di Federico II, che capeggia il partito ghibellino. Alla morte dell'imperatore (1250), il papa Bonifacio VIII cerca di rafforzare il proprio potere nell'Italia centrale, intervenendo nelle lotte a Firenze tra la fazione dei bianchi e quella dei neri. Dopo un conflitto con la monarchia francese, la Chiesa conosce però un periodo di crisi e decadenza, concretizzatasi nello spostamento della sede papale da Roma ad Avignone tra il 1309 e il 1377. Intanto sul fronte interno i papi devono affrontare i tanti movimenti spirituali nati dal basso che promuovono un rinnovamento della vita ecclesiastica. Alcuni di questi sono definiti eretici e strenuamente combattuti, come avviene per i catari di Tolosa e Albi (da cui il nome di albigesi), contro i quali Innocenzo III indice una crociata (1209). Allo stesso tempo, si assiste alla nascita degli ordini mendicanti, quello dei francescani (1209) e quello dei domenicani (1216), che avranno grande importanza nel rinnovamento della Chiesa.[15]

Le prime testimonianze in volgare italiano

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Manoscritto con l'Indovinello veronese, Biblioteca Capitolare di Verona

Le prime testimonianze scritte in volgare italiano sono documenti di carattere non letterario, spesso legati a un ambiente culturale più elevato rispetto al comune. Il più antico documento è l'Indovinello veronese, scritto da un chierico-copista di uno scriptorium veronese in un documento risalente all'VIII secolo. La versione oggi più accreditata è la seguente:

« Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio teneba, et negro semen seminaba. »

Secondo l'interpretazione più diffusa, l'indovinello parla di uno scrittore e paragona la penna a un aratro bianco (albo versorio) che viene spinto per seminare segni neri (negro semen seminaba), cioè le lettere, su un campo bianco (alba pratalia).[16]

Il primo vero documento ufficiale in volgare italico è però il placito capuano, una dichiarazione resa da un testimone analfabeta e inserita in un testo notarile del 960, scritto in latino, con cui Arechisi, giudice di Capua, riconosce all'abbazia di Montecassino il diritto di proprietà di alcune terre. Interrogato dal magistrato, il testimone dichiara:[17]

« Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parti Sancti Benedicti (So che quelle terre, entro quei confini di cui si parla, li ha posseduti per trent'anni l'abbazia di San Benedetto). »
L'affresco con l'iscrizione di san Clemente e Sisinnio nella basilica di San Clemente al Laterano

Altre due testimonianze in lingua volgare risalgono alla fine dell'XI secolo e provengono da ambienti religiosi. La prima è una lunga formula di confessione umbra rinvenuta in un codice dell'abbazia di Sant'Eutizio a Norcia. La seconda è un'iscrizione su un affresco nella basilica di San Clemente al Laterano a Roma, che rappresenta una scena della vita del santo. Sisinnio ordina di condurre san Clemente in carcere ma, grazie a un miracolo, il santo si è liberato e, senza essersene accorti, gli aguzzini stanno trascinando una colonna. Sull'affresco sono riportate anche le parole che pronunciano gli aguzzini (che parlano in volgare) e il santo (che commenta in latino):

« SISINIUM: Fili de le pute, traite. (Figli di puttana, tirate)
GOSMARIUS: Albertel, trai. (Arbetello, tira)
ALBERTELLUS: Falite dereto co lo palo, Carvoncelle! (Mettiti dietro a lui con il palo, Carboncello!)
SANCTUS CLEMENS: Duritiam cordis vestris, saxa traere meruistis. (Per la durezza dei vostri cuori, avete meritato di trascinare pietre) »

Aree di sviluppo della letteratura italiana

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I primi testi letterari in volgare risalgono alla fine del XII secolo e quasi tutti provengono dall'Italia centrale (Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Lazio e Abruzzo, con esclusione della Toscana). Si tratta perlopiù di componimenti destinati alla recitazione, con fine ludico-religioso: era infatti il metodo più efficace, per i chierici dell'epoca, per diffondere la dottrina e la morale cristiana fra il popolo. Confermano la rilevanza letteraria dell'Italia centrale anche due componimenti poetici, il Cantico di frate Sole di Francesco d'Assisi e Quando eu stava in le tu' cathene di mano anonima.

In generale, la letteratura italiana della prima metà del Duecento si sviluppa secondo tre filoni. Come scrive Dionisotti:[18]

« nella prima metà del Duecento corre dalla Sicilia lungo la fascia tirrenica un flusso di nuova poesia che invade e dilaga in Toscana, supera d'impeto l'Appennino pistoiese e si ingrossa ma si arresta anche a Bologna. Estranea resta in gran parte tutta la fascia adriatica, e qui, fra Abruzzi e Marche, facendo centro nell'Umbria francescana, fiorisce una tutt'altra poesia e letteratura. Finalmente una terza zona a sua volta indipendente dalla prime due si disegna a nord della dorsale appenninica e del Po. »

In questi primi secoli la penisola italiana si trova quindi in una situazione di polivalenza linguistica. Gli storici della letteratura hanno ormai accantonato l'idea, di ascendenza romantica, secondo cui vi sarebbe stato un rapporto stretto tra lingua parlata e lingua letteraria. Si tratta piuttosto di un panorama letterario molto spezzato, in cui continuano a essere utilizzate come lingue di poesia anche il provenzale (soprattutto a nord dell'Appennino) e la lingua d'oïl (ne è un esempio il Tresor del fiorentino Brunetto Latini).[19]

  1. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. 1, Torino, Einaudi, 2009, p. 27.
  2. 2,0 2,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 28.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalle origini all'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, p. 2.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalle origini all'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, pp. 2-5.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 36.
  6. Giovanni Matteo Roccati, Il Medioevo, in Lionello Sozzi (a cura di), Storia europea della letteratura francese, vol. 1, Torino, Einaudi, 2013, pp. 13-18.
  7. Giovanni Matteo Roccati, Il Medioevo, in Lionello Sozzi (a cura di), Storia europea della letteratura francese, vol. 1, Torino, Einaudi, 2013, p. 32.
  8. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 41-44.
  9. Giovanni Matteo Roccati, Il Medioevo, in Lionello Sozzi (a cura di), Storia europea della letteratura francese, vol. 1, Torino, Einaudi, 2013, p. 41.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 44-45.
  11. Giovanni Matteo Roccati, Il Medioevo, in Lionello Sozzi (a cura di), Storia europea della letteratura francese, vol. 1, Torino, Einaudi, 2013, p. 23.
  12. Giovanni Matteo Roccati, Il Medioevo, in Lionello Sozzi (a cura di), Storia europea della letteratura francese, vol. 1, Torino, Einaudi, 2013, pp. 26.
  13. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, L'età cortese e comunale, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, pp. 5-7.
  14. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, L'età cortese e comunale, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, p. 8.
  15. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalle origini all'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2001, pp. 27-29.
  16. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 32.
  17. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 33.
  18. Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1999, p. 35.
  19. Carlo Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1999, pp. 37-38.