Israele – La scelta di un popolo/Capitolo 2

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Indice del libro
Hermann Cohen, litografia di Karl Doerbecker

IL CONCETTO DI ELEZIONE SECONDO HERMAN COHEN[modifica]

Ritratto di Baruch Spinoza
Ritratto di Hermann Cohen, acquaforte di Hermann Struck (1903)

Spinoza e Cohen[modifica]

È difficile immaginare che un filosofo abbia un'avversione maggiore per qualsiasi altro filosofo di quanto Hermann Cohen avesse per Spinoza. Questa avversione derivava dai due aspetti più importanti della vita di Cohen: il suo essere un ebreo e il suo essere un filosofo. Credeva che Spinoza avesse fatto un danno grave e quasi irrevocabile alle due istituzioni culturali che Cohen amava di più: l'ebraismo e la filosofia.

In quanto ebreo, Cohen era indignato per quella che considerava la calunnia dell'ebraismo fatta da Spinoza. Quella calunnia consisteva principalmente nell'affermazione di Spinoza secondo cui l'ebraismo è privo di qualsiasi contenuto teorico genuino, il tipo di contenuto a cui la filosofia è veramente interessata. Per Spinoza, come abbiamo già visto, l'ebraismo ha valore solo come fenomeno politico, e anche quel valore è ormai ampiamente superato. Nella migliore delle ipotesi potrebbe funzionare solo come un'analogia storica alquanto remota con il moderno stato democratico che Spinoza immaginava per il suo tempo e luogo. Cohen era ben consapevole che questa caratterizzazione dell'ebraismo era stata enormemente influente sui pensatori successivi, anche sull'ispirazione filosofica di Cohen: Immanuel Kant.[1] Per questo motivo, Cohen dedicò notevoli sforzi a confutare le affermazioni di Spinoza al fine di salvare ancora una volta l'ebraismo a favore di un serio interesse filosofico, proprio come Cohen era convinto che Maimonide (che era la sua ispirazione ebraica) aveva fatto in un'epoca precedente. Pertanto, mentre Spinoza aveva fatto una distinzione assoluta (almeno nella mente di Cohen) tra teoria e prassi, vedendo la filosofia come l'epitome della prima e l'ebraismo come un semplice esempio della seconda, Cohen insistette sul fatto che "la teoria della prassi da sola è comunque filosofia".[2] E il carattere pratico dell'ebraismo, il suo insegnamento morale, ha valore diretto e indispensabile per la teoria etica, che, seguendo Kant, Cohen presumeva essere la forma più alta di filosofia.

Come filosofo kantiano, Cohen era quasi ugualmente indignato dal panteismo e dal determinismo di Spinoza. Identificando Dio all'interno dello stesso sistema naturale che include l'uomo come anche tutti i fenomeni fisici, Spinoza aveva reso la moralità – cioè, secondo la relativa definizione kantiana – impossibile. Per Cohen, la moralità richiede che sia Dio sia l'uomo trascendano l'ordine predeterminato del mondo fisico e che siano correlati in un reame noumenico al di fuori di quel mondo. Solo attraverso tale trascendenza la libertà e la teleologia, i due ingredienti indispensabili di ogni moralità autentica, possono eventualmente funzionare.[3] Così Spinoza non solo aveva sottratto all'ebraismo ogni reale interesse per la filosofia, ma ancor più che aveva privato la filosofia della sua più alta funzione precludendo la costruzione di un sistema etico autenticamente indipendente. In effetti, mentre un certo numero di pensatori ebrei moderni desideravano che Spinoza non avesse mai lasciato l'ebraismo e che si potesse costruire un ebraismo moderno che ancora lo includesse – almeno postumo – Hermann Cohen lo considerava "questo grande nemico" ("dieser grosse Feind").[4] Pertanto, non era necessario ricostruire l'ebraismo per accogliere Spinoza; piuttosto, l'ebraismo doveva essere costituito con un rigore filosofico tale da dimostrare in modo conclusivo il perché proprio Spinoza non poteva mai più essere considerato un pensatore ebreo. In tutti i suoi scritti Cohen ribadì più e più volte questo punto fondamentale sull'inaccettabilità di Spinoza su basi sia ebraiche che filosofiche.

Quindi sembrerebbe che, considerando l'assoluto distanziamento di Cohen da qualsiasi cosa che assomigli anche lontanamente all'ontologia di Spinoza, si possa affermare che Cohen avesse una visione dell'elezione di Israele essenzialmente diversa da quella di Spinoza. Dopotutto, poiché l'elezione denota una relazione tra Dio e Israele, sicuramente un cambio di paradigma nell'ontologia, in cui è costituito l'essere di Dio, comporterà necessariamente un commisurato cambio di paradigma nel modo in cui si costituiscono le relazioni storiche di Dio. Tuttavia, come scopriremo presto, non è affatto così. Invece, la differenza tra la visione dell'elezione tenuta da Spinoza e quella tenuta da Cohen è di grado piuttosto che di tipo. Tale è il caso, infatti, perché il Dio che Cohen concepisce filosoficamente non funziona in modo così diverso dal Dio di Spinoza nella vita dei soggetti umani e delle loro comunità.

Per Cohen, come per Spinoza, Dio funziona in due modi: (1), nel modo in cui le tradizioni religiose percepiscono Dio; (2), nel modo in cui i filosofi concepiscono Dio. Inoltre, il modo in cui i filosofi concepiscono Dio non è una concettualizzazione dell'esperienza delle tradizioni religiose. Tale concettualizzazione sarebbe opera di teologi, non di filosofi, almeno non di coloro che Spinoza o Cohen designerebbero filosofi. Invece, i filosofi concepiscono Dio nei termini della funzione che Dio svolge nei sistemi filosofici che hanno costruito. L'inclusione di un concetto di Dio in qualsiasi sistema filosofico ne fa necessariamente un'ontologia, cioè un modo di pensare a ciò che Aristotele chiamava "le cause prime".[5]

Ora, se un filosofo (cioè uno che è filosofo secondo i criteri di cui sopra) vuole ancora usare la parola "Dio", allora dovrà in qualche modo collegare l'uso di quella parola nel suo sistema filosofico con l'uso di quella parola nel discorso ordinario, discorso che deriva inevitabilmente dall'esperienza di cui parlano le tradizioni religiose. Altrimenti, l'uso della parola "Dio" di per sé è inutile, e sarebbe molto meno confusionario usare semplicemente una parola filosofica come "Essere" o "l'Assoluto" in modo coerente.[6]

Si può presumere che qualsiasi filosofo che usi intenzionalmente la parola "Dio" e non la sostituisca totalmente con una parola costruita filosoficamente, abbia anche qualche connessione con una comunità il cui discorso e la cui pratica sono determinati da una tradizione religiosa. Nel caso di Spinoza, come abbiamo visto, questo legame è essenzialmente di decostruzione, cioè il suo legame con la comunità ebraica era già stato interrotto (e non fu mai avviato un collegamento con la comunità cristiana). Pertanto, tutto ciò che poteva salvare da quella connessione doveva essere ricostruito in un contesto totalmente nuovo. Nel caso della dottrina dell'elezione di Israele, come abbiamo visto, ciò che egli salvò furono le implicazioni democratiche dell'elezione di Dio a loro sovrano da parte degli antichi israeliti.

Nel caso di Cohen, invece, il suo legame con una comunità e la sua tradizione religiosa era una realtà persistente. Hermann Cohen nacque ebreo e scelse di rimanere un membro della comunità ebraica per tutta la vita. Viveva secondo molte delle sue tradizioni e parlava onestamente il suo linguaggio religioso nel culto e nel discorso teologico. Tuttavia, anche se la dottrina dell'elezione di Israele non era qualcosa che intendeva decostruire, ma piuttosto qualcosa che intendeva costituire filosoficamente come una realtà vivente, dovette comunque collegarla con la sua idea di Dio filosoficamente costruita. Così facendo, come vedremo, era d'accordo con il punto teologico principale di Spinoza, che in sostanza è Israele che sceglie Dio, non Dio che sceglie Israele. Ma tale punto è la spinta principale della dottrina originale dell'elezione nella Scrittura e negli insegnamenti dei rabbini, come esamineremo molto più dettagliatamente nei Capitoli successivi. Quindi, come vedremo più avanti in questo Capitolo, la differenza tra Spinoza e Cohen su questo punto ha molto meno a che fare con le loro differenze filosofiche su Dio e ha molto più a che fare con le loro differenze teologico-politiche sullo status dele popolo ebraico.

Il Dio filosofico di Cohen[modifica]

The Angel of the Divine Presence, di William Blake (1803)

Sebbene gli studiosi di storia della filosofia tendano a pensare a Hermann Cohen come a un kantiano (anzi, il restauratore di Kant al centro dell'attenzione filosofica in Germania a metà del XIX secolo), il suo seguire filosofico di Kant non fu certo servile. Il suo rapporto con Kant si avvicina, mi sembra, al rapporto di Tommaso d'Aquino con Aristotele. Cioè, Cohen fece rivivere e trasformò la filosofia di Kant più o meno allo stesso modo in cui Tommaso d'Aquino fece rivivere e trasformò la filosofia di Aristotele. Questo è importante da tenere a mente perché l'idea di Dio di Cohen è dove produce la sua rottura più fondamentale con Kant.

Kant aveva bandito del tutto l'idea di Dio dalla sua filosofia teoretica, cioè dalla filosofia interessata alla nostra esperienza degli oggetti dei sensi in quanto fenomeni, e confinava ogni uso significativo dell'idea al reame della filosofia pratica, cioè all'etica. Nell'etica Dio funziona come un postulato di ciò che Kant chiama "ragion pratica pura". Il postulato dell'esistenza di Dio è necessario per assicurare agli agenti morali che ancora vivono nel mondo fenomenico moralmente indifferente che la loro adesione alle massime formulate dall'imperativo categorico alla fine porterà loro risultati reali. Senza tali risultati, l'intenzionalità del ragionamento morale sarebbe assurdamente inefficace. Questi risultati realmente desiderati sono riassunti nel termine "felicità" (Gluckseligkeit).[7]

Il problema con questa idea di Dio, per Cohen, è che compromette il primato di Dio, riducendo Dio a funzionare come mezzo per il fine della felicità umana. Un tale "Dio" difficilmente soddisfa l'affermazione del primato di Dio su cui insistono tanto le religioni tradizionali – l'ebraismo in particolare – quanto l'ontologia classica.[8] Quindi, per quanto riguarda Cohen, solo un Dio che funziona da vera "origine" (Ursprung) è assolutamente degno del nome "Dio".[9] E per "origine" Cohen non intende un inizio storico (Anfang), ma piuttosto un punto di partenza noetico, come una premessa in un'inferenza logica, o ciò che Spinoza chiamò causa sui, vale a dire, causalità per definizione.[10] La domanda è proprio come Dio funzioni quale origine nel sistema filosofico di Cohen. Questa domanda deve essere risolta prima di poter capire meglio come Cohen vede l'elezione come una relazione che coinvolge questo Dio originatore.

La rottura di Cohen con Kant sul ruolo di Dio nella ragion pratica deriva dalla sua rottura con Kant sull'origine della ragion teorica. Nella sua costituzione della ragion teorica (Erkenntnis), Cohen rimuove la nozione di Kant della "cosa in sé" (Ding an sich), cioè l'insistenza di Kant sul fatto che ci sia una realtà transesperienziale che sta dietro a tutti i fenomeni che sperimentiamo, e che è una realtà che fonda gli oggetti dell'esperienza in un modo o nell'altro. Agli occhi di Cohen, tale insistenza è un ostacolo alla vera comprensione del ruolo che la ragione gioca nella ragion teorica, specialmente nelle scienze naturali.[11] Non c'è dubbio che questa rottura con Kant sia stata resa plausibile dai progressi della scienza e soprattutto della matematica nel diciannovesimo secolo, progressi dai quali Cohen fu fortemente influenzato.[12] Questi progressi mostrarono che il ruolo della ragione è molto più costruttivo di quanto si pensasse prima. Inoltre, la nozione di "cosa in sé" sembrava essere una concessione eccessiva al tipo di empirismo che Cohen pensava fosse stato così completamente screditato a suo tempo dall'idealismo.[13] (Anche se Cohen era molto antihegeliano, su quest'ultimo punto almeno lui ed Hegel erano abbastanza vicini.[14]) Nell'empirismo, la funzione fondamentale della ragione è quella di essere una descrizione dell’esperienza e, in definitiva, ad essa, quindi, subordinata.

Rimuovendo la "cosa in sé" dalla considerazione nella ragion teorica, Cohen ha spostato il luogo della ragion teorica dall'oggetto al soggetto pensante in modo più completo di quanto Kant fosse stato in grado di fare. Di conseguenza, i "dati" non sono più ciò che vien dato alla ragione, ma piuttosto ciò che la ragione seleziona dall'esperienza con i propri criteri e quindi ciò che la ragione si dà da sola.[15] Anche gli oggetti della ragione, per non parlare della ragione stessa, non sono più presi come avessero la loro origine (Ursprung) nella "realtà" esterna, ma piuttosto nell'idea più basilare della ragione, l'idea di verità (Wahrheit).[16] La verità stessa, quindi, è l'origine di tutto ciò che conosciamo, anzi di tutto ciò che possiamo conoscere. Fonda i propri oggetti. All'interno della sua stessa portata, non è vincolata a nulla al di fuori di sé. La logica, che è la metodologia completa della verità, è all'opera in tutte le scienze. Dà loro la loro validità razionale.

Seguendo Kant, per costituire la priorità dell'etica sulla ragion teorica nel suo sistema filosofico, Cohen non può ritenere assolutamente originatoria l'idea di verità. Se così fosse, allora l'etica, che si occupa del bene, dovrebbe essere subordinata alla ragion teorica come è praticamente in tutte le filosofie prekantiane, a partire da Platone e Aristotele e fino a tutti coloro che hanno influenzato. Pertanto, quello che fa Cohen è mostrare che l'interesse per la verità deve essere correlato con un impegno per la verità (Wahrhaftigkeit), che è, ovviamente, una virtù morale. Senza un impegno fondamentale per la veridicità, nessuno farebbe lo sforzo prolungato che l'interesse per la verità richiede al fine d'essere intellettualmente produttivo. Solo la veridicità rende la verità degna di rispetto. D'altra parte, senza il rigore della verità, la veridicità rimarrebbe un istinto meramente virtuoso, ma lo sarebbe senza alcun collegamento con la ragione.[17] Quindi verità e veridicità sono interdipendenti. Come disse succintamente Cohen, "senza verità scientifica nessuna veridicità; e senza veridicità nessuna verità".[18]

La superiorità dell'etica sulla scienza, tuttavia, deriva dall'idea di autonomia. Sebbene la scienza non dipenda dagli oggetti dell'esperienza in quanto non sono fondati nella realtà esterna della cosa-in-sé ma sono costituiti dalla ragione scientifica stessa, la ragione scientifica deve comunque scegliere da ciò che si trova nell'esperienza (Empfindung).[19] Senza questa condizione, il ruolo della sperimentazione nella ragione scientifica moderna sarebbe totalmente perso. Chiaramente, nessuno prenderebbe sul serio la ragione scientifica se non includesse la sperimentazione nel suo programma generale. Essendo così influenzata dalla tecnologia e dalla sua convalida orientata ai risultati, la scienza moderna deve fare qualcosa per essere notata dalla cultura in cui opera. Quel "fare", per quanto "creativo", non è una creatio ex nihilo; deve comunque funzionare con oggetti che sono già disponibili per tutti. In tal senso, quindi, la scienza non crea i suoi oggetti, ma li costituisce soltanto.

L'etica, d'altra parte, crea i propri oggetti.[20] Gli oggetti dell'etica, in definitiva sussunti nell'idea del bene, sono le proiezioni della ragione che creano il proprio mondo ideale. Quella creazione ideale ha origine nell'autonomia del soggetto morale, autonomia che il soggetto conoscente, per quanto costruttivo, non ha e non potrà mai avere.[21] Sia la scienza che l'etica si trovano ora nel soggetto. Non è più vero che il fondamento della scienza è la cosa-in-sé esteriore (essendo interne solo le condizioni dell'esperienza) mentre il fondamento dell'etica è interno (nel soggetto morale come causa noumenon). Entrambi sono ora interni; la loro differenza è quindi di grado piuttosto che di tipo. La ragion pratica dell'etica sembra essere assolutamente creativa, mentre la ragion teorica della scienza sembra essere solo relativamente creativa. Tuttavia, per Cohen, questa non è l'intera storia.

Nel campo dell'etica, Cohen è alquanto letterale nella sua accettazione della nozione di autonomia di Kant.[22] Le uniche regole morali che sono razionalmente valide sono quelle che il soggetto morale ha voluto per se stesso insieme a ogni altro possibile soggetto morale. L'autonomia, quindi, non è "autogoverno" nel senso di soggettivismo pratico ("faccio le mie cose / faccio da me", nel linguaggio popolare odierno); piuttosto, è il sé che dà voce all'idea della stessa legge razionale creando un mondo ideale attraverso la sua pura volontà — un "regno dei fini", nelle parole di Kant.[23] Questo reame ideale è costruito con l'assunzione della dignità primaria di soggetti morali, che secondo il criterio della coerenza universale determinano un sistema di regole fatte da loro stessi e solo per se stessi.[24] Così l'autonomia funziona come origine (Ursprung) dell'etica allo stesso modo in cui la logica funziona come origine della scienza. Ma il vantaggio dell'origine etica è che è meno ingombrante dell'origine scientifica; è meno condizionata (unbedingt).[25]

Poiché Cohen segue Kant nel rimuovere Dio dalla costruzione del suo sistema di ragion teoretica, e poiché elimina il Dio postulato kantiano ("il dispensatore di felicità") dal suo sistema etico, sembrerebbe che non ci sia proprio posto per Dio nella sua filosofia sistematica. Tuttavia, a dir il vero, Cohen conserva il meglio per ultimo. E cioè invoca l'idea di Dio come risposta alla questione sulla correlazione tra scienza ed etica.[26] Il peso essenziale della domanda è dal lato dell'etica.

L'etica, pur ponendo l'origine più idealmente creativa nell'idea di autonomia, non può ancora rispondere da sola alla domanda di efficacia, cioè, alla fine, è qualcosa di più che un elaborato corpus di buone intenzioni? L'etica non sembra spiegare nulla nel mondo fenomenico, governato com'è da una causalità totalmente deterministica.[27] In questo mondo, libertà e teleologia, i due elementi indispensabili per qualsiasi etica, semplicemente non esistono in alcun senso significativo.[28] Come tale, in fondo l'etica non è semplicemente una forma di interiorità eterea? L'etica non è in definitiva assurda se non può volere ciò che è realizzabile?

Anche Kant affronta questa domanda e cerca di rispondere postulando Dio come l'ultimo dispensatore di felicità per i soggetti morali. Cohen, come abbiamo visto, rifiuta questa risposta alla questione dell'efficacia morale perché implica l'assunto che un'esperienza sia la causa finale della stessa capacità umana che dovrebbe trascendere l'esperienza e i suoi limiti. Cohen vede questo come un ritorno inaccettabile al tipo di eudemonismo oltre il quale l'intera filosofia pratica di Kant intende portarci. Pertanto, per Cohen, Dio non è il dispensatore della felicità postulata nell'ambito dell'etica; piuttosto, Dio è l'origine di tutte le origini, l'idea primaria che permette all'etica di essere realmente efficace, cioè di governare in definitiva tutti i fenomeni.[29] In questo modo, dunque, Dio trascende l'ambito morale – inteso come attività umana – e non solo l'ambito fisico, sebbene Cohen non sembri vedere alcun significato dell'essere divino che non sia correlato alla moralità umana.[30] Quindi la causalità ontologica primaria è noumenale, crea i propri scopi, ma non è uno qualsiasi di quegli stessi scopi.[31] In quanto ideale infinito di tutti gli ideali, Dio è al di là del raggiungimento teleologico da parte di qualsiasi entità finita. Non ci può mai essere alcuna unificazione del finito e dell'infinito, anche nell'Era Messianica. Dio è sempre trascendente, sia all'inizio in quanto idea, sia alla fine in quanto ideale. Quindi Dio è ciò che rende in definitiva possibile la completa correlazione tra mondo dell'etica e mondo della scienza.[32] Così facendo, Cohen è convinto di aver salvato lo status assoluto di Dio, senza compromettere in alcun modo la funzione più specificatamente originatrice dell'autonomia nell'etica e della logica nella scienza.

Attraverso questo tipo di costruzione filosofica sistematica, Cohen ha salvato Dio come l'assoluto. Può quindi reintrodurre la classica distinzione ontologica tra essere e divenire. Per Cohen, Dio è l'Essere, ciò che è perfetto in sé e per sé e da cui si misura ogni cosa che è di meno. Tutto il meno, quindi, è in uno stato di sviluppo, cioè sta diventando ciò che aspira a essere.[33] Pertanto, anche se l'Essere di Dio fonda i reami sia della scienza che dell'etica, ha l'effetto più diretto sull'etica. Perché è qui che si trova lo sforzo teleologico, l'aspirazione cosciente di diventare ad essere la sua perfezione. Questo sforzo è visto come il passaggio dal particolare e contingente all'universale e necessario.

Adottando la classica designazione ontologica di Dio come Essere, Cohen ha rimosso dal reame del divino i tre elementi ontologici che, come abbiamo visto nel Capitolo precedente, sono necessari in ogni costituzione filosofica della dottrina teologica classica dell'elezione. Questi elementi sono: possibilità, relazione reciproca e scopo.

Nella sua adozione della classica distinzione ontologica tra essere e divenire, l'ontologia di Cohen è diversa da quella di Spinoza. Costituire una relazione ontologica tra l'essere e il divenire è costituire una relazione che è essenzialmente teleologica. L'essere funziona come il telos o l'ideale del divenire. Su questo punto Cohen è molto nella tradizione del platonismo.[34] Spinoza, invece, che è molto nella tradizione monistica di Parmenide, non costituisce tale relazione sul piano ontologico.[35] Tutto è quello che è, cioè sub specie aeternitatis, dal punto di vista della natura in sé (natura naturans). Il mutamento, al contrario, sono solo le modalità dell'apparire che sperimentiamo sub specie durationis.[36] Inoltre, gli esseri (natura naturata) non aspirano ad essere ciò che non sono ora; piuttosto, seguono solo il loro innato corso d'azione (conatus) che è sempre stato determinato come tale.[37]

In una relazione di essere e divenire, c'è posto per l'elemento di possibilità. Perché se il divenire sul livello morale, che è il livello in cui l'ontologia di Cohen funziona più pienamente, implica delle scelte, allora gli oggetti della scelta funzionano come possibilità. Queste possibilità sono opzioni consapevoli di cui i soggetti morali sono consci in anticipo delle loro effettive scelte. I soggetti morali si trovano di fronte a possibili alternative che devono giudicare per agire razionalmente. Tuttavia, va ricordato che non ci possono essere possibilità per Dio come Essere di per sé. La possibilità, comunque in questo modo di pensare, funziona all'interno del solo divenire. (Nel Capitolo 4, cercherò di costituire la possibilità, la relazionalità e la finalità divine senza l'assunto del Divenire divino che sembra implicare per Cohen e gli aderenti a questo tipo di ontologia.)

L'essere di per sé, per così dire, non può uscire da se stesso per essere qualcos'altro, qualcosa che non è già, qualcosa di diverso da se stesso. Essendo l'ideale di ogni divenire che si autoperfeziona, Dio funge da ispirazione dietro tutte le autentiche scelte morali, ma Dio stesso non fa nessuna di queste scelte. Di conseguenza, Dio non è un soggetto morale. Dio fonda l'etica, ma non è all'interno del sistema dell'etica stessa. Assumere che Dio sia un soggetto morale, cioè una persona, comprometterebbe l'Essere perfetto, ideale di Dio. Solo un'idea, ma non una persona, può essere trascendente.[38] Pertanto, è vero che Cohen costituisce nella sua ontologia il divenire non divino – specialmente il divenire umano cosciente e libero – e questo dà all'elezione un fondamento ontologico che non ha per Spinoza. Tuttavia, il Dio di Cohen è molto simile a quello di Spinoza in quanto questo Dio è un Dio altrettanto incapace di scegliere Lui stesso qualsiasi cosa, per non parlare di qualsiasi popolo. In breve, Dio non è libero secondo Cohen perché non può essere libero. La libertà può essere attribuita solo a coloro che sono i soggetti del divenire morale razionale. Di conseguenza, Dio l'essere creatore, che è l'espressione della libertà più radicale di Dio, è ridotto da Cohen al necessario correlato della creazione. Così il creatore sta alla creazione come l'essere sta al divenire. Ma l'essere non può essere altro che un punto di tale correlazione. Quindi per Cohen come per Spinoza, Dio è totalmente definito.[39] Proprio come Spinoza insistette sul fatto che Dio non può essere altro che causa sui, così Cohen insiste sul fatto che Dio non può essere altro che principio originatore.

Come il Dio di Spinoza, anche il Dio di Cohen non ha rapporti reciproci. Anche se Cohen parla di relazioni "Io-Tu" in un modo che suggerisce a molti lettori contemporanei l'uso più noto di questo concetto chiave da parte di Martin Buber, va sottolineato che Cohen, molto a differenza di Buber, non vede questo tipo di relazione pertinente a ciò che porta a essere la realtà tra uomo e Dio.[40] Essa è circoscritta all'ambito dell'altro umano con cui il soggetto morale vive in questo mondo (Mitmensch).[41] Per questo motivo, dunque, non va confusa la correlazione che Cohen costituisce tra uomo e Dio con un rapporto reale e diretto tra loro come persone. L'uomo ama Dio come un ideale piuttosto che come una presenza; e la nozione di Dio che ama l'uomo è solo metaforica, cioè Dio è postulato retrospettivamente come la fonte dell'amore che gli esseri umani devono avere l'uno per l'altro. Così Cohen chiede: "Dio ama prima l'uomo, o l'uomo ama prima il Dio unico?"[42] E risponde alla sua domanda affermando: "Solo ora, dopo che (nachdem) l'uomo ha imparato ad amare l'uomo come prossimo, il suo pensiero si rivolge (zurückbezogen) a Dio, e solo ora (Jetzt erst) comprende che Dio ama l'uomo".[43] In sostanza, proprio come questo Dio filosoficamente concepito prepara la correlazione tra il mondo noumenico dell'etica e il mondo fenomenico della scienza, così questo Dio religiosamente concepito prepara il soggetto umano ad essere pronto all'autonomia razionale dell'azione morale. Questo si ottiene concependo Dio come Colui che ci perdona le cadute sensuali nel peccato.[44]

Infine, come il Dio di Spinoza, il Dio di Cohen non può avere alcun fine al di fuori di sé. Infatti un tale scopo divino implicherebbe immediatamente, anzi presupporrebbe, che Dio non è perfetto, che ha qualche mancanza che deve essere superata, qualche bisogno che deve essere successivamente soddisfatto.[45] Tuttavia, la determinazione è al centro stesso dello stato umano di divenire. La finalità dell'azione morale umana dirige questo divenire. E poiché, per Cohen, questo divenire umano preso collettivamente è un processo storico, la determinazione umana è teleologica. Il suo telos collettivo è il culmine della storia in un'umanità veramente unita.[46] Questa stessa umanità unita non è, naturalmente, Dio. Dio, essendo interamente trascendente, non può mai essere unito a qualcosa di meno trascendente, anche al più elevato ideale umano, cioè un'umanità unita.[47] Purtuttavia, la correlazione più stretta possibile tra Dio e l'uomo è la correlazione di Dio e dell'umanità messianicamente unificata. E sebbene tale unificazione dell'umanità sia un processo di sviluppo illimitato (Entwicklung), può ancora essere misurata determinando quanti progressi (Fortschritt) sono stati compiuti nel movimento storico dal particolarismo all'universalismo, specialmente nel reame della politica.[48] All'interno della correlazione tra Dio e umanità a questo livello ideale, possiamo vedere il significato più profondo della presentazione filosofica di Cohen della dottrina dell'elezione.

L'unicità di Israele nella correlazione divino-umana[modifica]

Lettura della Torah nel Tempio, di Isidor Kaufmann (c.1921)

Si può comprendere meglio la costituzione filosofica di Hermann Cohen in merito alla dottrina ebraica classica dell'elezione di Israele se si ricorda che nella sua teologia la Torah è prioritaria per l'importanza che ha per il popolo di Israele. L'elezione è costantemente subordinata alla rivelazione. L'essenza della Torah, per Cohen, è la legge morale primordiale del cosmo, una legge razionale che ora è ideale, ma che Dio nell'età messianica renderà pienamente efficace.

La vera Torah, quindi, è la legge morale universale. Come afferma chiaramente Cohen, "La Legge (das Gesetz), quindi, è principalmente chiamata insegnamento (Lehre) ... l'unico scopo della legge è la sua [dell'uomo] perfezione morale, il suo compimento come uomo".[49] Tuttavia, cosa si fa con la maggior parte della Torah che è così chiaramente particolaristica, relativa alla vita unica del popolo ebraico? Per essere più vicino a gran parte dello stimolo determinante della tradizione ebraica, un teologo-filosofo ebreo non dovrebbe costituire il particolare come anteriore all'universale, o per dirla nei termini più originariamente ontologici, non dovrebbe costituire l'esistenza prima dell'essenza?[50] Questa, tuttavia, è una mossa troppo radicale per essere compiuta dal filosofo Cohen. Infatti la sua ontologia è derivata da Kant – e più originalmente da Platone – e poi applicata all'ebraismo. In questa ontologia, l'essenza è prima dell'esistenza, fondando così un'epistemologia in cui l'universale è prima del particolare. Pertanto, la domanda che Hermann Cohen doveva affrontare come teologo ebreo è come il particolarismo del popolo ebraico, endemico della dottrina dell'elezione di Israele, potesse essere giustificato dai criteri universalistici che come filosofo aveva accettato da Platone tramite Kant. Senza tale giustificazione, Cohen non poteva portare in modo convincente la sua filosofia sistematica ad influenzare la sua reinterpretazione delle fonti storiche della teologia ebraica. E sullo sfondo, a dire il vero, c'era la sfida di Spinoza secondo cui la continua esistenza dell'ebraismo è antitetica alla costruzione di una società razionale degna di persone razionali.

Su basi puramente kantiane, il particolarismo della dottrina dell'elezione di Israele sembra essere imbarazzante.[51] Cohen affronta la questione in modo onesto e diretto:

« Rimane quindi la domanda come potrebbe questo pensiero di un Dio unico (ein einzigen Gottes) manifestarsi unicamente e solo (einzig und allein) allo spirito di questo popolo? ... questo universalismo non mette forse in discussione non solo Israele ma ogni popolo nella sua particolarità (seiner Sonderheit)? ... Come ci deve apparire incomprensibile l'origine del Messianismo nel mezzo di una coscienza nazionale, in quanto ha dovuto pensare e sentire l'"elezione" (Enwählung) di Israele come un scelta (Auserwählung) per il culto di Dio.[52] »

Per comprendere correttamente questo brano, bisogna essere consapevoli del significato delle categorie di "singolarità" (Einzigkeit) e "unità" (Einheit) nella filosofia di Cohen.

Per Cohen, la designazione di Dio come "uno" (ehad) non significa che Dio sia "uno" tra molti come il numero uno, né significa che Dio sia un'entità composta da varie parti. Se Dio fosse semplicemente uno tra i tanti, sarebbe meno dell'assoluto, e il monoteismo (la continua designazione di Cohen della vera religione, di cui l'ebraismo è l'epitome) sarebbe in definitiva un banale enoteismo (gr. εἷς/heîs "uno" e θεός/theós "dio"). E, se Dio fosse un'unità di più parti, la distinzione tra Dio e natura si dissolverebbe in una sorta di panteismo (πάν/pán = tutto e θεός/theós = Dio, letter. "Dio è Tutto" e "Tutto è Dio"), che è il punto che Cohen non si stancherà mai di usare per condannare filosoficamente Spinoza. Dio è, quindi, einzig, cioè l'unica singolarità totalmente trascendente. Dio solo è l'Essere di per sé.[53] Il divenire umano, che si pone come compito infinito della perfezione morale, è di condurre all'unificazione (Einheit) dell'umanità in correlazione con l'Essere di Dio quale ideale singolare ma irraggiungibile di tutti gli ideali.

Seguendo questa linea di pensiero, quindi, sembrerebbe che qualsiasi individuo che rivendichi per sé la vera Einzigkeit (singolarità) confonderebbe, in effetti, radicalmente il divenire umano con l'Essere divino. Einheit (unità universale) è il fine umano ultimo verso il quale ogni popolo deve progredire e dal quale nessun popolo dovrebbe mai deviare. Ma non sembra che il popolo ebraico, con il suo continuo autoisolamento, si stia muovendo nella direzione opposta? I moderni antisemiti, con cui Cohen era fin troppo familiare, non hanno ragione nell'accusare gli ebrei non solo di essere fuori dalla tendenza progressista e universale della storia ma, peggio ancora, di essere un grosso ostacolo ad essa?[54] Tuttavia, nonostante la gravità di questa accusa e la sua ampia accettazione da parte di non-ebrei ed ebrei assimilazionisti (che detestava), Cohen credeva di avere una risposta a questa accusa di particolarismo antiprogressista. Nel presentare la sua risposta, fece appello a tutta la sua forza filosofica e alla sua ampia e profonda conoscenza della tradizione ebraica. La sua risposta è un tour de force significativo nel pensiero ebraico moderno.

Con accuratezza accademica, utilizzando sia le fonti classiche che la metodologia storica moderna, Cohen dimostra che l'autentico monoteismo, che è per lui l'unico fondamento ontologico sufficiente per una moralità universalizzabile, è sorto per la prima volta nell'antico Israele.[55] Tuttavia, tale conclusione da sola indicherebbe solo che il nuovo ordine universale che Cohen vide emergere in Europa, e soprattutto nella Germania riunificata dopo il 1871, non deve dimenticare la sua origine storica. Ma, come abbiamo visto, un'origine storica (Anfang) non è la stessa di un'origine ontologica (Ursprung). Solo sulla base di un'origine ontologica potrebbe esserci una ragione sufficiente per sostenere filosoficamente la necessità morale della continua esistenza separata del popolo ebraico nel presente, per non parlare della necessità morale del popolo ebraico di vivere fino al previsto futuro messianico. E sicuramente, per Cohen, solo gli argomenti morali sono adeguati per l'autentica pratica umana.

Cohen sostiene che la continua esistenza separata del popolo ebraico è necessaria fino al raggiungimento della vera unità messianica (Einheit).[56] Pertanto, nella reale assenza di tale unità umana fino ad oggi, il popolo ebraico deve rimanere più vicino alla singolarità divina (Einzigkeit) che allo stato reale del mondo.[57] Nel mondo, nel suo presente premessianico, c'è ancora solo una molteplicità nazionale e religiosa (Mehrheit), ma nessuna vera totalità (Allheit).[58] Qualsiasi abbandono prematuro al "mondo com'è" sarebbe contromessianico, un'accusa mossa da Cohen più di una volta contro il cristianesimo.[59] Con questa logica, Cohen giustifica praticamente tutte quelle pratiche ebraiche, come lo Shabbat e le leggi alimentari (Casherut), che tengono gli ebrei separati dalla cultura generale che li circonda. Israele deve essere per il momento l'avanguardia del messianismo monoteista.[60]

Il compito delle nazioni del mondo è vedere in Israele, e il compito di Israele è vedere in se stessa, una visione simbolica dell'Età Messianica, che è il futuro ideale.[61] Così l'elezione di Israele (Erwählung), il suo essere out (Auserwählung), deve essere mantenuto fino a quando non vi sia una vera correlazione (termine logico preferito da Cohen) tra l’Einzigkeit di Dio e l’Einheit dell'umanità. Quindi Cohen scrive:

« Ma questo popolo è meno per il bene della propria nazione che come simbolo dell'umanità. Un simbolo unico (einziges) per l'idea unica (einzigen Gedanken); i singoli popoli devono tendere all'unità speciale (einzigen Einheit ⇒ unità singola) dell'umanità.[62] »

Israele non è solo l'inizio storico (Anfang) del messianismo monoteistico, ma anche il custode del puro messaggio di questo futuro ideale nella realtà presente (Wirklichkeit). Così Cohen sottolinea la necessità storica della sua continua esistenza in questo futuro. "Fin dall'inizio questo simbolismo presagiva (Vorbedeutung) la chiamata messianica di Israele, la sua elevazione (Aufhebung) a un'unica umanità (Menschheit)".[63] Il compito incompiuto, quindi ancora giustificato, di Israele è "la realizzazione messianica (Durchführung) del monoteismo".[64] La responsabilità sempre presente di Israele è quella di diffondere la conoscenza di Dio che "rende il Messianismo capace di un'espansione illimitata (unbeschränkte Ausdehnung)".[65] Qui abbiamo quella che è senza dubbio la presentazione filosofica più astuta della nozione ebraica distintamente moderna della "Missione di Israele".[66]

Ciò che è importante vedere qui con Cohen, da vero filosofo che era e quindi che formulava i suoi termini con cura precisa, è che il termine che usa per il compimento ultimo della missione storica di Israele è Aufhebung. Questo termine, naturalmente, è il più significativo nella teoria hegeliana della manifestazione progressiva dello Spirito.[67] Ora Cohen era di solito piuttosto contrario a Hegel, specialmente a quella che considerava l'ingiustificata fusione fatta da Hegel dell'infinito/ideale e del finito/reale, anche se tale fusione non avrà luogo fino alla fine della Storia.[68] In effetti, il suo impressionante debutto nella filosofia accademica tedesca a metà del diciannovesimo secolo fu di far distogliere l'attenzione da Hegel e riportarla a Kant.[69] Tuttavia, l'escatologia di Kant, poiché sembrava essere così orientato solo alla felicità individuale, come abbiamo visto, è del tutto insufficiente per il messianismo di Cohen. Quindi sembra che abbia preso in prestito un termine chiave da Hegel, il filosofo che più strenuamente tentò di fondere la ricerca filosofica della finalità assoluta (telos) con la ricerca storica della compiuta fine del tempo (eschaton).[70] Il termine chiave di Hegel per l'intero processo è Aufhebung, che designa il mezzo temporale attraverso il quale il particolare e l'universale ora separati si fondono alla fine insieme nella storia come una nuova totalità futura. Gli elementi di ciò che è aufgehoben vengono strappati dalla loro originaria separazione l'uno dall'altro e vengono poi radicalmente ricostruiti in una totalità diversa da qualsiasi cosa occorsa fino ad allora. Ma la differenza fondamentale di Cohen con Hegel è che nella sua costituzione di Aufhebung è ideale e, quindi, non si troverà mai all'interno della storia, nemmeno nell'ambito del suo culmine. In quanto tale, l’Aufhebung di Israele nell'umanità non potrebbe essere un evento storico. Stando così le cose, quindi, l'unicità ebraica non può mai realmente essere sacrificata per qualcosa di più generale che si trova nel mondo.

In effetti, con imponenti mezzi filosofici Cohen precluse la giustificazione intellettuale moderna più prevalente dell'assimilazione ebraica, vale a dire che il particolarismo ebraico doveva essere superato ("aufgehoben") dalle forme più universali della società e della cultura moderne. Si possono vedere le forme più individualistiche di questa giustificazione dell'assimilazione che derivano dal liberalismo di Spinoza; e si possono vedere le forme più collettiviste derivanti da Marx (che, naturalmente, derivò gran parte della sua visione del carattere evolutivo della storia umana da Hegel). Ognuno aveva molti seguaci ebrei moderni. Ma lungo linee filosofiche, Hermann Cohen era senza dubbio convinto di avere una valida replica a entrambi questi rinnegati dall'ebraismo e dal popolo ebraico, e a tutti coloro che rispettivamente avevano influenzato. Quindi Cohen credeva sicuramente che solo lui avesse salvato con mezzi filosofici la dottrina ebraica classica dell'elezione di Israele. Tuttavia, questa impresa filosofica non avvenne senza notevoli tensioni.

Di tanto in tanto, Cohen soccombeva allo Zeitgeist progressista del suo tempo e del suo luogo ed era solito fare dichiarazioni in forum più popolari che suggerivano che anche lui pensava che il messianismo fosse storicamente realizzabile, anche imminentemente.[71] Questa tendenza fu particolarmente esacerbata dal suo patriottismo tedesco, che giustificava con una logica universalistica più hegeliana che kantiana. Quando assecondò questa tendenza, specialmente come fece durante la Prima guerra mondiale, l'unificazione stessa dell'umanità fu vista come suscettibile di realizzazione da parte dello stato tedesco in espansione.[72] Il popolo ebraico doveva trovare il suo ruolo all'interno di questa germanità in espansione (Deutschtum), un punto che Cohen cercò di dimostrare persino agli ebrei d'America nel 1915, quando l'America era tentata di unirsi ai nemici della Germania nella Prima guerra mondiale.[73] Tuttavia, va sottolineato che i suoi principi filosofici più rigorosi spesso lo portavano a rifiutare tale subordinazione dell'ebraismo e del popolo ebraico a qualsiasi altra entità storica, anche nell'orizzonte storico. (In effetti, nonostante il suo acerbo antisionismo, si potrebbe altrettanto facilmente sviluppare una teoria del messianismo sionista a partire da alcuni dei principi stessi proposti dallo stesso Cohen.[74]) Considerati alla luce della filosofia di Cohen e della sua applicazione teologica, sia Israele che le nazioni del mondo – in quest'ordine – saranno solo veramente e soddisfacentemente elevate e trasformate (aufgehoben) in quella nuova umanità nella sempre ideale Era Messianica. Solo qui e ora nel mondo reale della storia, la legge morale universalizzabile della Torah, che Cohen pone come suo contenuto primario, deve giustificare una correlazione tra ebrei e non-ebrei in uno stato laico.[75] Qui l'uguaglianza tra tutti i cittadini è la norma politica fondamentale. Tuttavia ciò non implica che le particolarità religioso-culturali debbano essere prematuramente – cioè premessianamente – soppresse.[76]

Tutto ciò deve essere sottolineato per rimuovere il canard che riduce Cohen alla caricatura di un ebreo tedesco moderno politicamente cieco, che alla fine non offre altro che un'intricata razionalizzazione per l'assimilazione.[77] Come spero di aver dimostrato finora, egli era molto di più.

Il problema dell'adeguatezza teologica[modifica]

Frontespizio del Sefer Ha-Ikkarim (ספר העיקרים "Libro dei Principi") di Joseph Albo, stampato a Rimini da Gershom Soncino nel 1522
Frontespizio del Sefer Ha-Ikkarim (ספר העיקרים "Libro dei Principi") di Joseph Albo, stampato a Rimini da Gershom Soncino nel 1522
 
Pagina del Sefer Ha-Ikkarim stampato a Rimini da Gershom Soncino nel 1522
Pagina del Sefer Ha-Ikkarim stampato a Rimini da Gershom Soncino nel 1522
Frontespizio del Sefer Ha-Ikkarim (ספר העיקרים "Libro dei Principi") di Joseph Albo, stampato a Presburgo nel 1853

È il kantismo di Cohen che lo costringe a fare quella che deve essere considerata una distorsione fondamentale della dottrina ebraica classica. Infatti Cohen non rifiuta mai, e neppure critica, il fondamentale principio kantiano che la legge morale si fonda sull'autonomia della volontà razionale.[78] A differenza sia della dottrina della legge rivelata che dell'idea classica di legge naturale, per Kant e per Cohen dopo di lui, la moralità non implica diventare parte di un ordine superiore che trascende il soggetto morale. Invece, la moralità è la propria volontà razionale che intende un ordine ideale, che deve ancora essere. In quanto tale, sebbene il ruolo di Dio nel sistema filosofico-teologico di Cohen sia molto più centrale di quanto non lo sia nel sistema di Kant, anche per Cohen Dio viene introdotto nel sistema dopo la piena costituzione dell'autonomia razionale.[79] È quindi la piena realizzazione dell'autonomia morale che richiede Dio, ma non è mai Dio il primo a richiedere la libertà morale e l'ultimo a giudicarla. "Io sono il primo e sono l'ultimo, e fuori di me non c'è Dio (elohim) fuori di Me" (Isaia 44:6).[80] La relativa libertà morale di rispondere a chi si confronta, ma ciò che non può mai fare o postulare, è essenzialmente diversa dalla libertà assoluta del creatore di qualsiasi mondo, reale o ideale.[81] Per Cohen, quindi, il soggetto umano come agente morale razionale può solo volere e scegliere, non può mai essere scelto da chi gli si rivolge dall'alto e quindi rispondere principalmente a quella scelta.

Per questo motivo, la subordinazione ebraica fondamentalmente liberale da parte di Cohen dei cosiddetti comandamenti "rituali" – cioè quelli che riguardano il rapporto diretto tra l'uomo e Dio (bein adam le-maqom) – ai cosiddetti comandamenti "morali" – cioè quelli che attengono al rapporto diretto tra uomo e uomo (bein adam le-havero) – è un'inversione del contenuto della rivelazione nella Scrittura e dell'insegnamento dei rabbini. In termini di fonte dei comandamenti, entrambi i tipi provengono ugualmente da Dio.[82] In termini di soggetti dei comandamenti, entrambi i tipi sono ugualmente indirizzati agli esseri umani.[83] La differenza sta tuttavia in termini di oggetti dei rispettivi tipi di comandamenti. Con i comandamenti tra l'uomo e Dio, Dio è l'oggetto diretto; con i comandamenti tra uomo e uomo, l'uomo è l'oggetto diretto.[84] Ma nel caso di quest'ultimo tipo di comandamenti, Dio è l'oggetto indiretto. Quindi entrambi i tipi di comandamenti in definitiva intendono Dio. E l'epitome della relazione Dio-umano in questo mondo è l'alleanza tra Dio e Israele, alleanza che è sempre iniziata dall'elezione di Israele da parte di Dio. Quindi i comandamenti interumani sono inclusi nel reame dei comandamenti divini-umani, dell'alleanza, ma non è il caso del contrario. Il miglior esempio di ciò, mi sembra, è che chi è colpevole di un peccato contro un altro essere umano è anche colpevole di un peccato contro Dio, ma chi è colpevole di un peccato contro Dio non è anche colpevole di un peccato contro altri esseri umani.[85]

Ciò non significa, ovviamente, che non si possano vedere beni interumani evidenti intesi da molti dei comandamenti che riguardano le relazioni interumane. Tuttavia, come sottolineò Maimonide nella sua critica a Saadyah e al Kalam ebraico in generale, l'intelligibilità ultima di tutti i comandamenti deve essere vista nel primato del rapporto umano con Dio, che, trascendendo i limiti del reame specificamente morale, è quindi irriducibile ad esso.[86] L'universalismo morale di Cohen, d'altra parte, non è quindi sufficiente a costituire propriamente il primato di Dio sentito religiosamente (e non solo costituito filosoficamente). E questo è il terreno indispensabile sia della rivelazione della Torah che dell'elezione di Israele.

Ciò che Cohen ha fatto nella sua teologia è ridurre la dottrina dell'elezione di Israele alla dottrina della rivelazione della Torah, cioè la Torah concepita principalmente nei termini del suo contenuto morale, la Torah come mishpatim (leggi razionali). Sembrerebbe che per lui solo coloro che moralmente meritano di essere d'Israele – il simbolo dell'umanità ideale – siano in realtà gli eletti di Dio. Perché solo loro hanno veramente eletto Dio loro stessi. Eppure la tradizione ebraica ha affermato continuamente che anche quegli ebrei la cui apostasia potrebbe rimuoverli dalla comunicazione con gli ebrei normativi in ​​questo mondo e nel Mondo a venire, anche loro fanno ancora parte di Israele, il popolo eletto di Dio, finché sono vivi.[87] Quindi non possono essere considerati già morti – non importa quanto malvagia sia stata la loro negazione dell'alleanza – e non sono mai al di là della chiamata da parte di Dio di ritornare (teshuvah). I singoli ebrei, anche gruppi di ebrei, possono negare la loro elezione nei modi più audaci, ma dal punto di vista di Dio come presentato nella rivelazione scritturale e nella tradizione rabbinica, non possono annullare un'alleanza che essi stessi non hanno né iniziato né mai sono in grado di terminare. L'alleanza è reale. È già stata stabilita per elezione e il suo contenuto dato nella rivelazione. Solo il suo compimento redentore è ideale, vale a dire ciò che non è ancora venuto ad essere. Ma anche tale ideale è una nuova creazione divina la cui realizzazione è promessa all'uomo piuttosto che una proiezione umana destinata a Dio. Joseph Albo nel XV secolo riportò nel suo Sefer Ha-Ikkarim (ספר העיקרים "Libro dei Principi") le basi fondamentali (ikkarim appunto) del rapporto Dio-uomo nell'ebraismo, coi principi derivativi prodotti dall'alleanza.[88]

Anche coloro che desiderano convertirsi all'ebraismo devono impegnarsi con il popolo ebraico nella reale situazione storica presente, almeno nella misura in cui devono accettare l'ideale di praticare tutti i comandamenti della Torah Scritta e della Tradizione Orale.[89] E come lo stesso popolo d'Israele, i convertiti non entrano a far parte di Israele per propria scelta. La loro scelta è solo una condizione preliminare in quanto nessuno può essere veramente convertito senza la sua volontaria conformità.[90] Invece, come Israele stesso, divengono eletti perché sono stati eletti.[91] I membri del tribunale ebraico che li accolgono, operando come agenti della corte divina, hanno sempre la possibilità di non accettarli. La loro scelta è libera; non agiscono per nessuna necessità/obbligo. Sebbene, non essendo Dio, le loro scelte debbano essere giustificate da alcuni criteri oggettivi.[92]

L'inadeguatezza specifica della teologia dell'elezione proposta da Cohen può essere vista nel suo uso delle leggi noachiche. Svolgono un ruolo centrale nella costituzione della moralità di Cohen a partire dalle fonti dell'ebraismo. Per Cohen, le leggi noachiche, che riguardano l'umanità in sé, sono il contenuto essenziale della Torah proprio perché sono esclusivamente morali (a suo avviso comunque) e l'essenza della Torah è la moralità. Tuttavia, non può costituire tutta la spinta dell'insegnamento rabbinico che sottolinea che la rivelazione a Israele è più alta e più completa della rivelazione al mondo in generale, che la Torah tratta molto di più della semplice moralità.

La dottrina delle leggi noachiche indica che il contenuto normativo della Torah è duplice: la parte maggiore relativa al rapporto tra Dio e Israele; la parte minore concernente i rapporti umani più generali. La parte maggiore della Torah consiste nei 613 comandamenti; la parte minore è costituita dai sette comandamenti di Noè. Il modo migliore per costituire la relazione di queste due parti è vedere la Torah noachica come la precondizione che rende possibile l'accettazione della Torah mosaica completa da parte delle persone razionali. L'accettazione della legge più alta presuppone che coloro che l'accettano stanno già vivendo secondo la legge divina e che la loro legge è aperta a una realizzazione più alta e più completa del suo pieno intento.

Questa legge precondizionale è incorporata intatta in quella legge superiore. Funziona come condizione morale – ma non come fondamento morale secondo Cohen – di quella legge superiore. È la norma per la creazione, quella mediata dall'ordine naturale. Tale norma emerge quando le persone umane accettano i loro limiti di creature, sia individualmente che collettivamente, come istituiti dal loro creatore.[93] Di conseguenza, ordinano formalmente la loro vita in base a questi limiti presi per natura, e il contenuto che è entro questi limiti lo sviluppano come storia. Ciò che è naturale è generale; ciò che è storico è singolare. E il singolare non è una particolarità sussunta dal generale qua universale, come lo è per Cohen che segue Kant e infine Platone. Non è solo un esempio.

Infine, questa legge collega Israele con il suo passato pre-sinaitico e la collega anche con i suoi vicini non ebrei. È l'unica base di una relazione moralmente significativa con loro. Tuttavia, è una relazione che riconosce che le sue somiglianze formali sono di gran lunga superate da quelle differenze sostanziali che non possono essere incluse in essa. Per Cohen, questa legge generale è ora la legge morale universale che deve essere il contenuto, la sostanza stessa dell'umanità messianicamente elevata e trasformata (aufgehoben). È l'umanità in cui non vengono mantenute singolarità storiche differenzianti. Nella visione ebraica più classica, invece, questa legge generale manterrà la sua funzione formale, né più né meno. Ma la singolarità ebraica non sarà mai aufgehoben in qualcosa di più universale, nemmeno idealmente. Alla fine dei giorni, le nazioni del mondo diventeranno a tutti gli effetti una cosa sola con Israele in tutta la sua singolarità. Il contenuto della loro vita diventerà ebraico. Solo la singolarità di Israele, non la loro, durerà e sarà redenta. Pertanto, l'elezione di Israele – che la maggior parte dei comandamenti della Torah rivelata celebra in un modo o nell'altro – è sempre centrale nel rapporto tra Dio e l'uomo. Anche in relazione al riscatto finale, non è provvisorio come risulta essere per Cohen.

Oltre a sostenere una maggiore corrispondenza con le fonti ebraiche classiche, un'alternativa alla teologia dell'elezione di Cohen deve essere anche più coerente filosoficamente. Perché, come lo stesso Cohen riconobbe così bene, metodo e dati non possono essere separati in modo permanente.[94] Solo una tale alternativa può sperare di contrastare la teologia di un pensatore che era un tale maestro sia dei dati della tradizione ebraica che del metodo filosofico. Solo una tale alternativa può rispettare adeguatamente Hermann Cohen differendo efficacemente da lui su un livello di razionalità degno della sua vera grandezza.[95]

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico.
  1. Cfr. Kant, Religion Within the Limits of Reason Alone, trad. (EN) T. M. Greene & H. H. Hudson (New York, i960), 116 segg.
  2. "Spinoza über Staat und Religion, Judentum und Christentum" (1915), in Jüdische Schriften, cur. B. Strauss (3 voll., Berlino, 1924), 3:302.
  3. Cfr. Ethik des reinen Willens, IV ediz. (Berlino, 1923), 317 segg.
  4. "Spinoza über Staat, etc.," in Jüdische Schriften, 3:371. Cfr. anche "Die Bedeutung des Judentums fur den religiösen Fortschritt der Menschheit" (1910), ibid., 1:55.
  5. Metafisica 981b27.
  6. Questo è un problema affrontato da tutti i teologi che sono anche filosofi, e anche da tutti i filosofi che sono anche teologi. Cfr. per es., Gregorio di Nissa, (EN) Against Eunomius, in Nicene and Post-Nicene Fathers, II serie (Grand Rapids, Mich., 1983), 5:50-51. Cfr. anche Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, 1, q.2, a.3.
  7. Cfr. Critica della ragion pratica, ad hoc.
  8. Cfr. "Innere Beziehungen der Kantischen Philosophic zum Judentum" (1910), in Jüdische Schriften, 1:293, anche Der Begriff der Religion im System der Philosophie (Giessen, 1915). 51.
  9. Cfr. Religion of Reason Out of the Sources of Judaism, trad. (EN) S. Kaplan (New York, 1972), 63-64, dove Cohen constituisce la creatio ex nihilo quale espressione teologica di Dio come Ursprung.
  10. Si veda Logik der reinen Erkenntnis, III ediz. (Berlino, 1922), 79, dove Cohen definisce Ursprung quella che i filosofi greci chiamavano archē. Si noti anche ibid., 36: "Denken ist Denken des Ursprungs. Dem Ursprung darf nichts gegeben sein ... Der Grund muss Ursprung werden." Cfr. Religion of Reason, 69.
  11. Cfr. Logik376-377; e si noti 271: "Die Bedingung ist die Be Dingung ... Die Bedingung ist die Ding-Erzeugung." Cfr. anche Ethik, 25.
  12. Ciò è alquanto evidente in Cohen, Das Prinzip der Infinitesimal-Methode und seine Geschichte (Frankfurt-on-Main, 1968), per es., sez. 100.
  13. Cfr. Logik, 596.
  14. Cfr. Walter Kaufmann, Hegel (Garden City, N.Y., 1966), 182-83; anche R. Plant, Hegel (Bloomington & Londra, 1973), 81-82.
  15. Logik, 81-82, 587.
  16. Cfr. Ethik, 88 segg.
  17. Cfr. ibid., 507 segg.
  18. Logik, 604. Cfr. Sylvain Zac, La Philosopkie religieuse de Hermann Cohen (Parigi, 1984), 27.
  19. Cfr. Logik, 67, 145, 401, 418 segg., 472; anche, Ethik, 399.
  20. Cfr. Ethik, 179 segg.
  21. Cfr. ibid., 429.
  22. Cfr. ibid., 321 segg.
  23. Cfr. Groundwork of the Metaphysic of Morals, trad. (EN) H. J. Paton (New York, 1964), 100 segg.
  24. Cfr. Ethik, 341. La seconda formulazione dell'imperativo categorico di Kant, cioè il soggetto morale come Zweck an sich selbst, è per Cohen "der tiefste und machtigste Sinn" (ibid., 322).
  25. Cfr. ibid., 425. Cfr. anche, ibid., 14, dove Cohen considera l'idealismo etico come "von der Tyrannei der Erfahrung sich frei macht."
  26. Cfr. ibid., 425.
  27. Cfr. Kant, (EN) Critique of Practical Reason, 117 segg.
  28. Cfr. Kant, Critique of Pure Reason, B395 e relativa nota; Critique of Judgment, trad. (EN) J . H. Bernard (New York, 1951), sez. 68.
  29. "Der Gott, welcher die Wahrheit ist; welcher die Harmonie der Naturerkenntnis und der Sittlichen Erkenntnis bedeutet" (Ethik, 455).
  30. Cfr. ibid., 470, dove Cohen sostiene che Dio trascende la natura e la moralità quando ciascuna viene presa separatamente. Tuttavia, Dio è concepito nel punto in cui "die Transzendenz zwischen Natur und Sittlichkeit aufgehoben wird". Resta la domanda, tuttavia, se Cohen possa ipotizzare che ci sia più di questo riguardo a Dio, anche se non può costituirlo — come la posizione di Kant del Ding an sich, che non poteva costituire (cfr. Critique of Pure Reason, B306). In un brano di Religion of Reason, Cohen dice degli attributi dell'azione predicati da Dio dalla Scrittura, "queste norme sono contenute nell'essenza di Dio, ma è impossibile immaginare (nicht auszudenken) che potrebbero esaurire (erschöpfen) questa essenza: potevano essere stati concepiti solo per l'uomo, potevano valere solo per le azioni dell'uomo" (95 = Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, II ediz. [Darmstadt, 1966], 110). Inoltre, la nota di chiusura di Cohen a questo passo (nota 16, p. 464) cita Maimonide, Guida dei perplessi, 1.54, dove Maimonide afferma chiaramente che Dio trascende i suoi attributi di azione. Sebbene il significato del brano di cui sopra in Cohen sembri chiaro, è certamente atipico per lo stesso Hermann Cohen. Molto più tipico della sua teologia è un'affermazione come questa: "nicht Gott allein und an sich, sondern immer nur in Korrelation zum Menschen" (Der Begriff der Religion, 32). Cfr. anche, Ethik, 591: "Innere Beziehungen der Kantischen Philosophic zum Judentum", Jüdische Schriften, 1:294.
  31. Per la distinzione tra Zweck come "fine" e Absicht come "scopo" nella filosofia di Kant, cfr. D. Novak, Suicide and Morality (New York, 1975), 91-92.
  32. Cfr. Ethik, 466 segg.
  33. Cfr. Der Begriff der Religion, 47 segg.; Religion of Reason, 59 segg.
  34. Cfr. Religion of Reason, 67. L'identificazione di Dio e dell'Essere entra per la prima volta nell'ebraismo con la traduzione LXX di Esodo 3:14 ("[[w:Io sono colui che sono|Io Sono Colui che Sono" ebr. אֶהְיֶה אֲשֶׁר אֶהְיֶה‎, ʾehyeh ʾašer ʾehyeh) come "eimi ho ōn": "Io sono l'Essere". Per una discussione completa sulle ramificazioni teologiche dell'identificazione del Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe con il Dio dei filosofi, cfr. D. Novak, "Buber and Tillich," Journal of Ecumenical Studies (1992), 29:159 segg.
  35. Per la presentazione fatta da Cohen di una linea di panteismo da Parmenide a Spinoza, si veda Religion of Reason, 59 segg.
  36. Cfr. Ethics, V, prop. 7.
  37. Cfr. ibid., III, prop. 7.
  38. Ethik, 457.
  39. (EN) "If God is recognized through the attribute of being not inert, then he becomes recognizable as creator; thus, the idea of creation is taken into the concept (Begriff) of God. The riddle of creation is thus resolved through the definition of God. For now creation rather means God's being, which is the being of the originative principle (Ursprungs). And becoming now has its basis (Grund) in this being as the originative principle" (Religion of Reason, 65 = Tedesco, 75).
  40. Cfr. ibid., 250 segg., 132 segg.
  41. Cfr. ibid., 113 segg.; anche, Zac, La Philosophie religieuse de Hermann Cohen, 101, 127.
  42. Religion of Reason, 146.
  43. Ibid., 147 ( = Tedesco, 171).
  44. Cfr. ibid., 186 segg.
  45. "Poiché egli stesso non ha bisogno dell'uomo come prossimo" (ibid., 148).
  46. Cfr. Ethik, 499 segg.; Religion of Reason, specialmente 255.
  47. Cfr. Religion of Reason, 105.
  48. Ibid., 250 (= Tedesco, 292).
  49. Religion of Reason, 338 = Tedesco, 393-394. Lì Cohen fa la distinzione ebraica liberale tra l'origine divina della Torah insieme alla specificazione umana dei suoi effettivi doveri. "Es ist ... eine theoretische Unterweisung, die daher dem Menschen zur Pflicht gemacht werden kann."
  50. Su questo punto, cfr. D. Novak, Jewish-Christian Dialogue (New York, 1989), 1 i5ff. Cfr. Franz Rosenzweig, The Star of Redemption, trad. (EN) W. W. Hallo (New York, 1970), 12 segg.
  51. Per la difficoltà che i liturgisti della prima Riforma (per lo più tedeschi) ebbero con la dottrina classica, si veda Jakob J. Petuchowski, Prayerbook Reform in Europe (New York, 1968), capp. 9, 11, 12.
  52. Religion of Reason, 243 ( = Tedesco, 284). Per il tipo di critica perenne del particolarismo ebraico a cui Cohen stava tentando di rispondere (in questo caso, in anticipazione), si veda Eric Voegelin, Order and History (Baton Rouge, La., 1957), 1:327. Per un trattamento percettivo di come l'imbarazzo nei confronti della singolarità degli eventi storici nella relazione Dio-uomo sia avvenuto a pieno vigore nel deismo del diciottesimo secolo, su veda Charles Taylor, Sources of the Self (Cambridge, Mass., 1989), 273-274.
  53. Cfr. "Einheit oder Einzigkeit Gottes" (1917), in Jüdische Schriften, 3:87 segg.; anche, Logik, 169-170, 474.
  54. Cfr. per es., "Ein Bekenntnis in der Judenfrage" (1880), in Jüdische Schriften, 2:73 segg.
  55. Cfr. Religion of Reason, 24 segg.
  56. "Das aber ist der Sinn der Religion der Propheten ... dass er den Staatenbund der Menschheit vorbereitet in der messianischen Idee der vereingten Menschheit" (Ethik, 500).
  57. Cfr. Religion of Reason, 254.
  58. "Die Einheit nicht minder Mehrheit gedacht werde ... Die Sonderung muss ebenso sehr und ebenso bestimmt als Vereinigung werden" (Logik, 60) ... die Mehrheit nicht lediglich als Gegenwart gedacht, sondern in die Zukunft gehoben wird" (ibid., 63).
  59. Cfr. Religion of Reason, 240, 249, 264.
  60. Cfr. ibid., 359.
  61. Per l'importante ruolo della temporalità, specialmente il futuro (Zukunft) nella filosofia di Cohen, cfr. Ethik, 401 segg.
  62. Religion of Reason, 253 (= Tedesco, 295).
  63. Ibid., 260 (= Tedesco, 303).
  64. Ibid., 267 (= Tedesco, 312).
  65. Ibid., 254 (= Tedesco, 297).
  66. Per un'analisi critica di questa nozione, si veda D. Novak, Jewish Social Ethics (New York, 1992), 225 e segg. Per la critica di questa nozione da parte del primo teorico sionista Ahad Ha'Am (morto nel 1927), si vedano i suoi "Kohen Ve-Navi" e "Shinui Ha'Arakhin", in Kol Kitvei Ahad Ha’Am, II ediz. (Gerusalemme, 1949), 92 e 156. Ahad Ha'Am non negò il ruolo distintivo del popolo ebraico. La sua critica alla nozione ebraica europea occidentale della missione di Israele era che fosse troppo legata alle nozioni liberali occidentali di individualismo e democrazia.
  67. Cfr. Kaufmann, Hegel, 144; anche, S. Avineri, The Social and Political Thought of Karl Marx (Cambridge, 1968), 37.
  68. Si veda per es., la sua critica della sintesi fatta da Hegel di Idee (infinito) e Begriff (finito) in Logik, 314; anche, Ethik, 254. Cfr. Franz Rosenzweig, Briefe, cur. E. Rosenzweig (Berlino, 1935) no. 221, p. 299.
  69. Questo può esser visto nella sua prima opera importante (nel 1871), Kants Theorie der Erfahrung. Si veda specialmente la IV ediz. (Berlino, 1925), 526 segg.
  70. Questo significato di telos e eschaton viene espresso chiaramente da Hegel nella conclusione di Phänomenologie des Geistes, cur. J. Hoffmeister (Hamburg, 1952), 564: "Das Ziel, das absolute Wissen ... in der Form der Zufäligkeit erscheinenden Daseins, ist die Geschichte, nach der Seite des begriffenen Organisation aber die Wissenschaft des erscheiden Wissens, beide zusammen, die begriffene Geschichte bilden ... die Wirklichkeit, Wahrheit und Gewissheit." Cfr. Martin Heidegger, An Introduction to Metaphysics, trad. (EN) R. Manheim (Garden City, N.Y., 1961), 49-50.
  71. Da notare, per es., "Kann die Sittlichkeit Wirklichkeit werden auf Erden? So muss die Sittlichkeit fragen. Und die Propheten haben diese Frage in messianischen Idee bejaht. Diese messianische Idee hat die gebildete Menschheit angenommen" ("Die Bedeutung des Judentums fur den religiosen Fortschritt der Menschheit," in Jüdische Schriften, 1:32-33).Cfr. anche Franz Rosenzweig che si ricorda dell'impazienza messianica di Cohen, in Nahum N. Galtzer, Franz Rosenzweig: His Life and Thought, II ediz. riv. (New York, 1961), 351.
  72. Sfortunatamente, i due saggi di Cohen sulla Prima guerra mondiale, "Deutschtum und Judentum" (1915-1916), in Jüdische Schriften, 3:237 seg., 302 segg., in cui, come molti altri intellettuali tedeschi, era impegnato nella propaganda bellica, sono troppo spesso prese come necessarie conclusioni dai suoi principi filosofici. Ma non lo sono. Se ne potrebbero trarre diversi punti politici. Il passaggio dalla riflessione filosofica o teologica al giudizio storico pratico avviene per applicazione, non per conclusione logica univoca. Pertanto, un rifiuto dei principi filosofici o teologici di Cohen deve essere fatto filosoficamente o teologicamente e non per mezzo del senno di poi storico. Non può essere fatto con convinzione semplicemente sulla base di una lettura retrospettiva di questi saggi dopo l'Olocausto, anche se sono sicuramente dolorosi da leggere per qualsiasi ebreo di oggi, anche retrospettivamente. Dimostra inoltre che, a livello psicologico, Cohen non aveva capito niente della mentalità razzista (antisemita) tedesca.
  73. Cfr. "Du sollst nicht einhergehen als ein Verleumder – Ein Appell an die Juden Amerikas", in Jüdische Schriften, 2:22O segg.
  74. Cfr. Jacob Klatzkin, Hermann Cohen (Berlino & Londra, 1923), 46-47.
  75. Cfr. Religion of Reason, 123; anche, "Die Nachstenliebe im Talmud," in Jüdische Schriften, 1:159-160.
  76. Cfr. Spinoza, Tractatus Politicus, 3.10.
  77. Sulla falsariga dell'accusa di assimilazionismo, vedi Klatzkin, Hermann Cohen, 109 segg.
  78. "Die Autonomie bedeutet das Prinzip der Deduktion in der Ethik ... Die deduktive Autonomie schliesst ebenso aber auch die absolute Spontanität aus" (Logik, 581-582). Cfr. Religion of Reason, 339.
  79. Cfr. Ethik, 470.
  80. Per elohim come autorità, immediatamente umana e infine divina, cfr. TB Sanhedrin 56b.
  81. Cfr. Ethik, 321 segg.; anche, Hannah Arendt, The Life of the Mind (2 voll., New York, 1978), 2:28-29, 89.
  82. Cfr. TB Hagigah 3b rif. Esodo 20:1 e Qoelet 12:11.
  83. Cfr. TB Kiddushin 54a e paralleli.
  84. Ecco perché, mi sembra, Maimonide limitò la recita delle benedizioni prima dei comandamenti (birkhot mitsvah) ai comandamenti in cui Dio è l'oggetto diretto dell'atto, atti che ora (purtroppo) chiamiamo "rituali" in contrapposizione a quelli che noi ora chiama "morali". Cfr. Mishneh Torah: Berakhot, 11.2 e Karo, Kesef Mishneh ad hoc. Cfr. R. Solomon ibn Adret, Teshuvot Ha-Rashba, 1, no. 1.
  85. Si veda per es., Sifra: Vayiqra, cur. Weiss, 27d rif. Levitico 5:21; T Sanhedrin 9.7 rif. Deuteronomio 21:23; M. Yoma 8.9 e TB Yoma 87a rif. 1 Samuele 2:25; TB Yevamot 6b rif. Levitico 19:3 e Tos., s.v. "kulkhem."
  86. Cfr. Shemonah Peraqim, cap. 6; Mishneh Torah: Melakhim, 8.11.
  87. Cfr. TB Sanhedrin 44a rif. Giosuè 7:11; TB Yevamot 47b.
  88. (EN) "Thus the number of primary and secondary principles of divine law in general, according to this, are eleven: existence of God, and the four secondary principles derived from it, viz., unity, incorporeality, independence of time, freedom from defects. Then divine revelation and the three secondary principles depending upon it, viz., God’s knowledge, prophecy, and the authenticity of the prophet’s mission. Finally, reward and punishment, and the secondary principle based upon it, viz., providence. If we combine divine knowledge and providence into one, as Maimonides does, the number will be ten... On the other hand we count God’s knowledge and providence as two separate dogmas, because they are different, as Maimonides explains in the Guide, and as all later authorities agree, though Maimonides himself combines them into one" — Joseph Albo, Sefer HaIkkarim: Joseph Albo's Fundamentals of Judaism (pp. 90-91) cur. & trad. ingl. Isaac Husik, 1929. Cfr. anche, int. al., TB Berakhot 34b rif. Isaia 64:3.
  89. TB Yevamot 47a.
  90. TB Ketubot 11 a.
  91. Cfr. TB Yevamot 22a; TB Kiddushin 70b, Rashi, s.v. "yisra'el ketiv".
  92. Cfr. TB Yevamot 24b.
  93. Cfr. D. Novak, Law and Theology in Judaism (2 voll., New York, 1974, 1976), 2:15 segg.
  94. Cfr. Religion of Reason, 4.
  95. Un tale tentativo è stato fatto da Mordecai Kaplan nel suo The Purpose and Meaning of Jewish Existence (Philadelphia, 1964). Ma la costituzione dell'ebraismo di Kaplan è molto meno convincente di quella di Cohen, sia in termini di corrispondenza con i dati della tradizione ebraica che di coerenza e rigore filosofico.