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Gesù della Storia, Storia di Gesù/Capitolo 13

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Gesù nella dottrina cristiana

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Nel 325 EV il Concilio di Nicea affermò la divinità di Gesù nel Credo di Nicea. Ciò portò all'emergere, oltre cinquant'anni dopo, del Credo niceno, che definisce la fede della chiesa cristiana in tutto il mondo. Al centro di entrambi c'è l'affermazione che Gesù Cristo è "Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, consustanziale [homoousios] con il Padre, per mezzo del quale tutte le cose sono state create..." L'intenzione di entrambi è chiara. Vogliono affermare con inequivocabile chiarezza che Gesù deve essere identificato come Dio incarnato: Dio non è venuto semplicemente in un essere umano, ma come umano. Ciò che è meno ovvio è che la questione in gioco qui riguarda la possibilità stessa del dialogo cristiano su Dio. Senza questa affermazione decisiva, è discutibile non solo se la chiesa cristiana avrebbe continuato a esistere, ma se la sua esistenza sarebbe stata giustificata. L’intera raison d’être della Chiesa è il riconoscimento che Gesù non è semplicemente una brava persona, o un profeta ispirato, o una persona con intuizione spirituale, ma, piuttosto, la presenza stessa di Dio che si identifica con l'umanità e si rivela all'umanità in un atto riconciliatore di grazia pura e inaspettata.

Se l'ortodossia nicena è ancora la definizione ufficiale della fede della chiesa cristiana, i suoi critici sono più espliciti che mai. In effetti, a volte sembra che il carattere distintivo di molta teologia moderna sia una determinazione condivisa a prendere le distanze dalle affermazioni nicene. C'è una diffusa insistenza sul fatto che le antiche affermazioni del credo niceno costituiscano una mitologia prescientifica da cui una fede cristiana illuminata e inclusiva, giunta alla maturità, è obbligata a liberarsi.

☆ I due testi del Credo niceno:

La versione latina usata nel rito romano è sostanzialmente fedele al testo del Concilio del 381, ma pronunciato al singolare (credo) invece dell'originale plurale (crediamo) e contiene due aggiunte rispetto al testo liturgico greco: Deum de Deo, frase che si trovava nel testo del Concilio del 325, e l'espressione Filioque.[1] La traduzione italiana è la versione del Messale Romano, seconda edizione (1983).

Tra [parentesi quadre] le parti del simbolo niceno omesse dal successivo niceno-costantinopolitano. In grassetto le parti assenti nel simbolo niceno e aggiunte dal successivo niceno-costantinopolitano. In corsivo i verbi cambiati da plurale a singolare e le frasi aggiunte al testo niceno-costantinopolitano.

Primo Concilio di Nicea (325)
Simbolo niceno[2]
Primo Concilio di Costantinopoli (381)
Simbolo niceno-costantinopolitano[3]
Testo latino[4]
del Simbolo niceno-costantinopolitano
Traduzione italiana
del Simbolo niceno-costantinopolitano
Πιστεύομεν εἰς ἕνα Θεόν
Πατέρα παντοκράτορα,
[πάντων] ὁρατῶν τε και ἀοράτων ποιητήν.
Πιστεύομεν εἰς ἕνα Θεόν,
Πατέρα Παντοκράτορα,
ποιητὴν οὐρανοῦ καὶ γῆς,
ὁρατῶν τε πάντων καὶ ἀοράτων.
Credo in unum Deum,
Patrem omnipotentem,
factórem caeli et terrae,
visibilium omnium et invisibilium.
Credo in un solo Dio,
Padre onnipotente,
creatore del cielo e della terra,
di tutte le cose visibili e invisibili.
Καὶ εἰς ἕνα κύριον Ἰησοῦν Χριστόν,
τὸν υἱὸν τοῦ θεοῦ,
γεννηθέντα ἐκ τοῦ Πατρὸς μονογενῆ,
Καὶ εἰς ἕνα Κύριον Ἰησοῦν Χριστόν,
τὸν Υἱὸν τοῦ Θεοῦ τὸν μονογενῆ,
τὸν ἐκ τοῦ Πατρὸς γεννηθέντα πρὸ πάντων τῶν αἰώνων·
Et in unum Dóminum Iesum Christum,
Fílium Dei Unigenitum,
et ex Patre natum ante omnia saecula.
Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
[τουτέστιν ἐκ τῆς ουσίας τοῦ Πατρός,]
[θεὸν εκ θεοῦ,] Deum de Deo, Dio da Dio,
φῶς ἐκ φωτός,
Θεὸν ἀληθινὸν ἐκ Θεοῦ ἀληθινοῦ,
γεννηθέντα οὐ ποιηθέντα,
ὁμοούσιον τῷ πατρί,
δι' οὗ τὰ πάντα ἐγένετο,
φῶς ἐκ φωτός,
Θεὸν ἀληθινὸν ἐκ Θεοῦ ἀληθινοῦ,
γεννηθέντα οὐ ποιηθέντα,
ὁμοούσιον τῷ Πατρί,
δι' οὗ τὰ πάντα ἐγένετο.
lumen de lumine,
Deum verum de Deo vero,
genitum, non factum,
consubstantialem Patri:
per quem omnia facta sunt.
Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.
[τά τε ἐν τῷ οὐρανῷ καὶ τά ἐν τῇ γῆ].
Tὸν δι' ἡμᾶς τοὺς ἀνθρώπους
καὶ διὰ τὴν ἡμετέραν σωτηρίαν
κατελθόντα
καὶ σαρκωθέντα,
ἐνανθρωπήσαντα,
Τὸν δι' ἡμᾶς τοὺς ἀνθρώπους
καὶ διὰ τὴν ἡμετέραν σωτηρίαν
κατελθόντα ἐκ τῶν οὐρανῶν
καὶ σαρκωθέντα ἐκ Πνεύματος Ἁγίου
καὶ Μαρίας τῆς Παρθένου

καὶ ἐνανθρωπήσαντα.
Qui propter nos homines
et propter nostram salutem
descendit de caelis.
Et incarnatus est de Spiritu Sancto
ex Maria Virgine
,
et homo factus est.
Per noi uomini
e per la nostra salvezza
discese dal cielo
e per opera dello Spirito Santo
si è incarnato nel seno della Vergine Maria
e si è fatto uomo.
παθόντα, Σταυρωθέντα τε ὑπὲρ ἡμῶν ἐπὶ Ποντίου Πιλάτου,
καὶ παθόντα
καὶ ταφέντα.
Crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato;
passus
et sepultus est.
Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato,
morì
e fu sepolto.
καὶ ἀναστάντα τῇ τριτῇ ἡμέρᾳ, Καὶ ἀναστάντα τῇ τρίτῃ ἡμέρᾳ
κατὰ τὰς Γραφάς.
Et resurrexit tértia die,
secundum Scripturas,
Il terzo giorno è risuscitato,
secondo le Scritture,
καὶ ἀνελθόντα εἰς τοὺς οὐρανούς, Καὶ ἀνελθόντα εἰς τοὺς οὐρανοὺς
καὶ καθεζόμενον ἐv δεξιᾷ τοῦ Πατρός.
et ascendit in caelum,
sedet ad dexteram Patris.
è salito al cielo,
siede alla destra del Padre.
ἐρχόμενον
κρῖναι ζῶντας καὶ νεκρούς.
Καὶ πάλιν ἐρχόμενον μετὰ δόξης
κρῖναι ζῶντας καὶ νεκρούς,
οὗ τῆς βασιλείας οὐκ ἔσται τέλος.
Et iterum venturus est cum gloria,
iudicare vivos et mortuos,
cuius regni non erit finis.
E di nuovo verrà, nella gloria,
per giudicare i vivi e i morti,
e il suo regno non avrà fine.
Καὶ εἰς τὸ Ἅγιον Πνεῦμα. Καὶ εἰς τὸ Πνεῦμα τὸ Ἅγιον,
τὸ κύριον καὶ τὸ ζῳοποιόν,
τὸ ἐκ τοῦ Πατρὸς ἐκπορευόμενον,
τὸ σὺν Πατρὶ καὶ Υἱῷ συμπροσκυνούμενον καὶ συνδοξαζόμενον,
τὸ λαλῆσαν διὰ τῶν προφητῶν
.
Et in Spíritum Sanctum,
Dominum et vivificantem:
qui ex Patre Filioque procedit.
Qui cum Patre et Filio simul adoratur et conglorificatur:
qui locutus est per prophetas
.
Credo nello Spirito Santo,
che è Signore e dà la vita,
e procede dal Padre e dal Figlio.
Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato,
e ha parlato per mezzo dei profeti
.
Εἰς μίαν, Ἁγίαν, Καθολικὴν καὶ Ἀποστολικὴν Ἐκκλησίαν. Et unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam. Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.
Ὁμολογοῦμεν ἓν βάπτισμα εἰς ἄφεσιν ἁμαρτιῶν. Confiteor unum baptisma in remissionem peccatorum. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati.
Προσδοκοῦμεν ἀνάστασιν νεκρῶν. Et exspecto resurrectionem mortuorum, Aspetto la risurrezione dei morti
Καὶ ζωὴν τοῦ μέλλοντος αἰῶνος. Ἀμήν.. et vitam venturi saeculi. Amen. e la vita del mondo che verrà. Amen.
[Τοὺς δὲ λέγοντας·
ἦν ποτε ὅτε οὐκ ἦν,
καὶ πρὶν γεννηθῆναι οὐκ ἦν,
καὶ ὅτι ἐξ οὐκ ὄντων ἐγένετο,
ἢ ἐξ ἑτέρας ὑποστάσεως
ἢ οὐσίας
φάσκοντας εἶναι,
ἢ κτιστόν,
ἢ τρεπτὸν ἢ ἀλλοιωτὸν
τὸν υἱὸν τοῦ θεοῦ,
ἀναθεματίζει
ἡ καθολικὴ ἐκκλησία.][5]

Il tono di gran parte del dibattito contemporaneo può essere ricondotto all'eminente storico del cristianesimo, Adolf von Harnack, che, alla fine del diciannovesimo secolo, sostenne che la dottrina nicena dell'incarnazione era il risultato di un processo ellenizzante attraverso il quale concetti e categorie metafisiche greche venivano imposti in modo inappropriato alle affermazioni del Nuovo Testamento. L'implicazione era che le affermazioni cristologiche del Nuovo Testamento dovessero essere considerate – come spesso si suggerisce oggigiorno – essenzialmente "funzionali" piuttosto che "ontologiche". In effetti, gli ultimi duecento anni sono stati caratterizzati da un desiderio diffuso – esemplificato in Albrecht Ritschl, il padre della "teologia liberale" – di polemizzare queste affermazioni presumibilmente "metafisiche" alla fede "semplice" del Nuovo Testamento.

Negli ultimi trent'anni, questa affermazione è stata reiterata insieme all'accusa che l'"ellenizzazione" del cristianesimo ha contribuito a generare una fede esclusivamente "eurocentrica" ​​legata a forme di pensiero europee che non sono più appropriate in un mondo "post-eurocentrico", multiculturale, multietnico e multilingue, un mondo caratterizzato da case spirituali e filosofiche diverse e disparate. Di conseguenza, è emersa una nuova generazione di cristologie "indigene" e "contestuali" che hanno cercato di prendere le distanze da quelle che sono percepite come le categorie astruse dell'ortodossia nicena e tentano di reinterpretare il significato di Gesù alla luce delle spiritualità caratteristiche dei loro contesti specifici. Esempi notevoli di tale approccio sono stati trovati emergenti nel sud-est asiatico, all'interno dei contesti molto diversi di Sri Lanka, India, Cina, i lavoratori oppressi (Minjung) della Corea del Sud, i contadini del Giappone e della Thailandia e coloro che sono coinvolti nelle lotte politiche nelle Filippine.

Una critica "contestuale" di tipo diverso ma correlato è emersa nei recenti dibattiti femministi, che hanno visto l'affermazione dell’homoousios come un mezzo per divinizzare il "maschio". Come ha chiesto Elisabeth Moltmann-Wendel, come è possibile che identificare Dio con un essere umano maschio possa essere liberatorio per oltre il 50 percento della razza umana? Mary Daly ha notoriamente insistito sul fatto che se Dio è maschio, allora maschio è Dio. Il cristianesimo niceno, si suggerisce, serve a elevare la mascolinità e proprio questo è stato consacrato nella vita e nella pratica della chiesa da allora. La tendenza delle teologhe femministe contemporanee è stata, quindi, quella di sostenere "teologie dal basso", aggirando le affermazioni incarnazionali caratteristiche della tradizione nicena in modo che il discorso su Dio possa essere consentito di dispiegarsi dall'esperienza e dalla spiritualità delle donne.

Alla base e a rafforzare queste tendenze, tuttavia, c'è un sospetto sulla dottrina dell'incarnazione che ha ossessionato la teologia cristiana fin dall'Illuminismo. Ciò è esemplificato in tempi moderni nell'influente raccolta di saggi intitolata The myth of God incarnate (Hick 1977). In questo volume un gruppo di influenti studiosi biblici e teologi sosteneva che era giunto il momento di riconoscere che la dottrina dell'incarnazione era un pezzo di mitologia più appropriato ai modelli di pensiero della civiltà antica che a quelli della società contemporanea. Un programma simile ha trovato espressione nelle discussioni sull'incarnazione non solo come "mito" ma anche come "metafora", "storia", "favola", "parabola" e "saga". La supposizione di fondo è che la dottrina cristiana dovrebbe liberarsi dalle proiezioni "mitologiche" che hanno caratterizzato l'ortodossia cristiana tradizionale.

Alla luce di tutto ciò, è di fondamentale importanza notare che la preoccupazione di distinguere la teologia dalla mitologia non è affatto nuova. Certamente, ha informato i programmi di Rudolf Bultmann all'inizio del ventesimo secolo, e di David Friedrich Strauss un secolo prima di lui; ma, come vedremo, era al centro dei dibattiti niceni del quarto secolo. Per questo motivo, è necessario che consideriamo in modo approfondito le preoccupazioni e le intuizioni teologiche che hanno portato i Padri a stabilire la dottrina dell'incarnazione come il perno della dottrina cristiana e la chiave per interpretare chi è Gesù.

Il dibattito tra Atanasio e Ario

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Per approfondire su Wikipedia, vedi le voci Atanasio di Alessandria e Ario.

I dibattiti niceni derivarono da un disaccordo tra Ario e il suo vescovo, Alessandro, che Ario riteneva avesse opinioni confuse riguardo allo status del Figlio. Alessandro, credeva Ario, non riusciva a distinguere tra il Padre e il Figlio e rischiava di introdurre una fusione "sabelliana" dei due. Fondamentale per l'approccio di Ario era una dicotomia tra Dio e il mondo, dove Dio è identificato come "ciò che non ha causa o fonte al di fuori di sé" e il mondo come ciò che ce l'ha. Essere confusi su questa distinzione significava commettere un errore filosofico fondamentale, vale a dire, minare la differenza qualitativa assoluta tra Dio e ciò che non è Dio. Questa supposizione si sposò, nella mente di Ario, a una confusione tra due concetti greci simili ma completamente diversi, vale a dire, tra la parola gennétos che significa "generato" e genétos che significa "è venuto ad essere". Di conseguenza, Ario credeva che descrivere il Figlio come "genétos" (generato) implicasse il suo essere "genétos", cioè il suo essere venuto all’esistenza. Se fosse venuto all’esistenza, non avrebbe potuto essere eterno e quindi non avrebbe potuto essere Dio.

Di conseguenza, Ario cercò di ribadire la dicotomia tra Dio Padre e il Figlio, insistendo sul fatto che non c'è mai stato un tempo in cui il Padre non esisteva, ma che c’è stato un tempo in cui il Figlio non esisteva: "Il Figlio ha un inizio, ma Dio è senza inizio".[6] Di conseguenza, sosteneva, il Figlio non era né poteva essere "di un solo essere" con il Padre, ma era stato creato da Lui. Per Ario, quindi, il Figlio non era Dio, ma apparteneva al reame contingente e creaturale — sebbene come "prima creatura" (prôton ktisma). Creato per primo, era colui attraverso il quale tutto il resto era stato fatto.[7]

I dibattiti che circondavano Nicea erano tempestosi, politici e politicizzati. In gioco, tuttavia, c'erano questioni teologiche di importanza cruciale, le cui ramificazioni furono percepite da Atanasio con notevole chiarezza e profondità. Quindi, come è possibile che una disputa metafisica apparentemente così astrusa potesse avere un significato così decisivo? E perché la lotta tra Ario e Nicea sulla parola "homoousion" era così inevitabile? Come sottolinea Alasdair Heron (1981:67), non era la parola in sé (homoousion) ad essere importante per Atanasio, ma ciò che affermava. E ciò che affermava era semplicemente che la realtà di Dio stesso è presente con noi e per noi in Cristo.

Ma se questo dovesse diventare la vera chiave di volta per cui la fede cristiana sarebbe rimasta in piedi o sarebbe caduta, cosa ha salvaguardato l’homoousion che non è stato ugualmente preservato dall’interpretazione di Ario del Figlio come la “prima creatura”? Heron (1981:68) risponde:

« To this eminently reasonable question Athanasius had a single shattering answer. What was missing in Arius’ entire scheme was, quite simply, God himself. True, he was there – after a fashion. He was there, but he was silent, remote in the infinity of his utter transcendence, acting only through the intermediacy of the Son or Word, between whose being and his own, Arius drew such a sharp distinction. The God in whom Arius believed had no direct contact with his creation; he was for ever and by definition insulated and isolated from it in the absolute serenity of an unchanging and unmoving perfection. God himself neither creates nor redeems it; he is involved with it only at second hand. »

Ciò che emerse dal dibattito è una questione che ha ossessionato la dottrina cristiana fino ai giorni nostri, vale a dire l'incompatibilità basilare e fondamentale tra il Dio della testimonianza biblica e il Dio ellenizzato dell'arianesimo. Come Atanasio vide con tanta chiarezza, le interpretazioni bibliche di Gesù hanno significato teologico solo se si riferiscono a un Dio che è presente e che agisce nel e per il mondo che ha creato. La fede cristiana vive, quindi, del riconoscimento che la presenza e l'attività di Dio sono concentrate in modo unico nella persona di Cristo che è riconosciuto attraverso lo Spirito come Emmanuele, Dio-con-noi. Per Atanasio, quindi, l'incarnazione costituisce il cardine tra Dio e l'umanità. Senza tutto ciò il nostro "discorso su Dio" perde i suoi fondamenti e può solo crollare in proiezioni ingiustificate sul trascendente delle autocomprensioni di creature che erano letteralmente prive di conoscenza (agnôsis). Se Dio non si è dato in modo che le creature ne parlino all'interno dell'ordine contingente, la "teologia" non può essere altro che una confusa speculazione mitologica di un tipo che solo la "follia" (mania) potrebbe identificare con il veritiero discorso di Dio. In breve, per Atanasio, le supposizioni elleniche dell'arianesimo lo spingevano a scartare a priori la possibilità stessa che Dio potesse identificarsi con la storia umana e quindi i fondamenti stessi della fede cristiana. Nella misura in cui gli ariani facevano una qualsiasi affermazione sulla relazione di Dio con l'ordine contingente, they were hoist on their own petard. Tali affermazioni devono essere considerate, alle loro stesse condizioni, del tutto prive di fondamento.

Heron (1981:70) offre ancora una volta un riassunto chiaro della situazione:

« If one takes seriously Arius’ conception of the divine being, it is hard to see how anyone could know anything about God at all. By a curious irony, on which Athanasius was not slow to remark, Arius seemed to possess a good deal of privileged information. But where had he got it from? Athanasius was in no doubt about the source: the Arians had fabricated this concept of the divine being out of their own minds, thus making their own intellects the measure of ultimate reality, and assigning to Christ, the Word-made-flesh, the place which their minds could make for him. »

Per Atanasio, era il fatto che Gesù fosse l'eterna Parola di Dio fatta carne a costituire il fondamento del discorso cristiano su Dio. Gesù mediava la conoscenza di Dio perché era "Emmanuele". Se non lo fosse stato, allora non è affatto chiaro come possa essere rilevante per il discorso su Dio in alcun modo. Questo, tuttavia, sembra porre un problema per Atanasio. Affermare che Gesù è "uno con il Padre" non risolve di per sé il problema. La conoscenza di Dio non è mediata da Gesù a meno che, in primo luogo, egli non sia identificato con l'essere di Dio e a meno che, in secondo luogo, egli non sia, e possa essere, riconosciuto come tale. Senza quest'ultima condizione, l'incarnazione non facilita in alcun modo la conoscenza di Dio. L'incarnazione di Dio come Gesù non comunicherebbe la conoscenza di Dio più di quanto non lo comunicherebbe l'incarnazione di Dio come un pesce in un ruscello di montagna!

Ciò non passò inosservato ad Atanasio, il quale era chiaro nel dire che il Nuovo Testamento non testimonia semplicemente l'identificazione di Dio con l'umanità in Gesù, ma, simultaneamente, la presenza di Dio con l'umanità nella persona dello Spirito Santo. È attraverso lo Spirito Santo che agli esseri umani vengono dati gli occhi per percepire chi è Gesù, e quindi consentire all'incarnazione di diventare un evento che rivela effettivamente Dio. Per Atanasio, affermare l’homoousion del Verbo incarnato era inestricabilmente legato all'affermazione dell’homoousion dello Spirito Santo — un punto non sufficientemente apprezzato nel corso della storia quando si trattava della valutazione teologica delle affermazioni incarnazionali. La presenza trasformante dello Spirito Santo che era "un essere con il Padre", era la condizione soggettiva necessaria per il riconoscimento di Gesù come Verbo incarnato. Ciò che questo chiarisce è che il posto di Gesù nelle affermazioni dottrinali formative della chiesa cristiana è fondato sulla struttura irriducibilmente trinitaria della fede della chiesa. Se Dio non è presente come Spirito Santo nella e con la "mente" della chiesa, allora non c’è alcuna possibilità che quella "mente" riconosca o sia informata dalla presenza di Dio in Gesù. Come Gesù spiegò chiaramente a Pietro dopo aver riconosciuto chi fosse Gesù, "né la carne né il sangue te l'hanno rivelato..."

Il rapporto tra Gesù e il fine creativo e salvifico di Dio

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Finora ci siamo concentrati sul significato dell’homoousion per la conoscenza di Dio e la garanzia del dialogo con Dio intrinseco alla fede cristiana. Sebbene tali questioni fossero e siano fondamentali per l'interpretazione da parte della chiesa del posto di Gesù nella dottrina cristiana, ci sono ulteriori e molto più ampi problemi in gioco qui. Il dibattito tra Atanasio e l'arianesimo in tutte le sue forme ha profonde ramificazioni per l'interpretazione della relazione di Dio con la creazione e, in effetti, per l'intera grammatica della salvezza. È a queste domande che dobbiamo ora rivolgerci.

I resoconti sinottici della presenza guaritrice e ristoratrice di Gesù lo identificano con l'agenzia creativa di Dio, un'implicazione formulata più esplicitamente nei resoconti giovannei e paolini. Proprio come nell'evento della creazione Dio impose una forma alle forze del caos (simboleggiato, ad esempio, dal vento e dall'acqua), così Gesù esercitò un potere parallelo su quegli stessi simboli del caos, calmando la tempesta, scacciando gli spiriti maligni e liberando le persone dalla disfunzione fisica e spirituale. L'implicazione era che, come sosteneva Paolo, Gesù rappresenta la presenza riconciliatrice di Dio, la "pienezza della Divinità che dimora corporalmente", "colui attraverso il quale e per il quale tutte le cose furono create" che riconcilia una creazione alienata con Dio e ricapitola gli scopi di Dio per essa.

Per Atanasio, nessuna di queste affermazioni può avere alcun senso senza il riconoscimento che nella persona del Logos incontriamo l'energia creativa di Dio stesso, quella stessa energia senza la quale nulla esisterebbe. In radicale contrasto con questo, tuttavia, per Ario e i suoi discepoli (come si possono trovare fino ai giorni nostri), non incontriamo (e non possiamo incontrare) il Creatore nella persona del Verbo poiché, in ultima analisi, Gesù stesso è semplicemente un'altra creatura e oggetto dell'atto creativo di Dio — e, come tale, non deve essere confuso con Dio.

I problemi con l'approccio ariano si aggravano ulteriormente quando arriviamo a considerare il ruolo soteriologico di Gesù. Centrale per la testimonianza biblica è il riconoscimento che solo Dio può redimere il suo popolo. Questo perché il peccato è percepito come una violazione del Creatore e dei suoi scopi da parte delle Sue creature. Nella misura in cui il peccato è peccato contro Dio (e non semplicemente un problema interno alla creazione), solo Dio può essere l'Agente di riconciliazione e perdono. Inoltre, la natura stessa dell'alienazione dell'ordine creato è tale che non è in grado di ripristinare se stesso. È proprio perché l'ordine contingente non può riconciliarsi con Dio che, come ha sottolineato Paolo, Dio viene, in Cristo, a riconciliare il mondo con Sé. Era questo che stava dietro l'enfasi di Ireneo sul fatto che in Gesù, Dio Figlio ha preso ciò che era nostro (vale a dire, la nostra condizione alienata e confusa), e l'ha guarito in modo che potessimo avere ciò che è Suo (la comunione con Dio che era lo scopo creativo di Dio per l'umanità fin dall'inizio). Questa insistenza, concepita come un riassunto del vangelo, era centrale nell'ortodossia patristica. In effetti, troviamo Gregorio di Nazianzo che ne sottolinea le implicazioni negative, vale a dire che l'inaccettabile è l'irredento: ciò che Dio non ha preso per Sé nella persona di Gesù non è sanato e non può essere sanato.

In netto contrasto con questo, descrivere Gesù come "salvatore" da una prospettiva ariana suggerisce che la salvezza non è altro che un piccolo aggiustamento interno all'ordine contingente, qualcosa che una creatura può compiere in relazione alle altre. Significa suggerire, inoltre, che Dio non è l'oggetto del peccato, che non è offeso dal peccato e, in ultima analisi, che è completamente estraneo al rapporto con il peccato. La riconciliazione e l'espiazione, lungi dall'essere eventi che hanno luogo tra Dio e l'umanità, hanno luogo esclusivamente tra le creature. Per Ario e coloro che si collocano nella sua tradizione, il divario tra Dio e la creazione è assiomatico, un presupposto essenziale del pensiero ellenico. Per Atanasio, l'unica separazione tra la creazione e il suo Creatore è quella generata – dal lato umano – dal peccato, un'alienazione che Dio ha determinato di superare in Gesù (cfr. Heron 1981:70–71).

Ciò che diventa inequivocabilmente chiaro da ciò, quindi, è che le formulazioni dottrinali decisive nella cristologia della chiesa primitiva mostrano che, lungi dall'essere "ellenizzatori" del Vangelo, Atanasio e i padri niceni si proponevano di affermarne il contenuto proprio al di sopra e contro le disgiunzioni ellenistiche — tra il divino e il contingente, tra l'eterno e lo spazio-temporale, tra mente e corpo e tra i reami dell'intelligibile e del sensibile. Per Atanasio, la fede cristiana era fondata sul riconoscimento di Dio come un Dio di grazia, completamente e profondamente coinvolto (e impegnato) nel mondo che aveva creato — un Dio il cui scopo fin dall'inizio di tutte le cose era quello di portare le creature in comunione dinamica con Sé stesso. Il contrasto tra questo Dio e il Dio remoto, metafisicamente trascendente e monadico dell'arianesimo difficilmente potrebbe essere più netto.

I dibattiti teologici moderni hanno continuato a essere influenzati dalla stessa tendenza a supporre una dicotomia ariana e, in effetti, ellenistica tra il divino e il contingente. L'inclinazione a operare sulla base di ipotesi a priori circa l'attualità, la possibilità e i confini dell'impegno di Dio con l'ordine contingente è stata almeno tanto influente nei dibattiti teologici moderni quanto lo è stata nella teologia del quarto secolo. La questione fondamentale in gioco, per tutta la storia dell'interpretazione di Gesù nella dottrina cristiana, riguarda non solo se Dio sia coinvolto – o sia in grado di essere coinvolto – nell'ordine contingente, ma se le narrazioni evangeliche e gli scritti del Nuovo Testamento forniscano una garanzia per un discorso su Dio di qualsiasi tipo. L'alternativa, come vide Atanasio, è che siamo semplicemente obbligati a ritirarci nell’agnôsis e nella proiezione irrazionale delle nostre precedenti affiliazioni epistemiche filosofiche o culturali sul trascendente — una forma di attività meglio descritta come "mitologia" che "teologia". Come dovrebbe essere ormai abbastanza chiaro, le basi di questo dibattito secolare sulle affermazioni dottrinali riguardo a Gesù non ruotano attorno alla parola "homoousion", ma attorno a ciò a cui si riferisce, ovvero ciò che i padri niceni cercavano di affermare quando la usavano. La sfida che Nicea lancia alla modernità, alla postmodernità e alle varie forme di teologie guidate dal contesto (a cui abbiamo fatto riferimento all'inizio di questo Capitolo) è – se devono respingere il linguaggio dell'incarnazione – se possano fornire una giustificazione alternativa per le affermazioni teologiche cristiane che possieda altrettanta coerenza, rigore e coesione di quella che deriva dalle affermazioni incarnazionali e pneumatologiche dei padri niceni.

L'umanità di Gesù

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Finora abbiamo cercato di considerare i punti di forza dell'affermazione nicena della divinità di Gesù. È anche vero che la tradizione nicena ha lasciato la porta aperta a tendenze più problematiche. Una conseguenza sfortunata e involontaria dei dibattiti niceni è stata l'emergere di un'unilateralità nell'interpretazione cristologica. Nel suo monumentale studio, The place of Christ in liturgical prayer, Joseph Jungmann (1989) ha esplorato l'impatto distorto che la paura dell'arianesimo avrebbe avuto sull'interpretazione del significato di Gesù per il culto cristiano. La preoccupazione di evitare qualsiasi sminuzione ariana della divinità di Cristo ha portato la chiesa a enfatizzare la divinità di Gesù a scapito dell'importantissima enfasi sulla sua umanità. Gesù è stato quindi visto come un oggetto di preghiera e culto, ma con il risultato che il riconoscimento del suo ruolo di agente e mediatore di preghiera e culto ne ha sofferto. Le preghiere erano dirette a Cristo piuttosto che attraverso Cristo, con una conseguente perdita di enfasi sul sacerdozio di Gesù, sul riconoscimento che egli prega con e per il suo popolo, come nostro Intercessore (cfr. Giovanni 17 e Romani 8), come nostro Advocate umano e Sacerdote della nostra confessione, nel linguaggio dell'autore di Ebrei. Mentre i Padri avevano sottolineato che in Cristo abbiamo Dio che viene all’umanità come Dio (ciò che T. F. Torrance 1965:131-32 definisce il movimento anipostatico o verso Dio-uomo), la loro enfasi integrale e concomitante sul fatto che l’incarnazione denota simultaneamente la presentazione dell’umanità da parte del Figlio incarnato al Padre come suo simile umano (il movimento enipostatico, verso l’uomo-Dio) è stata indebolita. Senza questo duplice movimento, la grammatica essenziale del Nuovo Testamento — vale a dire che Gesù rappresenta sia la venuta di Dio all'umanità come Dio, sia la riconciliazione e la rappresentazione dell'umanità da parte di Dio a Se stesso come il vero umano (eschatos Adam, l'“Ultimo” o “Secondo Adamo”) — è andata perduta.

In breve, la paura di una denigrazione ariana della divinità di Cristo aprì la porta al fallimento della chiesa nel prendere sufficientemente sul serio la piena umanità di Cristo. Mentre la chiesa aveva lottato con le tendenze ariane, dovette anche lottare con la tendenza opposta (anche se correlata) "apollinariana". Come Ario, anche Apollinare non riuscì a tenere insieme la divinità e l'umanità di Cristo, ma prese una piega diversa. Suggerì che il Logos eterno espropriasse l'anima umana di Gesù in modo tale che qualsiasi "fonte umana di iniziativa" (nella frase di G. T. D. Angel [1978:56]) fosse sostituita da Dio. La mente di Cristo fu identificata con il Logos eterno e non doveva quindi essere considerata umana. L'effetto di ciò fu quello di suggerire, da un lato, che la vita umana di Gesù era una specie di sciarada e, dall'altro, che gli esseri umani non hanno un salvatore, un avvocato, un rappresentante o un "sacerdote" completamente umano e che le tentazioni e le sofferenze di Gesù non erano in ultima analisi affatto "umane". Gesù cessò, per questo motivo, di essere uno che, sotto ogni aspetto, ha sofferto ed è stato tentato come lo siamo noi (cfr. Ebrei 4:15;5:7-8). Le implicazioni soteriologiche dell'apollinarismo, inoltre, erano altrettanto chiare. Se l'inassunto è l'irredento, allora Dio non ha redento la mente umana in Cristo. Non è quindi possibile per gli esseri umani avere "quella mente che era in Cristo Gesù" né, in effetti, partecipare alla sua conoscenza del Padre, poiché la sua conoscenza del Padre non è una conoscenza umana. L'effetto dell'apollinarismo fu quello di reintrodurre la dicotomia ellenica tra mente e corpo, tra divino e umano. In tal modo, parallelamente all'arianesimo, minò il dictum patristico secondo cui il Figlio prese "ciò che era nostro" (la nostra piena umanità) e lo redense in toto, affinché noi potessimo avere ciò che è suo, vale a dire, la partecipazione come esseri umani alla vita divina. Come l'arianesimo prima di esso, l'apollinarismo fu condannato dalla chiesa nel "Tomo di Damaso" (382) che emerse dal Concilio di Roma.[8]

Sebbene condannata, una tendenza apollinaresca venata di paura dell'arianesimo ebbe una profonda influenza sulla grammatica del culto cristiano. Se il culto denota la risposta piena e onnicomprensiva dell'umanità alla fedeltà amorevole di Dio, non è qualcosa che gli esseri umani peccatori sono in grado di offrire. La logica del Nuovo Testamento, tuttavia, è che la fedele risposta umana di gratitudine a Dio – quella onnicomprensiva corrispondente alla fedeltà incondizionata di Dio che ci è richiesta (e che non conosce dicotomia tra culto ed "etica", cioè "valore") – è fornita da Dio per conto dell'umanità in Gesù. Solo Lui offre quella vera risposta umana, quella fede e fedeltà, culto e koinonia, che l'umanità non può offrire. In altre parole, Dio ci fornisce per grazia l'Amen a Dio e il proposito di Dio richiesto da noi. Questo è offerto da Gesù come umano e al nostro posto come nostro parente-redentore, come il Secondo Adamo. Questo stesso Signore risorto, quindi, viene a unire donne e uomini a lui per mezzo dello Spirito, affinché giungano a vivere alla luce della risposta che egli ha offerto per loro e continua a offrire come loro Sommo Sacerdote. L'esistenza del Corpo di Cristo, la Nuova Umanità, è quindi caratterizzata da Paolo come partecipazione "in Cristo" — un'espressione che usa più di 150 volte! L'adorazione (concepita in questo modo onnicomprensivo) richiede di essere vista in prima istanza non come qualcosa che gli esseri umani forniscono in sé e per sé, ma come qualcosa che Gesù compie per loro. Sia l'adorazione che l'etica (concepite come gratitudine vissuta) devono essere considerate, quindi, quale dono di partecipare, per mezzo dello Spirito, alla sua vita di adorazione e comunione con il Padre.

Quando la paura dell'arianesimo, unita all'apollinarismo, sminuì l'umanità di Gesù, il suo effetto fu quello di minare questa visione della piena portata della grazia di Dio. L'adorazione divenne un "compito" che gli esseri umani sono tenuti a svolgere in relazione a Gesù piuttosto che il dono di partecipare alla sua umanità, alla sua vita risorta e al suo sacerdozio continuo. L'impatto sulla storia della chiesa fu che l'adorazione divenne un obbligo "legale" imposto all'umanità piuttosto che il dono "filiale" di partecipare alla vita divina — e che si trova al centro stesso del vangelo.

In che senso umano?

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Un'ulteriore tendenza correlata che caratterizzò il tentativo della chiesa primitiva di articolare chi fosse Gesù, riguardava l'interpretazione della sua sofferenza. C'era un presupposto profondamente radicato nella filosofia del tempo, secondo cui ciò che è veramente reale non poteva cambiare. Immutabilità, incorruttibilità e impassibilità andavano di pari passo. Se una di queste fosse stata messa in discussione, avrebbe implicato che Dio potesse cambiare. Ciò a sua volta equivarrebbe ad affermare (a) che Dio aveva acquisito una sorta di "realtà" che in precedenza era mancante, o (b) che Dio stava perdendo una qualche forma di "realtà" che possedeva in precedenza. Entrambe le cose erano considerate inaccettabili poiché mettevano in discussione la Realtà ultima e la "Divinità" di Dio. Di conseguenza, c'era un estremo nervosismo nell'implicare il divino troppo da vicino in qualsiasi "cambiamento" ritenuto appropriato all'umanità di Gesù.

Pertanto, la paura di confondere la divinità di Gesù con un'umanità concepita come transitoria, mutevole, corruttibile, mortale e capace di sofferenza generava una tensione. Affermare l’homoousios implicava l'insistenza sul fatto che Gesù era "un essere con il Padre". Di conseguenza, era chiaro che le "nature" divina e umana non dovevano essere separate. Allo stesso tempo, l'incarnazione non poteva significare il crollo del divino nell'umano. La strategia adottata dal Concilio di Calcedonia fu quella di salvaguardare la divinità e l'umanità di Gesù ripudiando ogni confusione delle due, da un lato, e ogni separazione delle due dall'altro. Riaffermando che Gesù Cristo è homoousios con il Padre, il Concilio affermava:

« Perciò, seguendo i santi Padri, noi tutti di unico accordo insegniamo agli uomini di conoscere uno e lo stesso Figlio, nostro Signore Gesù Cristo, completo nella Divinità e nell'umanità allo stesso tempo, autenticamente Dio ed autenticamente uomo, essendo completo di un'anima razionale e di un corpo; di una sostanza con il Padre per quanto riguarda la sua divinità e allo stesso tempo di una sostanza con noi per quanto concerne la sua umanità; come noi in tutti gli aspetti eccetto che nel peccato; quanto alla sua divinità generato dal Padre prima dei tempi, ma per la sua umanità generato per noi uomini e per la nostra salvezza da Maria la Vergine, la portatrice di Dio; uno e lo stesso Cristo, Figlio, Signore, Unigenito, riconosciuto IN DUE NATURE, SENZA CONFUSIONE, SENZA CAMBIAMENTO, SENZA DIVISIONE, SENZA SEPARAZIONE; la distinzione tra le nature non è affatto annullata dall'unione, ma piuttosto le caratteristiche di ciascuna natura sono conservate e procedono assieme per formare una persona [prosôpon] ed una subsistenza [hypostasis], non divise o separate in due persone, ma uno solo e lo stesso Figlio e unigenito Dio la Parola, Signore Gesù Cristo; come anche i profeti dagli antichi tempi hanno parlato di lui e il nostro Signore Gesù Cristo stesso ha insegnato di se stesso e il Credo dei Padri ci ha lasciato in eredità.[9] »

Pertanto una serie di presunte misure di salvaguardia vennero semplicemente stabilite senza alcun tentativo di chiarire con quale precisione dovessero essere mantenute.

Quali erano le implicazioni di questo pensiero per l'interpretazione della sofferenza e della morte di Gesù? Se i racconti della Passione fossero presi per oro colato e si suggerisse che "Dio" era soggetto a sofferenza per mano dell'umanità peccatrice, ciò, come abbiamo visto, minaccerebbe di mettere in discussione, se non addirittura di viziare, la "divinità" di Dio, con il risultato che la fede nella capacità di Dio di liberare l'umanità dalla sofferenza verrebbe minata. Come Jürgen Moltmann (1974:228) riassume queste preoccupazioni: "dove può l'uomo transitorio e mortale trovare salvezza se non nell'intransitorietà e nell'immortalità, cioè nella partecipazione all'essere divino...?" In breve, la chiesa era combattuta tra, da un lato, l'affermazione di un Dio la cui piena presenza nelle sofferenze di Cristo era messa in discussione e, dall'altro, il riporre la propria fede in un Dio povero così impotentemente coinvolto nelle esigenze della storia umana che la sua capacità di redimere veniva messa in discussione. Il timore di quest'ultima significava che il "patripassianismo", la dottrina secondo cui il Padre condivideva pienamente le sofferenze del Figlio, veniva respinta del tutto. Il Canone 14 del Tomo di Damaso afferma: "Se qualcuno dice che nella passione della croce è Dio stesso a provare il dolore e non la carne e l'anima che Cristo, il Figlio di Dio, aveva assunto – la forma di servo che aveva accettato come dice la Scrittura [cfr. Filippesi 2:7] – si sbaglia" (cfr. Neuner & Dupuis 1983:147; Denzinger & Schönmetzer 1953:166). Come commenta Moltmann (1974:228), "Se si considera l'evento sulla croce tra Gesù e il suo Dio nel quadro della dottrina delle due nature, allora l'assioma platonico dell’apatheia essenziale di Dio erige una barriera intellettuale contro il riconoscimento della sofferenza di Cristo, perché un Dio che è soggetto alla sofferenza come tutte le altre creature non può essere ‘Dio’".

L'eredità di ciò fu che l'intera storia della dottrina cristiana fu caratterizzata da una lotta per tenere insieme la divinità e l'umanità di Cristo nell'interpretazione della crocifissione e della morte di Gesù, una sfida che è stata adeguatamente affrontata solo in tempi più recenti. Come sottolinea Richard Bauckham nella conclusione del suo libro, God crucified: "That God was crucified is indeed a patristic formulation, but the Fathers largely resisted its implications for the doctrine of God. Adequate theological appropriation of the deepest insights of New Testament christology... was not to occur until Martin Luther, Karl Barth and more recent theologies of the cross" (1998:79). Quel processo di appropriazione, tuttavia, pose sfide concettuali a cui ora dobbiamo rivolgerci.

Da “chi” a “come”

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Il periodo della Riforma fu caratterizzato da alcuni tesi dibattiti su come precisamente Cristo fosse presente negli elementi nell'Eucaristia o nella Messa. L'effetto più significativo di ciò fu la resurrezione dei dibattiti calcedoniani su come avremmo potuto tenere insieme il divino e l'umano nell'interpretazione di Gesù. Ciò derivò dall'affermazione luterana che Gesù Cristo è presente negli elementi dell'Eucaristia, poiché la sua divinità implicava la comunicazione alla sua umanità delle proprietà divine (la communicatio idiomatum) — come l'onnipresenza. Questo, si credeva servisse a spiegare come il corpo umano di Cristo potesse essere presente negli elementi nella Messa.

Questo tentativo di risolvere un problema che assillava la teologia eucaristica portò i teologi luterani, Johann Brenz e Martin Chemnitz, a promulgare che nell'evento dell'incarnazione si verificava una fusione delle proprietà divine e umane, un argomento sviluppato specificamente da Johann Gerhard. Ciò suggeriva che l'umanità di Cristo possedeva onnipotenza, onniscienza e onnipresenza in virtù della sua unione con il Logos. Ogni apparente limite connesso alla vita di Gesù doveva essere attribuito, quindi, all'autolimitazione del Dio-uomo, piuttosto che al Logos. Questi furono rinunciati non in virtù dell'incarnazione del Logos, ma, piuttosto, dalla decisione di Gesù incarnato di assumere su di sé la forma di un servo fino alla sua ascensione ed esaltazione. Ciò non significa in modo enfatico suggerire un'umiliazione del Logos (nel senso di una mancanza o assenza della divinità e maestà comunicate alla carne), ma, piuttosto, un libero impegno, da parte di Gesù, a una "retrazione" o "intermissione" rispetto al loro uso (cfr. Ritschl 1872:175). Gesù scelse o un occultamento (krypsis) dei suoi attributi divini, come suggerì Brenz, o uno svuotamento (kenosis) di essi, come sostenne Chemnitz.

Nel diciannovesimo secolo, Thomasius e i suoi successori capovolsero l'argomento. Invece di modificare l'umanità per tenere conto dell'unione con il divino distintivo, gli attributi divini furono modificati per enfatizzare la natura umana di Gesù, un approccio che E. L. Mascall avrebbe descritto come monofisismo al contrario. Thomasius interpretò l'affermazione in Filippesi 2:7 ("ma svuotò se stesso...") in termini metafisici come denotante un auto-abbandono da parte di Dio e dei suoi attributi divini all'uomo. In base a questa spiegazione dell'incarnazione, Barth commenta che Dio non si dona semplicemente, ma "si dona via" — un approccio che Donald Baillie avrebbe similmente liquidato come "a gratuitous piece of mythology", che richiede un periodo di "cosmic absenteeism" e lascia insolubile il problema di come questo Dio svuotato potesse riprendere gli attributi distintamente divini. La forma più radicale di tale approccio (probabilmente, la sua reductio ad absurdum) si trova nelle moderne teologie della "morte di Dio" di William Hamilton e Thomas Altizer. Teologicamente, tale approccio rischia non solo di minare gli attributi divini del Logos, ma anche di mettere in discussione la vera natura umana di Cristo.

In Inghilterra emerse una forma meno radicale di teoria kenotica. Il vescovo anglicano Charles Gore formulò un kenotismo moderato che cercò di resuscitare il suggerimento di Ireneo secondo cui il Logos era pieno di quanta più Divinità l'umanità potesse sopportare. Determinato a sottolineare la vera umanità di Cristo, parlò dell'incarnazione come di un evento di sacrificio di sé visto dal lato di Dio e come di una qualche forma di kenosi vista dal lato umano. Mentre Cirillo di Alessandria (c. 370–444) aveva suggerito che ciò che il Logos possedeva lo conservava e che ciò che non possedeva lo assumeva nell'incarnazione, Gore modificò la prima clausola in bilico tra una teoria dell'auto-abbandono divino e una teoria dell'auto-limitazione. Frank Weston, vescovo di Zanzibar, propose una teoria più coerente, suggerendo che il Logos autolimitante aveva assunto una natura umana completa, "animata", ma che progressivamente crebbe e si sviluppò, in modo tale da arrivare ad accogliere o "incapsulare" sempre di più il Logos. Adottando un approccio non dissimile da Weston, P. T. Forsyth sostenne una teoria della "retrazione". Il Logos è eternamente presente nella Trinità e c'è una progressiva plérôsis (riempimento) dell'umanità da parte del Logos durante tutta la vita di Cristo. Un apparente vantaggio di tale esposizione era che sembrava aiutare a dare un senso alle tentazioni di Cristo. Sebbene Cristo non potesse peccare, egli non lo sapeva e quindi le sue tentazioni erano per lui totalmente reali.

Il problema con i resoconti che suggeriscono una ritrattazione temporanea è che ci si chiede se il Figlio incarnato sia la divinità ritratta (un Dio diminuito, qualcosa di meno del "Dio" in cui viviamo, ci muoviamo e abbiamo il nostro essere) o una divinità che si ritrae simultaneamente (il che suggerisce che Dio è sia l'Agente che si ritrae sia l'Uno ritratto). Quest'ultimo non sembra costituire un progresso rispetto ai tradizionali resoconti delle "due nature" e il primo lascia aperta la questione su come tale ritrazione possa essere reversibile e "what was happening to the rest of the universe during the period of our Lord’s earthly life?" (cfr. Temple 1925:142–3). Inoltre, questi resoconti moderati sembrerebbero ancora vulnerabili all'argomento notoriamente presentato da Donald Baillie, vale a dire che una tale "pagan metamorphosis" mina la presenza reale di Dio nell'incarnazione. Sebbene, in difesa, H. E. W. Turner (1976:60–85) sostenga che il Logos sia al centro dell'Incarnazione per i kenotici moderati e quindi la sua importanza ultima non è mai in dubbio. Il problema di fondo, tuttavia, come osserva Baillie, è l'apparente incompatibilità metafisica tra il divino e l'umano concepiti come congiunti in una sola persona. Ciò rappresenta una sfida particolare all'enfasi moderna sulla psicologia e sulla personalità nei resoconti antropologici che le teorie kenotiche hanno tentato di interpretare dalla prospettiva di una "worm’s eye view" (Turner 1976:81) della situazione. Come Emil Brunner avrebbe poi sottolineato, la questione veramente significativa sollevata da tali dibattiti riguardava la portata del nostro diritto a intraprendere il tipo di speculazione caratteristica dei dibattiti kenotici.[10]

Fu Karl Barth che, più di ogni altro teologo in tempi recenti, liberò la cristologia dai confini di tali dibattiti. Per Barth, la condiscendenza di Dio come umano è un atto di amore libero e sovrano da parte di Dio. In quanto tale, il suo riconoscimento e la sua ammissione non dovrebbero portare a speculazioni metafisiche pragmatiche da parte di coloro che non hanno una "God’s-eye view", ma piuttosto a un approccio alla teologia che dia la precedenza alla domanda "Chi" sulle domande "Come". La fede cristiana vive della percezione di chi è Gesù, non di come Dio possa diventare umano — una domanda che in ultima analisi non è di nostra competenza. Un tale rifiuto di essere distratti dalla domanda "Chi" era probabilmente uno dei punti di forza dei classici resoconti cristologici. E pertinente a questo, forse, è l'enfasi centrale del testo preferito dai kenoticisti: Filippesi 2:7. Esortando i cristiani ad adottare la vita di servizio e di auto-svuotamento testimoniata in Cristo il Servo Sofferente, sembra mettere in discussione il tipo di orgoglio che può caratterizzare fin troppo facilmente il rifiuto dei teologi di fermarsi alla domanda "Chi" preferendo, piuttosto, spiegare le azioni di Dio dalla loro "worm’s eye view". Mentre la testimonianza cristiana è all'Auto-accomodamento per l'umanità del Dio Eterno in un atto di grazia umanamente inconcepibile e imprevedibile, la cristologia kenotica si è trovata fin troppo facilmente a riprendere il tipo di interpretazione metafisica che originariamente cercava di contrastare.

Dal “quanto concepibile” al “quanto riconoscibile”

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Il tentativo di risolvere dilemmi metafisici di questo tipo ci riporta immediatamente alle preoccupazioni metodologiche ed epistemologiche più fondamentali sollevate dai tentativi di valutare il significato di Gesù per la dottrina cristiana. La domanda principale posta a partire dall'Illuminismo ha riguardato il ruolo della storia nella formulazione dottrinale. In che misura l'indagine storica è in grado di riconoscere la presenza di Dio nella storia?

Uno degli scrittori più influenti a esemplificare questa tensione qui è stato il padre della "teoria del mito", David Friedrich Strauss (1808-1874). Il suo approccio, insieme a molta indagine storica a partire dall'Illuminismo, è stato profondamente influenzato dall'epistemologia di Leibniz (1646-1716) con la sua dicotomia tra le verità necessarie della ragione (a cui l'accesso epistemico è a priori) e le verità contingenti (mediate a posteriori attraverso la percezione sensoriale). L'approccio di Leibniz era in sintonia con l'insistenza di Baruch Spinoza (1632-1677) sul fatto che la verità di una narrazione storica non può fornire la conoscenza di Dio. Quest'ultima deve derivare esclusivamente da idee generali (cioè senza tempo) che possiedono una certezza epistemica dimostrabile. Questi due approcci hanno portato Gotthold Lessing (1729-1781) a insistere sul fatto che eventi e verità appartengono a categorie radicalmente diverse e logicamente scollegate. Rappresentando l'approccio dell'Illuminismo alla religione, sosteneva che le prove storiche forniscono una base insufficiente per la fede religiosa, poiché "le verità accidentali della storia" non possono mai fornire la prova delle "verità necessarie della ragione" (Lessing 1777). C'è quindi un "brutto, ampio fossato [tra affermazioni teologiche e storiche] che non riesco ad attraversare, per quanto spesso e con quanta serietà abbia cercato di fare il salto" (Lessing 1957:55).

L'effetto del fossato di Lessing fu quello di mettere in discussione se l'impegno con verità storiche "contingenti" potesse mai fornire accesso al tipo di verità "universale" appropriata al trascendente. La conoscenza religiosa, sosteneva Lessing, deve riguardare "verità eterne della ragione" e quindi lo storico è semplicemente inadatto a essere l'oggetto appropriato della conoscenza di Dio (cfr. Evans 1996). Se questo viene accettato, le implicazioni per le affermazioni cristologiche sono ovvie. L'unico tipo di valore teologico che le affermazioni storiche potrebbero avere sarebbe "illustrativo". La storia non potrebbe fare altro che fornire illustrazioni o esempi di verità religiose già note in anticipo e accessibili in modo del tutto indipendente dall'impegno con lo storico. Quando il detto di Lessing viene accettato, l'inevitabile conseguenza è che l'indagine teologica viene indirizzata di nuovo verso il sé, verso quelle idee universali "interne" all'autocomprensione e all'esperienza umana che sono considerate in possesso di valore "religioso". La conseguenza nell'ambito degli studi sul Nuovo Testamento è stata la profonda influenza su di essa dell'idealismo, sia nella sua forma hegeliana che in quella neo-kantiana. La conclusione necessaria è che ogni identificazione di Dio con un particolare individuo umano deve essere considerata "mitologica". Di conseguenza, in David Friedrich Strauss, il fondatore della teoria del mito, troviamo esattamente una tale sintesi delle influenze di Leibniz e Spinoza, da un lato, con quelle dell'idealismo (hegeliano) dall'altro. Gesù era semplicemente un esempio di "idea di Dio e dell'uomo nella loro relazione reciproca". Ciò significa che dobbiamo attribuire un valore esclusivo a quel particolare pezzo di storia che è la vita di Gesù, chiede Strauss? Assolutamente no! Esemplificando le implicazioni dell'associazione da parte dell'Illuminismo del divino con l'universale e la sua conseguente dissociazione del divino con il particolare o lo storico, egli sostiene che la "chiave dell'intera cristologia" è che poniamo, "invece di un individuo, un'idea...", un'idea universalizzata nella misura in cui è identificata con l'idea della razza:

« In an individual, a God-man, the properties and functions which the church ascribes to Christ contradict themselves; in the idea of the race, they perfectly agree. Humanity is the union of the two natures – god becomes man, the infinite manifesting itself in the finite, and the finite spirit remembering its infinitude . . . It is Humanity that dies, rises and ascends to heaven, for from the negation of its phenomenal life there ever proceeds a higher spiritual life . . . This alone is the absolute sense of Christology . . . The phenomenal history of the individual, says Hegel, is only a starting point for the mind. »
(Strauss 1972:780[11])

Ciò che dovrebbe essere chiaro è che se il controllo sull'interpretazione teologica è il precedente insieme di criteri "razionali" immanenti nel soggetto umano, allora la teologia non può fare altro che interpretare il Gesù della storia come "esemplificativo" e "illustrativo" delle nostre idee e ideali precedenti che vengono così assolutizzati nel processo. Se questi vengono universalizzati, il risultato è un processo selettivo di trasferimento di valore del "divino" da Gesù (o qualsiasi altro "esempio" dei criteri che si sceglie di approvare) alla razza umana nel suo insieme. La conclusione inevitabile (come anche il punto di partenza), che è resa esplicita in Strauss, è la deificazione dell'umanità universale e la conseguente denigrazione del particolare, del creaturale, del materiale, dello spazio-temporale, dello storico — a ciò che Strauss e, in seguito, Bultmann hanno definito il "fenomenale", cioè ciò che non ha realtà ultima. Come Søren Kierkegaard vide con impareggiabile chiarezza, questo intero approccio si basa sull’anamnēsis socratica — quella forma di "ricordare" (cfr. citazione supra) che riconosce il divino perché lo conosce già.[12] In base a tale considerazione, la fede non può mai scoprire nulla di nuovo, possiamo solo "riconoscere" ciò che già sappiamo attraverso la nostra innata partecipazione al divino. L'implicazione di questo è che tutto ciò che supponiamo essere eterno nello spirito umano acquisisce lo status di criterio teologico. E come Kierkegaard ha sostenuto con tanta forza (Kierkegaard 1987), ciò che questo significa in ultima analisi è che la Parola di Dio non si identifica con Gesù, ma con le prescrizioni precedenti della nostra autocomprensione.

Ironicamente, se non sorprendentemente, ciò che informa gli approcci idealisti all'interpretazione di Gesù può ora essere visto come una forma specifica della dottrina della communicatio idiomatum (la comunicazione delle proprietà divine all'umano). Qui, tuttavia, le proprietà divine non sono comunicate all'umanità particolare del Gesù storico, ma all'umanità universale della razza umana. In breve, ci ritroviamo di nuovo con le ipotesi filosofiche greche che stavano alla base del dibattito ariano da cui siamo partiti, vale a dire, la dicotomia tra il kosmos noētos (il mondo delle idee) e il kosmos aisthētos (il mondo "irreale" dello spazio e del tempo) — e la supposizione che Dio debba essere identificato esclusivamente con il primo, ma incapace di essere contaminato dal secondo, con il particolare o lo storico. L'autocomprensione umana diventa il controllo e il criterio nella cristologia, con conseguente identificazione materiale dell'autocomunicazione di Dio con l'universalizzazione dei nostri precedenti criteri interpretativi e autocomprensivi.[13] L'impatto di ciò sui diversi tentativi successivi a quelli di Strauss di offrire interpretazioni teologiche di Gesù è stato alquanto diffuso. Tutti sono stati caratterizzati dall'ingiunzione dell'oracolo di Delfi invocata da Socrate, "Conosci te stesso!" (γνῶθι σαυτόν) — la convinzione che la conoscenza di sé costituisca l'unica fonte, criterio e mezzo di accesso alla verità religiosa nella sua totalità.

Conclusioni ugualmente diverse hanno caratterizzato i tentativi della modernità di scoprire il "vero" Gesù della storia. Non sorprende che queste conclusioni siano state troppo facilmente determinate dagli obiettivi socio-culturali, politici e religiosi di coloro che si sono impegnati nel compito, siano essi romantici, pii, etici o autocoscientemente "contestuali". Troppo spesso ci si chiede se queste ricerche e le loro "scoperte" siano state veramente storiche (cfr. Heron 1980:53). Come ha notoriamente osservato George Tyrrell, il modernista cattolico, "the biographers of Jesus looked into the deepwell of history, and saw there only the reflection of their own faces" (citato in Heron 1980:53–54). Ciò che abbiamo cercato di sostenere è che, se Gesù non rappresenta la concreta Auto-rivelazione di Dio, non solo i biografi di Gesù genereranno inevitabilmente una figura umana che ratifica i loro propri programmi, ma la scoperta della propria auto-comprensione sarà l'unico "datum" teologico possibile, come Atanasio vide con tanta chiarezza.

Tutte le interpretazioni di chi è Gesù sono, per natura del caso, interpretazioni da una prospettiva particolare. Sono interpretazioni attraverso le lenti delle nostre affiliazioni contestuali e culturali. Allo stesso tempo, riconoscere e ammettere che è la Parola incarnata che si sta cercando di interpretare significa consentire a quella stessa Parola di trasformare e mettere in discussione tutte le nostre categorie di interpretazione. La pressione dell'interpretazione deve trasformare le nostre affiliazioni affinché non ci troviamo a usare semplicisticamente la rivelazione per offrire una ratifica divina per le nostre precedenti fedeltà.[14] I rischi di fallimento qui, ovvero di consentire che la direzione dell'interpretazione sia dalla nostra precedente supposizione alla Parola e non viceversa, non hanno bisogno di essere provati dopo un secolo in cui due guerre mondiali sono emerse dall'interno della casa della Riforma e dove i mali dell'apartheid e della pulizia etnica sono stati perpetrati da altre nazioni "cristiane". Due figure chiave del ventesimo secolo si distinguono per aver sfidato con inequivocabile chiarezza le forme autoreferenziali di interpretazione cristologica e i programmi politici distruttivi a cui queste danno origine, vale a dire Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer. Nell'agosto del 1914, un gruppo di novantatré intellettuali pubblicò una dichiarazione a sostegno della politica di guerra del Kaiser, in quanto necessaria alla difesa della civiltà cristiana. La scoperta che questa includeva la maggior parte dei suoi ex insegnanti di teologia convinse il giovane Barth dell'inadeguatezza teologica del tentativo di consentire che l'interpretazione cristologica fosse condizionata da precedenti alleanze culturali o di altro tipo. Troppo facilmente conduce alla "ribelle istituzione di una Weltanschauung [visione del mondo] molto privata come una sorta di papato".[15] Per Barth, il significato teologico di Gesù risiede proprio nel fatto che, in quanto Parola di Dio all'umanità, decisiva e una volta per tutte, non può e non deve essere comandato dalle nostre precedenti alleanze e affiliazioni umane (siano esse culturali, politiche, religiose o filosofiche). Piuttosto, il Gesù riconosciuto dagli occhi della fede e attestato a noi nella Scrittura come Signore è la Parola personale di grazia di Dio all'umanità e quindi "the One Word of God which we have to hear, and which we have to trust and obey in life and in death".[16] Come tale, egli richiede di essere ascoltato, riconosciuto e interpretato nella sua luce e all'interno del suo spazio come la pretesa onnicomprensiva di Dio su di esso. Questa pretesa è fondata sul "Sì" onnicomprensivo di Dio all'umanità in Colui in cui non c'è né ebreo né gentile, nero né bianco, schiavo né libero, maschio né femmina. I numerosi volumi di Barth costituiscono, di conseguenza, il tentativo di interpretare il significato di questa Parola per ogni aspetto della vita umana, sociale, politica ed ecclesiale. Ed è stato questo stesso impegno a dare origine alla Dichiarazione di Barmen nel 1934, poiché servì a definire la fedeltà della Chiesa Confessante contro Hitler e i "cristiani tedeschi".

Nel 1933, durante l'intensificazione dell'antisemitismo in Germania e il definitivo controllo del cristianesimo da parte della cultura, Dietrich Bonhoeffer tenne una serie di lezioni sulla cristologia. In queste sostenne che Gesù Cristo non doveva essere considerato il "Logos" nel senso di un'unica "idea" interpretata come ratifica dei nostri precedenti "logoi". Né la questione cristologica doveva essere ridotta a una questione di "Come" ("Come è possibile che Cristo sia uomo e Dio"). Entrambe implicano la priorità del logos del soggetto indagatore. Piuttosto, nella misura in cui Gesù Cristo è il Logos di Dio, deve essere considerato dalla nostra prospettiva come il Contro-Logos. E poi aggiunge (Bonhoeffer 1978:30):

« When the Counter-Logos appears in history, no longer as an idea, but as ‘Word’ become flesh, there is no longer any possibility of assimilating him into the existing order of the human logos. The only real question which now remains is: ‘Who are you? Speak for yourself!’ »

Nel valutare il posto di Gesù nella dottrina cristiana, ci si confronta con un "o l'uno o l'altro". O Dio è presente in modo unico e concreto in Gesù e quindi l'identità di Dio è irriducibilmente legata a questa persona particolare, oppure non è Dio. Se è il secondo caso, allora – come Atanasio e i padri niceni videro con tanta chiarezza nel quarto secolo – non c'è alcun senso in cui Gesù abbia un contributo decisivo da dare all'affare del discorso su Dio e faremmo bene ad abbandonarlo alle sabbie della storia. Se, tuttavia, è il primo caso, egli costituisce il punto di riferimento alla luce del quale dobbiamo interpretare e reinterpretare continuamente ogni area della dottrina cristiana (sia essa creazione, antropologia, soteriologia o escatologia) come anche ogni sfaccettatura della vita umana. Ciò che dovrebbe essere ora chiaro, si spera, nel considerare questo "o l'uno o l'altro", è che nessuna indagine storica o teologica né, in effetti, nessun altro tipo di indagine – "né carne né sangue" – può mai stabilire o ci si può aspettare che stabilisca la presenza di Dio in Gesù. Non c'è alcun Punctum Archimedis, nessun altro fondamento da cui possiamo rispondere alla domanda posta da questo wikilibro e che era la domanda di Gesù a Pietro: "Chi dite che io sia?"

Per approfondire, vedi Serie cristologica e Serie delle interpretazioni.
  1. Catechismo della Chiesa Cattolica
  2. Denzinger-Schönmetzer n.125.
  3. Denzinger-Schönmetzer n.150.
  4. Missale Romanum, editio typica tertia, 2002.
  5. In italiano:
    Coloro poi che dicono:
    «C'era [un tempo] quando [Gesù] non c'era»,
    e: «Prima di essere generato non c'era»,
    e che dal non essente fu generato
    o da un'altra persona
    o essenza dicono essere
    o creato,
    o trasformabile
    o mutevole
    il Figlio di Dio,
    [costoro li] anatematizza
    la Chiesa cattolica.
  6. Parte integrante del pensiero di Ario in questo caso era la supposizione che se il Padre e il Figlio erano concepiti come coeterni, dovevano essere identici tra loro, distruggendo così la dottrina fondamentale della semplicità divina.
  7. Negare ciò e concepire il Figlio come consustanziale (homoousios) al Padre, significava, secondo Ario, distruggere la semplicità divina, tale che il Padre diventa “composto, divisibile, alterabile e un corpo...” Questo è tratto da un frammento della Thalia di Ario, citata da Atanasio, De Synodis 15. Cfr. Erone 1981:62 e n.5a.
  8. Il Canone 7 recita come segue: "Condanniamo coloro che affermano che il Verbo di Dio che dimora nella carne umana ha preso il posto dell'anima razionale e spirituale, poiché il Figlio e il Verbo di Dio non hanno sostituito l'anima razionale e spirituale nel suo corpo, ma hanno piuttosto assunto la nostra anima (cioè razionale e spirituale) senza peccato e l'hanno salvata" (Neuner e Dupuis 1983:147; Denzinger e Schönmetzer 1953:159).
  9. Cfr. anche Neuner & Dupuis 1983:615; Denzinger & Schönmetzer 1953:302
  10. Brunner 1946:349n.1: "A secret, and indeed unfathomable, essential secret – the mystery of revelation itself – means the co-existence of this psychological-historical and this eternal-divine personality. To try to fathom this means from the very outset to draw the Divine Person in the human sphere."
  11. Se Hegel sarebbe stato contento dell'interpretazione del suo pensiero da parte di Strauss è una questione dibattuta. C'è chiaramente, tuttavia, una continuità più che sufficiente per illustrare il punto che desideriamo sollevare qui.
  12. La partecipazione platonica methexis di ciò che è intrinsecamente divino per natura soppianta la partecipazione paolina koinonia di ciò che è intrinsecamente creaturale e particolare per grazia.
  13. Non sorprende che Strauss 1972 abbia influenzato così tanto Feuerbach nel suo interesse ad esplorare ulteriormente la coscienza umana e i meccanismi psicologici alla base della creazione del mito.
  14. Paolo sostiene in Romani 12 che le nostre menti hanno bisogno di essere trasformate (metamorphousthe) e non schematizzate (mē suschēmatizesthe) dai nostri contesti secolari, se vogliamo che vi sia discernimento della verità.
  15. Karl Barth, ‘Nein!’ (EN) in Brunner & Barth 1946:87.
  16. Barmen Declaration, Thesis 1, (EN) D. S. Bax repr. in Jüngel 1992:xxiii.