Biografie cristologiche/Il Cristo divino

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Cristo benedicente (di Hans Memling, XV sec.)
Cristo benedicente (di Hans Memling, XV sec.)
« Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. »
(Giovanni 14:6)

Può esserci una differenza profonda tra due domande connesse intimamente. Chiedere "Chi era Gesù" vuol dire informarsi di una persona e della sua carriera, nel tempo e nello spazio. Chiedere "Cosa era Gesù" vuol dire informarsi sulle vedute ed opinioni e concezioni di quella persona. Mentre l'Ebraismo e il Cristianesimo vennero a separarsi a causa di diverse questioni, la questione principale fu questa seconda domanda. Nel primo Cristianesimo, quegli ebrei che credevano che Gesù fosse il Messia formarono un nucleo dal quale emerse la nuova religione, mentre quegli ebrei che non credettero egli fosse il Messia rimasero fuori del gruppo.[1]

Per il nuovo gruppo, il "Messia" non rimase solo un'idea, ma crebbe aggiungendo nuovi aspetti a quelli dell'Ebraismo e allo stesso tempo eliminandone altri e si potrebbe parlare, secondo il pensiero protestante e secolare, di sviluppo dell'era messianica o, in termini di pensiero cattolico, di approfondimento concettuale dell'idea messianica. La differenza qui sta nel fatto che i cattolici sembrano sostenere che l'idea fosse eterna ed immune da sviluppi, e fosse solo la comprensione umana che dovesse svilupparsi, mentre i protestanti sembrano sostenere che l'idea stessa si sia sviluppata. In entrambi i casi, il Messia ad un certo punto rappresentò un complesso di idee ed opinioni non interamente identico alle opinioni dei tempi e dei luoghi successivi. Ciò che è consistente è che gli ebrei in generale si astennero dal condividere la valutazione cristiana di cosa fosse Gesù in tutte queste fasi.

Possiamo parlare della solita visione del Messia, ed elencare qui i soliti elementi che la compongono. Per ripetere ciò che si è detto precedentemente, le aspettative messianiche ebraiche non erano singole o monolitiche, e c'erano alcune esigue variazioni nei particolari, tuttavia si riesce a discernere un certo modello. Costantemente il pensiero messianico e la relativa aspettativa fiorivano nelle epoche in cui il popolo ebraico, o la nazione ebraica, si trovava in una situazione disperata, situazione causata usualmente dalla potenza conquistatrice di qualche nazione straniera. Questo dominio di uomini malvagi sarebbe terminato, così si credeva, tramite l'intervento di Dio. Specificamente, un giorno sarebbe sorto un agente di Dio grazie al quale o mediante il quale la situazione disperata e tremenda sarebbe stata completamente rovesciata. Gli ebrei avevano avuto un re dal tempo di Saulo nell'undicesimo secolo prima dell'era volgare fino all'esilio babilonese nel sesto secolo; il primo pensiero messianico nel periodo dell'esilio babilonese consisteva principalmente nella duplice speranza che gli ebrei sarebbero ritornati in Palestina dalla Babilonia e che là la dinastia di Davide sarebbe risalita sul trono. Quanto alla connessione del Messia col trono, l'atto con cui un uomo veniva fatto re, che altrove era quello di porre una corona sulla sua testa, era tra gli ebrei quello di ungerlo (consacrarlo) con olio. Pertanto, "l'unto" è Messia (ebr. מָשִׁיחַ Mašíaḥ), e Messia viene tradotto in greco Christos (Χριστός), che in italiano è reso con Cristo. Nulla nella semplice parola Cristo si connette a Gesù; l'associazione di Gesù e Cristo è storica, non linguistica.[2]

Nell'età di Gesù, come si è detto, la Palestina era un possedimento romano, con i suoi governatori soggetti a Roma. Per questo, ci si aspettava che il Messia nei giorni di Gesù distruggesse specialmente la potenza di Roma, inaugurasse una dinastia di giusto lignaggio, quella di Davide, al posto degli sconvenienti Asmonei, che avevano usurpato il trono, e a maggior ragione gli sconvenienti Erodiani. Inoltre, poiché gli ebrei erano sparpagliati in tutto il mondo allora conosciuto, il Messia doveva sollecitare e permettere agli esuli di ritornare in Palestina.[2]

Inoltre — e qui constatiamo un'opinione che riflette specificamente l'epoca di Gesù — eventi di una così vasta portata potevano voler annunciare in tanto atteso giudizio universale di Dio; e poiché una gran parte della popolazione aveva fede nella risurrezione, questa si intrecciò sia col pensiero messianico e sia con l'aspettativa di un giudizio finale a breve scadenza. Le formulazioni del pensiero messianico non erano sempre interamente accordate, dato che in un modello si credeva che la risurrezione di tutti coloro che erano vissuti sarebbe avvenuta per poi procedere al giudizio finale; un altro modello sosteneva che il giudizio finale sarebbe avvenuto prima e poi coloro che lo passavano sarebbero risorti. In entrambi i casi, l'avvento del Messia avrebbe dato inizio al giudizio universale e alla nuova era.[2][1]

Pertanto, le speranze messianiche erano una miscela di aspetti divini e umani poiché, mentre si attendeva una partecipazione di Dio agli eventi, il Messia stesso poteva solo essere umano, sebbene inviato da Dio. Questa attività umana ai romani sembrava un affare strettamente provocata da uomini e quindi classificabile come insurrezione. I romani potevano essere tanto antagonistici al pretendente messianico quanto gli ebrei potevano esultarne l'arrivo. Gesù non fu né il primo né l'ultimo, nella lunga storia dell'Ebraismo, ad affermare di essere o ad essere affermato il tanto atteso Messia. Sarebbe stato normale per una tale persona considerata il Messia di attrarre seguaci e partigiani, e di avere spettatori in attesa di vedere se gli eventi realizzavano o meno le aspettative e le specificazioni, prima di decidere se la particolare persona era o non era il Messia. Anche se un pretendente veniva salutato inizialmente come l'atteso non significava che egli continuasse ad esserlo; e ogni pretendente messianico nell'Ebraismo ha iniziato, o ottenuto velocemente, una vasta accettazione e finito nel rifiuto generale. Nel caso di Gesù, come abbiamo detto, i suoi partigiani sostennero dopo la sua morte che gli fu accordata una risurrezione speciale, e da questa credenza si originò un'interpretazione nuova e differente del ruolo del Messia. Ma tra quelli che non furono suoi partigiani e seguaci, prevalse l'opinione che, poiché quelle cose specificamente attese con la venuta del Messia non si erano realizzate, allora Gesù non poteva essere, e non era, il tanto sperato Messia. In poche parole, le persone che non accettarono Gesù come Messia, rigettarono le asserzioni perché le relative aspettative non si materializzarono. Il potere di Roma non fu spezzato, il lignaggio davidico non fu ripristinato, gli ebrei sparsi per il mondo non furono raccolti in Palestina; la vita quotidiana continuava come prima.[2][3]

Nel suo vero contesto, a questo punto, il problema era strettamente ebraico, con ebrei che accettavano l'ebreo Gesù come Messia ebreo, ed ebrei che non l'accettavano. Solo molto più tardi, quando i gentili soppiantarono gli ebrei nel nuovo movimento, si potè porre la domanda nella forma: perché gli ebrei non accettarono Gesù come Messia; in questo periodo successivo la definizione di Messia era diventata notevolmente diversa, da qualcosa che implicava caratteristiche specifiche e temporali a qualcosa che implicava astrazioni più sovrumane. Quegli ebrei che avevano accettato Gesù come Messia, nonostante la sua morte in croce, fecero un'alterazione iniziale significativa nel modello messianico, cambiandolo per così dire da singolo evento, con l'arrivo del grande punto culminante, a due parti, prima la preparazione, e dopo un intervallo, il pun to culminante. Tale alterazione venne conformata alla realtà che Gesù fosse morto in croce; ma, così si credeva fermamente, egli era stato velocemente risorto e poi era asceso al cielo, ad aspettare là il tempo opportuno di una seconda venuta. Quest'ultima venne considerata il punto culminante; la sua prima venuta era stata una preparazione. Questa "seconda venuta" è tuttora attesa dalla Cristianità ed è un dogma basilare della fede cristiana mainstream, sebbene le chiese moderate ed istituzionali non lo tengano al centro o vividamente in primo piano.[4]

La convinzione sviluppatasi che il programma del Messia consistesse della trascorsa fase preparatoria e della futura aspettativa naturalmente indusse speculazioni circa la natura di Gesù. Che gli fosse stata garantita una risurrezione speciale e fosse asceso al cielo in attesa di ritornare poteva, e palesemente doveva, implicare che egli fosse in un qualche modo speciale più che umano, e quindi in un qualche modo speciale divino. La letteratura del Nuovo Testamento sfortunatamente non ci fornisce un rapido e semplice riassunto della maniera in cui si svilupparono le opinioni che Gesù fosse più che umano. Tale riassunto viene qui presentato con l'avvertenza che si basa su riferimenti incerti, e non è interamente soggetto ad una convalida documentaria. Ciò vale specialmente nel caso delle prime fasi, in cui riassumo nella frase "Figlio dell'Uomo" la visione che Gesù fosse più che umano.[5]

È probabile che nessuna frase biblica abbia provocato più teorie di "Figlio dell'Uomo". L'espressione viene usata in molti passi di Ezechiele dove, dichiaratamente da tutte le parti in causa, significa molto di più di "uomo". La frase che è più direttamente relazionata al Nuovo Testamento si riscontra in Daniele 7:13. Lì leggiamo di una visione di ciò che dovrebbe avvenire nel giudizio finale, e in tale visione le nazioni pagane sono raffigurate come bestie orrende, mentre in contrasto Israele è rappresentato come "uno simile ad un figlio di uomo". Se siamo giustificati nel connettere questo passo di Daniele con le aspettative del Messia, come in verità bisogna, allora che l'espressione "Figlio dell'Uomo" diventi sinonimo di Messia è comprensibile. In molti passi dei Vangeli (col loro raro uso della parola Messia) Gesù è equiparato col "Figlio dell'Uomo" e in molti di questi passi viene raffigurato in discorso diretto usando l'espressione con riferimento a se stesso. Diversi studiosi moderni sostengono l'opinione che questi passi rappresentino parole attribuite a Gesù dalla chiesa in evoluzione, piuttosto che parole autentiche di Gesù, ma questa è questione accademica sulla quale non s'intende qui divagare. Questo però è rilevante, che Gesù fosse visto durante la sua vita, o appena dopo, come tale "Figlio dell'Uomo" sovrannaturale, la cui dimora, nell'immagine vivida di Daniele, era il cielo, e che fosse destinato ad "apparire sulle nubi del cielo"; nei Vangeli si asserisce che Gesù sia ritornato in cielo dopo la risurrezione, e un giorno ritornerà apparendo sulle nuvole.[5]

Il fatto che si considerasse Gesù il sovrannaturale "Figlio dell'Uomo" manca di specificare la natura esatta del suo essere sovrannaturale; fu un'affermazione e non una definizione lessicale. Inoltre fu un'affermazione espressa interamente nel contesto di sezioni dell'Ebraismo, e non fu in nessun modo, di per se stesso, un prodotto del pensiero gentile. Possiamo riassumere questo aspetto della presente discussione in questo modo: una volta che i seguaci di Gesù si convinsero che egli era risorto, non c'era nulla di incompatibile con il loro Ebraismo nel concepirlo il Figlio dell'Uomo Celeste. D'altra parte, coloro che non credettero fosse risorto negarono che egli era il Figlio dell'Uomo, non perché non credessero all'idea, ma perché non credevano in questa particolare identificazione.[2][3]

Il movimento del Gesù risorto si diffuse al di fuori della Palestina e, naturalmente, nel mondo greco-romano. In tale ambiente diverso accadde un altro cambiamento nel modo di descrivere la natura sovrannaturale di Gesù. Da una parte, il cambiamento coinvolse l'eliminazione di aspetti del pensiero messianico ebraico. Questioni come la distruzione del dominio coloniale romano sulla Palestina ed il ristabilimento della dinastia ebraica, con ebrei radunati da tutto il mondo, non aveva certo la stessa importanza per i gentili di Atene o di Roma quanto ne aveva per gli ebrei di Galilea. Invero, tra gentili delle aree ellenistiche l'importanza del Gesù sovrannaturale stava nel suo significato per tutto il mondo, piuttosto che per la storia strettamente ebraica. Il Nuovo Testamento conserva quelle che sono solo vaghe allusioni o fioche vestigia delle speranze messianiche specificamente ebraiche. Un brano, Atti 1:6, rappresenta i discepoli, dopo la risurrezione di Gesù, che gli chiedono: "È questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?"[6] Altre tracce vaghe o rimanenze del pensiero ebraico sono le allusioni a Gesù, al suo processo e crocifissione come il "Re dei Giudei" [7](Marco 15:2, 12, 18, 26 e 32; Mt 27:11, 29, 37 e 42; Lc 23:2-3 e 38; Gv 18:33, 39; 19:3, 14-15, 19-21).[8] Forse c'è qualche rilevanza a questa discussione nel passo di Giovanni 18:36, dove Gesù dice a Pilato: "Il mio regno non è di questo mondo..."; forse questo passo ripudia chiaramente qualsiasi connessione che potesse rimanere tra la messianicità e le aspirazioni nazionali ebraiche. Ci sono coloro che interpretano Luca 13:1, citando "quei Galilei il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici", come un'allusione a quella sorta di attività patriottica antiromana che poteva aver accompagnato il movimento guidato da Gesù (come si vedrà nel successivo capitolo 5).[3]

Pertanto, nella migliore delle ipotesi, abbiamo nel Nuovo Testamento solo una debolissima associazione della messianicità di Gesù con le speranze nazionali ebraiche. Forse si va oltre l'evidenza persino a supporre che queste fossero state eliminate dai concetti cristiani in via di sviluppo, poiché affermare la loro "eliminazione" implica che una volta fossero state presenti, ma la relativa evidenza non riesce a comprovarlo adeguatamente. Tuttavia un altro aspetto deve essere notato. L'unzione per gli ebrei era un rito; per i greci era una forma di cosmesi. Per i greci, l'espressione "Gesù l'Unto" o non aveva alcun significato o era insulsa; di conseguenza, la frase Gesù il Cristo venne cambiata in Gesù Cristo, o Cristo Gesù, come se "Cristo" fosse un nome, un titolo, e non una versione di "unto". Forse si può capire meglio l'effetto del cambiamento notando la differenza in suono ed effetto tra il titolo Antonio il Conte ed il nome Antonio Conte. Il titolo, per così dire, viene quasi sommerso dal semplice nome. Diciamo comunque che nel mondo dei cristiani greci la parola Cristo da una parte non aveva quelle connotazioni che permeavano il significato ebraico di מָשִׁיחַ Mašíaḥ, e dall'altra assumeva associazioni che mancavano nell'approccio ebraico. Per i cristiani greci il termine Cristo aveva le chiare implicazioni di un essere divino.[1][2]

Il NUovo Testamento presenta una varietà di titoli e di termini che riflettono la fede nella natura divina di Gesù. Uno di questi è "Figlio di Dio". Per gli ebrei, tale termine, se usato figurativamente, non avrebbe provocato obiezioni, dato che è una frase frequente nel Tanakh; Deuteronomio 14:1 riporta: "Voi siete figli del Signore Dio vostro." Se usato letteralmente o quasi letteralmente, gli ebrei avrebbero obiettato, specialmente se il termine "figlio" veniva limitato esclusivamente a Gesù. Nel Nuovo Testamento, la frase è in alcuni aspetti un po' vaga, insistinta, ma ciò che è chiaro è che il suo uso allude alla natura divina attribuita a Gesù.[1]

Un altro termine, "Signore", crea difficoltà di compresnsione da parte degli ebrei, che usano la parola "Signore" come un sinonimo esatto di Dio. Nel mondo greco, tuttavia, il termine aveva una quantità di ulteriori sfumature ed utilizzi. "Signore" è la traduzione italiana della parola greca kyrios (kύριος). In greco kyrios aveva il significato basilare di proprietario, padrone, possessore. Parlando di una persona (nel discorso diretto la forma cambia in kyrie) la parola significava qualcosa del tipo "Signor". Inoltre, tra i greci, che possedevano un intero pantheon di dei, kyrios era usato come titolo per quella particolare divinità che era patrona di un qualche culto religioso associato, per esempio al Signore Sarapide (Σάραπις), o Signore degli Abissi (Sar-Apsi), o Signore dell'Universo, o al Signore Hermes (Ἑρμῆς). In tale utilizzo, kyrios non implicava un unico dio, bensì tra le molte divinità quella a cui era dedicato il culto. Nell'uso del Nuovo Testamento, il titolo kyrios applicato a Gesù (ad eccezione di quei passi in cui significa semplicemente "signor") lo equipara ad una divinità, ma non lo equipara a Dio.[9] Le Lettere di paolo usano spesso l'espressione "Signore Gesù", nel senso di essere divino, ma non nel senso di Dio Stesso. Ciò viene illustrato nel brano 1 Corinzi 8:5-6, che afferma che per i cristiani "c'è un solo Dio, il Padre... e un solo Signore, Gesú Cristo." Si potrebbe forse aggiungere a questo un altro passo, Atti 2:36, in cui si legge che "Dio lo ha fatto Signore e Cristo..."[9]

Quanta parte dell'attribuzione di divinità a Gesù avvenne nell'ambito chel Cristianesimo palestinese è incerto. Di sicuro tale credenza sorse tra coloro dei suoi seguaci che credettero nella sua risurrezione, poiché una risurrezione speciale e miracolosa poteva implicare che Gesù fosse più di un essere umano, e quindi in qualche modo divino. Alcuni studiosi credono che il titolo "Signore", in aramaico mar, si originasse in Palestina; la maggioranza comunque attribuisce il titolo alla cristianità gentile fuori della Palestina.[10]

Continuando ad esaminare la questione della natura divina di Gesù, natura che il primo Cristianesimo per poco non identificò con Dio stesso, allora oltre a Signore bisogna esaminare un altro termine, Logos ( λόγος). Il Gesù divino viene esplicitamente identificato con Logos, ma brevemente e laconicamente. Logos era un antico termine greco e veniva usato frequentemente nell'epoca di Gesù tra gli ebrei greci, specialmente negli scritti di Filone d'Alessandria (20 p.e.v.-40 e.v.) Esaminare come gli ebrei greci trattassero la parola Logos può essere d'aiuto, con le dovute cautele, a capire cosa avessero in mente i cristiani quando identificavano Gesù in tal modo. Le cautele sono necessarie perché esistono differenze, come anche somiglianze, tra il Logos ebraico e quello cristiano.[9]

Se ci si chiede coso si intendesse per Logos, allora prima di tutto ci si dovrebbe chiedere qual era la questione religiosa o filosofica che produceva Logos come risposta? Si potrebbe dire che Logos sia un tentativo di risolvere un problema ricorrente del pensiero religioso: conciliare la questione del Dio remoto ma immanente. L'essere umano, nei suoi momenti di introspezione e devozione, tende per così dire di esaltare Dio così da renderlo un concetto al di là del mondo e della comprensione terrena. Tuttavia c'è un senso in cui un Dio remoto è insignificante per l'uomo, ed il concetto di Dio è applicabile alla vita umana solo se Dio è a portata di mano, e in questo mondo, disponibile ad assistere l'essere umano e invocabile (con preghiera). Pertanto, come può l'uomo concepire Dio simultaneamente "trascendente" — al di sopra e persino al di fuori del mondo — e tuttavia "immanente", nel mondo e disponibile all'uomo? Il pensiero ebraico palestinese "risolse" questo dilemma immaginando angeli che facevano da ponte tra uomo e Dio remoto. Tale pensiero che concepiva gli angeli fu spesso intuitivo, popolare, persino "mitico". Il pensiero greco, d'altra parte, era rzionalistico, "dialettico" (cioè, strettamente logico) e non incline al mitico, anche quando accettava i dati dei miti. Logos, che era profondamente radicato nel pensiero greco-ebraico, era un espediente con cui gli ebrei greci risolvevano il dilemma di un Dio che era sia trascendente che immanente.[9]

Cos'era quindi il Logos? Il termine può essere, ed è stato, tradotto in vari modi.[11] Può essere reso da "pensiero logico" e allo stesso tempo connota il contenuto di tale pensiero logico. Uno potrebbe riassumerlo nella parola "ragione" o, come hanno fatto i cristiani, in "parola/verbo". Possiamo esprimerlo come "intelligenza" o "saggezza", o anche con il doppio "parola-anima". Dalla sua base greca, il termine ha a che fare con la saggezza, che si ottiene mediante una logica corretta, e che è disponibile per coloro che hanno la capacità di ragionare correttamemnte e quindi acquisire, ognuno per se stesso, una qualche porzione o possessione individuale della saggezza/conoscenza universale. Dalla sua parte ebraica, la rivelazione di Dio fu ovviamente saggia; pertanto la rivelazione, la manifestazione di Dio, e la saggezza, realizzazione umana, erano strettamente relazionate. E talmente relazionate erano, che nel tardo pensiero ebraico palestinese la rivelazione e la saggezza vennero considerate virtualmente la stessa cosa. Quando questa identificazione ebraica di rivelazione e saggezza si imbattè nel mondo greco, anche la sostanza della saggezza greca venne assimilata al concetto, col risultato che la filosofia di Platone e degli Stoici poteva essere contenuta dalla rivelazione-saggezza ebraica, in modo da sembrare il pensiero giusto e corretto. L'antico termine greco Logos divenne il termine principale per esprimere l'idea che la rivelazione divina e la saggezza universale erano la stessa identica cosa e poteva servire da ponte tra Dio e uomo.[11]

Quanto a uomo e Dio, si potrebbe arrivare a tale rapporto per due vie differenti. Una potrebbe esaminare il lungo flusso di eventi della storia umana e concludere che Dio sia il pianificatore e la guida di questi eventi; questa era la via degli antichi Profeti ebrei. Oppure l'altra potrebbe analizzare la natura del mondo, come se fosse statico e non connesso agli eventi, come Platone ed Aristotele avevano fatto; questa era la via degli ebrei greci. O, in altre parole, l'ebreo greco entrò in filosofia solo dopo aver raggiunto la sua convinzione religiosa; cominciò con la credenza che Dio esiste e che Dio aveva guidato gli eventi del passato, e da questa credenza procedette verso la sua analisi "statica". Quest'ultima fu alquanto complessa. Implicava la sua consapevolezza della natura dell'uomo, creatura di passioni e sensi, ma anche creatura capace di ragionare. Spiegava il funzionamento dei sensi e della ragione, e parlava di saggezza, e di saggezza universale. Descriveva questa saggezza universale come la "mente di Dio" o come "ragione divina". Quando tali materie sono descrittive, rimangono nell'ambito della filosofia. Diventano religione quando la susseguente asserzione è che la ragione umana può ascendere a Dio e conoscere ed incontrare la ragione di Dio. Questo incontro avviene in questo mondo; Dio Stesso è al di là e oltre questo mondo. Dio è remoto, ma il Logos è la via, il modo, la forma in cui Dio si manifesta e viene conosciuto in questo mondo. Il Logos serviva agli ebrei greci come ponte verso il Dio remoto, trascendente, in un modo paragonabile a quello sostenuto dagli angeli nel pensiero degli ebrei palestinesi.[11]

Adesso esaminiamo una distinzione che è abbastanza difficile da fare. Posso disegnare una linea su un pezzo di carta; conveniamo quindi che questa sia una linea reale, poiché è visibile, ed un chimico ci potrebbe dimostrare che la grafite è differente dalla carta. D'altra parte, parliamo del confine tra due stati come una "linea", un divisore che i geometri possono individuare come separazione di due territori tra loro. Tale linea non è reale nello stesso modo di un segno di matita su un pezzo di carta, ma reale in modo diverso, e lo scopo che serve è reale. In una terza opzione, parliamo della "linea" che separa l'amore dall'odio, e qui non intendiamo né la linea di matita né la convenzione del geometra. Questa terza linea è in un senso reale, ma se paragonata alle altre due, è un modo di dire, e solo tale.è Spesso usiamo modi di dire nel comunicare tra di noi: il matrimonio ideale, la moralità pura, la bellezza astratta, e così via. Tutte queste idee sono abbastanza reali da poterle usare in frasi, ma se veniamo costretti a spiegarle seriamente, dobbiamo ammettere che sono costrutti mentali e non realtà pure e assolute. Sono come la linea che separa amore da odio, non come la linea che segniamo su un foglio o la linea di confine. Il Logos era una realtà pura e assoluta per gli ebrei greci, come una linea su carta, o era un costrutto mentale, come la bellezza astratta? Gli studiosi differiscono nell'interpretazione del materiale, e a buona ragione; alcuni passi sembrano confermare un'opinione e altri l'altra. Il problema non può essere risolto. Tuttavia si possono proporre una quantità di commenti. Gli ebrei greci, come minimo, trattavano il Logos spesso come semplice astrazione; evitano di attribuirgli una qualsiasi collocazione nello spazio o nel tempo; pertanto, solitamente lo considerano su una base teorica, come un costrutto filosofico.[11][2]

Questo Logos greco-ebraico serve da stazione intermedia per capire la transizione dall'idea messianica ebreo-palestinese a quella cristiana. Il pensiero cristiano sviluppandosi andò oltre al Figlio dell'Uomo ed identificò Gesù e Logos. Si era già evoluto, tra gli ebrei greci, un corpo di pensiero del Logos a portata di mano dei cristiani per procedere ad identificare entrambi. La più chiara identificazione si riscontra nella prima frase del Quarto Vangelo, ma nelle Lettere di Paolo la parola Cristo sembra usata come fosse un sinonimo di Logos.[12] Paolo afferma di avere conosciuto il Cristo personalmente. Quindi se l'identificazione è giustificata, il Logos del pensiero cristiano non era una semplice astrazione come poteva esserlo per Filone, specialmente perché i criteri principali della tradizione cristiana sostenevano che Gesù fosse vissuto in un dato tempo e una data epoca. Un cristiano poteva parlare di Logos come un fatto di esperienza, e non come una semplice costruzione mentale; e avrebbe asserito che il Logos-Gesù risaputamente era vissuto in Galilea ed in Giudea in un periodo di tempo specifico, nato nell'ultimo anno di Erode e messo a morte durante il mandato di Ponzio Pilato quale Procuratore romano.[11]

Il Quarto Vangelo rende propone una chiara identificazione di Logos e Cristo. Inizia con le seguenti parole: "In principio era il Logos, il Logos era presso Dio e il Logos era divino." (Giovanni 1:1). La traduzione più frequente è: "La Parola era Dio"; ci sono discussioni su quale sia la versione migliore. Il Vangelo prosegue con altre affermazioni, due delle quali fanno riferimento al nostro contesto. La prima di queste è che il Logos, antecedentemente spirito divino, è diventato corporeo, "incarnato" in Gesù. La seconda affermazione è che il Logos ha creato questo mondo; secondo le parole di Giovanni 1:3, "tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui (la Parola), e senza di lui nessuna delle cose fatte è stata fatta."

Immaginiamoci un ebreo greco, con la testa piena di pensieri simili a quelli di Filone d'Alessandria, che si imbatte in questa seconda asserzione, ma isolata dalla prima. Non solo un tale devoto ebreo non si sarebbe opposto, ma anzi, avrebbe dato il suo entusiastico assenso, poiché nel pensiero filonico il Logos è immanente, aspetto terreno del Dio trascendente. In molti passi Filone parla del Logos in modi affini al Nuovo Testamento quando quest'ultimo parla del Logos-Cristo. Quanto alla prima asserzione, è pensabile che un ebreo greco non avrebbe negato la possibilità dell'incarnazione, ma avrebbe potuto assentire o dissentire se la possibile incarnazione del Logos in Gesù fosse veramente avvenuta. Filone, per esempio, asseriva che i tre visitatori di Abramo in Genesi 18:2 erano esseri divini incarnati in uomini.

Attinente è il nostro bisogno di capire che le correnti religiose del primo e secondo secolo cristiano erano variate e complesse, ed è ingiusto considerarle semplici e soggette a categorie nette. La sostanza delle vedute di un ebreo greco quasi sicuramente era poco conosciuta o dibattuta tra ebrei palestinesi se non nel suo complesso e nelle sfumature generali. Alcune tracce di questi echi indistinti permangono nella letteratura rabbinica, in alcuni brani che alludono ad opinioni sul Logos che creò il mondo, ma la parte più matura degli ebrei palestinesin doveva rigettare qualsiasi formulazione di divinità che potesse sembrare di compromettere uno stretto monoteismo.[13] L'opinione di Filone in merito al Logos sarebbe stata tanto sgradevole per un ebreo palestinese quanto lo sarebbe stata l'opinione di un cristiano greco in merito al Logos-Cristo. Infatti, l'eminenza del passo di Dauteronomio 6, "Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo" venne portata alla sua massima espressione dall'Ebraismo rabbinico come parola d'ordine a resistere qualsiasi compromesso sull'unità di Dio. Nell'contesto della Cristianità una battaglia impari fu combattuta tra coloro che trionfavano nella loro visione del Cristo-Logos come realtà, e coloro che la reputavano soltanto un costrutto mentale, negando la realtà e quindi la storicità dell'incarnazione. Nel tumulto di opinioni conflittuali, chiarezza comincia ad emergere solo verso la metà del secondo secolo. A quel punto l'Ebraismo greco era praticamente defunto, e solo l'Ebraismo rabbinico palestinese era destinato a sopravvivere; e a quel punto si era già sviluppata una corrente di pensiero cristiano che rende possibile contrapporre le rispettive vedute come centrali da una parte o come periferiche dall'altra; o, per usare termini "religiosamente" specifici, "ortodossi" da una parte ed "eretici" dall'altra.[11]

Pertanto, per un ebreo palestinese del secondo secolo, che non possedeva alcuna affinità col pensiero greco, l'idea del Logos, anche come costrutto mentale, era incompatibile poiché comprometteva l'unità di Dio; e la visione che il Logos e Gesù fossero collegati tra loro sembrava ancor peggio e una bestemmia contro tale unità.[9]

Un'ulteriore fase di sviluppo ebbe luogo nella Cristianità, nel tardo periodo neotestamentario o appena dopo. Fu una progressione che rimosse la distinzione tra Logos e Dio, e che passò dal considerare Gesù come il Logos di Dio al considerarlo proprio la stessa "Divinità di Dio". Possiamo forse riformulare il concetto in questo modo, che per molti cristiani Gesù cessò di essere identificato meramente come il Logos, e venne ad essere concepito invece come Dio Stesso.[11][9]

Questo sviluppo creò grandi contese e conflitti nel Cristianesimo. L'opinione centrale riteneva che Gesù fosse sia Dio che uomo, ma l'esposizione teologica produceva opinioni dissidenti e contraddittorie nella Cristianità circa la relativa divinità e relativa umanità. Quello su cui tutti i cristiani erano generalmente d'accordo era che Gesù fosse divino; quello su cui dissentivano era quanto fosse umano. Aveva una natura o due? Maria era la madre di Gesù Cristo, o doveva essere considerata anche la "madre di Dio"? Un ebreo palestinese, se avesse per caso sentito alcune delle dispute cristiane nel terzo secolo, non sarebbe stato assolutamente capace di capire gli astrusi dibattiti teologici. Non solo avrebbe rifiutato le contrastanti controversie cristiane, ma il carattere isolato e autonomo dell'Ebraismo rabbinico gli avrebbe certamente impedito di comprendere il carattere isolato ed autonomo della teologia cristiana. Se un tale ebreo, per esempio, si fosse imbattuto nella formula trinitaria di Matteo 28:19, "Padre e Figlio e Spirito Santo", l'avrebbe rifiutata poiché incompatibile col monoteismo.[14] Non solo si sarebbe convinto, come molti ebrei sono tuttora convinti erroneamente, che il Cristianesimo non sia un monoteismo, ma anche non avrebbe creduto che il Dio del Cristianesimo sia concepito dai cristiani come il Dio di Israele. In verità, la formula trinitaria merita qui una particolare attenzione, poiché viene asserita come intrinsicamente incomprensibile per gli ebrei e d'altra parte attribuisce a Gesù una divinità che gli ebrei non sono disposti ad attribuire a nessun uomo.[14]

Comprendendo o meno le spiegazioni cristiane, gli ebrei hanno comunque rifiutato costantemente le affermazioni cristiane su Gesù. Non hanno creduto che Gesù fosse il Messia; non hanno voluto chiamarlo "Signore"; non hanno creduto che il Logos si fosse incarnato come Gesù; non hanno creduto che Gesù fosse, o sia, la Divinità stessa di Dio. In questa luce, questioni come la nascita da vergine in Matteo e Luca, e le guarigioni ed i miracoli dei Vangeli, e le forme cristiane di "riprove" bibliche sono semplici dettagli.[15] Gli ebrei, ad eccezione di quegli ebrei greci che preso la strada senza uscita di Filone d'Alessandria, sono sempre stati immutabilmente unitari, ed incapaci di accettare la visione di un qualsiasi uomo che possa essere innalzato al di sopra del livello umano e che sia equiparato a Dio.[14] È chiaro che gli ebrei non considerano Gesù allo stesso modo dei cristiani, né si può pretndere che lo facciano. Non solo il concetto astratto del Cristo è alieno agli ebrei, ma anche il concetto cristiano dell'importanza della carriera di Gesù i Cristo è parimenti aliena. È credenza cristiana che la crocifissione sia stata una morte espiante che ha permesso al genere umano di redimersi dal peccato. Ad un certo livello, gli ebrei hanno concepito il peccato, l'espiazione e la salvezza in modi alquanto differenti dalla concezione cristiana, e non solo gli ebrei si astengono dal condividere la fede cristiana, ma in verità la maggioranza degli ebrei non riescono nemmeno a capire cosa intendano i cristiani quando usano questi termini comuni ad entrambe le religioni, proprio come i cristiani spesso non riescono a capire gli ebrei quando usano tali termini.[1]

Gli ebrei generalmente definiscono il peccato come un atto o azione; i cristiani generalmente lo definiscono come uno stato, una condizione dell'essere umano. Gli ebrei definiscono l'espiazione come il bisogno dell'essere umano di scrutarsi per capire e riconoscere i propri atti peccaminosi, la sua necessità di sentirne sinceramente il rimorso, un senso genuino di pentimento per averli commessi ed il suo impegno a condurre una vita il più possibile libera da tali atti. È fede ebraica che quando un essere umano espia, Dio possa, se così Egli determina, perdonare. In poche parole, secondo la fede ebraica l'essere umano è incline a commettere atti peccaminosi, ma può espiare e Dio perdona.[1]

Secondo la visione cristiana, l'essere umano è per sua innata natura un peccatore, e l'espiazione implica un cambiamento nella natura umana. L'essere umano non può produrre questa trasformazion e senza essere aiutato; in altre parole, l'essere umano di per se stesso non può espiare. Di conseguenza, l'espiazione per l'essere umanodeve essere attuata da Cristo. In questo senso, la morte di Gesù Cristo viene considerata come l'atto di espiazione per cui l'essere umano può essere redent dalla propria peccaminosità; questo è il senso della frase, così spesso incomprensibile per gli ebrei, che "Cristo morì per i nostri peccati" (1 Cor 15:3). I vari modi di dire nella tradizione cristiana sono spesso solo sinonimi di questi concetti; la frase, strana alle orecchie ebree, che uno deve essere "lavato col sangue dell'agnello" (Apocalisse 7:14), proviene dall'identificazione fatta dal Nuovo Testamento tra Cristo e l'"agnello condotto al macello" di Isaia 53:7, col risultato che il "sangue dell'agnello" è un modo pittoresco di affermare la fede nella morte espiatrice di Gesù.[9]

Nell'elaborazione della visione cristiana della morte espiatrice del Cristo, si sviluppò l'idea che questo singolo atto avesse aperto la via della salvezza sia a tutti gli esseri umani che avevano vissuto prima dell'tempo di Gesù (e quindi si asserisce che Gesù "discese agli inferi" per predicare alle anime colà) sia a quelli dopo di lui. Alla domanda, "Come può una persona beneficiare di una morte espiatoria?" — tra le risposte date figura che il battesimo cancella i peccati, o che la "fede" in Cristo porta l'essere umano a condividerne i benefici. Ma poiché parliamo di Gesù e non della più ampia materia della dottrina e teologia cristiane, non è qui possibile soffermarsi su un'esposizione approfondita di queste problematiche. Basti dire che gli ebrei, consapevoli che tutti gli esseri umani peccano, ciò nondimeno non li concepiscono come peccatori. Il peccato come condizione umana è tanto incomprensibile agli ebrei quanto il peccato come atto è comprensibile; e l'espiazione che l'ebreo fa periodicamente, sia a Yom Kippur (Giorno dell'Espiazione, appunto) o, come prevede l'Ebraismo, ogniqualvolta l'ebreo sia portato a farla, radica l'atto di espiazione nell'ambito della vita naturale dell'individuo. L'ebreo non concepisce un atto di espiazione che sia esterno alla vita naturale dell'individuo.[16] Non crede che la persona necessiti di battesimo per "lavar via" i propri peccati; l'ebreo crede di dover fare la sua propria espiazione e non di farsela fare.[1]

Il problema qui non è se la via ebraica sia migliore di quella cristiana o viceversa, ma solo che queste due vie sono così differenti da essere per la maggioranza di ebrei e cristiani mutualmente incomprensibili. La maggioranza degli ebrei non riesce mai neanche ad avvicinarsi ad una comprensione di cosa significhi per i cristiani la morte espiatrice del Cristo. La maggioranza non l'accetta comunque, perché è così estranea al loro intendimento di base; e coloro che riescono ad averne un intendimento abbastanza corretto, non l'accettano perché estranea alle proprie convinzioni.[1]

Non sono comunque solo questi articoli specifici che demarcano la mentalità religiosa ebraica da quella cristiana. In un senso più generico, il pensiero ebraico è intrinsecamente concreto e pratico, e quindi l'Ebraismo, nonostante la sua connessione col divino, è essenzialmente umanistico. Le controparti ebraiche della teologia medievale cristiana sono, naturalmente, esercizi intellettuali paragonabili, ma sono sussidiarie e non essenziali all'Ebraismo, e fu principalmente nel periodo medievale che questi scritti teologici ebraici affiorarono e fiorirono. In linea di massima il modo cristiano è stato quello di chiedersi in cosa credere, sostenendo che la fede può e deve condurre la persona ad agire appropriatamente; il modo ebraico è stato quello di chiedersi cosa fare, sostenendo che ciò che uno fa illumina la fede antecedente. Gli ebrei raramente hanno cercato di definire la fede, e quando l'hanno fatto, le definizioni sono pervenute da rari individui che esprimevano un giudizio individuale. Il modo cristiano, esemplificato da passato e presente, è stato di convenire un Concilio di persone autorizzate a votare e determinare in merito alla fede giusta e corretta.[17] Mai gli ebrei hanno convenuto un'assemblea di persone autorizzate a dibattere e decidere un qualche articolo di fede; un consenso comune ad una tradizione antica, e non dottrine esplicite e dogmi, hanno segnato il percorso ebraico. Nella storia ebraica ci sono nomi illustri che hanno codificato la Halakhah (Legge ebraica) — "cosa deve fare l'uomo" — e pertanto gli ebrei onorano personaggi come Joseph Karo (1488–1575) che non gradiva l'approccio filosofico, e Maimonide che gradiva entrambi gli approcci, quello halakhico, con il suo monumentale "Codice", e quello filosofico, dove conciliò l'Ebraismo con l'aristotelismo nella sua Guida dei perplessi.

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 1,7 Bernhard E. Olson, Faith and Prejudice, Yale University Press, 1963, pp. 37-66 e passim; Arnold James Rudin, Christians & Jews Faith to Faith: Tragic History, Promising Present, Fragile Future, Jewish Lights Publishing, 2011, pp. 57-64; Jeremy Cohen (cur.), Essential Papers on Judaism and Christianity in Conflict: From Late Antiquity to Reformation, New York University Press, 1991, pp. 101-135 e segg.
  2. 2,0 2,1 2,2 2,3 2,4 2,5 2,6 Gershom Scholem, L'idea messianica nell'ebraismo e altri saggi sulla spiritualità ebraica, a cura di Roberto Donatoni ed Elisabetta Zevi, con una Nota di Saverio Campanini, Adelphi, 2008, passim.
  3. 3,0 3,1 3,2 Shmuley Boteach, Kosher Jesus, Gefen Publishing House, 2012, Parte IV, partic. pp. 149-153.
  4. Esiste una notevole bibliografia sulla questione se Gesù si autoproclamasse "il Messia" o se furono i suoi discepoli che fecero tale affermazione. Inoltre, ci sono studiosi che, attribuendo l'affermazione ai discepoli, credono che non fosse durante la vita di Gesù ma solo dopo la sua risurrezione che l'asserzione fu fatta. La nebulosità dei dati conferma in buona parte queste differenze di opinione, sebbene disposizioni moderne possano forse combinarsi con tale nebulosità per raggiungere conclusioni divergenti. L'interprete si ritrova su un terreno incerto a giudicare l'evidenza, e lascia la questione aperta oppure accetta un'opinione particolare sulla base di un proprio giudizio personale riguardo alla direzione in cui lo manda l'evidenza limitata. Opinione del presente redattore è che l'associazione di Gesù con le affermazioni messianiche non attese la sua morte, ma occorse durante la sua vita. Mi pare inoltre corretto pensare che se Gesù non si proclamò attivamente Messia, perlomeno acconsentì a tale identificazione fatta da altri. Altrettanto complicata e altrettanto incerta è la questione in che senso Gesù fu concepito, o si concepì, come "il Messia". La portata della visione messianica aveva un'estesa gamma di significati tra gli ebrei, ma il pensiero cristiano che si sviluppò successivamente ampliò tale gamma ancor di più. Amettendo queste incertezze, è opinione di questo redattore che ci siano enfasi nel messianismo ebraico non contemplate dal messianismo cristiano, e che il messianismo cristiano sia marcato da temi che quello ebraico non sviluppò mai. Il messianismo cristiano crebbe allontanandosi decisamente dal messianismo ebraico, con uno sviluppo ed un'alterazione deliberata a sé stante, rifiutando temi ebraici nel corso della transizione. Nel testo di questo capitolo si descrive questa transizione schematicamente per amor di chiarezza, ma una schematizzazione ha sempre risultati schematici. Al di là della questione se lo sviluppo sia o meno discernibile quanto il testo lo presenta, il risultante contrasto tra temi messianici ebraici e cristiani è del tutto attendibile, sebbene non così semplice come viene qui presentato. Cfr. Samuel Sandmel, We Jews and Jesus, Jewish Lights Publishing, 2006, pp. 48-49.
  5. 5,0 5,1 Per questa specifica sezione si vedano specialmente E.P. Sanders, Jesus and Judaism, Fortress, 1987; Géza Vermès, Jesus the Jew, Fortress, 1973; id., The Gospel of Jesus the Jew, University of Newcastle upon Tyne, 1983; id., Jesus and the World of Judaism, SCM, 1983; id., The Religion of Jesus the Jew, Fortress, 1993; James H. Charlesworth, Jesus within Judaism, Doubleday, 1988; James H. Charlesworth (cur.), Jesus` Jewishness: Exploring the Place of Jesus in Early Judaism, Crossroads, 1991; John Meier, A Marginal Jew, 5 voll., 1991/2007 (trad. ital. Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Queriniana, 2001/2009); Bernard Lee, The Galilean Jewishness of Jesus, Paulist, 1988; Géza Vermès, Jesus in His Jewish Context, Fortress, 2003; Donald A. Hagner, The Jewish Reclamation of Jesus, Zondervan, 1984.
  6. La risposta è: "Non sta a voi di sapere i tempi e i momenti adatti, che il Padre ha stabilito di sua propria autorità" (Atti 1:7).
  7. Mentre Marco 15:12 parla del "Re dei Giudei", il parallelo in Matteo 27:17 riporta "Gesù chiamato il Cristo".
  8. Non ci sono paralleli diretti in Luca rispetto a Marco 15:12 e 18; quanto a Marco 15:32, il parallelo in Luca 23:35 manca della frase "Re d'Israele".
  9. 9,0 9,1 9,2 9,3 9,4 9,5 9,6 Mini S. Johnson, Christology: Biblical And Historical, Mittal Publications, 2005, pp. 229-235; Oscar Cullmann, The Christology of the New Testament, Westminster John Knox Press, 1959, pp. 202, 234-237. Per i paralleli coi miti antichi, cfr. Walter Burkert, Antichi culti misterici, Laterza, 1987, passim.
  10. La frase aramaica maran atha, usualmente aggregata nella parola singola maranatha (מרנא תא: maranâ thâ` - oppure מרן אתא: maran `athâ`), è presente in I Corinzi 16:22 e significa "Nostro Signore, vieni!"
  11. 11,0 11,1 11,2 11,3 11,4 11,5 11,6 Logos (in greco: λόγος) deriva dal greco λέγειν (léghein) che significa scegliere, raccontare, enumerare. Cfr. voce corrispondente in Enciclopedia Garzanti di Filosofia, 1981. I termini latini corrispondenti (ratio, oratio) si rifanno con il loro significato di calcolo, discorso al senso originario della parola. Successivamente la parola logos ha assunto nella lingua greca molteplici significati: "stima, studio (come suffisso), apprezzamento, relazione, legame, proporzione, misura, ragion d'essere, causa, spiegazione, frase, enunciato, definizione, argomento, ragionamento, ragione, disegno" - cfr. W. Cavini in Enciclopedia Garzanti, op. cit., pag. 535.
  12. Paolo non identificò esplicitamente Logos e Cristo. Questa identificazione è stata fatta da alcuni studiosi moderni e negata da altri. Frank Porter, nel suo The Mind of Christ in Paul (1930 - pp. 172-200) sembra negare tale identificazione, ma sebbene negandola a Paolo, la contempla comunque come possibilità. La questione, altamente tecnica, concerne in parte le dispute se Paolo fosse o meno il vero autore della Lettera ai Colossesi che il Nuovo Testamento gli attribuisce. Cfr. anche Roy A. Harrisville, Pandora's Box Opened: An Examination and Defense of Historical-Critical Method and Its Master Practitioners, Wm. B. Eerdmans, 2014, pp. 218-224.
  13. Successivamente la Cabala ebraica svilupperà la teoria della Shekhinah con le sue emanazioni, ma in una dimensione mistica difficile di interpretare nei relativi testi, spesso contestata dall'Ebraismo ortodosso. Cfr. Gershom Scholem, On the Kabbalah and Its Symbolism (Mysticism & Kabbalah), Random House, nuova ed. 1996.
  14. 14,0 14,1 14,2 Frase comunque redazionale, "non autentica", prodotta da successivi redattori neotestamentari protocristiani - cfr. int. al., Géza Vermès, The Authentic Gospel of Jesus, cit., pp. 419-435. La frase trinitaria nei suoi giorni nascenti, prima che venisse elaborata ed imbellita, non pare troppo difficile da definire e spiegare, sebbene i cristiani spesso affermino che sia un "mistero" al di là della comprensione umana. Fu una risposta alla domanda implicita di come Dio venisse a relazionarsi con l'uomo e l'uomo con Dio: nella formulazione il Padre naturalmente è Dio, il Dio remoto e trascendente; il figlio è il Logos-Cristo, concepito come specifico in tempo e luogo, e quindi agente in tale intervallo di tempo quando il Logos-Cristo divenne l'uomo incarnato Gesù. Lo Spirito Santo è lo spirito di Dio dopo che il Logos-Cristo riascese al cielo per aspettare il tempo del suo ritorno. Questa visione naturalmente è contestata da altre interpretazioni. Cfr. int. al., Samuel Sandmel, We Jews and Jesus, cit., pp. 48-49; Jeremy Cohen (cur.), Essential Papers on Judaism and Christianity in Conflict: From Late Antiquity to Reformation, cit., s.v. "Trinity".
  15. I cristiani, sia in antichità che in tempi recenti, hanno usato brani dell'Antico Testamento come prova delle affermazioni cristiane. Hanno preso in prestito questo metodo dagli ebrei: la "riprova testuale" usualmente implica leggere un passo dell'Antico Testamento e assegnargli un significato speciale che spesso non contiene. Quando i cristiani presentano agli ebrei tali passi, non si rendono conto di dar loro un significato speciale. Spesso i cristiani, ed in particolare i fondamentalisti, si meravigliano che gli ebrei non ammettano le interpretazioni cristiane di questi passi veterotestamentari, specialmente di brani estratti dal Libro di Isaia. La risposta naturalmente è che gli ebrei non riscontrano in tali passi gli stessi significati, specialmente le predizioni su Gesù, che i cristiani invece riscontrano. Ribadendo, il metodo usato dai cristiani è prettamente ebraico, sin dall'antichità; il contenuto, una volta che il metodo fu preso in prestito, risultò congeniale per le affermazioni cristiane. Questa riprova testuale è frequente nelle Lettere di Paolo e specialmente nel Vangelo di Matteo. Cfr. Samuel Sandmel, We Jews and Jesus, cit., p. 50.
  16. Il Cristianesimo naturalmente concepisce che la morte espiatrice di Cristo sia disponibile ad ogni persona nel corso della propria vita. La differenza che viene qui sottolienata è che l'atto di espiazione nel pensiero cristiano abbia avuto luogo una volta sola, tanto tempo fa e per sempre.
  17. La Chiesa cattolica ha avuto un organismo preposto alla difesa della fede, la Congregatio pro doctrina fidei (Congregazione per la dottrina della fede), tuttora in esistenza e fondato nel 1542 inizialmente con il nome di "Sacra Congregazione della romana e universale inquisizione", con lo scopo di vigilare sulle questioni della fede e di difendere la Chiesa dalle eresie. Questo organismo sostituì l'istituzione ecclesiastica nota nel Medioevo come "Inquisizione". Papa Benedetto XVI, ossia Joseph Aloisius Ratzinger, ne è stato prefetto quando era cardinale negli anni '80.