Biografie cristologiche/Gesù ed Ebraismo
La fede in Gesù quale il Cristo — il Messia — separa la chiesa dalla sinagoga, i cristiani dagli ebrei. Non è la sola distinzione, ma è quella basilare. Per i cristiani, l'affermazione che Gesù è la via, la verità e la vita, è ovvia: è comprovata dalla sua risurrezione, confermata dalla Bibbia e sentita dall'anima. Per gli ebrei, affermazioni che Gesù è figlio di Dio (in senso stretto; in senso lato, siamo tutti figli di Dio) e che realizza le profezie messianiche sono false. Poiché viviamo in un mondo di cancri e AIDS, guerre e genocidi, terremoti e uragani, l'età messianica non è ancora giunta. Dato che non c'è età messianica, ovviamente il messia non è ancora arrivato. "Come si fa a credere in Gesù?" si chiedono gli ebrei, mentre i cristiani si stupiscono "Come si fa a non credere in Gesù?" Quello che è evidente all'uno è incomprensibile all'altro.[1]
Le differenze tra ebrei e cristiani derivano non solo da differenti Sacre Scritture, memorie storiche, ed esperienze vissute; ma derivano anche da credenze, dalla fede. I cristiani "credono" in Gesù perché Gesù riempie i loro cuori e le loro anime. In termini cristiani, la fede proviene dalla "grazia". Una volta ottenuta la fede, poi le varie argomentazioni dalla Bibbia, dalla natura o dalla testimonianza personale in merito all'autorità di Gesù servono ad incrementare tale fede. In altre parole, la fede è come l'amore: non può essere costretto, obbligato. Non poggia su un argomento logico o prova storica.[1]
Lo stesso ragionamento vale per l'Ebraismo. Per gli ebrei, il sistema è completo: non c'è bisogno di un Nuovo Testamento, poiché la Torah e le sue interpretazioni nell'ambito della comunità ebraica già offrono rivelazione del divino. Sebbene l'analogia sia un po' stiracchiata, la Torah funziona nella sinagoga come Gesù funziona nella chiesa: è la "parola" del divino presente nella congregazione. Pertanto chiedere agli ebrei perché non credano in Gesù è equivalente a chiedere ai cristiani perché non seguano Maometto. Per gli ebrei, Gesù è superfluo o ridondante; non è necessario per salvare dal peccato o dalla morte, poiché l'Ebraismo proclama una divinità pronta a perdonare i peccatori penitenti e asserisce che "tutto Israele ha una porzione del mondo a venire" (Mishnah Sanhedrin 10:1). E tuttavia alcuni ebrei si convertono al Cristianesimo, e alcuni cristiani si convertono all'Ebraismo. Di nuovo, la conversione non è una questione di quale insegnamento sia "migliore" o "vero" in un qualche senso oggettivo; è indotta da quell'insegnamento che fornisce il miglior senso personale di verità e adempimento al singolo individuo.[2]
Tuttavia l'accordo si può certamente riscontrare nella connessione di Gesù all'Ebraismo.[1]
Contesto e contenuto
[modifica | modifica sorgente]Il fatto che Gesù fosse ebreo non è stato ignorato. Biblioteche e librerie sono colme di volumi che hanno titoli del tipo Gesù l'ebreo, L'ebraicità di Gesù, Gesù e il mondo dell'Ebraismo, La religione di Gesù l'ebreo, Gesù nel suo contesto ebraico e i cinque volumi di John Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico.[1] Il punto è più di una semplice osservazione storica. Numerose chiese oggi riconoscono la propria connessione intima con l'Ebraismo: connessioni apportate da Scrittura, storia, teologia e, come sostiene Paolo, Cristo "secondo la carne" (Rm 9:5). Ciò nondimeno, quando si arriva all'inginocchiatoio, al pulpito, e spesso all'aula, anche quando la congregazione cristiana, i ministri ed i professori riconoscono che Gesù era ebreo, spesso non ne forniscono i relativi contenuti. L'affermazione che "Gesù era ebreo" può certo essere vera, ma non è centrale nell'insegnamento della chiesa.[1]
Il Credo niceno, composto nel IV secolo, proclama: [3]
Il Credo degli Apostoli,[4] appena precedente, riconosce
Da una parte, i credi non parlano degli "ebrei" quali responsabili della morte di Gesù; egli "patì sotto" e "fu crocifisso... sotto" Ponzio Pilato. Dall'altra, i credi non citano per niente l'ebraismo di Gesù. Con l'enfasi di alcune chiese su Gesù figlio divino, la croce, la risurrezione, e il ruolo redentivo di salvare l'umanità dal peccato e dalla morte, la sua connessione storica con l'Ebraismo si perde insieme al suo messaggio molto ebraico del regno dei cieli.[5] Il problema è più complesso della semplice omissione. Nell'immaginazione popolare cristiana, Gesù ancora rimane definito, incorrettamente e sfortunatamente, come se fosse "contro" la Legge, o almeno contro a come era interpretata a quel tempo; "contro" il Tempio quale istituzione e non semplicemente contro i sacerdoti del primo secolo; "contro" il popolo di Israele ma a favore dei Gentili (nonostante spesso affermi che sia "venuto per gli ebrei e non per i gentili").[6] Gesù diventa un ribelle che, a differenza di tutti gli altri ebrei, pratica la giustizia sociale. È il solo che parla alle donne; è il solo che si preoccupa dei "poveri e degli emarginati" (frase che diventa una litania in alcuni circoli cristiani). In tali interpretazioni l'Ebraismo diventa un fattore negativo: Gesù sta all'angolo opposto dell'Ebraismo; se Gesù sta contro qualcosa, quella cosa è l'Ebraismo. Non c'è quindi da meravigliarsi se ancor oggi Gesù sembri alquanto "differente" dagli "ebrei": nei film e nelle rappresentazioni artistiche, è biondo con gli occhi azzurri, mentre "gli ebrei" sono scuri e olivastri; è gagliardo e prestante, mentre "gli ebrei" hanno bisogno di plastica nasale e di Pilates. Gesù ed i suoi seguaci, tipo Pietro e Maria Maddalena, vengono identificati come (proto-)cristiani; solo quelli che scelgono di non seguirlo rimangono "ebrei".[1]
Questo voler separare Gesù dall'Ebraismo crea un danno a ciascuno testualmente, teologicamente, storicamente ed eticamente. Per prima cosa, la separazione taglia i collegamenti della chiesa con le Scritture di Israele — con quello che viene chiamato Antico Testamento (cfr. Cap. XII, "Canoni e pratiche"). Poiché Gesù ed i suoi primi seguaci erano tutti ebrei, essi ritenevano sacri la Torah ed i Profeti, pregavano coi Salmi, e celebravano il coraggio di Ester e la fedeltà di Rut. Per capire Gesù, uno deve avere familiarità con le Scritture che lo formarono (o, come insistono alcuni cristiani, che egli stesso scrisse/ispirò). Per seconda cosa, l'insistenza sull'identità ebraica di Gesù rinforza la credenza che egli fosse pienamente umano, ancorato in un tempo e luogo storici. Questa connessione viene chiamata "scandalo della particolarità":[7] la chiesa non solo proclama che il divino prese forma umana, ma anche che prese tale forma in un particolare scenario tra un particolare popolo. La chiesa afferma che la divinità prese corpo umano — si "incarnò" — in Gesù di Nazaret. Pertanto tempo e luogo hanno importanza. Il Cristianesimo segue Gesù di Nazaret, non Gesù di Torino, o Gesù di Parigi; l'incarnazione risale al primo secolo dell'era volgare, e non al XXI secolo. Inoltre, la tradizione ebraica in cui nacque Gesù e la tradizione cristiana che si sviluppò a nome suo, erano "religioni storiche", cioè i rispettivi eventi fondamentali accaddero nella storia e sulla Terra, piuttosto che in un qualche tempo mitico o luogo mitico; hanno un punto di partenza ed una visione del futuro. Ignorare la storia, ignorare tempo e luogo, è come tradire sia l'Ebraismo che il Cristianesimo.[8]
Storicamente, Gesù dovrebbe essere visto come una continuazione della linea degli insegnanti e profeti ebraici, dato che con loro condivide una visione particolare del mondo ed una particolare maniera di esprimere tale visione. Come Amos ed Isaia, Osea e Geremia, egli faceva discorsi suggestivi, rischiando una persecuzione politica, e capovolgeva i valori famigliari tradizionali onde poter proclamare quello che egli credeva Dio volesse, che la Torah insegnasse, e che Israele dovesse eseguire. Questo collegamento storico non deve precludere o offuscare, negli insegnamenti cristiani, il ruolo di Gesù nel piano divino. Deve, secondo la tradizione cristiana, essere ben più di un eccellente maestro ebreo. Ma ciò nondimeno, deve pur essere anche tale maestro ebreo.[1]
Inoltre, Gesù doveva aver senso nel proprio contesto, ed il suo contesto sono la Galilea e la Giudea. Gesù non può essere compreso completamente a meno che non venga compreso attraverso gli occhi e le orecchie degli ebrei del primo secolo. Le parabole sono prodotti della cultura ebraica del primo secolo, e non della nostra attuale; le guarigioni furono valutate secondo quella concezione del mondo, e non secondo la nostra; i dibattiti su come seguire la Torah avvennero nell'ambito di quella serie di parametri giuridici e forme discorsive, non della nostra. Per capire l'impatto di Gesù nel suo ambiente — perché alcuni scelsero di seguirlo e altri lo rifiutarono, e altri ancora cercarono la sua morte — richiede una comprensione di tale ambiente. Se oggigiorno abbiamo difficoltà a capire come i nostri nonni potessero funzionare senza Internet e cellulari, per non parlare della televisione, come possiamo supporre di capire la visione del mondo di Gesù e dei suoi contemporanei senza chiedere alcune domande storiche? Quando Gesù è collocato nel mondo dell'Ebraismo, le implicazioni etiche dei suoi insegnamenti assumono un rinnovato e accresciuto significato; la loro forza è ripristinata e il loro incitamento intensificato. Sia ebrei che cristiani dovrebbero essere in grado di accettare oggi una quantità di questi insegnamenti, proprio come nel primo secolo i seguaci di Gesù e anche quegli ebrei che scelsero di non seguirlo avrebbero accettato certe asserzioni basilari come quella che Dio è nostro padre, o che il suo nome deve essere santificato, e che il regno divino è qualcosa che si deve ambire ardentemente. Al contrario, l'incapacità di capire il Gesù ebreo nel suo contesto ebraico ha prodotto e perpetuato duemila anni di diffidenza, e peggio ancora, tra chiesa e sinagoga.[9]
Comprendere la Torah
[modifica | modifica sorgente]I nessi di Gesù con gli insegnamenti ebraici di base sono centrati. Marco 12:28-30 racconta che una scriba (ebreo esperto nell'interpretazione della Torah) sentì Gesù che predicava e, vedendo che le sue risposte erano giuste, gli domandò: "Qual è il primo di tutti i comandamenti?", e Gesù rispose: "Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi." Lo scriba conferma la risposta di Gesù: "Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici." La stessa storia, con dettagli differenti, appare in Matteo 22:34-40 e Luca 10:25-28.
Questo "Grande Comandamento", come lo definisce Matteo, è una combinazione di Deuteronomio 6:4-5 e Levitico 19:18. La prima lettura, chiamata Shema (dalla sua prima parola, "Ascolta!") è una delle partri più importanti della liturgia sinagogale. I versetti successivi di Deuteronomio esortano il popolo:
Le ingiunzioni vennero prese alla lettera: le grotte di Qumran — e quindi la comunità associata coi manoscritti del Mar Morto, comunità contemporanea di Gesù — hanno fornito esempi proprio di tali "segni" legati sulla mano e sulla fronte. Chiamati in ebraico tefillin o, dal greco, filatteri, sono scatolette che contengono piccoli rotoli su cui sono scritti Deuteronomio 6:4-9 ed Esodo 13:1-10; 13:11-16 e Duteronomio 11:13-21; le scatolette sono attaccate a lacci di cuoio ed indossati dagli uomini ebrei durante il culto (il Talmud babilonese Eruvin 96a riporta che i tefillin erano indossati anche dalle donne). Oggigiorno, alcune donne ebree li indossano insieme agli uomini.[10]
Le parole del Deuteronomio sono rinforzate anche dall'interpretazione letterale di "li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte." Questa è l'origine della mezuzah (ebr. "stipite"), una pergamena con le parole di Deuteronomio 6:4-9 e 11:13-21, posta dentro un contenitore e poi affissa alla porta di casa. Flavio Giuseppe, giovane contemporaneo di Gesù i cui scritti forniscono importanti informazioni sulla vita ebraica del primo secolo, nelle sue Antichità giudaiche afferma: "[Gli ebrei] inoltre iscrivono le benedizioni principali ricevute da Dio sulle loro porte" (4.8.13). Delle mezuzot (plur.) sono state rinvenute anche a Qumran, sebbene con differenti passi scritturali.[10]
Nonostante queste connessioni, la versione di Marco della citazione estratta da Deuteronomio non è presa direttamente dall'ebraico. Deuteronomio parla di amare Dio "con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza"; la citazione del Vangelo cambia "forza" in "mente" e aggiunge un'altra componente, "forze": "con tutto il tuo cuore, la tua anima, la tua mente e le tue forze!" Il lieve spostamento e l'aggiunta possono benissimo essere state dette da Gesù stesso, oppure possono essere stati adattamenti di Marco per il suo pubblico di lingua greca, basandosi su una versione greca alternativa del passo.
Anche il secondo punto, "Amerai il prossimo tuo come te stesso", è un versetto centrale del pensiero ebraico. Il grande Rabbi Akiva, che visse un secolo dopo Gesù, si dice abbia dichiarato: "Ama il tuo prossimo come te stesso — questo è il maggior principio della Torah" (Talmud gerosolimitano Nedarim 9:4). La combinazione dell'amore di Dio e l'amore del prossimo in verità appare in altri libri sin dal primo Ebraismo, come il Testamento di Dan (Ama il Signore con tutta la tua vita, e il prossimo con cuore sincero", 5:3) ed il Testamento di Issachar ("Amai il Signore con tutta la mia forza; parimenti, amai ogni uomo con tutto il mio cuore", 5:2).
Gesù non ha bisogno di essere sempre originale per essere profondo.[1]
Il suo collegamento con l'insegnamento ebraico basilare continua. Secondo il Talmud babilonese, commentario della Mishnah del sesto secolo, un potenziale convertito una volta chiese a Rabbi Hillel, uno dei più rinomati maestri ebrei, "Insegnami la Torah, cioè insegnami tutte le tue tradizioni, valori, pratiche e teologia, al regel achat (stando eretto su un solo piede)" (Shabbat 31a). Hillel saggiamente rispose: "Ciò che ti è odioso, non farlo al tuo prossimo. Tutta il resto è commentario; vai ed impara." Alcuni decenni dopo, anche Gesù istruiva i suoi seguaci dicendo: "Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro." Il collegamento della sintesi che Hillel fa degli insegnamenti dell'Ebraismo viene rinforzato dal successivo commento di Gesù: "questa infatti è la Legge ed i Profeti" (Mt. 7:12).
Cristiani ed ebrei occasionalmente dibattono su quale sia la formulazione migliore, la versione negativa proposta da Hillel, o quella positiva offerta da Gesù. La versione negativa potrebbe essere incolpata di promuovere un posizione passiva o almeno non proattiva, mentre la versione positiva esorta all'azione. La positiva potrebbe essere considerata promuovere una forma egocentrica di azione che non considera i bisogni distinti e le esigenze dell'altro. Ma le argomentazioni all fine non sono né accurate né utili. Hillel certo non limitava la sua interpretazione della Torah solo a questa frase, e la tradizione ebraica nel suo complesso richiede un impegno proattivo. Gesù, da parte sua, non parla certo di costringere le vedute dell'uno sull'altro. A fin dei conti, sebbene i filosofi che desiderano estrarre queste due dichiarazioni dal loro rispettivo contesto vogliano dibattere i benefici e/o debiti di ciascuno dei due, la discussione su basi religiose tende a cadere nella retorica de "Il mio insegnante è meglio del tuo." Tale approccio non dimostra affatto amore di Dio o del prossimo. Forse, se chiesa e sinagoga la smettessero di discutere chi abbia meglio formulato la Regola d'Oro — che non è per niente limitata solo a Gesù e Hillel — e cominciassero a seguirla, sarebbe meglio per tutti.[11]
La connessione di Gesù all'Ebraismo può essere vista non solo nei suoi commenti generali sulla Torah, ma anche nella sua pratica dei comandamenti. Per esempio, Gesù si veste da ebreo. Specificamente, indossa tzitzit, "frange", che Numeri esorta tutti gli uomini a portare (e che molti ebrei ortodossi portano tutt'oggi) e che possono essere visti correntemente attaccati al talled, o "scialle di preghiera", indossato in sinagoga durante il culto. Numeri 15:37-40 riporta:
Le frange fanno ricordare a chi le indossa i 613 "comandamenti", o mitzvot (plur. dell'ebraico mitzvah), un po' come il rosario ha un carattere contemplativo per i cattolici. I Vangeli non mancano di affermare che Gesù indossava tali frange: sono queste frange che l'emorroissa tocca nella speranza di essere guarita (Matteo 9:20). Similmente, Marco 6:56 riporta:
Il fatto che Gesù, secondo Matteo 23:5, critichi i Farisei e gli scribi perché "allargano i loro filattèri e allungano le frange" implica che i suoi filatteri erano stretti e le sue frange più corte. Gesù pertanto non respinge la Torah ma anzi, "ne va fiero" - per dirlo in italiano moderno, "la porta sul palmo della mano".[11]
La menzione della frange ha un risultato pratico per i cristiani. La conservazione nei Vangeli di questo particolare indica che l'Antico Testamento deve essere riconosciuto come ben più di una semplice anticipazione dell'arrivo del messia, dopodiché possa essere scartato o, con più rispetto, messo in cantina con altre anticaglie, da conservare ma non usare. Mantenendo il dettaglio che Gesù portava le frange, il Nuovo Testamento ammonisce che si preservi il rispetto delle tradizioni ebraiche e che le pratiche ebraiche proprie di Gesù siano onorate, anche dalla chiesa gentile, che non le segue.[10]
Non solo Gesù si veste come un ebreo; ma mangia anche come un ebreo. Osserva il kasherut, cioè osserva i requisiti alimentari stabiliti dalla Torah. Levitico 11:3 (e cfr. Deut. 14:4-8) è esplicito circa quali animali è permesso consumare: "ogni quadrupede che ha l'unghia bipartita, divisa da una fessura, e che rumina"; quindi il maiale, il cammello, il tasso e la lepre non sono kosher. Gesù non avrebbe mai mangiato un panino col salame. Tra l'altro, non ce n'era molta occasione — indagini archeologiche hanno rinvenuto pochissime ossa di maiale in Galilea.[10] Il solo contatto che Gesù ha con maiali è descritto in forma completa in Marco 5:1-20, ne "l'indemoniato garaseno". Dopo la loro cacciata fuori da un uomo posseduto, un gruppo di demoni così numeroso che l'indemoniato si descrive "Mi chiamo Legione, perché siamo in molti", chiede a Gesù di mandarli in un branco di porci. Gesù accetta, "e gli spiriti immondi uscirono ed entrarono nei porci e il branco si precipitò dal burrone nel mare; erano circa duemila e affogarono uno dopo l'altro nel mare." La narrazione di Marco anticipa la missione ai Gentili, poiché la città di Gerasa, dove si svolge la storia, fa parte della Decapoli, lega di dieci città prevalentemente gentili, e la presenza dei maiali è una non velata allusione alla composizione non ebraica della popolazione.[6] La storia inoltre dà una forte picconata politica a Roma, dato che gli "spiriti immondi" si identificano come "Legione", termine latino ad indicare l'unità militare di base dell'esercito romano. Ma quanto all'identità ebraica di Gesù, né lui né i suoi associati avrebbero certo rimpianto la perdita di un branco di porci, animali che non sono kosher e rappresentano una notevole spesa, poiché il loro allevamento è alquanto costoso e non viene ammortizzato dal ricavato della carne da loro prodotta.[1]
C'è un versetto, Marco 7:19, in cui Gesù dichiara tutto il cibo puro, ma è un commento redazionale di Marco stesso e non ciò che Gesù disse veramente.[12] Molte versioni della Bibbia inseriscono quella riga tra parentesi ad indicare la sua natura redazionale (se le parentesi fossero state inventate al tempo di Marco, forse egli stesso le avrebbe messe).[11] Se Gesù avesse dichiarato puri tutti i cibi, la storia che Luca racconta in Atti 10 non avrebbe senso. Ospite a casa di Simone, un conciatore, Pietro va sul tetto verso mezzogiorno per pregare:
Il procedimento della concia richiedeva urina bollita, cosicché la visione di Pietro di cibi poco desiderabili e la sua esitazione nel mangiarli è comprensibile, dati gli olezzi che gli pervenivano dal basso, dalla conceria puzzolente di Simone; ciò nondimeno, il punto della storia è che Pietro credeva che le regole alimentari fossero ancora valide.[12]
Atti 15 — la descrizione del concilio degli anziani del gruppo riunitosi a nome di Gesù per determinare se i Gentili della chiesa dovessero essere circoncisi e "osservare la legge di Mosè" (15:5) — similmente presume che almeno i membri ebrei seguissero le regole alimentari. Non ci sarebbe stato alcun motivo per dibattere se i Gentili della chiesa dovevano osservare il kasherut, qualora i membri ebrei avessero fatto cena con gamberi (proibiti, come tutti i crostacei) e pancetta! Uno dei dibattiti più intensi della prima chiesa non fu se gli ebrei che seguivano Gesù dovessero osservare il kasherut, ma se i Gentili che lo seguivano dovessero fare lo stesso. La conclusione fu che non dovevano, poiché i comandamenti dati a Mosé sul Sinai erano diretti al popolo ebraico, non ai Gentili.[1][12]
Infine, se Gesù avesse dichiarato che tutto il cibo era puro, il disaccordo tra Pietro e Paolo alla tavola del convivio in Galati 2 non avrebbe avuto senso. Nel modo in cui Paolo ricorda la scena, Pietro "mangiava con i gentili." Ma dopo che alcuni emissari erano venuti da parte di Giacomo, capo della branca di Gerusalemme, "egli cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei circoncisi. E anche gli altri Giudei lo imitarono nella simulazione, al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocrisia" (2:12-13). Paolo ricorda di aver contestato Pietro, ma chi vinse la partita non è registrato (il silenzio di Paolo sul risultato implica che questo non fosse di suo gusto). Per i cristiani, il punto pratico espresso da questi particolari delle osservanze alimentari di Gesù è che egli, come anche i suoi compatrioti ebrei che seguivano le regole alimentari, era vincolato all'idea della santificazione del corpo; prestava attenzione a quello che ingeriva e a quello che espelleva. Sebbene amasse mangiare e bere (da cui l'accusa che egli fosse "un un mangione e un beone" di Mt 11:19), lo faceva con il rispetto delle tradizioni alimentari del suo popolo.[12]
Gesù osservava i comandamenti (mitzvot) dati a Mosè sul Monte Sinai, nel modo in cui li interpretava. Di conseguenza, rifiutava l'interpretazione di quei comandamenti data da maestri rivali. Per esempio, non sarebbe stato d'accordo con gli Esseni di Qumran che il miglior modo di praticare gli insegnamenti della Torah fosse quello di ritirarsi dalla società e vivere nel deserto.[13] Quanto Gesù fosse d'accordo con i "rabbini" — cioè con gli insegnamenti riportati dalla Mishnah (codificata verso il 200 ca., ma con materiale anche molto precedente) e dal Talmud (commentario della Mishnah che include aneddoti, parabole, lunghe discussioni e altro materiale giuridico molto antico; il Talmud babilonese su cui la tradizione ebraica infine si basò, venne completato nel 600 ca. — è una materia molto più complessa. Sebbene numerosi commentari del Nuovo Testamento paragonino le parole di Gesù a qualche testo della tradizione rabbinica, il paragone crea sempre dei problemi relativi all'accuratezza e alla datazione. Non sappiamo quanto materiale dei Vangeli fosse veramente enunciato da Gesù stesso, in contrasto con l'essere una produzione della tradizione orale della chiesa o proveniente dagli evangelisti stessi. Similmente, non possiamo essere certi che il materiale rabbinico attribuito ad un particolare maestro non venne veramente enunciato da quel maestro.[1]
Né possiamo essere sicuri della date del materiale rabbinico — il Talmud facilmente fa discorrere insieme maestri che erano vissuti in diversi secoli o a centinaia di chilometri di distanza tra loro. Pertanto, paragonare le parole di Gesù a dichiarazioni del Talmud sarebbe come paragonare una dichiarazione del primo secolo fatta in Galilea ad una dichiarazione del quinto secolo fatta nella capitale di Babilonia. Ipotizzare che tutti i giudizi rabbinici risalgano al primo secolo e, per di più, che predatino la distruzione del Tempio nel 70, è un atto di fede e non storia. Paragone migliore dei documenti rabbinici non sono i Vangeli, ma piuttosto gli scritti dei Padri della Chiesa, da Ignazio a Ireneo a Cipriano ad Agostino a Girolamo e a tutti gli altri nel frammezzo.[14] Né tra l'altro tutte le dichiarazioni rabbiniche sono consistenti, poiché i testi legali registrano sia le opinioni maggioritarie sia quelle minoritarie. Infine, la letteratura rabbinica giuridica forma il mondo ideale dei rabbini: è la loro visione di quello che dovrebbe essere, non di quello che è.[15]
Il materiale giuridico rabbinico a volte viene chiamato "Legge orale" a causa degli insegnamenti dati a Mosè sul Monte Sinai quali commentari della Torah scritta. Il Pirke Avot, trattato mishnaico che offre un compendio dei grandi insegnamenti rabbinici, inizia con una descrizione di come fu trasmessa la Legge orale: "Mosè ricevette la Legge [orale] sul Sinai, e la passò a Giosué, e Giosué agli anziani, e gli anziani ai profeti, ed i profeti agli uomini della Grande Sinagoga,..." e così via fino a Hillel ed il suo rivale, Rabbi Shammai, e poi a Giuda il Principe. Inevitabilmente, la "Legge orale" fu messa giù per iscritto, ma l'appellativo "orale" è rimasto. Secondo la tradizione rabbinica, la Tora orale e scritta funzionano insieme. Per esempio, i testi rabbinici spiegano come si devono praticare i comandamenti della Torah scritta. Gli insegnamenti non solo sono utili, ma sono anche necessari, poiché Levitico e Deuteronomio non hanno allegati i rispettivi manuali d'istruzione sucome implementare le loro leggi e statuti. La Torah afferma che uno deve affiggere le parole della Torah sui propri stipiti e porte; la Legge orale spiega quali parole e come debbano essere affisse.[16]
Ritornando a Gesù, è stato affermato che Gesù rifiutò la "Legge orale", o la "Torah orale", le interpretazioni della Torah che infine trovarono il loro posto nella Mishnah e nel Talmud. Pertanto, egli dissentiva da ciò che la maggioranza degli ebrei nel primo secolo reputavano un'osservanza giusta e fedele della tradizione. Lo studioso David Klinghoffer articola questo argomento in maniera chiara, sostenendo che "non c'era da sorprendersi che alcuni ebrei del tempo scegliessero di confrontarsi e dibattere con Gesù, poiché egli intenzionalmente rigetta la tradizione orale, non per ignoranza ma per convinzione."[17] Il problema di questa opinione è che la Legge orale stessa è variabile; nemmeno tutti i rabbini erano d'accordo tra di loro. La storia di Rabbi Hillel e del potenziale convertito è in realtà la seconda parte di un aneddoto che inizia con la visita di tale convertito a Shammai. Venendogli chiesto di riassumere la Torah stando su un piede solo, Shammai invece lo picchiò con un bastone. La storia, raccontata da quei rabbini che si reputavano eredi di Hillel, perlomeno riconosceva l'opinione rivale. Come dice l'interpretazione talmudica, anch'essa scritta dai sostenitori di Hillel: "Un voce dal cielo dichiarò, «Le parole di entrambe le scuole [di Hillel e di Shammai] sono parlo del Dio vivente, ma la Legge segue i giudizi della scuola di Hillel»" (Eruvin 13b).
Anche se si dovesse accettare l'asserzione altamente contestata che la Legge orale, alla fine messa per iscritto nella Mishnah circa duecento anni dopo la morte di Gesù, fosse già disponibile al tempo di Gesù, ciò comunque non significa che Gesù non stesse al passo coi suoi compatrioti ebrei, inclusi quelli che accettavano la tradizione rabbinica nella maggioranza delle osservanze. In verità, non esiste indicazione che Gesù avesse un'interpretazione sistematica della Torah. Non discuteva, come invece facevano i rabbini, le varie distinzioni del diritto civile con altri saggi rabbinici. Piuttosto, i Vangeli implicano che egli rispondesse a domande fattegli, sia in specifiche circostanze ("È lecito guarire di sabato?") o da coloro che cercavano di imparare da lui o di metterlo alla prova ("Qual è il più grande comandamento della legge?").[18] Gesù quindi non fa parte della tradizione rabbinica né è ad essa chiaramente antitetico. In alcuni casi sarebbe stato d'accordo con le vedute maggioritarie; in altri casi sarebbe stato dalla parte della minoranza; e in pochi casi, come quello dove proibisce il divorzio, sarebbe stato del tutto opposto (in questo caso Gesù è dalla parte conservatrice e non da quella liberale).[1]
Gesù si aspettava di essere contestato, ed egli stesso contestava. Il fatto che fosse disposto ad impegnarsi in discussioni su come osservare i comandamenti dimostra che li reputava importanti, molto importanti. Nei suoi insegnamenti, egli dimostra enorme rispetto per i mitzvot, i comandamenti, tanto che dibatte come debbano essere meglio interpretati e attuati. Per esempio, Gesù "onora il sabato e lo santifica", come richiede uno dei comandamenti. Il sabato è condiviso da ebrei e cristiani, sebbene le chiese (con alcune eccezioni, tipo gli Avventisti del Settimo Giorno) e le sinagoghe lo celebrino in giorni differenti e per differenti ragioni. L'Ebraismo celebra lo Shabbat (ebr.) o Shabbos (yiddish, la lingua degli Aschenaziti, o ebrei dell'Europa orientale), primo perché è il giorno benedetto da Dio alla conclusione della creazione:
Il Libro del Deuteronomio fornisce la seconda ragione per onorare il sabato: Shabbos garantisce che Israele non sarà mai più asservito o ridotto in schiavitù. In un'altra formulazione dei Dieci Comandamenti, Mosè parla al popolo:
Sebbene le spiegazioni separate possano creare problemi a coloro che intendono scolpire i Dieci Comandamenti nel granito del tribunali, almeno il punto generale di osservare il giorno del sabato dovrebbe essere parimenti accettato da ebrei e da cristiani.[20]
Gesù ed i suoi primi seguaci, come gli altri ebrei, vivevano in una tradizione che celebrava lo Shabbat con gioia. Gli ebrei, che fossero o meno seguaci di Gesù, conoscevano di certo il sommario di Isaia relativo alla giusta celebrazione:
Tra gli antecedenti di questi versetti, c'è il brano di Isaia 58:6:
L'insegnamento iniziale di Gesù nella sinagoga di Nazaret, scena sviluppata da Luca 4, cita queste righe.[20]
La storia del vangelo in origine fu raccontata da ebrei, che insistettero nel mantenere lo Shabbat. Successivamente, i seguaci di Gesù spostarono la celebrazione dall'ultimo giorno della settimana al primo giorno, la domenica, il giorno che la chiesa proclama essere stato quando Gesù risorse dai morti. Il significato dello Shabbat quindi cambiò dal centrarsi sulla creazione del mondo e la liberazione dalla schiavitù, a centrarsi su ciò che i cristiani vedevano come una nuova creazione ed una nuova liberazione: la risurrezione di Gesù, la sua creazione di un popolo nuovo, e la sua conquista della morte.[1]
La differenza serviva anche, in meglio o in peggio, a distinguere gli ebrei dai cristiani. Tali distinzioni continuano a causa di infauste conclusioni derivanti da interpretazioni ristrette dei Vangeli. In diverse occasioni, Gesù contesta quelle che sembrano essere le interpretazioni prevalenti di come si osservi lo Shabbat. La seguente storia, da Luca 6:6-11 (raccontata anche da Marco 3:1-6; Matteo 12:9-14), è tipica:
Da questa e da altre narrazioni di Gesù che esegue guarigioni di sabato, diversi cristiani hanno ricevuto l'impressione che Gesù revisionò completamente il modo in cui quel giorno veniva onorato. In questa visione "cristiana", "gli ebrei" avrebbero trasformato lo Shabbat da un giorno di riposo e celebrazione in un giorno di coercizioni: non fare questo, non fare quello. L'impressione è sintomatica di una più estesa interpretazione dell'Ebraismo come camicia di forza con migliaia di ingiunzioni pignole e di ebrei timorosi che violando un comandamento sarebbero incorsi nella furia di un Dio irato. Pertanto, tutti gli ebrei al tempo di Gesù dovevano esser visti irrimediabilmente bigotti, ossessivi e paranoici. Solo Gesù, definito al di sopra e contro l'Ebraismo, sfugge a questa necessità di essere psicanalizzato, dato che la sua prospettiva è così salubre, così liberale e così profonda da essere in grado di dichiarare: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato" (Marco 2:27).
L'osservanza dello Shabbat, nel primo secolo e per i passati due millenni, è stato un problema molto discusso. Nessun ebreo, allora o oggi, avrebbe sostenuto una regola del sabato che prevenisse il lavoro se si trattava di salvare una vita. Ma ci sono delle questioni che dovevano, e devono, essere discusse. Si deve esercitare la medicina e quindi "lavorare" per curare una condizione cronica non dolorosa come quella espressa da Luca 6:6-11? Inoltre cosa significa "lavoro"? Nel caso della guarigione dell'uomo dalla mano inaridita, Gesù in realtà non "lavora" nel senso stretto del verbo; non tocca affatto l'uomo. Il testo greco abilmente nota che la mano dell'uomo "fu resa sana" — al passivo. Nessuno, Gesù incluso, poteva essere accusato di aver violato il mandato del riposo sabbatico. Quindi, secondo un'interpretazione comune, la chiesa celebra Gesù che confuta una tradizione legalistica ossificata; il fatto che svergogni e frustri "gli ebrei" che lo oppongono non fa che rafforzare questa interpretazione particolare. I problemi sono tanti, da uno stereotipo negativo e falso dell'osservanza del sabato ebraico ad una promozione del Cristianesimo non per quello che promuove positivamente (come la guarigione) ma per un paragone negativo dell'Ebraismo. Lo stereotipo è avverso; ed è anche smentito dai dettagli dei Vangeli stessi. Un numero di ebrei sarebbero stati d'accordo con Gesù che la guarigione ha precedenza sullo Shabbat; altri avrebbero pensato che una condizione cronica non dolorosa avrebbe potuto aspettare fino al tramonto (alla chiusura dello Shabbat), in modo da non dare l'impressione che il guaritore non onorasse quel giorno o quel comandamento. Per esempio, Luca 13:10-17 narra che Gesù "stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei libera dalla tua infermità», e pose le mani su di lei. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. Ma il capo della sinagoga [una carica laica, paragonabile a "presidente della congregazione"; i Farisei non dirigevano sinagoghe] sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato». A questo punto Luca passa ad un linguaggio confessionale sostituendo il nome di Gesù con un titolo:
La storia evidenzia l'azione di Gesù distinguendola da quello che il capo della sinagoga avrebbe preferito. Ma la folla — cioè, la maggioranza ebraica — non ha problemi che Gesù guarisca la donna, e avrebbero riconosciuto che la sua argomentazione era una forma standard di dibattito su materie legali. Egli discute sulla base di ciò che in ebraico si chiama modello qal v`homer, o "dal minore al maggiore". La forma è nota anche come un a fortiori (latino, "a maggior ragione") e segue la seguente logica: "Se tu fai già X, allora dovresti certamente fare Y, che è ancor più importante." La guarigione stessa fatta da Gesù è una forma di tocco, "pose le mani su di lei", che non è proibito di sabato: non prepara delle pozioni; non slega corde. Inoltre, la storia non sostiene che chiunque abbia capacità mediche debba passare lo Shabbat a controllare condizioni croniche che possono essere curate. La proibizione del lavoro di sabato resta in vigore — dottori come Luca, allora come adesso, hanno un giorno di riposo — mentre invece far miracoli rimane permesso. I cristiani odierni (e anche gli ebrei) si dovrebbero rallegrare che Gesù fosse in grado di guarire la donna e quindi permetterle di celebrare lo Shabbat, senza dover cambiare le loro pratiche dello Shabbat. Il capo della sinagoga rappresenta quindi non la interpretazione ebraica ma piuttosto una interpretazione ebraica, anzi una contro quella della maggioranza della gente nella sua congregazione.[21]
Invece di descrivere l'Ebraismo come se promuovesse uno Shabbat senza gioia dove i vicini si scrutano l'un l'altro attenti alla più piccola violazione di proibizioni, i testi rabbinici, sebbene dopo il primo secolo, asseriscono lo stesso punto di Gesù. Commentando Esodo 31:14, "Osserverete dunque il sabato, perché è per voi un giorno santo", il Talmud babilonese (Yoma 85b) interpreta: "Il sabato ti è stato dato; tu non non sei stato dato al sabato",[22] e poi aggiunge, "Profana un sabato per amore di una persona, cosicché essa possa osservare molti sabati." Che i rabbini abbiano chiamato lo Shabbat la "perla della creazione" (Midrash Tehillim 92.1) offre una glossa interessante in merito alla parabola di Gesù che parla della "perla di grande valore" (Mt 13:45-46).
La tradizione ebraica inoltre sostiene che uno saluta l'arrivo dello Shabbat com si saluterebbe una regina o una sposa. Il Talmud babilonese (Shabbat 119a) afferma che il venerdì sera, al tramonto, Rabbi Chanina si vestiva in vesti eleganti ed esclamava: "Venite, andiamo a dare il benvenuto alla regina Shabbat." Similmente, Rabbi Yannai indossava belle vesti ed esclamava: "Vieni, O Sposa! Vieni, O Sposa!" Questi due rabbini sono del periodo amoraico, l'epoca dopo la codificazione della Mishnah; pertsnto è problematico implicare che la gente osservasse le loro opinioni nel primo secolo. Tuttavia, notare le loro pratiche smonta lo stereotipo che "i rabbini" erano un gruppo di studiosi cupi e acidi. Similmente, anche se successiva al tempo di Gesù, l'inno cantato nelle sinagoghe per accogliere il sabato è L`cha dodi likrat kalah..., "Vieni, mio amato, a salutare la sposa, la presenza dello Shabbat accogliamo." Come per l'arrivo di reali o ai matrimoni, la gente celebra lo Shabbat vestendosi coi vestiti migliori, preparando il cibo migliore, e assicurandosi che nessuno patisca la fame. La tendenza di dipingere l'Ebraismo come se dovesse essere corretto da Gesù, viene smentita da un Gesù che si mantiene fermamente nell'ambito della sua tradizione. Allo stesso tempo, la sua critica di chiunque voglia negare la gioia del riposo promossa dallo Shabbat può essere più facilmente diretta a chi, cristiano o ebreo, cerchi di farlo.[20]
Parabole
[modifica | modifica sorgente]Oltre ai suoi insegnamenti diretti, Gesù fa pensare anche ai profeti prima di lui ed i rabbini dopo di lui, quando usa le parabole, stile di insegnamento ben noto ai suoi compatrioti ebrei. Il termine "parabola", nell'originale greco, significa letteralmente "mettere di fianco, confrontare"; quindi la parabola mette a confronto due esempi. Il termine ebraico per questo genere letterario è mashal, similitudine o metafora.
Dopo l'adulterio di Davide con Betsabea e l'uccisione di suo marito, Uria, il profeta di corte Natan narra al re la parabola dell'agnella:
La storia impressiona Davide, che dice a Natan: "Com'è vero che l'Eterno vive, colui che ha fatto questo merita la morte! Egli pagherà quattro volte il valore dell'agnella, per aver fatto una tale cosa e non aver avuto pietà". Allora Natan dice a Davide: "Tu sei quell'uomo!" (12:5-7). Davide rimane attonito.
Meno conosciuta è la parabola degli alberi, narrata da Iotham in Giudici 9:7-15. Questa satira della monarchia implica che coloro che aspirano al potere politico non sono produttivi come l'olivo o il fico o la vite, ma sono come il rovo, senza valore.
La tradizione rabbinica è colma di parabole. Come la mette il Cantico dei Cantici Rabbah (1:1), commentario rabbinico del Cantico dei Cantici (detto anche Cantico di Salomone o semplicemente Cantico): "Fa che la parabola ti sia utile. Tramite la parabola, una persona può approfondire le parole della Torah".[23]
Le parabole cercano di catturare gli ascoltatori, mostare un'altra prospettiva del mondo, mettere in discussione lo status quo. Spesso trasmettono notizie che il pubblico non vuole conoscere, e tuttavia lo fanno in modi che fanno sorridere, mediante l'esagerazione, scenari ridicoli e giustapposizioni sorprendenti. L'esegeta David Stern offre la traduzione di una parabola da Lamentazioni (Eikhah) Rabbah (3:21) su un re che scrisse una ketubah (contratto di matrimonio) generosa per sua moglie: "Tante camere nuziali sto costruendo per te; tanti gioielli faccio per te; tanto oro e argento ti dò". Quando suo marito partì per un viaggio tra le province, i vicini della moglie la schernivano: "Ma tuo marito ti ha abbandonato? Vai, e sposa un altro uomo!" La moglie allora "piangeva e sospirava, e dopo andava nella sua camera nuziale a leggere il contratto di matrimonio e si consolava [con sollievo]." Dopo molti anni, quando il re finalmente tornò, si meravigliò che sua moglie gli fosse rimasta fedele. Ella rispose: "O re, mio padrone! Se non fosse stato per il generoso contratto nuziale che mi scrivesti, i miei vicini già da tanto tempo mi avrebbero traviato."[23] L'interpretazione della parabola paragona la moglie a Israele, che è fedele al suo Dio nonostante l'impressione di essere stata abbandonata. La parabola si conclude: "E il popolo di Israele entra nelle sinagoghe e case di studio, e lì leggono sulla Torah, « Io mi volgerò a voi, vi renderò fecondi... Stabilirò la mia dimora in mezzo a voi e io non vi respingerò» (Lev 26:9-11), e si consolano." L'interpretazione rabbinica della parabola prosegue citando il Salmo 119:92: "Se la tua legge non fosse la mia gioia, sarei perito nella mia miseria" e si conclude con Lamentazioni 3:21: "Questo intendo richiamare alla mia mente, e per questo voglio riprendere speranza."[23]
Stern non solo evidenzia le connessioni numerose della parabola con altre affermazioni rabbiniche, le associazioni intricate di parole che stralcia dalla Torah, e le frequenti arguzie dell'interpretazione (con giochi di parole purtroppo perse nella traduzione italiana), ma rivela anche gli aspetti più audaci della parabola. Non rifugge dal descrivere Dio come uno sposo assenteista; mette in discussione se la Torah sia veramente una consolazione per l'assenza di redenzione; e mentre sembra consolare Israele per la sua umiliazione tra le nazioni, finisce per lamentarsi con Dio. La parabola raffigura Israele persino come una donna di cultura che avrebbe potuto accettare l'invito delle nazioni a sposarsi nuovamente. La parabola quindi lascia i lettori con un senso di disagio e risoluzione: le idee difficili non vengono represse ma incanalate in una storia. La sorpresa del marito/re/Dio per la fedeltà di Israele è sia spiritosa nella narrazione che profonda nel mondo reale, come lo è la fedeltà di Israele, la sposa.[23]
Le parabole rabbiniche sono spesso collegate a versetti biblici; la parabole di Gesù si avvicinano a quelle di Natan e Iotan in quanto si riferiscono non alla Scrittura, ma al "regno di Dio" o "regno dei cieli". Sollevano inoltre questioni difficili ed incitano a reazioni che vanno dalla sorpresa all'indignazione, ma sono spesso troppo addomesticate. Secoli di letture cristiane hanno eliminato il pungolo dalle parabole, cosicché diventano storie piacevoli, se non banali, di buoni Samaritani che aiutano le persone lungo la strada, figli prodigi che sono ben accolti a casa, seminatori che seminano, donno che cucinano. Il re occasionale che rade al suolo città o lo sposo che sbatte la porta in faccia a cinque vergini a cui manca l'olio — cioè, quelle parabole che hanno una difficile interpretazione — non sono molto popolari nelle omelie o nei sermoni, specialmente tra cristiani liberali.
Per ritrovare il pungolo delle parabole di Gesù, uno deve sentirle con le orecchie ebraiche del primo secolo. Sebbene questo esercizio non possa essere compiuto completamente senza un particolareggiato studio storico, anche una conoscenza sommaria delle influenze culturali esistenti tra tutti gli ebrei del primo secolo, come le narrazioni della Scrittura, possono bastare ad iniziare il processo interpretativo. Qualsiasi ebreo che avesse sentito una storia che comincia "Un uomo aveva due figli" — riga di apertura della famosa parabola del figlio prodigo (Luca 15:11-32) — capirebbe subito che i fratelli non andavano d'accordo e che il padre sarebbe stato incapace di portare armonia in casa. Le storie di Caino ed Abele, Ismaele e Isacco, ed Esaú e Giacobbe, per esempio, non creano un modello propizio per il figlio prodigo e per il fratello maggiore obbediente.[20][1]
L'insegnamento di Gesù che il regno dei cieli può essere paragonato al "lievito" (Mt 13:33), avrebbe certamente fermentato il suo pubblico, poiché il "lievito" spesso aveva allusioni negative, come nel commento di Paolo che "il vostro vanto non è buono. Non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta?" (I Corinzi 5:6). Paolo usa lo stesso linguaggio in Galati 5:8-9, dove argomenta contro coloro che vogliono far circoncidere gli uomini della chiesa locale: "Questa persuasione non viene da colui che vi chiama! Un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta." Confermano il punto le allusioni a rimuovere il lievito dalla casa al tempo della Pasqua (Es 12:15; I Cor 5:7-8) e al "lievito" malvagio dei "Farisei e Sadducei" (per esempio, Mt 16:6, 12). Oggigiorno, quando le congregazioni sentono parlare di "lievito" non pensano all'opera di un fungo che si nutre di pasta in un luogo umido e buio, ma pensano ad un pacchetto che sta in frigo e serve per fare la pizza. La parabola di Gesù che narra del fariseo e del pubblicano, esposta in Luca 18:9-14, dimostra sia la potenza della storia e sia la debolezza delle interpretazioni standard che mancano di considerare il contesto ebraico degli eventi descritti. La parabola narra:
La riga successiva, commento redazionale (di Gesù, fonte di Luca, o dell'immaginazione di Luca stesso) nella maggioranza delle versioni continua, "Io vi dico che questi, e non l'altro, ritornò a casa sua giustificato."[24] Luca poi aggiunge la battuta finale "Perché chiunque si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato." La stessa battuta appare in Luca 14:11, alla fine dell'insegnamento di Gesù in merito all'umiltà e all'ospitalità, e potrebbe benissimo essere il caso di un detto che girava in quell'epoca, affisso ovunque gli evangelisti ritenessero opportuno. Oppure Gesù potrebbe aver voluto ripetere il punto; la fonte del detto non è importante per l'interpretazione della parabola.[12]
Il problema con la parabola è che oggi ha perso la sua forza d'impeto. La maggioranza dei lettori non la trovano disagevole, dato che Luca l'Evangelista ha riempito la sua narrazione con storie di pubblicani giusti, incluso Levi (noto nel Vangelo di Matteo come "Matteo"), che si unisce ai dodici apostoli, e Zaccheo, che incontriamo nel successivo capitolo (19:1-10). Piccolo di statura (ma grande di ricchezza), Zaccheo sale su un albero di sicomoro per meglio vedere Gesù mentre passa per Gerico. Quando Gesù lo vede, lo chiama "Zaccheo, scendi giú subito, perché oggi devo fermarmi in casa tua." Il pubblicano si affretta a scendere, ma quando la gente circostante borbotta che Gesù vada a casa di un peccatore, Zaccheo annuncia: "Signore, io do la metà dei miei beni ai poveri e, se ho defraudato qualcuno di qualcosa, gli restituirò quattro volte tanto." Gesù risponde: "Oggi la salvezza è entrata in questa casa." Se estratto dal contesto narrativo e messo in quello storico, sentiremmo ancora la gente che brontola: al tempo di Gesù, il pubblicano era un agente del governo romano che occupava la Giudea. Pertanto "fedele pubblicano" sarebbe stato un ossimoro. Le congregazioni odierne, sebbene non siano grandi appassionate dell'Ufficio Tasse, non percepiscono il valore scioccante; piuttosto vedono un esattore delle tasse che risponde positivamente a Gesù, tutto qui.[24]
Anche i lettori di Luca non hanno difficoltà ad attendersi "buoni pubblicani" e infatti li trovano. Il pubblico cambia da ebrei del primo secolo a gentili cristiani verso la fine di tale secolo. Luca non sta scrivendo in Giudea, sotto l'occupazione romana; Luca sta scrivendo da qualche parte nel mondo gentile greco, dove patroni romani, tipo Teofilo, al quale il vangelo è dedicato, possono aiutare la missione cristiana a crescere. Luca ed i membri della sua congregazione possono facilmente considerare il pubblicano della parabola come "giustificato", cioè nella giusta relazione con Dio. Inoltre, possono anche identificarsi col pubblicano stesso. Diventa il cristiano ideale: riconosce il proprio peccato, chiede umilmente pedono, e gli viene accordata la grazia. Bello, no? Naturalmente è lui, e non il Fariseo, che riceve l'approvazione divina.[24][12]
Quando la parabola è sentita con orecchie ebraiche del primo secolo, tuittavia, la risposta non è così semplice. L'idea stessa che un pubblicano riceva approvazione invece di un Fariseo è scioccante. Ritenere giustificato un pubblicano è equivalente ad un membro della popolazione locale che asserisce che un agente di un governo invasore straniero, un agente il cui compito è di esigere denaro dalla popolazione locale ed inviarlo alla capitale dell'impero invasore, deve essere ammirato e servire come esempio morale. Sebbene un po' eccessiva come analogia, il Fariseo potrebbe essere l'equivalente di Madre Teresa o Padre Pio. L'idea che nessuno dei due sia nel giusto rapporto con Dio è assurda.[25]
Ciò nondimeno, i lettori cristiani di solito presumono una malvagità farisaica, ed il Vangelo è complice nel sostenere questa conclusione. Le prime parole dei Farisei nel Vangelo di Luca vengono dette mentre Gesù guarisce un paralitico e parla del perdonare i suoi peccati: "Chi è costui che pronuncia bestemmie? Chi può rimettere i peccati, se non Dio soltanto?" (5:21). Dopodiché, i Farisei "mormorano" contro l'associazione di Gesù con esattori e peccatori (5:30). Dopo una domanda abbastanza neutrale sul perché i discepoli di Gesù mangino e bevano mentre quelli di Giovanni Battista digiunano e pregano (5:33) e la domanda ugualmente neutrale da parte di alcuni Farisei in merito al perché i discepoli facciano "ciò che non è permesso di sabato", cioè cogliere e mangiare le spighe, sfregandole con le mani, e quindi vagliare la pula (6:2), si ha una seconda controversia sullo Shabbat che ribadisce la presentazione del "Fariseo malvagio". È la storia dell'uomo con la mano inaridita, e si conclude coi Farisei, pieni di rabbia, che discutono fra di loro su "quello che avrebbero potuto fare a Gesù" (6:11).[25]
Dopo che i Farisei hanno rifiutato il battesimo di Giovanni (Luca 7:29-30), il Vangelo poi descrive tre scene di banchetti, presenti solo nel resoconto di Luca, dove i Farisei ospitano Gesù (7:36; 11:37-54; 14:1-24). Nessuna scena cerca di accrescere la reputazione del gruppo o dei suoi membri. In questi simposi, Gesù critica il comportamento dei suoi commensali farisei come elitista, esclusivista ed ipocrita. La conversazione a tavola viene riassunta da commenti del tipo:
La cigliegina su questa torta antifarisaica appare nei brevi commenti che poi Gesù fa ai discepoli in merito a come si debbano "guardare dal lievito dei farisei, che è l'ipocrisia" (12:1) e che i Farisei sono "amanti del denaro", che ridicolizzano Gesù perché insiste "non potete servire a Dio e a mammona" (16:13). I pochi riferimenti che rimangono seguono questa falsariga. Nel modo in cui Luca presenta il pubblicano come il "buon cristiano", così i lettori vengono abilmente portati a vedere il Fariseo come il "cattivo ebreo" (gli aggettivi diventano superflui). Nella parabola, quel poveraccio del Fariseo non ha scampo![25]
Tuttavia è Luca e non Gesù che fornisce il contesto della parabola. Al tempo di Luca, per la chiesa i Farisei venivano a rappresentare gli ebrei che si erano rifiutati di seguire Gesù; sono quindi raffigurati principalmente come polemici e non obiettivi. Ciò nonostante, anche nel Vangelo di Luca ci sono allusioni ad un'opinione farisaica più benevola. Non solo i Farisei continuano ad ospitare Gesù a banchetti, mantenendo quindi aperte le porte di comunicazione nell'ambiente intimo dei pasti consumati insieme; ma anche avvisano Gesù di stare attento, "Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere" (Luca 13:31). Non c'è ragione di credere che il loro avvertimento sia insincero.[1][25]
Se ci accostiamo alla parabola con le orecchie ebree del primo secolo — le orecchie che avrebbero quindi sentito parlare Gesù stesso — un quadro alquanto diverso si sviluppa rispetto a quello negativo di Luca. In primo luogo, i Farisei non devono essere considerati ipocriti o arroganti. La preghiera dei Farisei inizia "Io ringrazio/rendo grazie" (il termine greco è eucharisto εὐχαρίστω, da cui la parola italiana "Eucaristia"), e l'idea di ringraziare Dio è una delle componenti maggiori delle preghiere ebraiche. La preghiera farisaica, "di per se stessa non è affatto più arrogante di quella che normalmente si dice (o si pensa) «se non fosse per la grazia di Dio, anch'io sarei così.»"[25] L'opinione negativa del Fariseo proviene dalla narrazione di Luca, non dal contesto originale di Gesù. E a causa di tale contesto, la parabola funziona. Afferra l'ascoltatore brillantemente. Appena uno arriva alla conclusione che il pubblicano è giustificato, arriva anche alla conclusione: "Meno male che non sono come quel Fariseo!" Sarebbe infatti assurdo pensare: "Meno male che non sono come Madre Teresa; meno male che non sono come Padre Pio." Anche se uno trova bigotto il Fariseo, la parabola funziona ancora, perché l'identificazione con il pubblicano risulta nella reazione "Meno male che non sono bigotto, come quel Fariseo". L'ironia è squisita.[25]
E la buona novella della parabola continua. Forzando il lettore a trovare qualcosa di positivo riguardo al pubblicano, insiste che anche coloro che stanno col nemico possono ancora far parte della congregazione, che anche coloro che sfruttano membri della propria comunità meritano considerazione; forse, come Zaccheo, stanno facendo del loro meglio nonostante siano intrappolati in una situazione impossibile. In altre parole, la parabola spinge gli ascoltatori ad indossare i panni del criminale o dell'ostracizzato. Allo stesso tempo, richiede agli ascoltatori di valutare gli atti di pietà ed il valore a loro dato in un qualsiasi contesto religioso. Questo Fariseo, che fa la decima, che prega senza chiedere nulla per se stesso, è proprio quel tipo di fedele che il clero adora. La parabola allora pone la domanda di chi abbia onore nella congregazione, chi sia il miglior modello di riferimento, chi sia senza peccato, e chi sia sanza santità.[25][24]
La fine della parabolo potrebbe procurare due ulteriori sorprese. Primo, la maggioranza della traduzioni riportano Luca 18:14 in questo modo: "Io vi dico che questi, e non l'altro, ritornò a casa sua giustificato." Ma né il greco né il contesto della riga richiede questa conclusione esclusivista. È possibile che anche il Fariseo sia giustificato. Come afferma Robert Doran: "Per quanto io possa vedere, l'unico fattore nel contesto che porta gli interpreti a scegliere tale significato esclusivo è che uno non voglia dire che un Fariseo sia retto/giustificato (dedikaiomenov)."[24] La riga non dovrebbe essere letta "tornò a casa sua giustificato, a differenza dell'altro" ma "tornò a casa sua più giustificato dell'altro." In questo caso, il pubblico antico si scioccherebbe che il pubblicano abbia ricevuto un riconoscimento maggiore; il pubblico moderno invece si scioccherebbe che persino il Fariseo abbia ricevuto un riconoscimento.[24]
Per concludere, forse la fine della parabola è ancor più sorprendente, poiché la giustificazione del pubblicano pare dipendere dal Fariseo. Questo Fariseo fa più decima di quanto sia richiesto, digiuna più di quanto sia necessario, e tale rettitudine non viene contestata. Queste azioni possono avere effetti vicari — forse le azioni giuste del Fariseo sono proprio quelle che permettono al pubblicano di entrare in una giusta relazione con Dio. Come suggerisce Timothy Friedrichsen, la reazione del pubblico ebreo di Gesù sarebbe stato di "shock, sgomento, persino rabbia" all'idea che il giusto comportamento del Fariseo "potesse beneficiare addirittura la loro nemesi, il pubblicano."[25] Con un'analogia moderna, la rettitudine dimostrata dal più grande santo della chiesa opera a favore della redenzione del più grande peccatore. La parabola continua quindi a provocare, a sfidare, a disturbare. Proprio come voleva Gesù, proprio come si usava tra maestri ebrei.[1]
Preghiera
[modifica | modifica sorgente]Il contenuto della preghiera farisaica fornisce un contrasto negativo con la preghiera più nota di Gesù, il cosiddetto Padre nostro. La versione più conosciuta si trova nel Discorso della Montagna (Mt 6:9-13):
Alcune chiese aggiungono alla preghiera una dossologia (letteralmente, una "parola di lode", una formula) che non si trova nel Nuovo Testamento ma in uno dei primi testi cristiani, chiamato Didaché, o Dottrina dei Dodici Apostoli: "Perché tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli dei secoli. Amen." Il Vangelo di Luca presenta una versione della preghiera che manca di alcune righe matteane: "Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione" (11:2-4).
Sebbene gli studiosi abbiano discusso e continueranno a discutere su quale sia l'originale di Gesù, quale traduzione sia più vicina all'ipotetica costruzione della tradizione aramaica, quali versetti furono adattati alle necessità della chiesa, e così via, tutte le versioni della preghiera ben si inseriscono all'interno di un contesto ebraico. Né esiste una qualche ragione impellente per pensare che Gesù abbia insegnato solo una versione della preghiera.[26] Il problema del Padre nostro non è il suo contenuto né la sua storicità, ma la sua familiarità. Molti credenti infatti non pensano al significato della parole o, se le fanno, ci trovano solo conforto piuttosto che una polemica. Ma quando viene rimesso nel suo contesto ebraico del primo secolo, la preghiera recupera numerose connotazioni che la rendono sia più profonda e sia più politica. Incoraggia la fede, promuove la giustizia, consola con una speranza futura, e riconosce che il mondo non è sempre come lo vogliamo.[26]
La famosa riga d'apertura dalla versione matteana, "Padre nostro [che sei] nei cieli" è stata, come la parabola del Fariseo e del pubblicano, interpretata come distinguesse il buon Gesù, e quindi il buon cristiano, dai cattivi ebrei. Ancora popolare è l'idea che solo Gesù abbia osato chiamare Dio "Padre" e che solo Gesù l'abbia fatto osando utilizzare il termine aramaico Abba, che significa "Papà". Ma tali asserzioni sono difettose. Nel pensiero ebraico, la designazione della divinità come "Padre" si sviluppa sostanzialmente durante il periodo del Secondo Tempio, cioè dopo il ritorno dall'esilio babilonese nel 538 p.e.v. Per esempio, Malachia 2:10, afferma "Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre?" La Mishnah (Berakhot 5:1) riporta che gli antichi santi (chiamati Chassidim) passavano un'ora di preparazione prima della preghiera "onde poter dirigere i loro cuori verso il loro Padre che è nei cieli." Tale interpretazione di Dio come Padre continua tutt'oggi nelle sinagoghe, dove gli ebrei implorano Av ha-rachamim ("Padre misericordioso") come anche Avinu malkenu ("nostro Padre, nostro Re") e proclamano Hu avinu ("Egli è nostro Padre").[26]
Anche passi dei Vangeli attestano un'immagine di Dio come "padre" nella nuova famiglia di Gesù. Per esempio, Matteo 23:9 ammonisce "Non chiamate nessuno sulla terra vostro padre, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei cieli." La nozione di un unico Padre, nei cieli, è consistente con le credenze ebraiche.[26]
Sebbene sia preferibile considerare Abba quale termine aramaico del primo secolo piuttosto che un gruppo musicale svedese del ventesimo, la traduzione "Papà" non è giusta.[26] Il termine significa "padre" e non è un'espressione associata primariamente coi bambini. Anche gli stessi scrittori del Nuovo Testamento non considerano che significhi "Papà", poiché in ciascuno dei tre usi l'aramaico Abba viene subito reso col vocativo greco o pater, "Padre". L'unico posto nei Vangeli in cui Gesù stesso sembra usare l'appellativo Abba è Marco 14:36, nel Getsemani: "Abba, Padre, ogni cosa ti è possibile; allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi." Paolo due volte cita l'invocazione ad Abba: Romani 8:15 dice "per il quale gridiamo: «Abba, Padre»" e Galati 4:6 parimenti dice "Dio ha mandato lo Spirito del Figlio suo nei vostri cuori che grida: «Abba, Padre!»" Anche Joachim Jeremias, l'accademico che per primo propose la traduzione "Papà", ritrasse la sua tesi e la chiamò "un pezzo di ingenuità inammissibile."[27]
Né era Gesù l'unico ebreo a chiamare Dio Abba, sebbene ciò possa essere stato il tratto distintivo del suo insegnamento. Il fatto che Paolo conservi l'aramaico quando scrive ai conversi gentili di lingua greca — il primo uso di Abba per "Padre nei cieli" appare in Galati 4 — implica che l'invocazione possa benissimo risalire a Gesù. Forse Gesù enfatizzava l'appellativo più di quanto non lo facessero altri ebrei; potrebbe aver sentito una connessione personale, mentre i suoi compatrioti ebrei assumevano un approccio più comunitario. Per esempio, invocazioni ebraiche al "Padre" tendono essere congregazionali, in assemblea comune; quando Gesù chiama Abba nel Getsemani, la sua invocazione è interamente personale. Non sta parlando a nome di nessuno se non se stesso. Ma il Padre nostro non è un esempio unico di un'invocazione unica: la preghiera inizia con "Padre nostro", non "Padre mio".[27]
Sebbene particolare, l'invocazione a Dio con Abba non è anomala nell'Ebraismo. Il Talmud registra alcuni esempi. Se il materiale preceda Gesù non può essere stabilito, né la data deve diventare un problema. Gesù e altri ebrei usavano il termine Abba per la divinità; non c'è bisogno di fare una gara per vedere chi arriva primo con tale termine. (Per quanto ne sappiamo, la prima persona potrebbe benissimo essere stata la madre di Gesù o qualcuno dei milioni di ebrei del periodo del Secondo Tempio). Géza Vermès registra il seguente passo, dal Talmud babilonese (Taanit 23b). Il primo personaggio citato, Honi Hameaggel, era un rabbino galileo del primo secolo p.e.v. noto sia per il suo rapporto specialmente intimo con Dio sia per essere capace di controllare le temperie (si potrebbe paragonare all'abilità di Gesù di calmare la tempesta e camminare sulle acque). Apparentemente, questa abilità meteorologica venne trasferita a suo nipote:
Invocare Dio come Padre, che lo faccia Gesù o qualcun altro, indica ben più di devozione. Ha anche un senso politico. Mentre queste varie indicazioni su indumenti e cibo, parabole e preghiere distinguono Gesù ed i suoi compatrioti ebrei dai vicini gentili, né Gesù né gli altri ebrei suoi contemporanei devono essere visti come se vivessero in una specie di dimensione ebraica isolata. L'Ebraismo, dal quarto secolo prima dell'era volgare, tempo di Alessandro Magno, esisteva in un ambiente ellenistico, e dal 63 p.e.v. incaricati romani governavano sia la Giudea che la Galilea. Non esistette né nel primo secolo, né forse mai, un Ebraismo "puro", non influenzato dai propri vicini. La cultura non funziona così, e la religione neanche. Di conseguenza, Gesù non può essere posto solo nell'ambito di una definizione restrittiva di "Ebraismo"; egli è anche un residente dell'Impero Romano.[1]
I Cesari sul trono di Roma erano chiamti "padre" — come Washington era chiamato "padre della patria" o come gli zar russi erano chiamati dalla loro popolazione (con diversi gradi di affetto) "piccolo padre". Per esempio, lo storico romano Cassio Dione (165-229) scrive: "L'appellativo di «padre» forse dava loro, rispetto a noi tutti, una certa autorità che i padri avevano una volta sui propri figli, non in origine per questo ma come un onore ed un'ammonizione che essi dovevano amare coloro che erano governati come figli e che questi a loro volta dovevano riverirli come padri."[28] Parlando del "Padre nei cieli" Gesù quindi insiste che Roma non è il "vero" padre.
Inoltre, incoraggiando i suoi seguaci a non chiamare chiunque "padre", evoca l'insistenza profetica che gli individuinon si basino sul proprio lignaggio. Lo stesso punto appare nelle proclamazioni di "un buon uomo" che, secondo Falvio Giuseppe, "esortava gli ebrei a condurre vite rette, a praticare giustizia verso il prossimo e devozione verso Dio, e facendo così" eseguire atti di immersione rituale, non per "ottenere il perdono di peccati commessi, ma come una consacrazione del corpo che implicava che l'anima fosse già totalmente purificata grazie ad un comportamento corretto" (Antichità 18.5.2). Secondo questo leader popolare, gli individui non si dovevano basare su privilegi atavici; viene citato con le seguenti parole: "non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre." In ebraico, l'invettiva è un gioco di parole: "figli" è banim, e "pietre" è evanim; l'aramaico produce un pari gioco di parole. Questa citazione attribuita al leader non proviene da Flavio Giuseppe, ma dai Vangeli (Mt 3:9; Lc 3:8), dove chi parla è noto come Giovanni Battista.[29]
La riga successiva nella versione matteana del Padre nostro, "Sia santificato il tuo nome", è una componente della maggior parte delle preghiere ebraiche. Per esempio, il Kaddish — fore meglio noto per essere recitato in occasioni di lutto, e preghiera in aramaico, la lingua parlata da Gesù — inizia: "Venga riconosciuto grande e santo il Nome eccelso [di Dio]". Gli ebrei sin dagli inizi riconobbero che il nome di Dio è sia sacro che ineffabile. Un numero di Manoscritti del Mar Morto, dal Qumran, riportano le quattro lettere del nome divino (ebraico: yod, heh, vav, hey, translitterato YHWH) in paleoebraico, uno stile antico di scrittura, piuttosto che nei caratteri regolari. La santificazione del nome divino mediante l'uso di circonlocuzioni appare anche nel Nuovo Testamento. Per esempio, il Vangelo di Matteo tende a parlare di "regno dei cieli" invece del "regno di Dio".[30]
"Venga il tuo regno" si correla nella tradizione ebraica con l'espressione olam ha-bah, "il mondo a venire". Il "mondo a venire" è l'era messianica, un'epoca distinta e infinitamente migliore di "questo mondo" (olam ha-zeh). L'appello di Gesù al mondo a venire ha anche un conspicuo connotato politico. La preghiera invoca il regno divino, non quello di Cesare o dei suoi lacchè, come Erode Antipa, il sovrano della Galilea che giustiziò Giovanni Battista, o Ponzio Pilato, il governatore romano che crocifisse Gesù.[30]
Oggigiorno una quantità di cristiani (ed ebrei) pensano che l'Ebraismo manchi di una nozione di era messianica o di aldilà. L'opinione scaturisce in parte da secoli di confronti tra cristiani ed ebrei su come definirsi reciprocamente. Più la chiesa si concentrava su quello che gli ebrei chiamavano "il mondo a venire" e quindi sulla salvezza ottenibile tramite un'ortodossia di credenze necessarie, e più la sinagoga sottolineava la vita di questo mondo e la santificazione della vita mediante le opere. In parte, certe branche dell'Ebraismo moderno scelsero di snellire o persino eliminare dalla liturgia materiali che implicavano il soprannaturalismo. Tuttavia anche per queste congregazioni, la visione che il mondo può essere riparato (visione nota come Tiqqun `olam (ebr. תיקון עולם), "riparazione del mondo") e l'enfasi sull'operare per ottenere tale riparazione, mantiene ferma l'idea di un mondo migliore, un "mondo a venire".[31]
La preoccupazione ebraica per l'azione o l'osservanza pratica, già evidente nella Torah, sta sullo sfondo della successiva riga della preghiera. Anche Gesù è completamente coinvolto nel fare la volontà divina o, come dice la preghiera, "Sia fatta la tua volontà". Dimostra questo coinvolgimento facendo quello che gli ebrei chiamano "costruire un recinto intorno alla Legge" (Pirke Avot 1:1). Il punto è di prendere le dovute precauzioni che un comandamento non venga violato. Un esempio arguto tratto dalla tradizione rabbinica (Talmud babilonese, Shabbat 13a) ammonisce: "Al Nazireo [colui che ha fatto voto di rimanere in uno stato di purezza rituale segnata particolarmente dall'evitare "vino e bevande inebrianti" (Numeri 6:1-8) oltre al non tagliarsi i capelli e aver contatto con cadaveri] diciamo: «Gira e gira, ma non vicino ad un vigneto»". In altre parole, per evitare la tentazione di bere vino, il Nazireo deve evitare i luoghi dove si può ottenere il vino. La migliore spiegazione di tale costruzione di recinti nella tradizione ebraica oggigiorno è la pratica alimentare di non mischiare il latte con prodotti di carne (quindi, una scaloppina di vitello al formaggio non è kosher). La base biblica di questa pratica è la triplice ripetizione dell'ingiunzione "Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre" (Es 23:19; 34:26; Dt 14:21).
Esempi di recinti attribuiti a Gesù appaiono molto chiaramente nelle cosiddette Antitesi del Discorso della Montagna (Mt 5:21-47). A coloro che hanno inteso che fu detto "Non uccidere", Gesù dice: "Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio." A coloro che hanno inteso che fu detto "Non commettere adulterio", Gesù dice: "Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso adulterio con lei nel suo cuore." A coloro che hanno inteso che fu detto "Non spergiurare", Gesù dice: "Non giurate affatto" (punto ignorato da coloro che insistono a giurare sulla Bibbia o a prestare giuramento ponenbod una mano sulla Bibbia). In ogni caso, Gesù prende la Legge, la Torah, così seriamente da estendere le proibizioni sull'azione a proibizioni sul pensiero. Il termine "Antitesi" è un titolo inadatto poiché dà l'impressione di separare Gesù dalla tradizione ebraica, poiché implica che Gesù sia antitetico alla Torah. Gesù non "oppone" la Legge, ma la estende. Inoltre, il suo atteggiamento in merito non è liberale, ma alquanto conservatore.[31]
L'unica vera "antitesi" di questa sezione del Discorso della Montagna è Matteo 5:43-44: "Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori." Nessuna legge comanda l'odio dei nemici. Al contrario, Proverbi 25:21 afferma: "Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere." D'accordo, c'è un aspetto compensativo in questa affermazione, poiché il proverbio indica che coloro che agiranno in questa maniera benevola verso il proprio nemico ammasseranno "carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà" (25:22). Gesù va quindi oltre la tradizione biblica. Ciò nonostante, almeno il nemico viene sfamato, e serve a ricordare a coloro che sentono il Discorso della Montagna che "amare il nemico" include anche assistenza fisica, tra cui il "pane quotidiano".[31]
La riga successiva del Padre nostro, "Dacci oggi il nostro pane quotidiano" è ridondante. "Dacci oggi il nostro pane", oppure "Dacci il nostro pane quotidiano" sarebbe il modo diretto, ma chiedere il "pane quotidiano" e aggiungere "oggi" è ripetitivo. Alcune traduzioni riportano "Dacci oggi il nostro pane necessario (LND)", ma il problema del versetto sta nella parola greca che viene usualmente tradotta "quotidiano", epiousion (ἐπιούσιον). Il termine non appare altrove nella letteratura dell'epoca, e secondo il Padre della Chiesa Origene (185-254) fu coniato dagli evangelisti stessi.[32] Le definizioni variano da "necessario per vivere" a "per il giorno seguente" a "che viene". Forse la traduzione migliore allora sarebbe "Dacci oggi il pane dell'indomani", che ha più senso in un contesto ebraico del primo secolo. I testi ebraici parlano dell`olam ha-bah, il mondo a venire, come un glorioso banchetto. Isaia 25:6 presagisce che "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte a tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti pieni di midollo, di vini vecchi e raffinati. 2 Baruch, un'apocalisse scritta dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70, riporta questa bella visione:[33]
Pirke Avot, dalla Mishnah, attribuisce a Rabbi Jacob il detto: "Questo mondo è come un vestibolo davanti al mondo a venire: preparati nel vestibolo affinché tu possa entrare nella sala del banchetto" (4:16).
Anche oggi, in sinagoga il venerdì notte o sabato mattina, gli ebrei accolgono lo Shabbat servendo cibo, perché lo Shabbat è una pregustazione — letteralmente — del mondo a venire. La stessa idea appare sulle labbra di Gesù, quando parla del giorno che "molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe" (Mt 8:11) e quando descrive Lazzaro reclinato (come se stesse su un triclinio) sul petto di Abramo (Luca 16:23). Nella chiesa, una pregustazione dell'era messianica è ciò che si incontra nell'Eucaristia (Comunione), alla "tavola del Signore".[30]
"Dacci oggi il pane dell'indomani" pertanto significa "venga il tuo regno, quando potremo mangiare al banchetto messianico." Questa è la speranza profetica, la visione profetica. Pur tuttavia gli altri significati del difficile termine greco non devono essere esclusi da questa enfasi sulla tavola messianica. Il gioco di parole è una nota forma di espressione nella cultura ebraica. La stessa riga potrebbe anche significare "Padre caro, dacci cibo in sufficienza per la giornata, cosicché i nostri figli non muoiano di fame." La preghiera quindi porta all'azione, poiché Dio in verità non dà "pane", ma grano. Il pane proviene dalla fatica umana. Similmente la benedizione ebraica standard prima di mangiare, "Benedetto sei Tu, o Signore, Re dell'Universo, che ci dai il pane dalla terra", mostra lo stesso paradosso, poiché il "pane" non proviene dalla terra. Né il Padre nostro né la benedizione ebraica sono un desiderio astratto di cibo che caschi dal cielo; sia l'uno che l'altro sono un'invocazione concreta che Dio spinga i nostri cuori a fare la cosa giusta. Entrambi insistono che umanità e divinità operino insieme.[30]
Quanto a "Rimetti a noi i nostri debiti", alcune versioni riportano "Perdona i nostri peccati". La riga comunque non promuove una qualche vaga nozione che Dio debba perdonarci per aver occasionalmente detto il Suo nome invano o per aver urlato al gatto. Si riferisce direttamente al portafoglio, implicando "Non considerare un debito. Se qualcuno ha bisogno, tu dài." L'invocazione è alla giustizia economica. Abacuc si lamenta: "Guai a chi accumula ciò che non è suo! Fino a quando? Guai a chi si carica di pegni!" (2:6). Tuttavia anche "peccati" potrebbe essere certamente stata parte della preghiera. Alcuni esegeti sono convinti che la versione "debiti" sia quella originale e giusta, ma nulla fa prevenire la conclusione che Gesù abbia potuto usare entrambi i termini in differenti versioni ed occasioni della preghiera.[30][32]
La frase greca usualmente tradotta "Non ci indurre in tentazione" (gr. μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν) viene meglio resa con "Non ci mettere alla prova". L'Ebraismo parla di esseri umani messi alla prova — esseri umani particolarmente degni. Dio decise di "mettere alla prova" Abramo, come narra la storia nota col titolo "Akedah", o "legatura" di Isacco, in Genesi 22, che inizia: "Dio mise alla prova Abramo e gli disse... «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va' nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò»." La prova di Giobbe consistette nell'annientamento della sua proprietà, della sua famiglia e della sua salute. "Non ci mettere alla prova" quindi significa "Non metterci in una situazione dove potremmo essere tentati di rinnegare la nostra fede o la nostra morale." Per quegli ebrei che venivano maltrattati dall'Impero Romano o a cui, alternativamente, veniva offerta una promozione di carriera se solo avessero accettato di sfruttare il proprio popolo e rinunciare alle proprie tradizioni, tali parole avrebbero avuto un significato immediato. Similmente, per i seguaci di Gesù che venivano rigettati dalle loro famiglie e, in seguito, perseguitati dallo stato, la preghiera era di grande valore.[32]
"Male" nella riga "ma liberaci dal male" più precisamente dovrebbe essere "il maligno", come riportano alcune versioni (è improbabile che l'aramaico sottostante al greco contenesse un concetto astratto del male, ed il greco stesso letteralmente è "il maligno") ed è un riferimento a Satana, che "mise alla prova" Gesù nel deserto dopo il suo battismo (Mt 4:1-11; cfr. Marco 1:12-13; Luca 4:1-13). Nel testo ebraico di Giobbe, libro scritto svariati secoli prima della nascita di Gesù, Satana in verità viene chiamato "il Satana" — letteralmente, "l'Accusatore"; il suo ruolo era quello del pubblico ministero celeste. Sebbene operi in questo primo testo biblico come funzionario del tribunale divino, già mostra nel caso di Giobbe quanto sia capace di infliggere prove orrende all'umanità. Nel primo secolo "il Satana" diventa semplicemente "Satana", un essere sovrannaturale che cerca di condurre la gente sulla cattiva strada e lontano da Dio. L'Ebraismo del primo secolo aveva anche una vivida immagine di angeli "caduti", chiamati "osservatori", che tentavano di adescare la gente allontanandola dalla Torah con l'insegnamento di cose malefiche, come gli strumenti di guerra, l'astrologia, e l'uso di cosmetici.[34] Pertanto "Liberaci dal maligno" ha un senso profondo nel contesto storico.[32]
Per portare questa coppia finale di versetti, "non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male" ad un livello colloquiale, potremmo interpretarli come se dicessero "Guarda, Dio, non ho bisogno che Tu mi metta alla prova, e ancor meno che tale prova venga da Satana." Provocativa e relazionata direttamente all'esperienza umana, abbastanza intima con Dio da esserGli fatta direttamente, è una preghiera ideale per l'ebreo del primo secolo.[31]
La questione se essa sia la preghiera ideale per l'ebreo del ventunesimo secolo è un'altra faccenda, più delicata. Non è che ebrei e cristiani debbano recitare ilPadre nostro insieme, dato che la preghiera è troppo associata a Gesù, e quindi ai trascorsi duemila anni di difficili rapporti tra cristiani ed ebrei. Inoltre, l'Ebraismo ha la propria liturgia in cui questi motivi vengono toccati in una maniera o l'altra. Ciò nondimeno, forse questa preghiera molto ebraica, registrata nel Nuovo Testamento molto cristiano, è qualcosa che nonni e nipoti in famiglie miste potrebbero dire insieme. La preghiera non è "a Gesù"; non dice nulla di unicamente cristiano; e si adatta benissimo alla devozione ebraica. In tal modo, Gesù fornisce veramente un ponte, piuttosto che un cuneo, tra cristiani ed ebrei. A loro volta, molte preghiere ebraiche — cioè preghiere recitate nell'antichità e oggigiorno dagli ebrei — potrebbero avere pari risonanza tra i cristiani.[31]
Recuperare il Gesù ebreo
[modifica | modifica sorgente]Gesù di Nazaret si vestiva da ebreo, pregava da ebreo (e quasi certamente in aramaico), istruiva altri ebrei su come vivere secondo i comandamenti dati da Dio a Mosè, insegnava da ebreo, dibatteva da ebreo con ebrei, e morì come migliaia di altri ebrei su una croce romana. Vederlo in un contesto ebraico del primo secolo e ascoltare le sue parole con orecchie ebree del primo secolo non compromette in alcun modo affermazioni teologiche cristiane. Gesù non deve essere completamente unico per poter dire o fare qualcosa di significativo. Vederlo e ascoltarlo nel suo contesto storico arricchisce il significato di immagini e detti fin troppo familiari. Li fa diventare nuovamente suggestivi, sorprendenti, non solo per il loro potenziale spirituale, ma anche per il loro impegno sociale. Il regno dei cieli non è, per l'ebreo Gesù di Nazaret, un pezzo di bene immobiliare riservato alla singola anima salvata; è una visione per tutti i membri della comunità, che indica cosa potrebbe e dovrebbe essere. È la visione di un tempo quando tutti i debiti saranno rimessi, quando smetteremo di giudicare gli altri, quando saremo fieri delle nostre tradizioni, ma le terremo anche nel cuore e nella mente e le attueremo con tutte le nostre forze. È la buona novella che la Torah può essere discussa e dibattuta, quando il sabato sarà veramente onorato e santificato, quando l'amore per i nemici sostituirà la tendenza a rivalersi e far rappresaglie. La visione è ebraica ed è degna di essere valorizzata ed insegnata ai propri figli.[1]
Note
[modifica | modifica sorgente]- ↑ 1,00 1,01 1,02 1,03 1,04 1,05 1,06 1,07 1,08 1,09 1,10 1,11 1,12 1,13 1,14 1,15 1,16 1,17 Per questa sezione e nel testo in generale, si sono consultati i seguenti: E.P. Sanders, Jesus and Judaism, Fortress, 1987; Géza Vermès, Jesus the Jew, Fortress, 1973; id., The Gospel of Jesus the Jew, University of Newcastle upon Tyne, 1983; id., Jesus and the World of Judaism, SCM, 1983; id., The Religion of Jesus the Jew, Fortress, 1993; James H. Charlesworth, Jesus within Judaism, Doubleday, 1988; James H. Charlesworth (cur.), Jesus` Jewishness: Exploring the Place of Jesus in Early Judaism, Crossroads, 1991; John Meier, A Marginal Jew, 5 voll., 1991/2007 (trad. ital. Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Queriniana, 2001/2009); Bernard Lee, The Galilean Jewishness of Jesus, Paulist, 1988; Géza Vermès, Jesus in His Jewish Context, Fortress, 2003; Donald A. Hagner, The Jewish Reclamation of Jesus, Zondervan, 1984.
- ↑ Walter Jacob, Christianity through Jewish Eyes: The Quest for Common Ground, KTAV Publishers, 1974, passim.
- ↑ Il Credo niceno-costantinopolitano, di Enzo Lodi, Marietti, 1995, s.v.
- ↑ Simbolo degli apostoli in Tesauro del Nuovo soggettario, BNCF, marzo 2013.
- ↑ Géza Vermès, Jesus the Jew, cit., 1973, pp. 19-41; id., The Gospel of Jesus the Jew, cit., 1983, ss.vv. e pp. 398-400 e segg.
- ↑ 6,0 6,1 Non solo affermava di essere stato mandato solo per gli ebrei, ma chiamava i non-ebrei, certamente con un'esagerazione oratoria, "cani" e "porci" — si vedano per es. Matteo 7:6; 15:24; 15:26; Marco 7:27, ecc.
- ↑ Michael Amaladoss, Rinnovare tutte le cose, Edizioni Arkeios, 1993, pp. 91-92; Emil L. Fackenheim, Un epitaffio per l'ebraismo tedesco. Da Halle a Gerusalemme, Giuntina, 2010, pp. 174 e segg.
- ↑ John Meier, A Marginal Jew, cit., I vol., Parte I, Cap. 8, pp. 205-219 & passim.
- ↑ James Carroll, Constantine's Sword: The Church and the Jews: A History, Houghton Mifflin, 2001, pp. 66-81.
- ↑ 10,0 10,1 10,2 10,3 Abraham P. Bloch, The Biblical and historical background of Jewish customs and ceremonies, KTAV Publishing House, Inc., 1980, pp. 78–80.
- ↑ 11,0 11,1 11,2 Amy-Jill Levine, The Misunderstood Jew, HarperOne, 2006, pp. 21-24.
- ↑ 12,0 12,1 12,2 12,3 12,4 12,5 Géza Vermès, Jesus the Jew, Fortress, 1973; id., The Gospel of Jesus the Jew, University of Newcastle upon Tyne, 1983; id., Jesus and the World of Judaism, SCM, 1983; id., The Religion of Jesus the Jew, Fortress, 1993
- ↑ Florentino García Martínez, The Dead Sea Scrolls Translated, Brill-Eerdmans, 1996, s.v.
- ↑ "Padri della Chiesa" in Tesauro del Nuovo soggettario, BNCF, marzo 2013.
- ↑ Jacob Neusner, Introduction to Rabbinic Literature, Yale University Press, 1999, passim.
- ↑ Per la letteratura rabbinica e la Legge ebraica, si vedano specialmente: Barry W. Holtz, Back to the Sources: Reading the Classic Jewish Texts, Simon and Schuster, 2008; Jacob Neusner, Introduction to Rabbinic Literature, cit., 1999, pp. 30-56 e passim; H. L. Strack & G. Stemberger, Introduction to the Talmud and Midrash, Fortress Press, 1992; Shemuel Safrai & Peter J. Tomson, The Literature of the Sages: Oral Torah, Halakha, Mishnah, Tosefta, Talmud, External Tractates, Fortress, 1987, ss.vv.; Jacob Neusner, Alan Jeffery Avery-Peck, Bruce D. Chilton, Judaism in Late Antiquity, Vol. 3, Brill, 1995.
- ↑ David Klinghoffer, Why the Jews Rejected Jesus: The Turning Point in Western History, Doubleday, 2005, p. 59.
- ↑ Cfr. Marco 3:1-6; Matteo 22:36-40.
- ↑ Cfr. anche Esodo 20:8-11, che include come parte della sua presentazione dei Dieci Comandamenti quanto segue: "Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro."
- ↑ 20,0 20,1 20,2 20,3 Amy-Jill Levine, The Misunderstood Jew, cit., pp. 25-33.
- ↑ "Sabbathkeeping in the New Testament", di Samuele Bacchiocchi, Andrews University, in The Sabbath in the New Testament: Answers to Questions, Cap. 5.URL consultato 23/01/2015.
- ↑ Cfr. Marco 2:27: "Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!"
- ↑ 23,0 23,1 23,2 23,3 David Stern, Parables in Midrash: Narrative and Exegesis in Rabbinic Literature, Harvard University Press, 1991, pp. 57-60 e ss.vv.
- ↑ 24,0 24,1 24,2 24,3 24,4 24,5 Robert Doran, "The Pharisee and the Tax Collector: An Agonistic Story", citato da Amy-Jill Levine, The Misunderstood Jew, cit., p. 37.
- ↑ 25,0 25,1 25,2 25,3 25,4 25,5 25,6 25,7 Timothy A. Friedrichsen, "The Temple, a Pharisee, a Tax Collector, and the Kingdom of God: Reading a Jesus Parable", Journal of Biblical Literature 124.1, 2005, pp. 89-119 (94).
- ↑ 26,0 26,1 26,2 26,3 26,4 James Barr, "Abba Isn't Daddy", Journal of Theological Studies 39, 1988, pp. 28-47.
- ↑ 27,0 27,1 John Ashton, "Abba", in D.N. Freedman (cur.), The Anchor Bible Dictionary, vol. I, Doubleday, 1992, p. 7, che cita Joachim Jeremias, "Abba", in J. Jeremias, The Prayers of Jesus, trad. John Bowden, SCM, 1967, pp. 11-65.
- ↑ Cassio Dione, Istorie romane, tradotte da G. Viviani,libro XVIII.2-3, Milano 1823. Cfr. citazioni aggiuntive e discussione in Mary Rose D'Angelo, "Abba and Father: Imperial Theology in the Contexts of Jesus and the Gospels", in Amy-Jill Levine, Dale C. Allison Jr., & John Dominic Crossan (curatori), The Historical Jesus in Context, Princeton University Press, 2006.
- ↑ Mary Rose D'Angelo, "Abba and Father: Imperial Theology in the Contexts of Jesus and the Gospels", cit. in Amy-Jill Levine, Dale C. Allison Jr., & John Dominic Crossan (curatori), The Historical Jesus in Context, Princeton University Press, 2006.
- ↑ 30,0 30,1 30,2 30,3 30,4 Amy-Jill Levine, Dale C. Allison Jr., & John Dominic Crossan (curatori), The Historical Jesus in Context, Princeton University Press, 2006, pp. 77-102 e passim.
- ↑ 31,0 31,1 31,2 31,3 31,4 Amy-Jill Levine, The Misunderstood Jew, cit., pp. 43-52.
- ↑ 32,0 32,1 32,2 32,3 Origene, Sulla preghiera 27, 7; si veda la voce epiousion in Frederick W. Danker (cur.), A Greek-English Lexicon of the New Testament and Other Early Christian Literature, 3a ed., University of Chicago Press, 2000, pp. 376-377.
- ↑ Dalla traduzione inglese di A.F. Klijn, in James H. Charlesworth (cur.), The Old Testament Pseudepigrapha, vol. I, Doubleday, 1983, pp. 615-652. Paralleli rabbinici sul banchetto ed i grandi mostri includono il Talmud palestinese Sanhedrin 10:5; Genesi Rabbah 19:4; e Pesiqta de Rav Kahana 6:8.
- ↑ Cfr. 1 Enoch 7-8, 69; 10; 21:7-10; 64-65; 69; Giubilei 5:16-11; 8:3.