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Storia della letteratura italiana/Dante Alighieri

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Storia della letteratura italiana

Dante Alighieri è stato il più grande letterato italiano tra Duecento e Trecento. Uomo orgoglioso e consapevole del suo valore poetico, fu un'importante guida politica per i suoi contemporanei, nonché il primo a formulare, nel De vulgari eloquentia, una definizione per il volgare italiano, il che gli valse postumo l'appellativo di padre della lingua italiana.

Nella natia Firenze Dante matura, accanto ai più importanti letterati del suo tempo (come Guido Cavalcanti), la sua formazione poetica. In seguito a queste esperienze aderisce dapprima ai moduli cortesi, quindi arriva a superare la concezione amorosa dello stilnovo. Invano cercherà il riconoscimento del suo valore poetico da parte dei suoi concittadini. Importante è anche la sua attività politica, conclusasi con la triste esperienza dell'esilio, durante il quale soggiorna in molte città d'Italia, e in particolare a Ravenna e Verona.

Dante Alighieri in un affresco di Giotto conservato al Museo del Bargello di Firenze

Dante nasce tra il maggio e il giugno del 1265 a Firenze, figlio di Alighiero di Bellincione e di donna Bella. La sua è una famiglia di parte guelfa appartenente alla piccola nobiltà cittadina (anche se le origini aristocratiche vantate da Dante sono oggi messe in dubbio). Poco si conosce sulle prime fasi della sua vita. Riceve con ogni probabilità un'educazione accurata: nel canto XV dell'Inferno dice di essere stato allievo di Brunetto Latini. Inizia presto a comporre poesie e subisce sicuramente l'influsso dei provenzali, dei siciliani, di Guittone, di Guinizzelli e dell'amico Guido Cavalcanti. Nel 1277 il padre lo costringe a sposare Gemma Donati, figlia di una potente e ricca famiglia fiorentina. Ignota è la data del matrimonio, che comunque deve essere avvenuto quando la coppia era poco più che adolescente; dall'unione nasceranno vari figli. Negli stessi anni si colloca, presumibilmente, la storia d'amore con Beatrice, la cui morte nel 1290 getta il poeta nello smarrimento e segna il passaggio dalla produzione stilnovista a una nuova fase in cui la sua poesia si apre all'orizzonte civile e politico. Intanto, nel 1289 Dante partecipa alla battaglia di Campaldino e assiste alla resa del castello di Caprona.[1][2]

A partire dal 1295 Dante partecipa alla vita politica della città. Gli ordinamenti di giustizia varati da Giano della Bella nel 1293 impedivano l'accesso alle cariche pubbliche di membri della nobiltà cittadina. Nel 1295 il provvedimento viene modificato, e chiunque ambisca a cariche pubbliche deve essere iscritto a un'arte. Dante entra così nell'Arte dei Medici e degli Speziali: la cosa può sembrare strana, ma diventa comprensibile se si pensa allo stretto nesso che esisteva all'epoca tra filosofia e scienze naturali. Negli anni successivi siede più volte nel Consiglio del Comune. Al 1300 risale la rottura del fronte guelfo in due fazioni. Da un lato i neri, capeggiati da Corso Donati e dalla sua famiglia, sono favorevoli alle politiche di papa Bonifacio VIII e alla trasformazione di Firenze in una signoria. Dall'altra i bianchi, riuniti attorno alla famiglia dei Cerchi, vogliono conservare la libertà della città. Dante parteggia per questi ultimi, svolgendo un ruolo di primo piano nelle vicende accadute a Firenze nel biennio 1300-1301.[3]

Tra il giugno e l'agosto del 1300 è eletto tra i priori, la massima magistratura prevista dall'ordinamento cittadino. In questo ruolo appoggia l'esilio per i capi dei due partiti, tra cui c'è anche Cavalcanti. Nell'ottobre del 1301 partecipa a un'ambasceria a Roma presso Bonifacio VIII. Durante la sua assenza, però, c'è un sovvertimento politico a Firenze: i neri prendono il potere appoggiati dal legato pontificio Carlo di Valois. Sulla via del ritorno, nel gennaio 1302, Dante apprende di essere stato condannato a due anni di confino con l'accusa di baratteria, cioè di corruzione nell'esercizio delle cariche pubbliche. Due mesi dopo, non essendosi presentato per difendersi, la condanna si trasforma in pena capitale. Inizia così il suo lungo esilio, destinato a terminare solo con la morte. Inizialmente si unisce ad altri fuoriusciti, che tentano di rientrare a Firenze con la forza. Dopo la sconfitta nella battaglia di Lastra del 1305, abbandona però il gruppo e gira varie corti italiane. Viene dapprima ospitato da Bartolomeo della Scala a Verona, quindi nel 1306 si sposta in Lunigiana, protetto dai Malaspina. Il poeta considera umiliante la sua nuova condizione: formatosi come intellettuale cittadino, abituato a godere delle libertà garantite da un comune, è ora costretto a vivere come uomo di corte, facendo affidamento sulla generosità di un signore.

Un momento importante nella vita di Dante coincide con l'elezione di Arrigo VII di Lussemburgo a imperatore nel 1308. Il sovrano intende ripristinare l'autorità imperiale sull'Italia, accendendo nell'animo di molti le speranze di una nuova era di pace e giustizia. Dante probabilmente assiste all'incoronazione dell'imperatore a Milano nel 1310 e scrive varie epistole allo scopo di favorire la sua impresa. Tuttavia queste speranze si spengono con l'improvvisa morte di Arrigo VII nel 1313. Nel 1315 Dante rifiuta l'amnistia giunta da Firenze, giudicando poco dignitose le condizioni imposte: al poeta viene infatti chiesto di dichiararsi colpevole e sottoporsi a pubblica umiliazione.

Il suo esilio prosegue in altre città italiane: è di nuovo a Verona, presso Cangrande della Scala, e poi a Ravenna (forse dal 1318), ospite di Guido Da Polenta. Sono questi gli anni in cui Dante lavora alla Commedia, mentre cresce la sua fama di letterato. Sempre a Ravenna, è invitato dal grammatico Giovanni del Virgilio a raggiungere Bologna, dove avrebbe ricevuto l'incoronazione a poeta. Dante tuttavia rifiuta: continua infatti a sperare di poter tornare a Firenze e di ricevere lì l'ambito riconoscimento. Nel 1320 è ancora una volta a Verona, dove legge la sua Quaestio de aqua et terra, una conferenza in latino su temi cosmologici. Nel 1321 fa parte di un'ambasceria a Venezia, dove si ammala di malaria; tornato a Ravenna, muore nella notte tra il 14 e il 15 settembre.[4][5]

La Vita nuova

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Dante incontra Beatrice a Ponte Santa Trinità di Henry Holiday. 1883, Walker Art Gallery, Liverpool

La Vita nuova, spesso chiamata libello, è una raccolta di rime giovanili accompagnate da un commento e un'interpretazione in prosa, entrambi scritti dall'autore stesso. Si pensa che le poesie della Vita nuova siano state selezionate e messe insieme dopo la morte di Beatrice, quindi tra il 1291 e il 1296. Alcune liriche sarebbero tuttavia precedenti: Dante ha iniziato a scriverle nel 1286, dapprima per varie donne e poi, in un secondo momento, per Beatrice. Lo schema dell'opera riprende un modello molto diffuso nella letteratura latina medievale, quello del De consolatione philosophiae di Boezio. Il risultato è un romanzo in cui brani di prosa sono intervallati da sonetti e canzoni, secondo il modello delle rezos provenzali.[6]

Vi si trova l'ideale storia d'amore tra la donna e il poeta, narrata secondo la rielaborazione dantesca dello stilnovo, in cui di primaria importanza sono i temi del saluto, col quale l'amata infonde sentimenti di beatitudine celestiale, della lode e della nobiltà. Dante si distacca invece dallo stilnovo per quanto riguarda il ruolo della ragione nell'esperienza amorosa, asserendo che l'amore regna nell'animo da essa guidato.

Trama

Dante incontra per la prima volta Beatrice a nove anni, provando da subito un sentimento d'amore. La rivede quando è diciottenne e ne riceve il saluto, dal quale gli sembra di ottenere la beatitudine. Comincia a dedicarle poesie ma, per timore che qualcuno possa riconoscere l'identità dell'amata, inizialmente finge di corteggiare altre donne (dette «dello schermo», perché difendono il suo amore dalle malelingue). Da qui l'indignazione di Beatrice, che giudica questo comportamento «villano» e nega a Dante il saluto. Dalla sofferenza provata dal poeta, i cui tormenti sono analizzati nel libro, nasce la decisione di dedicarsi alla lauda, secondo i canoni dello stilnovo. La beatitudine non viene più dal saluto, ma da una materia nuova e più alta, cioè dalle lodi della sua «donna gentile». Dante si rivolge ora a un pubblico ristretto di spiriti affini. Tuttavia un sogno, avuto durante una malattia, gli preannuncia la morte dell'amata. Alla scomparsa di Beatrice segue un periodo di dolore, quindi si fa strada un sentimento di gratitudine per una «donna gentile» che, avendo indovinato le sue sofferenze, mostra pietà nei suoi confronti. Dante infine torna al culto di Beatrice: l'amata gli appare in una visione, posta nella gloria dei cieli. Decide quindi di non dedicarle più poesie, finché non sarà in grado di «dicer di lei quello che mai fosse detto d'alcuna».

Il libro è suddivisibile in tre parti: nella prima si descrivono gli effetti dell'amore sull'innamorato, la seconda è dedicata alla lode di Beatrice e il terzo alla sua morte.[7] Lo stesso poeta avvisa che il nome della donna è reale ma ha anche una valenza simbolica: l'amata è infatti in grado di donare beatitudine. Secondo i commentatori antichi è forse da identificare con una certa Bice de' Portinari, figlia di Folco Portinari e moglie di Simone dei Bardi. L'amore per lei viene posto da Dante come fulcro di tutta la sua vita sentimentale e intellettuale. Da un lato viene presentato come l'evento centrale della sua giovinezza, dall'altro segna l'evoluzione della sua poetica da una fase toscana all'accettazione dello stilnovismo, in modi però del tutto originali.[8] Lo stesso titolo, Vita nuova, sottolinea il rinnovamento spirituale avvenuto nell'esistenza del poeta grazie a questo amore eccezionale.

Non c'è accordo tra gli interpreti se l'opera sia un testo autobiografico oppure una trascrizione simbolica dei sentimenti dell'autore. Sembra che Dante parta da esperienze reali, di cui cerca il significato simbolico segreto. Arriva così a dei valori universali con i quali costruisce una vicenda esemplare e assoluta. Tutti gli elementi concreti, siano luoghi, riferimenti temporali o persone, diventano quindi sfumati e indeterminati. Anche i gesti sono privi di concretezza: sono presenti solo sospiri, sguardi, lacrime, saluti. Il tutto contribuisce a creare un'atmosfera evanescente, sensazione che viene acuita dal fatto che a episodi "reali" si affiancano vere e proprie visioni.[7]

Il sogno di Dante del pittore preraffaelita Dante Gabriel Rossetti. 1856, Tate Britain, Londra

La Vita nuova può infatti essere considerata come un itinerarium mentis in Deum. Le tre parti in cui è diviso il libro corrispondono ai tre stadi attraverso cui, nella mistica cristiana, l'anima compie il suo viaggio verso Dio. Dapprima l'anima ama Dio a partire dagli oggetti esteriori che osserva nel creato (questa fase è definita extra nos, "fuori di noi"). Nella seconda fase la felicità nasce dall'interno dell'uomo, dalla consapevolezza di amare Dio per se stesso (intra nos, "dentro di noi"). Nel terzo e ultimo stadio l'amore per Dio trasporta l'anima sopra di sé, fino a congiungerla con la divinità (super nos, "sopra di noi"). Allo stesso modo, quello per Beatrice è un amore superiore rispetto a quello cantato dai trovatori. Nella terza parte, l'amore per la donna non si limita a ingentilire l'animo del poeta, ma lo trascina verso l'alto fino a raggiungere Dio. In Guinizzelli e Cavalcanti, la donna era vista come un miracolo, ma l'amore era sempre caratterizzato da un percorso discendente, che da Dio portava alle cose terrene. Ne derivava che l'amore per la donna escludeva quello per Dio. In Dante questa contraddizione cessa di esistere: la donna diventa tramite verso Dio.[9]

La raccolta delle Rime riunisce testi risalenti all'apprendistato poetico di Dante e componimenti di epoche successive. È importante sottolineare ancora una volta come la Firenze della fine del Duecento fosse un luogo culturalmente molto vivace e variegato, in cui convivevano le varie tendenze incontrate nei moduli precedenti. Accanto alla lirica toscana di Guittone d'Arezzo coesistevano i nuovi modi stilnovistici introdotti da Guido Cavalcanti, la letteratura didascalica di Brunetto Latini e la poesia comico-realistica. Dante si orienta da subito verso le forme poetiche più raffinate, e in particolare verso la lirica d'amore di Guittone, per poi virare verso lo stilnovo di Cavalcanti.[10] Negli anni che seguono la morte di Beatrice, Dante sperimenta nuove forme, dedicandosi anche alla poesia comica dell'epoca (come è osservabile nella "tenzone" con Donati). Si appassiona poi a un altro amore, quello per la filosofia, e si avvicina ai modi della poesia trobadorica del periodo aureo (e in particolare all'opera di Arnaut Daniel).[11]

Le rime giovanili: dai modi toscani allo stilnovo

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Dante Gabriel Rossetti, Beata Beatrix, dipinto a olio, 1872, Chicago Art Institute

Come si è visto, oltre a quelle confluite nella Vita nuova, Dante compone in gioventù altre poesie. Alcune seguono i modi toscani, altre invece risentono dello stilnovo. In una prima fase Dante si orienta infatti alla lirica d'amore di tipo cortese: riprende il linguaggio astruso, la psicologia e gli artifici già usati da Guittone. Una svolta avviene grazie all'incontro con Guido Cavalcanti e all'adozione di uno stile più leggiadro, in cui la sintassi è più scorrevole, il ritmo è più dolce e sono evitati gli artifici troppo intellettualistici. Nasce così quel gruppo elitario di anime elevate e affini per cui lo stesso Dante conia l'espressione di «dolce stilnovo». Il componimento più rappresentativo di questa fase è il sonetto Guido i' vorrei che tu e Lapo ed io, in cui Dante immagina di fuggire in un mondo fuori dal tempo in compagnia di Cavalcanti, Lapo Gianni de' Ricevuti e alle loro tre amate.[10]

A queste si aggiunge la cosiddetta "tenzone" con l'amico Forese Donati. Sono sei sonetti, tre dei quali scritti da Dante e tre da Donati, contenenti scambi reciproci di accuse e ingiurie. Sono molto probabilmente il risultato di un esercizio letterario, che segue lo schema della tenzone e i modelli della letteratura comico-realistica. In ogni caso, Dante dimostra una forte carica virulenta e una grande capacità di rappresentazione, ben superiore a quella di Donati.[12] In particolare viene qui usato un linguaggio basso e plebeo, che ritornerà nella Divina Commedia per descrivere gli aspetti più degradati della realtà.

Le "rime petrose"

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Vengono definite "rime petrose" un gruppo di composizioni risalenti al 1296, di cui fanno parte due canzoni (Io son venuto al punto della rota e Così nel mio parlar voglio esser aspro) e due sestine (Al poco giorni e al gran cerchio d'ombra e Amor tu vedi ben che questa donna). Sono dedicate a una donna chiamata Pietra, un nome simbolico che rimanda alla sua insensibilità nei confronti dell'amore provato dal poeta. Dante si distanzia dai modi stilnovistici e utilizza toni e termini duri, che sembrano giungere fino all'odio[13] e che si contrappongono allo stile "dolce" dello stilnovo. Queste rime risentono in particolare dell'influenza di Arnaut Daniel e del suo trobar clus. Non è chiaro se Pietra corrisponda a una donna reale o se sia piuttosto una personificazione allegorica della filosofia. Nelle rime petrose Dante riversa una passione tutta sensuale, che viene però espressa con modi estremamente intellettualistici e ricercati.[14]

Le rime "sottili" e "magnanime"

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Un altro gruppo è composto dalle rime cosiddette "sottili", in cui Dante dimostra grande capacità di parlare in versi di argomenti complessi tratti dalla filosofia, dalla teologia e dalla dottrina cristiana.[15] Si fa strada inoltre uno dei temi che saranno centrali nella Commedia, la condanna dell'epoca in cui il poeta vive. Dante si confronta con i problemi del suo tempo, difende i valori del passato e critica la corruzione vigente.[16]

A queste sono ricollegabili anche le rime "magnanime", quelle cioè scritte durante l'esilio, in cui alla vittoria dei suoi avversari oppone la propria purezza e integrità morale.[15] Alla figura dell'esule che non merita la condanna è dedicata, per esempio, la canzone Tre donne intorno al cor mi son venute (1302). La sua visione della realtà diventa in questi anni sempre più pessimista, e si fa largo un desiderio di giustizia e di pace, a cui Dante dà voce anche nella Commedia.[14]

Il Convivio è costituito da commenti ad alcune canzoni allegorico-dottrinali, con le quali Dante si propone di raccogliere tutto il sapere umano. L'epoca di composizione è da collocare tra il 1304 e il 1307, durante l'esilio. Si tratta di un'opera dottrinale: Dante si prefiggeva di scrivere quindici trattati, progetto che abbandonerà fermandosi al quarto, forse perché impegnato nella stesura della Divina Commedia. Dopo un primo testo introduttivo, gli altri trattati riguardano l'ordinamento dell'universo (commento alla canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete), la filosofia in rapporto con Dio (Amor che ne la mente mi ragiona) e la questione della vera nobiltà (Le dolci rime d'amor ch'i' solia).[17]

L'opera è frutto della passione per la filosofia che Dante aveva coltivato dopo la morte di Beatrice e l'ingresso nella vita politica. Il suo scopo è quello di fare ordine nel suo pensiero nei diversi campi, componendo una summa sul modello delle enciclopedie medievali. Come la Vita nuova raccontava l'esperienza amorosa per una donna, così il Convivio narra l'amore di Dante per la sapienza, attraverso l'esposizione di dottrine e concetti. Dalla sua composizione si aspetta inoltre di acquisire fama. Dante punta infatti a scrivere un'opera alta in volgare, così da dimostrare le qualità di questa lingua e da contribuire all'arricchimento culturale di chi, seppur appartenente all'aristocrazia, non conosce il latino. Si rivolge quindi a un pubblico non popolare ma comunque più largo che in passato, composto da nobili di entrambi i sessi.[18]

È importante sottolineare che Dante intende qui la nobiltà non solo di nascita ma anche come "nobiltà spirituale". Quella a cui si rivolge è una nuova aristocrazia accesa da desiderio di conoscenza, che si deve imporre come nuova classe dominante, sostituendosi alla corrotta e avida borghesia dell'epoca. Dante apparecchia quindi un banchetto della sapienza (da cui il titolo di Convivio) destinato, come scritto nell'introduzione all'opera, a tutti gli spiriti gentili e virtuosi che, per vari motivi, non hanno potuto accedere alla conoscenza. Di conseguenza, nel Convivio ricorre a una prosa più robusta, basata sui modelli latini.[19] Questo fa sì che il Convivio ponga le basi per la nascita della prosa filosofica in volgare.

Il De vulgari eloquentia

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Una copia del 1577 del De vulgari eloquentia

Nel De vulgari eloquentia Dante approfondisce le tematiche linguistiche e letterarie già presenti nel Convivio, di cui è contemporaneo. Originariamente prevedeva quattro libri, ma ci sono giunti solo il primo, completo, e tredici capitoli del secondo, più parte del quattordicesimo. La lingua scelta è il latino, la più diffusa nell'ambiente dotto a cui l'opera è rivolta. Il primo libro è una trattazione sulle origini del linguaggio, a partire dalla frammentazione delle lingue in seguito alla costruzione della torre di Babele (narrata nel libro della Genesi). Dante distingue tre lingue romanze: la lingua d'oc, la lingua d'oïl e la lingua del sì. A queste contrappone la gramatica latina, ormai rigidamente codificata.

Fin dal primo libro, Dante sofferma la propria attenzione sul volgare italiano, la lingua del sì. Vengono individuati quattordici dialetti, sette dei quali sono a est dell'Appennino e sette a ovest. Nessuno di questi, però, può assurgere al rango di lingua letteraria, adatta all'ideale di poesia alta che aveva attraversato tutta la cultura italiana del Duecento. D'altra parte, la stessa frammentazione politica della penisola impedisce il sorgere di una simile lingua: sarebbe infatti necessario che tutti gli intellettuali italiani si riunissero in un'unica corte.[20]

La nuova lingua letteraria deve nascere dalla rielaborazione artistica del volgare, a opera degli intellettuali di tutte le parti d'Italia. Partendo dalla base latina che accomuna tutti i dialetti italiani, bisogna elaborare una lingua che si possa adattare ai temi più alti, selezionando un lessico prezioso. Per Dante questa lingua ideale deve essere:[21][22]

  • illustre, perché nobilita chi la parla;
  • cardinale, perché è il cardine attorno a cui ruotano gli altri dialetti;
  • aulica, perché se l'Italia diventasse un regno sarebbe parlata nella reggia (aula);
  • curiale, perché deve essere una lingua elegante, tale cioè da potere essere usata nelle corti eccellentissime.

Il secondo libro è dedicato agli argomenti per i quali si deve utilizzare il volgare "tragico", e cioè le armi, l'amore e la virtù. C'è qui un'evoluzione rispetto alla Vita nuova: mentre in precedenza Dante aveva riservato l'uso del volgare solo alle tematiche amorose, ora questo si amplia anche agli argomenti morali e a quelli epici. Inoltre lo stile tragico deve ricorrere al genere della canzone, che aveva conosciuto una tradizione più lunga, dai provenzali agli stilnovisti e al Convivio.[22]

Il De monarchia

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Incoronazione di Arrigo VII di Lussemburgo nel Codex Balduini Trevirensis

Il De monarchia è una riflessione sul potere. Dante individua la necessità di un impero universale a garanzia della pace e si propone di conciliare i due grandi poteri della sua epoca, l'impero e il papato. Entrambi sono autonomi in quanto derivano da Dio, da cui ricevono la loro dignità. All'impero in particolare spetta il compito di condurre l'uomo alla felicità terrena, mentre il papato dovrà portare l'uomo alla felicità eterna. L'uno e l'altro, però, non si escludono a vicenda, ma sono piuttosto complementari: per raggiungere la salvezza indicata dal papa è prima necessario che gli uomini vivano secondo pace e giustizia, e quindi il papato ha bisogno dell'impero. D'altra parte, poiché il fine del papato è superiore a quello dell'impero, quest'ultimo gli deve riverenza. L'argomentazione, condotta secondo gli schemi tipici della logica medievale, si fonda sulla Bibbia, sull'autorità degli antichi e sull'esperienza comune. In generale, rispetto al Convivio e al De vulgari eloquentia mostra maggiore organicità ed è anche l'unica opera dottrinale di Dante a essere compiuta.

La sua composizione è successiva al 1310, quando Dante riversava le sue speranze di rinnovamento politico della penisola italiana nell'azione dell'imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Il poeta aveva salutato l'avvento del sovrano con tre epistole, dedicate una ai reggitori d'Italia, un'altra agli scellerati fiorentini e la terza all'imperatore in persona. Ai primi del Trecento, tuttavia, papato e impero stavano conoscendo una grave crisi che avrebbe stravolto la situazione politica e avrebbe relegato a mera utopia le conclusioni esposte da Dante nel De monarchia. Dal suo sdegnoso rifiuto del caos contemporaneo e dal desiderio di giustizia universale nascerà la complessa struttura della Commedia.[23]

La Divina Commedia

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Su Wikibooks puoi leggere una versione commentata dell'opera Divina Commedia
Dante e i tre regni in un affresco di Domenico di Michelino. 1465, Museo dell'Opera del Duomo, Firenze

La Divina Commedia è la principale opera di Dante, riflessione umana, esistenziale e morale sulla vita del poeta nonché specchio della società e della politica medievali, alle quali sono rivolte frequenti invettive. Il poema nasce infatti dal contrasto vissuto dal poeta nei confronti della realtà a lui contemporanea: l'imperatore non si preoccupa di far trionfare la pace e la giustizia, mentre il papa tralascia gli aspetti religiosi e si occupa prevalentemente di acquisire potere temporale. Come conseguenza, gli uomini si stanno allontanando dai retti valori che avevano guidato la società cortese (come la sobrietà, il senso della famiglia, il rispetto della tradizione). Dante tuttavia spera ancora che possa arrivare un Veltro, cioè un riformatore in grado di guidare gli uomini attraverso un cammino di rinnovamento morale.

L'opera è costituita da tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ognuna è suddivisa in 33 canti, a eccezione dell'Inferno, che ne ha 34: il canto I, infatti, funge da prologo all'intero poema. I versi sono formati da terzine di endecasillabi in rima incatenata. Il poema narra in prima persona il viaggio compiuto da Dante nell'aldilà, guidato dapprima dal poeta latino Virgilio attraverso inferno e purgatorio, e poi, in paradiso, da Beatrice.

La sua stesura è collocata fra il 1304 e il 1321. In particolare, sembra che Inferno e Purgatorio siano stati pubblicati quando Dante era ancora in vita: il primo è apparso tra il 1313 e il 1314, mentre il secondo tra il 1315 e il 1316. Il Paradiso, a cui il poeta ha lavorato sino agli ultimi giorni, è invece stato dato alle stampe postumo, anche se singoli canti erano stati diffusi mano a mano che venivano composti.[24]

Il genere e i modelli

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Nell'epistola a Cangrande della Scala, signore di Verona, Dante si riferisce al suo poema con il titolo di Comedìa. È lo stesso poeta a spiegarne i motivi: l'opera inizia da una situazione spaventosa (l'inferno) e termina in un luogo desiderabile e favorevole (il paradiso). Inoltre è scritto in volgare con uno stile piano e dimesso, più adatto a una commedia che a una tragedia. L'aggettivo Divina sarà aggiunto solo più tardi da Boccaccio, e comparirà nel frontespizio dell'edizione curata da Ludovico Dolce nel 1555.

Nella Divina Commedia è possibile riconoscere la coesistenza di vari generi. Con il suo poema Dante vuole rappresentate la realtà in tutta la sua complessità e per questo ricorre a generi letterari tra loro diversi. La Divina Commedia è quindi un poema didascalico e allegorico, ma è anche un'opera enciclopedica e presenta i caratteri della profezia apocalittica. In alcuni canti è possibile ritrovare elementi tratti dalla commedia, dalla tragedia e dall'epica. Non mancano poi satire, invettive e momenti lirici. Il carattere fondamentale dell'opera è però di tipo narrativo: è il racconto a unificare tutti questi diversi generi.

Per ideare la struttura della sua grande opera Dante riprende i modelli diffusi nella cultura medievale. Certamente i primi riferimenti sono la Bibbia e il libro VI dell'Eneide di Virgilio, in cui Enea discende agli inferi e riceve delle rivelazioni profetiche dalle ombre dei defunti. Per la ricostruzione dell'aldilà il poeta ha probabilmente usato come fonti alcuni scritti mistici, come la Visione di San Paolo, la Navigazione di San Brandano, il Purgatorio di San Patrizio, il Libro delle Tre Scritture di Bovesin De La Riva, il De Jerusalem coelesti e il De Babilonia civitate infernali (entrambi di Giacomino Veronese). A questi si possono aggiungere il Roman de la Rose e i due poemi didascalici di Brunetto Latini, il Trésor e il Tesoretto.[25]

Le basi filosofiche e culturali

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La rappresentazione dantesca dei regni celesti trae spunto dalla concezione aristotelico-tolemaica del cosmo. La Terra si trova al centro dell'universo, avvolta dalle sfere dell'aria e del fuoco e dai nove cieli, mossi dall'amore per Dio, che si trova nell'empireo. Il pianeta è suddiviso in due emisferi: al centro di quello boreale (compreso tra il Gange e le colonne d'Ercole) si trova Gerusalemme, ai cui antipodi, nell'emisfero australe, è situata invece la montagna del purgatorio, col paradiso terrestre in cima; l'inferno è una cavità conica situata sotto Gerusalemme, all'opposto del purgatorio.

I fondamenti filosofici della Commedia derivano invece dalla scolastica, e in particolare dal pensiero di Tommaso d'Aquino, che nella sua Summa theologiae aveva compiuto una sintesi tra cristianesimo e aristotelismo. Oltre a questo filone che tenta di fondare la fede su basi razionali, sulla scorta di Aristotele, è però riconoscibile anche un afflato mistico ispirato ad Agostino d'Ippona. Il viaggio nell'aldilà non è quindi solo un percorso intellettuale ma uno slancio mistico che porta ad annullarsi in Dio.[26] Questo percorso è rimarcato dalla successione delle tre guide che Dante ha durante il viaggio. Nell'inferno e nel purgatorio è accompagnato da Virgilio, allegoria della ragione. Questa da sola non può però raggiungere le vette della conoscenza divina e a partire dal paradiso terrestre deve quindi lasciare il posto alla teologia, personificata da Beatrice. Per giungere infine a Dio è però necessario un afflato mistico: ecco quindi san Bernardo, che sostituisce Beatrice negli ultimi due canti del Paradiso.

Sullo sfondo c'è l'incrollabile fede che Dante ha di possedere la verità. Secondo la visione tipicamente medievale del mondo, la conoscenza non è ricerca di sapere, poiché la Rivelazione ha già spiegato tutto. L'uomo non deve cercare nuove conoscenze, ma semplicemente adeguarsi a un bagaglio di nozioni che sono già date. È invece folle chi cerca di investigare, con la sola ragione, i misteri di Dio che sono di per sé inconoscibili. L'universo inoltre è retto da un ordine mirabile, in cui tutto trova la sua giustificazione e il suo fine nella volontà di Dio. Elementi tra di loro contrastanti esistono e hanno un senso proprio perché sono inseriti in questo ordine divino. Allo stesso modo il poema di Dante si pone come un'imitazione del «libro di Dio», cioè il mondo, e può quindi registrare ogni aspetto della realtà, dai più bassi e umili ai più elevati e sublimi.[27]

Trama e struttura dell'Inferno

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Dante nella selva oscura (Inferno, canto I), in un'illustrazione di Gustave Dorè (1857)

Passiamo ora ad analizzare trama e struttura di ciascuna cantica, a cominciare dall'Inferno.

Nel prologo del poema (Inferno, canto I) Dante, a 35 anni, si trova a vagare smarrito per una «selva oscura». Sale su un colle illuminato dal sole (immagine della salvezza eterna), ma viene bloccato da tre fiere che rappresentano i tre grandi peccati che impediscono la salvezza dell'umanità: una lonza (allegoria della frode), un leone (la violenza) e una lupa (la cupidigia). A soccorrerlo arriva Virgilio (allegoria della ragione), dal quale apprende che per raggiungere la salvezza deve percorrere un cammino più lungo, che passa dall'inferno e dal purgatorio.

L'inferno, dove si svolge il primo tratto del viaggio, è una voragine a forma di cono rovesciato, creatasi nel momento in cui Dio ha scagliato sulla terra l'angelo ribelle Lucifero. Per accedervi si deve passare attraverso una porta, che si trova nei pressi di Gerusalemme. Le pareti della voragine sono divise in nove cerchi concentrici, nei quali le anime dei dannati scontano la loro pena eterna a seconda delle colpe commesse in vita. Prima di iniziare il percorso, Dante cade nello sconforto e pensa che il viaggio che deve compiere sia contro le leggi divine. Viene però incoraggiato da Virgilio, che gli rivela come la sua missione in realtà sia voluta dallo stesso Dio.

Il confine dell'inferno è segnato dall'Acheronte, un fiume sotterraneo ripreso dalla mitologia greca. Al di qua del fiume, prima dell'inferno vero e proprio, Dante colloca le anime degli ignavi, cioè di coloro che non seppero scegliere né per il bene né per il male. Con essi ci sono anche gli angeli che, al momento della ribellione di Lucifero, non hanno preso parte né per Dio né per il diavolo. Oltre l'Acheronte, nel primo cerchio si trova il limbo: qui vengono accolte le anime dei bambini morti prima di avere ricevuto il battesimo e quelle dei sapienti dell'antichità, vissuti prima della venuta di Cristo. Questi ultimi popolano un castello luminoso, che si stacca dall'oscurità che invece caratterizza il resto dell'inferno.

I dannati veri e propri sono divisi secondo uno schema ripreso da Aristotele e dalla sua dottrina sulle tre «male disposizioni» dell'animo: incontinenza, bestialità, malizia. Queste sono poste in progressione, dalla più lieve alla più grave. Bisogna però osservare che Dante utilizza questo schema con una certa libertà. Le prime variazioni riguardano l'aggiunta del limbo per i non battezzati e dell'antinferno per gli ignavi, di cui si è detto. L'altra è l'inserimento degli eretici, che per ovvi motivi non erano previsti dal modello aristotelico.

Le anime dell'inferno sono infatti condannate a scontare una pena secondo la legge del contrappasso (dal latino contra patior, cioè «soffro il contrario»). Questa può agire in quattro modi diversi:[28]

  • il dannato può subire un'azione collegata a quella che ha prodotto la colpa, oppure
  • può essere costretto a fare ciò che non fece in vita e che quindi è stato causa della colpa, oppure
  • può continuare a ripetere l'azione della propria colpa, oppure
  • può trovarsi in un atteggiamento opposto a quello che aveva caratterizzato la colpa.

Nella prima sezione (cerchi II-V) si trovano i peccatori di incontinenza, cioè coloro che non hanno saputo frenare le proprie passioni, e cioè: lussuriosi, golosi, avari e prodighi, iracondi e accidiosi. Tra il V e il VI cerchio ci sono le mura della città infuocata di Dite, che vengono presidiate dai diavoli. Nel VI cerchio si trovano gli eretici e nel VII i violenti, a loro volta suddivisi in violenti contro il prossimo, violenti contro se stessi (suicidi) e violenti contro Dio (bestemmiatori), la natura (sodomiti) e l'arte (usurai).

Nei due cerchi successivi sono puniti invece i peccatori di malizia. Nell'VIII cerchio ci sono le Malebolge, una serie di dieci fosse concentriche (le bolge appunto) in cui vengono puniti i fraudolenti che hanno ingannato persone che non si fidavano (ruffiani e prodighi, lusingatori, simoniaci, maghi e indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia, falsari). Dopo il pozzo dei giganti si trova il IX cerchio, costituito dal lago ghiacciato di Cocito, in cui sono puniti i traditori. È diviso in quattro zone: Caina (traditori dei parenti), Antenora (traditori della patria), Tolomea (traditori degli ospiti) e Giudecca (traditori dei benefattori).

Nel Cocito, che corrisponde al centro della Terra e al fondo dell'inferno, è immerso fino alla cintola Lucifero, un mostro a tre facce che tiene in bocca Bruto, Cassio (i traditori di Cesare) e Giuda (traditore di Cristo). Aggrappandosi alla sua pelliccia, Dante e Virgilio percorrono la Burella, uno stretto corridoio che porta fuori dall'inferno.

Trama e struttura del Purgatorio

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Dante e Virgilio si congedano dalle anime dei golosi (Purgatorio, canto XXIV), illustrazione di Gustave Dorè

Il purgatorio è un monte altissimo che si trova agli antipodi di Gerusalemme, nel mezzo dell'oceano. Ha un forma tronco-conica e si è formato dalla terra che si è spostata nel momento in cui è nato l'inferno. Usciti all'aperto, Dante e Virgilio si ritrovano sulla spiaggia ai piedi del monte. Nel purgatorio sono accolte le anime di chi necessita di una purificazione prima di poter raggiungere il paradiso. Queste vengono raccolte sulle rive del Tevere e portate al purgatorio da una navicella condotta da un angelo.

Alle pendici del monte è posto un antipurgatorio, in cui sostano le anime in attesa che inizi il cammino di purificazione. Vi si trovano gli scomunicati, i pigri a pentirsi, i morti di morte violenta, i principi negligenti. La purificazione avviene nel purgatorio, a cui si accede dopo aver superato una porta custodita da angeli. Il monte è diviso in sette cornici, che ne percorrono i fianchi e corrispondono ai sette vizi capitali. Anche in purgatorio, come all'inferno, vale la legge del contrappasso. Le colpe in questo caso sono classificate secondo la dottrina dantesca dell'Amore, che distingue in:

  • colpe «per malo obietto» (superbi, invidiosi, iracondi), cioè quando l'Amore è rivolto a un oggetto indegno, per esempio a se stessi;
  • colpe «per poco vigore» (accidiosi), quando si ha un Amore verso Dio troppo debole;
  • colpe «per troppo vigore» (avari e prodighi, golosi, lussuriosi), quando si ha un Amore eccessivo verso i beni terreni.

Ognuna di queste cornici è custodita da angeli. Inoltre in ciascuna il penitente passa per tre fasi: gli vengono mostrati esempi di virtù, gli viene fatta vedere la pena e gli si danno alcuni esempi di castighi per la colpa.

Sulla sommità del monte si trova il giardino del paradiso terrestre. Concluso il percorso di espiazione, l'uomo torna alla sua purezza primigenia, precedente al peccato originale commesso da Adamo. Qui Dante ritrova Beatrice, che lo redarguisce e lo costringe a rivelare le proprie colpe. A questo punto la donna sostituisce Virgilio come guida del poeta. Dopo un bagno nel fiume Lete (per dimenticare le colpe) e uno nell'Eunoé (per ricordare il bene compiuto), Dante può salire nei cieli.

Trama e struttura del Paradiso

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Dante e Beatrice davanti alla Candida Rosa (Paradiso, canto XXXI), in un'illustrazione di Gustave Dorè

Nel paradiso si conclude il viaggio di Dante. Nel mondo della Commedia, la terra ha forma sferica e occupa il centro del sistema. Sopra la sfera terrestre si trova la sfera del fuoco, che a sua volta è sovrastata da un sistema di nove sfere celesti. Ciascuna di esse è in movimento, è occupata da un pianeta o da una stella ed è abitata da una diversa schiera di angeli. Tutte queste sfere sono circondate dall'Empireo, che è la sede di Dio e che imprime il movimento a tutti gli altri cieli.

L'Empireo è anche la sede delle anime beate: è un cielo spirituale che si trova al di là di quelli fisici. Tuttavia le anime accettano di scendere in uno dei vari cieli per incontrare Dante. Ciascuna anima appare in quello che corrisponde alla sua virtù principale, secondo questo schema:

Cielo Astro Schiera angelica Spiriti Virtù teologali
I cielo Luna Angeli spiriti mancanti ai voti temperanza
II cielo Mercurio Arcangeli spiriti attivi
III cielo Venere Principati spiriti amanti
IV cielo Sole Podestà spiriti sapienti prudenza, fortezza, giustizia
V cielo Marte Virtù spiriti militanti
VI cielo Giove Dominazioni spiriti giudicanti
VII cielo Saturno Troni spiriti contemplativi
VIII cielo Stelle fisse Cherubini
IX cielo Primo Mobile Serafini

Nei primi tre si trovano le anime di quanti hanno praticato la virtù teologale della temperanza e che quindi hanno moderato le passioni. I cieli dal IV al VI ospitano le virtù della prudenza, della fortezza e della giustizia. Nel VII cielo ci sono infine gli spiriti che si sono dedicati alla vita contemplativa. È importante sottolineare che questa distinzione non comporta gradi diversi di beatitudine. Ogni anima occupa la posizione voluta per lei da Dio, e quindi ognuna di esse è appagata in quanto partecipa della volontà divina.

Nel cielo delle Stelle fisse Dante assiste al trionfo di Cristo e di Maria, celebrato da tutti i santi. Deve anche sostenere un esame teologico su fede, speranza e carità condotto dagli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni. Nel cielo del Primo Mobile, il più veloce, Dante vede Dio rappresentato come un punto luminoso, circondato da nove cerchi di luce, che corrispondono alle nove schiere angeliche. Da qui il poeta passa all'Empireo, dove vede le anime come saranno dopo il giudizio universale. Vestite di bianco, siedono in un enorme anfiteatro, la «Candida Rosa», al cui centro c'è un raggio della luce divina riflessa dal Primo Mobile. Un coro di angeli fa la spola da Dio ai gradini della Candida Rosa, distribuendo la grazia divina.

Beatrice torna quindi a occupare il suo posto ed è sostituita da san Bernardo, che prega la Vergine di intercedere per Dante presso Dio. Seguendo la luce divina, il poeta si fonde con Dio e arriva a comprendere i suoi misteri.

Struttura allegorica

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Secondo un procedimento tipico della cultura medievale, la Commedia ha un impianto allegorico. Nel Convivio in particolare Dante distingue due tipi di allegoria:

  • allegoria dei poeti, cioè una menzogna letteraria nata per nascondere la verità;
  • allegoria dei teologi, un evento storico e reale che serve per rivelare la verità.

Quest'ultimo era il modo con cui, nel Medioevo, si interpretavano le Sacre Scritture: esse narrano eventi reali che, nelle intenzioni di Dio, hanno lo scopo di rivelare la verità. Più nello specifico, venivano individuati quattro livelli o sensi:

  • letterale, cioè i fatti;
  • allegorico, cioè le verità dottrinali;
  • morale, cioè gli insegnamenti utili alla condotta dell'uomo;
  • anagogico, cioè il fine superiore e divino verso cui tendere.

Lo stesso Dante precisa che, mentre quella del Convivio e un'allegoria «dei poeti», nella Commedia ricorre all'allegoria «dei teologi». Il poema, in altre parole, deve essere interpretato come la Sacra Scrittura: non è una finzione letteraria ma una realtà storica. Per comprendere questo passaggio bisogna tenere presente la concezione figurale che caratterizza tutto il pensiero cristiano medievale. Gli eventi storici erano considerati in stretta continuità con il piano divino: in questo disegno, ogni avvenimento acquisiva un senso se poteva essere visto come un'anticipazione di qualcosa che sarebbe successo dopo.

Applicando questa concezione alla Commedia, i personaggi storici nella loro vita reale terrena erano la «figura» della loro vita dopo la morte. Se la vita terrena è qualcosa di transitorio e imperfetto, la vita nell'oltretomba è un perfezionamento di ciò che si era prima. Le anime dei personaggi storici incontrati da Dante mantengono il loro carattere anche nell'aldilà, ma questo viene amplificato e vengono resi evidenti i lati fondamentali del loro modo di agire. Quest'ultimo aspetto viene sottolineato anche dal fatto che ciascuna anima è collocata per l'eternità in un ben determinato posto. In questo modo Dante porta, anche nell'aldilà, le passioni che caratterizzano la concreta storicità terrena.[29]

Tecniche narrative

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Virgilio affronta i diavoli nella quinta bolgia dell'ottavo cerchio (Inferno, canto XXI), illustrazione di Gustave Dorè

La Commedia è un'opera narrativa, raccontata in prima persona da Dante (è quindi un racconto autodiegetico). Del poema Dante è allo stesso tempo autore (auctor) e protagonista dell'azione (agens), ed è investito della missione di ammonire i suoi contemporanei riferendo ciò che solo lui, consapevole di questo suo compito, ha avuto il privilegio di vedere.

È importante sottolineare che il Dante auctor non corrisponde con il Dante agens. La narrazione avviene infatti a distanza di tempo dagli avvenimenti, quando l'esperienza è ormai conclusa, e quindi l'auctor ha una conoscenza superiore rispetto all'agens, che invece vive la vicenda nel momento in cui è raccontata. Di conseguenza, il Dante auctor interviene commentando o spiegando gli eventi, facendo anticipazioni e rivolgendosi direttamente al lettore. Talvolta però la focalizzazione si sposta sul personaggio. In questo caso c'è una restrizione del punto di vista: l'agens non sa in anticipo che cosa gli sta per succedere e in certi casi fatica persino a capire gli eventi a cui assiste. Questo produce un effetto di sospensione, che rende la narrazione più dinamica. Il lettore viene così spostato all'interno della narrazione, facendo vivere il sentimento di ricerca che caratterizza il pellegrinaggio di Dante.

Dante però utilizza anche altri espedienti narrativi. Uno di questi è l'adozione di una descrizione dinamica: un quadro o un paesaggio vengono rappresentati fornendo singoli dettagli via via che la narrazione procede. Sono poi presenti narrazioni di secondo grado, con personaggi che, interrogati da Dante o da Virgilio, narrano in prima persona la loro storia. È questo per esempio il caso Ulisse, di Ugolino o di Francesca da Rimini. La realtà vissuta viene quindi narrata, oltre che attraverso molteplici generi, anche attraverso molteplici punti di vista. Tutte queste narrazioni utilizzano la tecnica dello scorcio e dell'ellissi: i personaggi non raccontano per esteso la loro storia, dall'inizio alla fine, ma solo la parte centrale. Questa è una caratteristica del racconto dantesco, che condensa la narrazione in poche battute e in alcuni dettagli significativi, ottenendo risultati di grande intensità.[30]

Spazio e tempo nella Commedia

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Spazio e tempo hanno un particolare significato nella Commedia: corrispondono a elementi reali, ma allo stesso tempo assumono un valore simbolico strettamente collegato all'eccezionale esperienza del poeta. I tre spazi dell'aldilà corrispondono ad altrettante fasi dell'itinerario di Dante verso Dio. La «selva oscura» in cui si trova Dante all'inizio dell'Inferno segna un momento di smarrimento, mentre il colle illuminato dal sole è una speranza di redenzione. Anche i diversi ambienti dell'inferno trovano corrispondenza con i peccati commessi dai dannati. Allo stesso modo, la montagna del purgatorio è un'immagine della vita umana, di chi diventa consapevole delle proprie colpe e inizia un percorso di penitenza. Il paradiso, infine, è un luogo non fisico e rappresenta la condizione dell'anima che, trasfigurata, arriva alla visione di Dio.

Come lo spazio, anche il tempo ha una particolare importanza nella struttura della Commedia. Inferno e paradiso sono inseriti in una dimensione di eternità: i dannati e i beati rimarranno in questa condizione per sempre. Il purgatorio invece, trovandosi su un'isola in mezzo all'oceano, è inserito nel tempo. Anche qui è però sottesa una motivazione teologica: le anime dei penitenti si trovano in una condizione transitoria, che deve essere superata per potere alla fine raggiungere il paradiso.

Dante fornisce poi indicazioni cronologiche molto precise, che conferiscono alla narrazione un valore di realtà. Il tempo del poema è un tempo soggettivo, quello del pellegrino che compie un viaggio alla ricerca di Dio. Tutta la storia si svolge nell'anno 1300, durante il primo Giubileo. Secondo le ipotesi degli interpreti, il viaggio inizia l'8 aprile, Venerdì Santo. La sera del 9 aprile, Sabato Santo, Dante lascia l'inferno e, all'alba di Pasqua, inizia il suo cammino in purgatorio, che termina a mezzogiorno del mercoledì successivo. L'esperienza del paradiso si conclude infine in un unico giorno, giovedì 14 aprile.

Bisogna osservare che le indicazioni cronologiche non creano un contrasto con la dimensione dell'eternità che caratterizza l'oltretomba. Per i medievali, infatti, la realtà è qualcosa di provvisorio, che trova compimento nell'eternità. La storia, intesa come ciò che è temporaneo, rivela il suo vero valore solo dalla prospettiva di ciò che è eterno.[31]

Il plurilinguismo

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Secondo la teoria medievale degli stili enunciata anche nel De vulgari eloquentia, in tutta la Commedia il lessico, lo stile e il registro usati non sono uniformi, ma vengono adattati a ogni situazione, scegliendo per ognuna il più consono; questo procedimento prende il nome di plurilinguismo.

Alla pluralità dei generi e dei punti di vista corrisponde anche una pluralità linguistica. In particolare, la lingua e lo stile si innalzano mano a mano che Dante viaggia dall'inferno al paradiso. Nella prima cantica abbondano i termini bassi e popolari, mentre nel Purgatorio vengono preferite parole più auliche e letterarie. Nel Paradiso, infine, il lessico si innalza ulteriormente, e vengono utilizzati anche latinismi e neologismi.

Tuttavia, all'interno di ciascuna cantica il livello linguistico non è mai uniforme. Nell'Inferno per esempio, quando deve narrare una realtà degradata, Dante utilizza toni aspri e parole scurrili. Non rinuncia però a usare termini elevati quando l'argomento lo richiede, come per esempio nel racconto di Francesca (canto V), dove riprende lo stile della poesia cortese. Non mancano poi espressioni tratte dalla quotidianità oppure dal lessico tecnico. In alcuni passi vengono inoltre usati linguaggi astrusi o inventati, dall'apparenza barbarica (si pensi al celebre «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe» pronunciato da Pluto nel canto VII).

Il linguaggio si eleva nel Purgatorio, anche se non mancano momenti in cui viene utilizzato un lessico più basso oppure più aulico, a seconda dei casi. L'apparizione di Beatrice è infine accompagnata da frasi in latino. Nel Paradiso, con l'acquisizione di una conoscenza sempre più profonda, anche il linguaggio si innalza ulteriormente. Troviamo quindi latinismi, provenzalismi, francesismi e addirittura neologismi di sua invenzione. Quando però si abbandona a violente invettive si ritorna ai toni aspri già incontrati.

Dante persegue questo plurilinguismo in tutta l'opera e inaugura un filone destinato a larga fortuna nella storia della letteratura italiana, e che sarà contrapposto al monolinguismo ispirato alla poesia di Petrarca.[32]

  1. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 89-90.
  2. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 1.
  3. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 90.
  4. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 90-92.
  5. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 2.
  6. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 92.
  7. 7,0 7,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 4.
  8. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 93.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 4-5.
  10. 10,0 10,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 3.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 5-6.
  12. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 94.
  13. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 94-95.
  14. 14,0 14,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 6.
  15. 15,0 15,1 Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 95.
  16. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 5.
  17. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 95-96.
  18. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, pp. 96-97.
  19. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 7.
  20. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 98.
  21. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 99.
  22. 22,0 22,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 8.
  23. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 8-9.
  24. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Mario Zoli e Gilda Sbrilli, Firenze, Bulgarini, 2001, p. 15.
  25. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Mario Zoli e Gilda Sbrilli, Firenze, Bulgarini, 2001, pp. 14-15.
  26. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 11.
  27. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 11-12.
  28. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Mario Zoli e Gilda Sbrilli, Firenze, Bulgarini, 2001, p. 26.
  29. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 12-13.
  30. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 15-17.
  31. Dante Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Mario Zoli e Gilda Sbrilli, Firenze, Bulgarini, 2001, pp. 24-25.
  32. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dante, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 14-15.

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