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Storia della letteratura italiana/Giovanni Boccaccio

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Storia della letteratura italiana

Giovanni Boccaccio è il primo grande narratore italiano e le sue opere sono caratterizzate da un'esplicita consapevolezza teorica. Amico del più vecchio Petrarca e grande studioso di Dante, nella sua vita si impegnò, oltre che nella scrittura, nella costante ricerca e trascrizione di opere classiche. Nella produzione di Boccaccio si possono distinguere le opere della giovinezza (periodo napoletano), della maturità (periodo fiorentino) e della vecchiaia. La sua opera più importante e conosciuta è il Decameron. Il profilo culturale di Boccaccio si delinea in tre filoni fondamentali: la tradizione medievale e i modelli cortesi, l'insegnamento dantesco e gli studi classici.

Andrea del Castagno, Giovanni Boccaccio, particolare del Ciclo degli uomini e donne illustri, affresco, 1450, Galleria degli Uffizi, Firenze

Sulla vita di Boccaccio ci rimane un'autobiografia di dubbia attendibilità: a oggi non si conoscono esattamente né il luogo né la data di nascita. Il padre, Boccaccio di Chellino, era un agente dei Bardi, una potente famiglia di banchieri fiorentini, e per motivi di lavoro soggiornava spesso a Parigi. Fino all'inizio del Novecento si è quindi ipotizzato che quella fosse la città natale dello scrittore. Studi successivi portano invece a supporre che Boccaccio sia nato tra il giugno e il luglio 1313 a Firenze oppure a Certaldo, il borgo della Val d'Elsa da cui proveniva famiglia. Sembra inoltre che fosse figlio illegittimo e che la madre fosse di umili origini.

Riconosciuto dal padre, che nel 1320 si sposerà con Margherita de' Mardoli, trascorre l'infanzia nella casa paterna a Firenze. Qui Boccaccio è allievo di Giovanni Mazzuoli da Strada, padre dell'amico e futuro poeta Zanobi da Strada. Nell'ambiente fiorentino Boccaccio matura una grande passione per la poesia dantesca, scontrandosi con la volontà del padre, che lo avvia agli studi per diventare mercante. Negli anni tra il 1325 e il 1328 si trasferisce a Napoli, dove l'occupazione di commesso al banco dei Bardi sollecita in lui un penetrante spirito di osservazione. La sua formazione umana va arricchendosi tra le esperienze nell'ambiente mercantile e nella corte angioina, a cui può accedere grazie all'amicizia di suo padre con Niccolò Acciaiuoli, una delle personalità più influenti nella Napoli del tempo.

Negli anni trenta Boccaccio, forte della solida condizione economica garantita dal padre, matura la sua vocazione letteraria. È suggestionato dalle esperienze culturali che incontra nella corte angioina, di cui può consultare i volumi della biblioteca: si appassiona alla cultura latina, alla letteratura cortese proveniente dalla Francia, all'erudizione storica. Scrive in latino ma soprattutto in volgare, lavorando a testi per la corte napoletana. Compone La caccia di Diana (forse 1334) e il Filostrato (forse 1335). Dà inoltre forma letteraria alla sua storia d'amore con Fiammetta, protagonista assoluta della sua produzione precedente al Decameron. Per la donna amata, che viene presentata come una figlia del re Roberto, Boccaccio scrive il Filocolo (1336) e a lei dedica il Teseida (forse 1340-1341), il primo poema epico in volgare italiano. Nell'ambiente di corte inventa e diffonde inoltre alcuni miti sulla sua vita e le sue origini.

Nel 1340 torna a Firenze, a causa della crisi dei Bardi e di problemi familiari. Dalla vita gaudente che conduceva a Napoli, Boccaccio piomba nelle ristrettezze economiche. Trascorre comunque brevi periodi lontano dalla città, in cerca di una sistemazione migliore. Compone la Comedia delle ninfe, l'Amorosa visione, l'Elegia di Madonna Fiammetta e il Ninfale fiesolano. Nel 1348 assiste alla peste di Firenze, che ucciderà sia il padre sia la matrigna. La descrizione del morbo sarà alla base del Decameron. Proprio in questi anni, mentre è impegnato ad amministrare i beni di famiglia, Boccaccio lavora alla sua opera più importante, che vedrà la forma definitiva nel 1351.

Intanto, il poeta aveva acquisito prestigio tra i suoi concittadini. Nel 1350 è ambasciatore presso i signori di Romagna, e tra gli altri ha l'incarico di consegnare dieci fiorini d'oro a suor Beatrice, figlia di Dante, come parziale risarcimento per i danni subiti dalla sua famiglia. Nel 1351 la sua carriera diplomatica conosce un'accelerazione. Eletto camerlengo del comune, viene poi inviato a trattare con la regina di Napoli per l'acquisizione di Prato. Tra la fine del 1351 e l'inizio del 1352 è ambasciatore in Tirolo, allo scopo di stipulare un'alleanza con Lodovico di Baviera, marchese di Brandeburgo, contro i Visconti di Milano.

Negli stessi anni approfondisce il suo rapporto con la letteratura, riflettendo sui valori morali della sua condizione di letterato. Decisivo è il suo incontro con Petrarca, verso cui nutre una vera e propria venerazione, tanto da considerarlo il proprio magister. Durante un viaggio verso Roma, in occasione del Giubileo del 1350, Petrarca si ferma a Firenze ed è ospite in casa di Boccaccio. I due si incontreranno nuovamente nella primavera del 1351, nella casa padovana di Petrarca. In quell'occasione Boccaccio portava all'amico l'offerta, poi rifiutata, di assumere una cattedra presso lo Studio di Firenze. In seguito, Boccaccio proverà delusione quando Petrarca accetta l'ospitalità dei Visconti, nemici di Firenze, ma i rapporti tra i due rimarranno comunque buoni.

La casa di Boccaccio a Certaldo

Tra il 1355 e il 1365 Boccaccio è membro dell'ufficio «della condotta». Svolge poi nuove missioni diplomatiche: nel 1354 è ambasciatore ad Avignone presso papa Innocenzo VI; nel 1359 è per un breve periodo in Lombardia, durante una fase di distensione tra Firenze e Milano, e con l'occasione visita la biblioteca di Petrarca; nel 1365 è di nuovo ad Avignone, presso Urbano V; nel 1367 porge, a nome dei fiorentini, gli omaggi allo stesso pontefice, tornato a Roma. Persistono tuttavia le difficoltà economiche seguite alla crisi dei Bardi. Aiutato da Acciaiuoli tenta di tornare a Napoli ma le due esperienze nel regno, nel 1355 e nel 1362, si rivelano infruttuose. Come risultato della sua delusione, 1363 scriverà contro Acciaiuoli un feroce pamphlet. Nel 1355 era intanto morta la figlioletta Violante, una dei vari figli illegittimi che Boccaccio aveva avuto da diverse relazioni.

Continua la corrispondenza con Petrarca, a cui seguono vari incontri durante i quali i due letterati si scambiano volumi di classici. Boccaccio scrive ora opere in latino, in cui riflette con toni moralistici sulle vicende umane. Abbandona così l'idea della letteratura come diletto e inizia a scrivere opere per un pubblico dotto. Influenzato dal pacato cristianesimo dell'amico, dopo il 1350 conosce un rivolgimento spirituale, durante il quale dà ordine all'irrequietezza che aveva caratterizzato i suoi anni giovanili, prende gli ordini minori, diventa chierico e gli viene assegnata una cura d'anime. Dopo il 1360 Petrarca e Boccaccio sono ormai due protagonisti del rinnovamento culturale europeo: la casa di Boccaccio a Firenze diventa un punto di riferimento per gli intellettuali dell'epoca.

Nel 1370 tenta ancora una volta di tornare a Napoli, ma il viaggio si rivela una nuova delusione. Precocemente invecchiato, sofferente di idropisia e scabbia, si dedica a una revisione stilistica del Decameron e al completamento della Genealogia Deorum gentilium, la sua maggiore opera in latino. Nel 1373 viene invitato dal comune di Firenze a tenere una serie di letture pubbliche, con commento, della Commedia di Dante. Muore a Certaldo il 21 dicembre 1375.[1][2]

Opere del periodo napoletano

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Cristoforo Orimina, Re Roberto d'Anjou circondato dai suoi scrivani, miniatura del XIV secolo

Le opere della giovinezza risalgono al periodo compreso tra il 1333 e il 1346. Tra le sue prime opere del periodo napoletano vengono ricordate Filocolo (1336-38), Filostrato (1335), Teseida (1339-1341), Caccia di Diana (1334-1338) e le Rime (la cui composizione avviene in anni diversi).

La caccia di Diana

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Poemetto di 18 canti in terzine, risalente a prima del 1334. Celebra in chiave mitologica alcune gentildonne napoletane. Le ninfe, seguaci della casta Diana, si ribellano alla dea e offrono le loro prede di caccia a Venere, che trasforma gli animali in bellissimi uomini. Tra questi vi è anche il giovane Boccaccio che, grazie all'amore, diviene un uomo pieno di virtù: il poemetto propone, dunque, una concezione cortese e stilnovista dell'amore che ingentilisce e nobilita l'uomo.

Il Filostrato

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Il Filostrato (che alla lettera dovrebbe significare nel greco approssimativo del Boccaccio "vinto d'amore") è un poemetto scritto in ottave che narra la tragica storia di Troilo, figlio del re di Troia Priamo, che si era innamorato della principessa greca Criseida. La donna, in seguito a uno scambio di prigionieri, torna al campo greco, e dimentica Troilo. Quando Criseida in seguito si innamora di Diomede, Troilo si dispera e va incontro alla morte per mano di Achille.

La datazione dell'opera è problematica: alcuni storici la collocano prima del Filocolo, altri alla fine del periodo napoletano.[3] Boccaccio si confronta in maniera diretta con la precedente tradizione dei cantari, fissando i parametri per un nuovo tipo di ottava essenziale per tutta la letteratura italiana fino al Seicento. Il linguaggio adottato è difficile, altolocato, spedito, a differenza di quello presente nel Filocolo, in cui è molto sovrabbondante.

Il Filocolo (che, secondo un'etimologia approssimativa, significa "fatica d'amore") è un romanzo in prosa e rappresenta quindi una svolta rispetto ai romanzi delle origini scritti in versi. Anche in questo caso la datazione non è agevole, ma sembra plausibile che sia stato concluso nel 1336. Boccaccio riprende una materia già trattata dalla tradizione romanza, narrata dapprima in un poemetto francese del XII secolo e poi nel Cantare di Fiorio e Biancifiore, uno dei primi cantari toscani, forse risalente ai primi due decenni del Trecento. Boccaccio però riprende la trama ampliandola sul modello del romanzo alessandrino, moltiplicando le vicende e ricorrendo ad antefatti e digressioni.[3]

La storia ha due protagonisti, Florio, figlio di un re saraceno, e Biancifiore, una schiava cristiana abbandonata da bambina. I due fanciulli crescono assieme e da grandi, in seguito alla lettura dell'Ars Amatoria di Ovidio si innamorano, come era successo per Paolo e Francesca dopo avere letto di Ginevra e Lancillotto. Tuttavia il padre di Florio decide di separarli vendendo Biancifiore a dei mercanti. Florio decide di andarla a cercare e dopo mille peripezie la reincontra. Infine il giovane si converte al cristianesimo e sposa la fanciulla.

Teseida delle nozze d'Emilia

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Il Teseida è un poema epico in ottave in cui si rievocano le gesta di Teseo che combatte contro Tebe e le amazzoni. L'opera, scritta tra il 1339 e il 1340, costituisce il primo caso in assoluto nella letteratura italiana di poema epico in volgare e già si manifesta la tendenza di Boccaccio a isolare nuclei narrativi sentimentali, cosicché il vero centro della narrazione finisce per essere l'amore dei prigionieri tebani Arcita e Palemone, molto amici, per Emilia, regina delle amazzoni e cognata di Teseo; il duello fra i due innamorati si conclude con la morte di Arcita e le nozze tra Palemone ed Emilia.

Opere del periodo fiorentino

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Busto del Boccaccio presso la Chiesa dei Santi Jacopo e Filippo a Certaldo

Nel 1340-1341 Boccaccio lascia la corte napoletana e torna a Firenze. I modi della letteratura cortese a cui si era formato vengono ora adattati alla nuova realtà borghese in cui si trova a vivere e operare.[4]

Comedia delle ninfe fiorentine

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La Comedia delle ninfe fiorentine (o Ninfale d'Ameto) è una narrazione in prosa, inframmezzata da componimenti in terzine cantati da vari personaggi, scritta tra il 1341 e il 1342. Narra la storia di Ameto un rozzo pastore che un giorno incontra delle ninfe devote a Venere e si innamora di una di esse, Lia. Nel giorno della festa di Venere le ninfe si raccolgono intorno al pastore e gli raccontano le loro storie d'amore. Alla fine Ameto è immerso in un bagno purificatore e comprende così il significato allegorico della sua esperienza: le ninfe rappresentano la virtù e l'incontro con esse lo ha trasformato da essere rozzo e animalesco in un uomo.

Amorosa visione

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Si tratta di un poema in terzine suddiviso in cinquanta canti, sul modello dantesco, composto tra il 1342 e il 1343. La narrazione vera e propria è preceduta da un proemio costituito da tre sonetti che, nel loro complesso, formano un immenso acrostico: sono composti da parole le cui lettere (vocali e consonanti) corrispondono ordinatamente e progressivamente alle rispettive lettere iniziali di ciascuna terzina del poema.

La vicenda descrive l'esperienza onirica di Boccaccio che, sotto la guida di una donna gentile giunge a un castello, sulle cui mura sono rappresentate scene allegoriche che vedono protagonisti illustri personaggi del passato. Più in dettaglio in una stanza sono rappresentati i trionfi di Sapienza, Gloria, Amore e Ricchezza, nell'altra quello della Fortuna.

Inevitabile segnalare l'affinità con i pressoché contemporanei Trionfi di Petrarca. Inoltre la precisa descrizione degli affreschi ha permesso ad alcuni critici di identificare il castello boccacciano con Castel Nuovo di Napoli, affrescato da Giotto. Dopo essersi soffermato con sfoggio di erudizione sulle bellezze degli affreschi Boccaccio passa in un giardino dove incontra Madonna Fiammetta e tenta di abusare di lei nel sonno.

Il risveglio tempestivo della donna e il fatto che questa ricordi al poeta il pericolo dell'imminente ritorno della guida prevengono l'attuarsi del gesto. Di lì a poco infatti la "donna gentil" torna affermando che il poeta potrà giungere al pieno possesso dell'amata conducendo una vita improntata ai virtuosi precetti il cui apprendimento era stato scopo essenziale del viaggio.

L'opera ha diversi debiti nei confronti di Dante e della Divina Commedia, soprattutto per quanto riguarda l'esperienza della Visio in somnis e la guida di una "donna gentil", ma va sottolineata anche la forte tendenza all'emancipazione di Boccaccio: mentre Dante segue in tutto e per tutto i dettami di Beatrice, Boccaccio in numerosi casi si ribella al patrocinio della guida, ad esempio nel preferire la via larga della mondanità, con le sue fatue attrattive, a quella stretta e impervia che conduce alla virtù. Il tono sublime contrasta con la comicità di certe situazioni (in primis l'incontro con Fiammetta) cosicché alcuni critici hanno pensato a un intento parodistico da parte di Boccaccio nei confronti del poemetto allegorico didattico.

Elegia di Madonna Fiammetta

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Dante Gabriel Rossetti, Visione di Fiammetta. Andrew Lloyd Webber Collection, 1878

Romanzo in prosa suddiviso in nove capitoli, composto forse tra il 1343 e il 1344. Racconta di una dama napoletana abbandonata e dimenticata dal giovane fiorentino Panfilo. La lontananza di Panfilo le crea grande tormento, accresciuto dal fatto che Fiammetta è sposata e deve nascondere al marito il motivo della sua infelicità. L'opera ha la forma di una lunga lettera, rivolta alle donne innamorate; la lunga confessione della protagonista consente una minuziosa introspezione psicologica. La vicenda è narrata dal punto di vista della donna, un elemento assolutamente innovativo rispetto a una tradizione letteraria nella quale la donna era stata oggetto e non soggetto amoroso: essa non viene più a essere ombra e proiezione della passione dell'uomo ma attrice della vicenda amorosa; vi è, quindi, il passaggio della figura femminile da un ruolo passivo a un ruolo attivo.

Il romanzo racconta di Fiammetta che incontra Panfilo in una chiesa e ne diviene subito amante; segue un periodo felice, interrotto dalla partenza dell'innamorato per Firenze. La vicenda continua con una successione di peripezie: inizialmente viene a sapere che Panfilo si è sposato, per cui si rassegna alla dolorosa verità; la notizia viene smentita e l'eroina scopre che il suo amato è felicemente fidanzato con una fiorentina. Presa allora dalla gelosia tenta di uccidersi, ma la nutrice glielo impedisce. A questo punto Fiammetta tenta di consolarsi rievocando amori infelici di personaggi mitici o storici, solo per scoprirsi più misera e infelice di loro e giungere a una rivendicazione del primato nella sofferenza. Alla fine si viene a sapere di un prossimo ritorno di Panfilo a Napoli, ed ella ritorna a sperare.

Ninfale fiesolano

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Il Ninfale fiesolano è un poemetto eziologico di 473 ottave in cui si raccontano le origini di Fiesole e Firenze, ed è un cordiale omaggio alla città di Firenze. La composizione si colloca probabilmente tra il 1344 e il 1346, poco prima del Decameron. Il giovane pastore Africo, che vive sulle colline di Fiesole coi genitori, sorpresa nei boschi un'adunata delle ninfe di Diana, si innamora di Mensola, che, con le altre ninfe della dea, è obbligata alla castità. Vaga inutilmente a lungo alla sua ricerca. Venere, apparsagli durante il sonno, promette di aiutarlo.

Della sua sofferenza e delle nascoste ragioni di tale sofferenza si accorge il padre di Africo, che con grande affetto lo ammonisce a non cercare le ninfe, ricordandogli con una storia la terribile sorte che colpisce coloro che osano sfidare la dea. Africo e Mensola, però, con uno stratagemma riescono ad amarsi e innamorarsi. La ninfa, resasi conto del suo errore e del rischio in cui stava mettendo se stessa e il suo innamorato, decide di sfuggirgli. Africo, disperato, si uccide e il suo sangue cade nel fiume che poi assumerà il suo nome. La ninfa però è incinta e, nonostante si sia nascosta in una grotta aiutata dalle ninfe più anziane, viene un giorno scoperta da Diana, che la trasforma nell'acqua del fiume che da quel giorno in poi assumerà il suo nome. Il bambino viene invece affidato a una vecchia ninfa che lo consegnerà alla madre del povero pastore. Verrà chiamato Pruneo e sarà il reggitore della città di Fiesole, fondata da Atlante, e il capostipite di una famiglia che sarà destinata a mischiarsi con i cittadini di Firenze.

Con elegante semplicità riprende le cadenze e le formule linguistiche del cantare popolare toscano, a cui sovrappone fitti motivi di derivazione classica, tratti specialmente da Ovidio. Non ci sono né allegorie né l'erudizione che caratterizza le altre opere fiorentine. L'amore e il desiderio sono considerati sentimenti naturali che, per contrasto, fanno apparire barbare le ferree leggi della dea Diana che impone la castità alle ninfe.

Il Decameron

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I protagonisti del Decameron in un dipinto di John William Waterhouse, A Tale from Decameron, 1916, Lady Lever Art Gallery, Liverpool

L'opera maggiore di Boccaccio è il Decameron. Lo scrittore inizia a lavorarvi subito dopo la peste di Firenze del 1348 e lo completa nel 1351. Tuttavia, sembra che molte novelle siano state abbozzate prima del 1348, anche se non è possibile ricostruire le fasi della redazione. Non sono note neanche le modalità con cui il libro fu diffuso. La IV giornata inizia infatti con un'introduzione che sembra rispondere a delle critiche: da qui nasce l'ipotesi che le prime tre giornate fossero state pubblicate a parte, prima che le altre fossero finite. Boccaccio inoltre continuerà a lavorare al testo per tutta la vita, rileggendo e revisionando le novelle. Questo è dimostrato da un importante manoscritto autografo risalente al 1370, conservato nel codice di Berlino Hamilton 1470.[5]

Volto ad alleviare le pene amorose delle fanciulle, il Decameron contiene cento novelle, dieci al giorno per dieci giorni (da qui il titolo, dal greco deka, "dieci", ed hemérai, "giorni"), ognuna introdotta da una rubrica, narrate da dieci giovani rifugiati a Fiesole per sfuggire alla peste di Firenze, che fa da cornice all'intera opera. Per cornice si intende un racconto al cui interno vengono inserite le cento novelle, fornendo loro un contesto. È una forma che Boccaccio riprende dalla tradizione medievale, ma che è rintracciabile anche in altre culture (si pensi alle fiabe arabe delle Mille e una notte).

La cornice del Decameron fornisce una descrizione della peste fiorentina che l'autore ha vissuto in prima persona e da cui è rimasto sconvolto sia per l'orrore della morte sia per il decadimento di tutti i valori civici e morali dei cittadini. L'antitesi di tutto questo si rispecchia nella vicenda della brigata in fuga nella campagna attorno a Firenze, descritta come locus amoenus, simbolo di rinnovamento di tutto ciò che in città si stava perdendo. Così alla confusione fiorentina si contrappone l'ordine, che si esprime nella pianificazione delle giornate e nel "governo" dei re e delle regine che a turno scelgono il tema delle novelle. Il periodo di convivenza, seppur all'insegna del diletto, diviene quindi esemplare sotto il profilo etico e morale. Da qui si comprendono i due fini che l'opera vuole raggiungere: da un lato il dilettevole (ed è il fine più evidente) e dall'altro l'utile.

Il Decameron ha per sottotitolo Prencipe Galeotto, a indicare la funzione che il libro avrà di intermediario tra amanti (così come, nel ciclo bretone, Galeotto aveva aiutato gli amori tra Lancillotto e Ginevra).[6] Il titolo è invece ricalcato dal trattato Hexaemeron di sant'Ambrogio. Il libro narra di un gruppo di giovani (sette femmine e tre maschi) che, durante l'epidemia di peste del 1348, incontratisi nella chiesa di Santa Maria Novella, decidono di rifugiarsi sulle colline presso Firenze. Con loro si spostano anche i servitori. Per due settimane l'«onesta brigata» si intrattiene serenamente con passatempi vari, e in particolare raccontando a turno le novelle. Poiché il venerdì e il sabato non si raccontano novelle, queste sono disposte in un periodo di dieci giorni come indica in greco il titolo dell'opera: Ta tòn deca emeròn biblìa, ossia I libri delle dieci giornate. Quindi il libro è composto da cento novelle narrate dai dieci protagonisti, più una narrata da Boccaccio stesso nell'introduzione alla IV giornata.

I nomi dei dieci giovani protagonisti sono Fiammetta, Filomena, Emilia, Elissa, Lauretta, Neifile, Pampinea, Dioneo, Filostrato e Panfilo. Ogni giornata ha un re o una regina che stabilisce il tema delle novelle; due giornate però, la prima e la nona, sono a tema libero. L'ordine col quale vengono raccontate le novelle durante l'arco della giornata da ciascun giovane è prettamente casuale, a eccezione di Dioneo (il cui nome deriva da Dione, madre della dea Venere), che solitamente narra per ultimo e non necessariamente sul tema scelto dal re o dalla regina della giornata, risultando così come una delle eccezioni che Boccaccio inserisce nel suo progetto così preciso e ordinato.

Contenuto

Riportiamo la suddivisione degli argomenti nelle dieci giornate, così come indicata nel Decameron.

  • I giornata (mercoledì): «sotto il reggimento di Pampinea si ragiona di quello che più aggrada a ciascheduno»;
  • II giornata (giovedì): «sotto il reggimento di Filomena, si ragiona di chi, da diverse cose infestato, sia oltre alla sua speranza riuscito a lieto fine»;
  • III giornata (domenica): «si ragiona, sotto il reggimento di Neifile, di chi alcuna cosa molto da lui desiderata con industria acquistasse o la perduta ricoverasse»;
  • IV giornata (lunedì): «sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine»;
  • V giornata (martedì): «sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse»;
  • VI giornata (mercoledì): «sotto il reggimento d'Elissa, si ragiona chi con alcun leggiadro motto, tentato, si riscotesse, o con pronta risposta o avvedimento fuggì perdita o pericolo o scorno»;
  • VII giornata (giovedì): «sotto il reggimento di Dioneo, si ragiona delle biffe, le quali o per amore o per salvamento di loro le donne hanno già fatte a' suoi mariti, senza essersene avveduti o sì»;
  • VIII giornata (domenica): «sotto il reggimento di Lauretta, si ragiona di quelle beffe che tutto il giorno o donna a uomo o uomo a donna o l'uno uomo all'altro si fanno»;
  • IX giornata (lunedì): «sotto il reggimento d'Emilia, si ragiona ciascuno secondo che gli piace e di quello che più gli aggrada»;
  • X giornata (martedì): «sotto il reggimento di Panfilo, si ragiona di chi liberalmente o vero magnificamente alcuna cosa operasse intorno a' fatti d'amore o d'altra cosa».

Il libro si apre con la terribile descrizione della peste di Firenze, a cui è opposta la vita spensierata dei giovani nel loro ritiro in campagna. Al caos della città viene contrapposto l'ordine istituito dalla brigata. Boccaccio cura con particolare attenzione la struttura del libro, creando una sottile rete di richiami tra le cornici e le novelle, oltre che tra novella e novella. Attraverso un complesso gioco di simmetrie e di echi interni, la narrazione mette ordine a una serie di vicende e di personaggi tra loro contrastanti.[7]

Il Decameron presenta una grande varietà di temi, di ambienti, di personaggi e di toni; si possono individuare come centrali i temi della fortuna, dell'ingegno, della cortesia, dell'amore. Le novelle sono inserite, come si è detto, in una cornice narrativa, di cui costituiscono passi importanti il proemio e l'introduzione alla I giornata, con il racconto della peste, e la conclusione che offre la risposta dell'autore alle numerose critiche che già circolavano sulla sua opera. La sua originalità ha però avuto seguaci nella storia della letteratura, anche europea.

Le donne, l'Amore e la Fortuna

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Nel proemio Boccaccio fornisce una giustificazione della sua opera, definendone lo scopo e i destinatari. Le novelle del Decameron vogliono dare sollievo a chi soffre per pene d'amore, e si rivolge in particolare alle donne «che amano». L'amore a cui si riferisce Boccaccio è ancora una volta l'amore cortese, visto come sentimento nobile ed elevato. La sua è quindi una letteratura dilettevole, che mira al divertimento di un pubblico molto ampio ma allo stesso tempo raffinato. Le donne, in particolare, dalla fortuna hanno avuto minori possibilità di svago. Il richiamo alla fortuna è però anche un riferimento a uno dei temi centrali del libro: la capacità di superare le avversità e di governare la Fortuna.

Per altro verso, il tema dell'amore ritorna in molte novelle, assumendo anche forme licenziose che generarono scandalo in parte del pubblico. Boccaccio tuttavia rivendica il diritto della letteratura a trattare tutti gli aspetti della realtà, senza costrizioni di carattere moralistico. Questo viene affermato sia nell'introduzione alla IV giornata sia nella conclusione dell'opera. La sua è quindi una letteratura laica e mondana, differenziandosi così dalla religiosità che aveva caratterizzato molta parte della letteratura medievale.[8]

La realtà mercantile

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In accordo con l'epoca in cui fu scritto, dove sempre maggior rilievo assumeva il ruolo dei mercanti, nella società del Decameron predominano le capacità personali rispetto alla posizione sociale. Ogni personaggio, anche se di bassa estrazione sociale, può riscattare se stesso con la sua intelligenza e abilità, spesso usate come strumento di affermazione personale: nasce in questo modo la beffa, una storia falsa architettata per raggiungere un'utilità pratica. Ricorrenti sono inoltre i temi del viaggio e dell'avventura e, immancabile, la denuncia della corruzione, della malvagità e dell'ipocrisia del clero, evidenziando come la profonda spiritualità della fede fosse ottenebrata da superstizione, idolatria e falsi miracoli.

Raramente le novelle hanno un'ambientazione puramente fiabesca. La maggior parte sono ambientate nelle contemporaneità dell'autore oppure in epoche storiche ben determinate. Boccaccio presta molta attenzione agli aspetti concreti della vita, come gli affari, l'accumulo di ricchezza, la prudenza negli investimenti e la capacità di ottenere guadagni. Guarda alla realtà senza un atteggiamento moralistico, interessato piuttosto all'intraprendenza umana.

Boccaccio celebra una serie di valori borghesi, che vengono corretti da virtù riprese dal mondo cortese. Ecco quindi che accanto all'industriosità e alla capacità di iniziativa trovano spazio anche la generosità, la passione per la bella vita signorile e altri valori cavallereschi. La nostalgia per il passato cortese non porta però a una contrapposizione tra passato e presente. Viene piuttosto vagheggiata una possibile fusione tra i due mondi, come se la realtà mercantile del Trecento potesse conservare le cortesie del vecchio sistema sociale medievale.

Questo era peraltro il proposito perseguito dalla grande borghesia fiorentina dell'epoca, di cui Boccaccio diventa cantore e interprete. I banchieri e i ricchi mercanti sentivano il fascino per lo stile di vita raffinato dell'età cortese, e cercavano di imitarlo. Allo stesso modo, l'antica nobiltà si era integrata nel nuovo ordine sociale ed economico. La grande borghesia tuttavia, una volta raggiunta una posizione sociale pari a quella dell'aristocrazia, si chiudeva e impediva l'ascesa delle classi subalterne. Anche questa chiusura sociale trova spazio nel Decameron: uomini delle classi inferiori dimostrano di possedere virtù cortesi, ma è completamente esclusa la mescolanza tra i ceti.[9]

Lingua e stile

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Boccaccio interviene direttamente nel testo solo in tre punti: nel proemio, nell'introduzione alla IV giornata e nella conclusione. Nel resto della narrazione segue uno stile puramente oggettivo, evitando le allusioni autobiografiche che avevano caratterizzato la sua produzione precedente.[10] La lingua utilizzata è il volgare fiorentino, a volte affiancato da espressioni di altri dialetti italiani. Il suo modello è però la prosa latina, alla quale cerca di conformare il ritmo della sua prosa in volgare. Stile e registro sono molto vari, tuttavia i più utilizzati sono il comico e il realistico.

Anche Brunetto Latini e Dante avevano seguito la strada della latinizzazione della prosa volgare, costruendo il periodo secondo rigore razionale. Boccaccio invece tenta di unire razionalità e aderenza alle situazioni. Utilizza periodi molto ampi, che descrivono con precisione i diversi aspetti della realtà. È però anche una prosa che si compiace della propria elevazione, e che quindi può descrivere le cose mantenendo sempre un certo distacco. Allo stesso tempo è in grado di fare propri tutti i diversi livelli linguistici, dal sublime a quello più basso e concreto.[11]

Opere della vecchiaia

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Ritratto di Giovanni Boccaccio in tarda età, particolare da un ciclo d'affreschi dell'Antica sede dell'Arte dei Giudici e Notai (Firenze)

Le opere umanistiche in latino

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Negli ultimi due decenni della sua vita Boccaccio di dedica prevalentemente a studi eruditi e umanistici, scrivendo principalmente opere in latino. Tra queste ricordiamo le Bucolicum carmen (1367), una raccolta di sedici ecloghe pastorali ispirate a Petrarca. Sempre in latino sono scritte molte delle Epistole, importanti per comprendere l'interesse di Boccaccio per i classici. Tra i trattati si possono citare invece il De casibus virorum illustrium (1373) e il De claris mulieribus (1362). L'opera principale di questi anni è però De genealogiis deorum gentilium, un'opera di carattere enciclopedico sulla mitologia classica a cui Boccaccio lavora fino alla morte.[12]

Gli studi su Dante

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Molto importanti sono anche i suoi studi su Dante e sulla Commedia, al cui titolo aggiunge la parola Divina. Discutendo con Petrarca, Boccaccio difende il capolavoro dantesco, che addita come l'opera in grado di dare alla letteratura volgare una rilevanza e un livello equiparabili a quelli della letteratura latina. A Dante sono dedicate le Esposizioni sopra la "Commedia", frutto del ciclo di letture pubbliche che Boccaccio tiene a Firenze tra il 1373 e il 1374. L'opera contiene un commento ai primi diciassette canti dell'Inferno. A questo si affianca il Trattatello in laude di Dante, in cui ne ripercorre la biografia e la formazione culturale, poetica e spirituale. Dante diventa qui l'immagine del poeta ideale, che con il suo canto si innalza fino ai livelli raggiunti dai classici.[13]

Il Corbaccio

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Il Corbaccio (o Laberinto d'amore) è stato inizialmente datato tra il 1354 e il 1356, calcolando l'età del protagonista (quindi Boccaccio) basandosi sul passo. Viene cioè effettuato il calcolo della stesura del Corbaccio sommando quarantuno anni (viene aggiunto un anno perché è l'età alla quale non si è più in fasce) all'anno di nascita di Boccaccio. Il filologo Giorgio Padoan però espone diverse e valide critiche al metodo utilizzato per la datazione dell'opera posticipandola al 1365 o 1366, valutando la similitudine con le altre opere di quegli anni, in particolare le Esposizioni sopra la Comedia. Riguardo al titolo, il significato di Corbaccio non è mai stato del tutto chiarito; molti studiosi avvalorano la tesi che possa provenire da corvo, viste le molteplici analogie fra l'animale, che prima mangia gli occhi delle proprie vittime per poi cibarsi del cervello, e l'amore che rende prima ciechi e poi privi di senno.

Si tratta di un breve scritto in prosa volgare, con un'invettiva contro le donne. Il poeta, illuso e rifiutato da una vedova, sogna di giungere in una selva (che richiama il modello dantesco) nella quale gli uomini che sono stati troppo deboli per resistere alle donne vengono trasformati in bestie orribili: il Laberinto d'amore o il Porcile di Venere. Qui incontra il defunto marito della donna che gli ha spezzato il cuore, il quale dopo avergli elencato ogni sorta di difetto femminile, lo spinge ad allontanare ogni suo pensiero dalle donne lasciando più spazio ai suoi studi, che invece innalzano lo spirito.

Questa satira si basa in particolare sulla concezione medievale, e tutto il pensiero giovanile di Boccaccio viene capovolto. Soprattutto nel Decameron, infatti, l'amore era visto come forza positiva e incontrastabile e le opere del periodo napoletano e fiorentino erano dedicate proprio alle donne, un pubblico non letterato da allietare con opere gradevoli; ora invece l'amore è visto come causa di degrado e le donne sono respinte in nome delle Muse, emblema di una letteratura più elevata e austera. Questo capovolgimento è da attribuire in particolar modo ai turbamenti religiosi di Boccaccio negli ultimi periodi della sua vita e il trasporto maggiore che ebbe per una letteratura di alto livello, i cui destinatari non potevano che essere esclusivamente dotti.

  1. Cronologia in Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1989, pp. XLIX-LIX.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 162-165.
  3. 3,0 3,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 167.
  4. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 168.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 171.
  6. Giovanni Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1989, p. 917.
  7. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 176.
  8. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Petrarca e Boccaccio, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 83.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Petrarca e Boccaccio, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 84-85.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 172.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 179-180.
  12. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Petrarca e Boccaccio, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 92.
  13. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Petrarca e Boccaccio, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 93.

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