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Guida maimonidea/Guida dei Perplessi

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Frontespizio della Guida dei Perplessi di Maimonide (in ebraico)
« Non accettare una prova solo perché è scritta nei libri, poiché il bugiardo che inganna con la lingua, non esiterà a fare lo stesso con la penna. »
(Maimonide)
« Ora, l’uomo ha come proprietà qualcosa di molto strano, che non si trova in nessuno degli enti che stanno sotto la sfera della luna: è la comprensione intellettuale, nella quale non interviene né un senso, né una mano, né un braccio, e che è paragonabile alla comprensione divina, che non si serve di un organo – anche se non le è simile nella realtà, ma solo a prima vista. Pertanto, a proposito dell’uomo, a causa di quest’ultima cosa, ossia a causa dell’intelletto divino a lui congiunto, si dice che egli è “ad immagine di Dio e a Sua somiglianza”. »
(Guida dei perplessi, Parte I, Cap. I)

Il Nascosto ed il Rivelato

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Nell'introduzione della Guida dei perplessi,[1] Maimonide prende l'insolita iniziativa di comandare ai suoi lettori i seguenti termini:

« Io comando — per Dio, che Egli sia glorificato — a ciascun lettore di questo mio Trattato di non commentare una sola parola [del testo] e di non spiegare ad un altro nessuna cosa che esso contenga ad eccezione di quello che è stato spiegato e commentato sulle parole dei famosi Saggi della nostra Legge che mi hanno preceduto. Ma qualsiasi cosa egli comprenda di questo Trattato, di quelle cose che non sono state dette da nessuno dei nostri famosi Saggi oltre a me, non deve essere spiegata ad un altro; né si deve affrettare a confutarmi, poiché ciò che egli ha capito che io abbia detto potrebbe essere contrario alla mia intenzione. »
(Guida dei perplessi, p. 15[2])

La Guida quindi è un'opera il cui significato è stato nascosto, ed il lettore deve sempre chiedersi se ha veramente capito le idee dell'autore. E anche se il lettore ottiene una comprensione corretta, egli è vincolato dal giuramento di non diffondere tale significato, dato che non può rivelare nulla che l'autore non abbia scelto di rivelare. Se il lettore non riesce ad ottenere una comprensione dei significati più profondi dell'opera sulla base della propria lettura delle allusioni, egli non è degno di averne rivelati i segreti, e quindi non può farlo. Il vero recipiente del trattato capirà da se stesso ciò che deve capire e ciò può capire propriamente.[3]

La Mishneh Torah è un'opera diretta ad un vasto pubblico, sia per gente comune che d'élite. La Guida, in contrasto, è intesa per un gruppo più ristretto, un gruppo che sin dagli inizia Maimonide definisce che escluda il pubblico in generale e quelgi studiosi che trattano esclusivamente della halakhah: "Non è lo scopo di questo Trattato rendere la sua totalità comprensibile al volgare o al principiante di speculazioni, né insegnare a coloro che non si sono impegnati in altri studi se non quelli della scienza della Legge — intendo lo studio legalistico della Legge" (Guida, p. 5). L'opera è diretta ai perplessi, persone che sono state educate ad essere fedeli alle tradizioni dell'Ebraismo ma che hanno anche interiorizzato la visione filosofica del mondo.[3] La sua dimestichezza con queste due fonti di autorità — Torah e saggezza — conduce la persona perplessa fino al punto di una crisi esistenziale che pare gli richieda di fare una tragica scelta tra fede religiosa e certezza filosofica:

« Perciò rimarrebbe in uno stato di perplessità e confusione se seguire il suo intelletto, rinunciare a ciò che sapeva sui termini in questione, e conseguentemente considerare di aver rinunciato ai fondamenti della Legge. Oppure mantener salda la sua comprensione di questi termini e non lasciarsi trascinare dall'intelletto, ma voltargli le spalle e andarsene, mentre allo stesso tempo percepire di aver subito una perdita per se stesso e la sua religione. Rimarrebbe con quelle credenze immaginarie alle quali deve le sue paure e difficoltà e non cesserebe di soffrire di spirito e di gran perplessità. »
(Guida, pp. 5-6)

La Guida intende liberare la persona perplessa dalla sua crisi spirituale e quindi non presenta una serie di insegnamenti ordinata e chiara, che sia facilmente accessibile a tutti. La nuova percezione della tradizione ebraica proposta da Maimonide è intesa a risolvere l'incertezza spirituale ed esistenziale confrontata dall'élite ebraica istruita, un gruppo rappresentato dall'individuo perplesso — da cui il titolo del libro. È presentato mediante titoli di capitolo sparsi per tutta l'opera, e lo studio di questa nuova interpretazione richiede un'associazione diligente e sistematica di tali titoli — secondo un cliché moderno, il lettore deve "unire i puntini". Maimonide asserisce anche di aver inserito deliberatamente delle contraddizioni nel testo, intese a nasconderne il significato all'indegno. In passato, le tradizioni esoteriche erano trasmesse solo oralmente e solo individualmente, permettendo al trasmettitore di controllare l'ampiezza del proprio pubblico, ma colui che mette per iscritto perde tale livello di controllo. L'unico modo di filtrare membri indegni del pubblico è scrivendo in stile allusivo ed oscuro, solo schematicamente e usando contraddizioni deliberate. Il carattere unico della Guida permette di superare i limiti di tempo e spazio associati con la trasmissione orale senza tuttavia rivelare i segreti a coloro che non sono degni di riceverli.[4]

I vari interpreti di Maimonide tuttavia non si preoccuparono affatto dell'ammonimento o dell'occultamento, anzi. Il peggior modo di mantenere un segreto è, naturalmente, quello di annunciarne l'esistenza e ammonire contro la sua rivelazione. Non c'è quindi da meravigliarsi che, subito dopo la pubblicazione della Guida, nei secoli XIII e XIV, iniziarono ad esser scritti commentari che affermavano di spiegarne i segreti e offrire vari modi di interpretarla. L'occultamento del significato dell'opera non lo conservò né lo protesse; al contrario, portò gli interpreti a proporre una vasta serie di significati. È logico che libri importanti acquisiscvano interpretazioni diverse, e ciò succede ancor di più quando il libro è uno di quelli il cui significato è stato nascosto dall'autore. Inoltre, il significato della Guida divenne una fatidica questione religiosa e politica, una che mise l'opera al centro di un potente Kulturkampf che scoppiò dopo la morte di Maimonide. Al cuore del conflitto stava la questione se la Guida contenesse posizioni estreme che minassero la fede dei veri credenti ebrei. La questione divvenne ancor più aspra e profonda quando si considerava che il libro era stato scritto dal più grande halakhsita sin dal completamento del Talmud. L'autorità halakhica di Maimonide affermò il trattato mentre lo rese simultaneamente più pericoloso e problematico.[4]

E quindi Maimonide lasciò un'eredità ambigua, una che divise i suoi interpreti ed i suoi oppositori. Svelare il segreto ed il significato della Guida occupa gli studiosi di Maimonide a tutt'oggi. Discutendo la Guida in questo capitolo ed in quello successivo, non si intende decidere tra le varie letture dell'opera. Tuttavia, alcuni studiosi maimonidei propongono quattro possibilità interpretative che differiscono sostanzialmente nella loro comprensione del significato che Maimonide assegnò alla tradizione ebraica.[5] Le seguenti sono le quattro letture proposte da tali studiosi e che verranno analizzate nelle pagine seguenti:

  • lettura scettica;
  • lettura mistica;
  • lettura conservatrice;
  • lettura filosofica.

Un esame di queste varie letture permetterà anche la presentazione di un'interpretazione senza soluzione di continuità dei problemi centrali trattadi dalla Guida, seguendo la sequenza dell'opera stessa. Guardando oltre le letture, si tenterà anche di scoprire il nucleo della trasformazione religiosa prodotta da questa opera nel modo interpretato dalle varie scuole di pensiero.[5]

La struttura

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Prima di passare ad esaminare i possibili significati della Guida, dobbiamo prestare attenzione a come il trattato sia stato scritto. Quali motivi guidano l'esoterismo che occulta il significato del trattato? E se la scrittura è veramente intesa a oscurarne il significato, perché Maimonide, nell'introduzione e altrove, dichiara che il libro comprende significati nascosti e descrive il sistema che ha usato per nasconderli? Un autore o drammaturgo che lavori sotto censura di un regime totalitario non annuncerebbe mai nell'introduzione che un'opera ha significati nascosti che non ha la libertà di rivelare. Tale annuncio lo renderebbe immediatamente sospetto ed inviterebbe i lettori ad interpretare l'opera nella maniera più sovversiva possibile, anche se tali significati non fossero quelli intesi. Prima di identificare i possibili significati nascosti del trattato, dobbiamo considerare una questione differente: quel'è la rilevanza dell'occultamento come modo di espressione o di scrittura e come viene usata nella Guida?[5]

Una delle giustificazioni che Maimonide offre per il carattere oscuro della Guida è la necessità di proteggere il filosofo e la filosofia stessa dallo scherno delle masse, che sono incapaci di sondarne le profondità, e anche più importante, dalla mano pesante delle autorità religiose e politiche, che ritengono la filosofia una minaccia all'ordine sociale o alla dottrina religiosa:

« Un uomo assennato non dovrebbe chiedermi o sperare che quando citiamo una materia, ne facciamo un'esposizione completa... Un uomo intelligente sarebbe incapace a farlo anche parlando direttamente all'interlocutore. Egli potrebbe quindi metterlo giù per iscritto senza diventare il bersaglio di ogni ignorante che, pensando di avere la conoscenza necessaria, lo riempirebbe di idiotiche esibizioni della propria ignoranza. »
(Introduzione, p. 6)

La politica di parlare esotericamente su materie filosofiche, risalendo indietro fino all'epoca di Platone, fu influenzata dal trauma dell'esecuzione di Socrate per mano degli ateniesi. Esiste una tensione potente, a volte violenta tra ricercatori della verità e autorità governative, e l'esoterismo è pertanto una condizione vitale dell'esistenza della filosofia come campo di attività libero ed indipendente. Il filosofo usa l'occultamento per proteggere la propria libertà di pensiero, e sviluppa modi sofisticati di usare double entendres in discorsi e scritti per poter esprimere le sue opinioni a coloro che sono degni di riceverle.[4]

Ancora più importante, l'esoterismo è inteso non solo a proteggere il filosofo e l'impresa filosofica; è inteso perlomeno altrettanto a proteggere le masse. Esporre le masse — o coloro che nonm hanno ancora ricevuto il beneficio di un'educazione scientifica e filosofica — al pensiero filosofico le porterebbe ad una perdita di fede dato che, per la loro inabilità ad afferrare la verità, la traviserebbero: "Se tuttavia egli [il lettore] inizia con la scienza divina, non si creerà solo una confusione nelle sue credenze e convinzioni, ma piuttosto una negazione assoluta" (Guida I:33, p. 71). Per esempio, l'asserzione che gli attributi di quantità e qualità non si applicano alla divinità possono portare ad una negazione dell'esistenza di Dio stesso, poiché le masse non riescono a concepire l'esistenza di una cosa interamente astratta. Esporre le masse a questi tipi di idee filosofiche significa mettere in dubbio l'esistenza stessa di Dio.[3]

Ma la verità fa ben di più di mettere a rischio la fede della masse. Come il filosofo riconosce, essa mina l'ordine socialee l'autorità della legge. Quando rigetta la visione di Dio come personalità con una volontà, la filosofia compromette l'alleanza delle masse alla legge. Le dottrine filosofiche che rappresentano la profezia come un processo che coinvolge la cognizione del profeta aumentata dai suoi poteri immaginativi — in contrasto con la raffigurazione tradizionale in cui un Dio sovrano personificato comanda la legge al Suo profeta — può sminuire l'autorevolezza della legge come fondata sul comando del sovrano divino. L'interpretazione maimonidea della divina provvidenza — che il fato della persona malvagia è lasciato al caso e non è soggetto alla provvidenza; la sua punizione fluisce dalla natura distruttiva della sua stessa vita peccaminosa — parimenti mette in pericolo la devozione delle masse verso la legge, che è motivata da timore della punizione e speranza della ricompensa. In verità, proprio l'esistenza della società viene pregiudicata da contestazioni destabilizzanti del concetto antropomorfico della divinità come sovrano dominante che esercita governo, impone pene e concede ricompense. Contestazioni di tale tipo hanno l'effetto di indebolire la disciplina e sovvertire l'obbedienza alla legge, che sono basate sulla convinzione che il peccatore alla fine sarà punito anche se sfugge all'occhio attento del sovrano terreno. Il filosofo pertanto ha la fatidica responsabilità del benessere sociale. Deve rivelare le verità metafisiche solo a coloro che sono in grado di mantenere i propri obblighi verso la società anche senza le necessxari credenze nel governo divino, nella ricompensa e punizione e via dicendo. Questi pochi individui, le cui anime bramano solo conoscenza, non sono influenzati da impulsi materiali che portino al disgregamento delle strutture sociali. La società in generale non può sopravvivere in condizioni di trasparenza metafisica.[3] Maimonide quindi include tra i misteri della Torah non solo "il Racconto del Carro" ed "il Racconto della Creazione", nel loro senso stretto, ma anche le dottrine della profezia, del controllo divino, e della conoscenza divina, in quanto pertinenti alla relazione di Dio col mondo:

« Come per la discussione relativa alla Sua creazione di ciò che Egli ha creato, il carattere del Suo dominio e governo del mondo, il "come" della Sua provvidenza rispetto a ciò che è oltre a Lui, la nozione della Sua volontà, la Sua comprensione, e la Sua conoscenza di tutto ciò che Egli conosce; e similmente per la nozione di profezia e del "come" dei suoi vari livelli, e la nozione dei Suoi nomi, sebbene siano molti, essendo indicativi di un'unica e sola cosa — deve essere considerato che tutte queste sono materie oscure. Infatti, sono proprio i misteri della Torah ed i segreti costantemente citati nei libri dei profeti e nei dicta dei Saggi, che siano benedetti. Sono materie di cui non si deve parlare eccetto in titoli di capitolo, come abbiamo menzionato, e solo con un individuo del tipo che abbiamo già descritto. »
(Guida I:35, pp. 80-81)

La tensione che appare nella filosofia greca ed araba tra verità e ordine sociale ha una caratteristica aggiuntiva: l'ordine sociale è fondato sulla diffusione dei miti a cui Platone si riferisce con "bugie nobili" e che Maimonide definisce "credenze necessarie e utili". Tale idea appare prominentemente nella Repubblica di Platone, negli scritti di al-Farabi, e nel pensiero di Maimonide, e ha avuto un'influenza decisiva su come vennero interpretate le relazioni tra filosofia, religione e politica nel pensiero politico del Medioevo. Secondo questa visione delle cose, il legislatore ed il governatore erano obbligati ad inculcare una concezione del mondo che promuovesse l'esistenza dello stato, senza riguardo alla sua verità o falsità.[6]

Discutendo le credenze che la Torah trasmette alla comunità, Maimonide distingue tra credenze vere, intese a condurre l'uomo verso la sua perfezione più alta, e credenze necessarie, utili al funzionamento corretto della società:

« Tra le cose verso cui devi dirigere la tua attenzione è che devi sapere che a riguardo delle opinioni corrette mediante le quali si può ottenere la perfezione ultima, la Legge ha comunicato solo la loro fine... cioè, credere nell'esistenza della divinità, che Egli sia glorificato, la Sua unità, la Sua conoscenza, la Sua potenza, la Sua volontà, e la Sua eternità... Allo stesso modo, la Legge richiede anche di adottare certe credenze, credenze necessarie per amore del benessere politico. Tale, per esempio, è la nostra credenza che Egli... sia violentemente irato con coloro che Lo disobbediscono e che sia quindi necessario temerLo e aver paura di Lui e stare attenti a non disobbedire. »
(Guida III:28, p. 512)

Alla fine del capitolo afferma:

« Si riassuma ciò che abbiamo detto relativamente alle credenze come segue: In alcuni case un comandamento comunica una credenza corretta, che la sola ed unica cosa a cui si mira — come, per esempio, la credenza nell'unità ed eternità della divinità ed il Suo non essere un corpo. In altri casi la credenza è necessaria per l'abolizione di misfatti reciproci o per l'acquisizione di una nobile qualità morale — come per esempio, la credenza che Egli, sempre sia lodato, abbia un'ira violenta contro coloro che commettono ingiustizie, secondo quanto è detto: La mia collera si accenderà e vi farò morire, e così via, e come per la credenza che Egli... risponda istantaneamente alla preghiera di qualcuno che ha ricevuto ingiuria o inganno: E se avverrà che egli gridi a me, io lo udrò, perché sono misericordioso»
(Guida III:28, pp. 513-514)

Le vere credenze sono espresse con grande brevità, mediante titoli di capitolo soltanto, perché capirli richiede una base scientifica completa come anche un talento naturale. Le credenze necessarie, in contrasto, che riguardano materie come il controllo divino e la ricompensa, sono trattate ampiamente dalla Scrittura, poiché sono dirette alle masse e considerate meccanismi utili a stabilizzare l'ordine sociale.[6]

Il mito gioca un ruolo non solo di contrafforte alla struttura politica sociale ma anche nel combattere miti opposti. L'influenza idolatra sulle masse è legata al potere della sua promessa e della sua minaccia dirette alle paure umane primordiali, e le pratiche idolatre non possono essere sradicate efficacemente da argomenti razionali che provino che i miti idolatri implicano minacce insignificanti e promesse vane. Un mito può essere estirpato solo instillando un mito contrario. Per esempio, afferma Maimonide, la minaccia dei sacerdoti idolatri al benessere dei bambini se uno mancasse di far passare il proprio figlio nel fuoco in devozione a Moloch può solo essere combattuta dalla minaccia opposta della Torah contro la famiglia di uno che vuole passare suo figlio nel fuoco di Moloch:

« Ora si sa che è nella natura degli uomini in generale di avere molta paura e preoccupazione di perdere la propria proprietà ed i propri figli. Quindi gli adoratori del fuoco diffondono all'estero l'opinione in quei tempi che i bambini di tutti coloro che non facevano passare attraverso il fuoco il proprio figlio o figlia sarebbero morti... A quel punto, la persona sincera rende noto nel nome di Dio, che sempre sia glorificato, e dice: Laddove tu esegua questa azione cosicché i bambini rimangano in vita a causa di ciò, Dio farà perire colui che la esegue e sterminerà i suoi discendenti — dice: Io volgerò la Mia faccia contro quell'uomo e contro la sua famiglia (Lev. 20:5). »
(Guida III:37, p. 546)

Il mito, nel senso di invenzione o espediente, è essenziale all'ordine sociale.[3]

Avendo giustificato l'esoterismo con la distinzione tra credenze vere e credenze necessarie, Maimonide obbliga i suoi interpreti a confrontarsi con una domanda difficile: quali credenze tradizionali sono semplicemente necessarie, intese soltanto a preservare l'ordine sociale e promuovere l'obbedienza della legge, e quali sono quelle vere? Dove avviene la separazione tra i due gruppi? Più radicale e controcorrente è l'interpretazione del significato nascosto della Guida e più grande è il numero di credenze che vengono considerate semplicemente necessarie. Le differenze profonde tra lettori conservatori e lettori radicali della Guida implicano, tra le altre cose, l'estensione dell'area di credenze necessarie. È una questione sulla quale ritorneremo quando si esamineranno le varie interpretazioni della Guida in maggior dettaglio.[5]

Nonostante la vasta responsabilità assunta dal filosofo, la Guida non si limita all'occultamento, ma rivela anche. Maimonide riconobbe che, scrivendo la Guida, avrebbe violato i confini del nascosto. Nella premessa del trattato e nell'introduzione alla Parte III, egli descrive le sue apprensioni per essersi allontanato dalla tradizione di trattare le materie in segretezza e si giustifica. per giustificare la sua rivelazione di misteri, Maimonide usa una ricostruzione sofisticata — ed inventata — della storia di tali misteri, una storia in cui egli occupa un posto unico.[4] Secondo lui, la tradizione esoterica venne persa da Israele in parte perché i limiti dell'esoterismo erano applicati rigorosamente:

« Ed è stato reso chiaro che persino quella porzione che diviene chiara a colui al quale è stato dato accesso alla relativa conoscenza, è soggetta ad una proibizione giuridica contro il suo insegnamento e spiegazione eccetto che oralmente ad un uomo che abbia certe qualità stabilite, e anche a lui solo i titoli dei capitoli possono essere citati. Questa è la ragione del perché la conoscenza di questa materia ha cessato di esistere in tutta la comunità religiosa, cosicché niente di grande o piccolo ne rimane. E doveva succedere così, poiché questa conoscenza venne solo trasmessa da un Saggio all'altro e non è mai stata messa per iscritto. »
(Guida III: Introduzione, p. 415)

Poiché la tradizione esoterica era strettamente limitata alla trasmissione orale, mantenerla richiedeva una contiguità territoriale ed una continuità istituzionale che non erano affatto disponibili agli ebrei in esilio. Inoltre, la versione corretta della tradizione, nota ai Saggi che precedettero l'Esilio, fu distorta dall'influenza sui pensatori ebrei di correnti errate di pensiero che ebbero ad incontrare nella Diaspora:

« Sappi che le molte scienze dedite a stabilire la verità su queste materie che sono esistite nella nostra comunità religiosa, sono scomparse a causa della lunghezza del tempo che è passato, a causa del nostro essere dominati da nazioni pagane, e perché, come abbiamo reso chiaro, non è permesso divulgare queste materie a tutte le persone. Poiché la sola cosa che è permesso divulgare sono i testi dei libri. »
(Guida I:71, p. 175)

Secondo Maimonide, la profonda struttura interna della tradizione ebraica fu persa ed egli stesso affermò di non conoscere la tradizione esoterica: "né di queste materie ricevetti ciò in cui credo da un insegnante" (III: Introduzione, p. 416). Tale posizione acquisisce un'importanza estrema quando viene paragonata con la visione di alcuni pensatori cabalistici, che attribuiscono l'antica origine ai misteri della Torah in loro possesso. Maimonide ricostruisce il mondo esoterico perduto e dimenticato mediante l'uso del proprio intelletto.[3] Nell'introduzione alla Parte III della Guida, egli attribuisce la produzione della sua opera alla crisi confrontata dagli ebrei del suo tempo: "...se io avessi omesso di metter giù [per iscritto] qualcosa di ciò che mi è apparso chiaro, cosicché tale conoscenza sarebbe andata persa quando fossi morto, com'è inevitabile, avrei dovuto considerare tale condotta estremamente vile verso di te e verso tutti coloro che sono perplessi. Sarebbe stato, per così dire, come se avessi derubato della verità colui che se la merita, o trattenere ad un erede la sua eredità" (Guida III: Introduzione, pp. 415-416).

Maimonide si descrive come un'improvvisa manifestazione di insegnamenti esoterici ebraici, una discontinua dall'intero passato e senza prospettive di continuità dopo la sua dipartita dal mondo. La sua vita è stato un momento di grazia nella storia della perduta tradizione esoterica, un momento destinato ad essere riposto e sparire. La sopravvivenza del significato interiore della tradizione ebraica dipende quindi dalla sua disponibilità a spezzare le costrizioni di silenzio e diffondere i segreti della Torah. Il quadro che Maimonide dipinge della storia della tradizione mistica ebraica, e la posizione unica ed isolata che egli stesso si reputa occupare in tale quadro, giustifica il superamento dei limiti dell'esoterismo che la Guida effettua. Come la vede, Maimonide salva la tradizione della Torah orale codificandola nella Mishneh Torah; similmente, salva la tradizione esoterica trasmessa oralmente liberandola dai vincoli di segretezza e elevandola al pinnacolo della comprensione umana.[6][4]

Inoltre, la crisi che giustifica l'indebolimento dei vincoli di segretezza diventa ancor più seria quando il pubblico prescelto per la rivelazione del segreto è caratterizzato come "perplesso". La persona perplessa è raffigurata come colei che è fedele alla religione di Israele, in possesso di conoscenza scientifica e filosofica, ignara dei significati esoterici della Scrittura, e lasciata in una situazione difficile mentre contempla solo il livello superficiale della religione. Di conseguenza, la rivelazione dei livelli esoterici della Torah in modo allusivo e per iscritto è un passo necessario per salvaguardare la classe ebrea istruita dalla difficile situazione nella quale si trova. Maimonide evidenzia tale punto espressamente nella direttiva all'inizio della Guida, dopo aver esposto le sue apprensioni nel manifestare i misteri della Torah:

« Dio, che Egli sia glorificato, sa che non ho mai cessato di essere eccessivamente preoccupato di manifestare quelle cose che desidero manifestare in questo Trattato. Poiché sono cose nascoste... Tuttavia, mi sono basato su due premesse, una è quella [dei Saggi] che in simili casi dissero, È tempo di far qualcosa per il Signore, e così via; l'altra è che dissero, Che i tuoi atti siano per amor del Cielo. A queste due premesse mi sono affidato quando ho esposto ciò che ho composto in alcuni dei capitoli di questo Trattato.
Per riassumere: Sono un uomo che, quando la preoccupazione lo incalza e la sua via si raddrizza e non riesce a trovar altro modo con cui insegnare una verità dimostrata se non quello di dar soddisfazione ad un solo uomo virtuoso mentre scontenta diecimila ignoranti — sono colui che preferisce rivolgersi a tale uomo singolo e non presta attenzione alle rimostranze dei tanti. Poiché io affermo di liberare quel singolo virtuoso da ciò in cui è affondato, e lo guiderò nella sua perplessità fintanto che diventi perfetto e trovi serenità. »
(Guida I: Introduzione, pp. 16-17)

La violazione dell'esoterismo, che costituisce una trasgressione della Torah, è commessa per amore del Cielo, come una sorta di rischio mortale assunto dall'individuo esaltato. Nel caratterizzare la comunità ricettrice del segreto come "perplessa", e descrivendo la difficoltà della sua posizione, Maimonide aumenta il senso di crisi che giustifica l'affidamento dei misteri alla scrittura. La determinazione che i misteri sono stati dimenticati e persi e che la Guida dei perplessi offre la sola opportunità di ricomporli, è integrata dall'ulteriore argomento che la perdita della tradizione esoterica produce perplessità e crisi per gli individui elevati, esaltati. Maimonide favorisce la protezione degli individui esaltati, anche se comporta l'incorrere in costi sociali e politici di rimuovere la filosofia dalla clandestinità. Il fato dell'élite intellettuale ebraica dipende dalla violazione dei confini dell'esoterismo, e Maimonide credeva che i suoi insegnamenti consentissero la sola ed ultima possibilità di salvare quel segmento della società.[3][4]

Presi insieme, il particolareggiato trattamento da parte di Maimonide della necessità di segretezza, il suo ripetuto argomento sull'esistenza dei significati segreti della Torah, ed suo focalizzarsi consapevole e dichiarato sul suo modo di scrivere e come violi i confini della segretezza, dimostrano tutti che egli fosse più interessato ad usare l'idea dell'esoterismo che a preservarne la segretezza. Inoltre, la presenza di elementi filosofici esoterici nei suoi scritti halakhici pubblici — il Commentario alla Mishnah e la Mishneh Torah — pregiudica qualsiasi idea che ci sia una distinzione precisa tra rivelato e nascosto che stia in parallelo con la distinzione tra halakhah e filosofia. Se Maimonide fosse stato interessato solo all'occultamento, non avrebbe dichiarato la sua trattazione sistematica dell'esistenza di misteri, la necessità di occultarli, e l'importanza della scrittura esoterica. Si scopre quindi che egli non stia presentando una continuazione diretta della tradizione filosofica esoterica ma stia invece costruendo un nuovo argomento sulle sue fondamenta.[4]

La spiegazione dettagliata da parte di Maimonide della necessità di segretezza costituisce pertanto una componente importante della sua strategia esegetica. Offre alla persona perplessa l'argomento che la Scrittura include un livello nascosto di significato che può risolvere la sua perplessità, e ciò poi richiede che spieghi al suo lettore il perché ci sia la necessità che tale livello venga nascosto. Senza una spiegazione adeguatamente convincente della necessità dell'esoterismo, specialmente rispetto a quelle aree che Maimonide definisce come misteri della Torah, il suo approccio esegetico perderebbe credibilità. La sua lunga discussione del bisogno di segretezza prepara il lettore a riconoscere di essere obbligato a scoprire il vero significato della tradizione ebraica, che sta al di là del significato superficiale delle scritture canoniche. L'argomento si svolge come segue: poiché i filosofi determinarono che la filosofia è una scienza esoterica, e poiché Maimonide identifica la fisica e la metafisica con "il Racconto della Creazione" e "il Racconto del Carro", collegando con ciò la tradizione filosofica esoterica alla tradizione talmudica esoterica, egli ha una base per persuadere la persona istruita che esiste uno stratum esoterico della Torah stessa, il cui riconoscimento risolverà la sua perplessità. La visione tradizionale dell'esoterismo maimonideo afferma che ammantare le idee nel mistero è un mezzo per conservare la filosofia come area autonoma di attività. tale visione tuttavia deve essere integrata dall'idea di esoterismo come mezzo per integrare la filosofia al cuore della tradizione.Questi poli opposti stabiliscono una tensione raffinata tra il nascosto ed il rivelato nell'ambito dei nuovi modelli che Maimonide crea per trasmettere il mistero.[4]

Idolatria e metafora

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La Stella di Elia — simbolizza esotericamente l'unione tra cielo e terra, l'entrata nella dimensione divina attraverso la musica, ed il Nome Santo scritto in ebraico dimostra che è l'Unico Vero Dio, Creatore di tutto ciò che esiste
La Stella di Elia — simbolizza esotericamente l'unione tra cielo e terra, l'entrata nella dimensione divina attraverso la musica, ed il Nome Santo scritto in ebraico dimostra che è l'Unico Vero Dio, Creatore di tutto ciò che esiste

Le giustificazioni che Maimonide offrì per impegnarsi nell'esoterismo sono concentrate sugli effetti fatidici che il rivelare la verità avrebbe parimenti sia sul filosofo che sulla società. Ma oltre a questa idea di esoterismo politico, uno trova nella Guida l'opinione che l'esoterismo è una qualità essenziale del linguaggio metafisico. Visto politicamente, il segreto stesso può essere formulato chiaramente ma non deve essere diffuso.[7] Dalla prospettiva essenzialista dell'esoterismo, tuttavia, il contenuto metafisico non può essere espresso per principio nel linguaggio e ci si può solo alludere mediante simboli:

« Sappi che quandunque uno dei perfetti desidera menzionare, sia oralmente sia per iscritto, qualcosa che egli comprende di questi segreti, secondo il suo grado di perfezione, egli è incapace di spiegare con chiarezza completa e coerenza anche la porzione che ha appreso, come porebbe fare con le altre scienze il cui insegnamento è generalmente riconosciuto. Piuttosto gli accadrà quando insegna ad un altro quello che egli ha attraversato quando egli stesso imparava. Voglio dire che la materia apparirà, in un lampo, e poi scomparirà di nuovo, come se questa fosse la natura della materia stessa, che sia molta o poca. »
(Guida, Introduzione, p. 8)

La distinzione tra esoterismo politico e esoterismo sostanziale crea due significati differenti per il linguaggio biblico. L'esoterismo sociopolitico percepisce la parabvola biblica come un'allegoria, il cui significato nascosto si presta ad un'espressione concettuale diretta. In contrasto, il concetto essenziale di esoterismo vede la parabola biblica come un simbolo, il cui contenuto nascosto non può essere formulato direttamente in linguaggio concettuale. Secondo questa interpretazione, la modalità esoterica di scrivere e di parlare in modo indiretto ed allusivo non è il prodotto di una strategia che la filosofia adotta verso la società; è piuttosto la natura essenziale della sfera filosofica.[7]

Nell'introduzione all'opera, Maimondie asserisce che una comprensione della verità nella sfera delle scienze divine non può essere raggiunta a volontà, quando uno vuole: "Ma a volte la verità ci lampeggia davanti cosicché pensiamo che sia giorno, e poi la materia e l'abitudine nelle loro varie forme la nascondono cosicché ci troviamo nuovamente nell'oscurità della notte, quasi come eravamo prima" (Guida, p. 7). Una corretta cognizione degli argomenti metafisici astratti, secondo Maimonide, dipende dal liberarsi dalla materia e dall'abitudine, e l'abilità di mantenere tale liberazione varia a seconda della prossimità alla perfezione della persona stessa. Scrivere o insegnare argomenti metafisici è, in effetti, un tentativo di ricostruire la propria cognizione per poterla trasferire a qualcun altro. Ma a causa della natura elusiva della verità, lo scrittore non riesce mai a duplicare completamente il suo stato di cognizione, e deve far uso di parabole che ci alludono. Tale approccio all'esoterismo essenziale si concentra sulle costrizioni che seguono dalla situazione esistenziale di una persona come essere fisico.[7][3]

Tuttavia Maimonide nella Guida va oltre, sviluppando una nozione aggiuntiva, approfondita, in merito all'esoterismo essenziale, una legata ai limiti del linguaggio stesso come mezzo appropriato di espressione. Il significato preciso di questa nozione si collega alla sua impostazione relativa al linguaggio religioso in generale e ad uno dei cambiamenti sostanziali che egli ha apportato alla religione ebraica. Considerare i limiti del linguaggio ci assisterà a chiarire il primo dei quattro approcci di lettura della Guida citati più sopra: la lettura scettica.[5]

Nella Mishneh Torah, Maimonide giudica che colui che attribuisce corporeità alla divinità è un eretico e non ha posto nel mondo a venire. Coerente con tale posizione, scrive nella Guida che la credenza nella corporeità divina è peggio dell'idolatria: "Sappi, di conseguenza, tu che sei quell'uomo, che quando credi nella dottrina della corporeità di Dio o credi che uno degli stati del corpo Gli appartenga, tu provochi la sua gelosia ed ira, attizzi il fuoco della Sua collera, e sei un odiatore, un nemico, ed un avversario di Dio, molto di più di un idolatra" (I:36, p. 84). Un idolatra può sempre argomentare che l'idolo che egli adora è soltanto un simbolo di un Dio più alto, ma uno che interiorizza, con gli occhi della mente, un'immagine personificata della divinità come una grande persona assisa sul trono, non vede tale figura come un semplice simbolo, poiché quell'immagine della divinità è fissa nella sua mente. In effetti, tale persona non adora Dio, ma adora un essere che è semplicemente una forma più perfezionata di uomo. L'oggetto adorato dal credente in corporeità non è nulla di più di un essere immaginario sul quale l'adoratore proietta le proprie caratteristiche, ed ogni atto religioso attuato da tale persona acquisisce quindi la forma di autolatria e narcisismo.[7]

Definire l'antropomorfismo come la forma più grave di trasgressione religiosa riaprì il conflitto contro l'idolatria su un fronte completamente nuovo. Dal tempo del Secondo Tempio, la minaccia dell'idolatria all'Ebraismo sembrava essere stata superata, il problema risolto. Durante il periodo del Primo Tempio, Israele deviò verso Baal e Astarte, costruì santuari a loro nome e adorò le loro statue. Al tempo del Secondo tempio però, come dice il Talmud, l'impulso di adorare idoli sembrò fosse scomparso.[8] Maimonide rinnovò la lotta contro l'idolatria non perché egli ridefinì il problema in una maniera che lo rese ancora una preoccupazione urgente. Secondo lui, la questione dell'idolatria si concentra non solo sulla presentazione esterna, plastica della divinità, ma sull'immagine mentale interiore di Dio da parte dell'adoratore. È del tutto possibile per una persona che prega in sinagoga dove non ci sono statue o immagini che nonostante ciò commetta idolatria formando un'immagine mentale della divinità che è corrotta dall'antropomorfismo. Sarebbe preferibile che tale persona non pregasse affatto, poiché ogni sua preghiera costituisce servizio ad un Dio alieno. Inoltre, questa ridefinizione di idolatria come relativa ad un'immagine interiore trasforma lo sforzo di combatterla da un conflitto contro un "altro" esterno — le nazioni del mondo idolatre e seducenti — in un conflitto interno che divide la comunità. L'opposizione biblica e midrashica all'adorazione di idoli era diretta verso una rappresentazione esterna, plastica, della divinità, ma Maimonide la ridirige veso una rappresentaqzione mentale; d'ora in poi, sarà necessario distruggere l'idolo interno. Tuttavia tale ridirezione verso l'immagine mentale interiore portò anche un conflitto nell'ambito delle ramificazioni interne della comunità ebraica.[3]

Questo spostamento profondo della natura del problema dell'idolatria ebbe implicazioni significative per la comprensione del linguaggio religioso ed il modo in cui la divinità veniva rappresentata. La tradizione ebraica faceva una distinzione tra immagine e parola. Rappresentazioni visive di Dio, come statue ed immagini, erano atti proibiti di idolatria, ma le rappresentazioni verbali erano permesse. Era proibito disegnare o scolpire una mano di Dio, ma la Bibbia spesso si riferisce alla grande mano tesa di Dio. Il poema liturgico An`im Zemirot ("Canterò dolci inni"), cantato in molte sinagoghe alla fine delle preghiere mattutine dello Shabbat, parla dei boccoli lustri che adornano la testa di Dio: "Di rugiada scintillante la Sua testa è coperta, i suoi riccioli con gocce della notte."[9] Nonostante questa licenza linguistica, nessun artista ebreo di nessuna corrente ebraica oserebbe mai dipingere tale immagine sul soffitto di una sinagoga, come fece invece Michelangelo nella Cappella Sistina. Ma se Maimonide è corretto nell'affermare che il problema dell'idolatria include la propria immagine mentale interna di Dio, la distinzione tra rappresentazione verbale permessa e rappresentazione visiva proibita crolla. Un'immagine personificata di Dio è creata non solo da pittura e scultura ma anche mediante il linguaggio religioso. Inoltre, il concetto personificato della divinità è supportato anche dalle parole della Scrittura stessa, che è colma di immagini personificate di Dio. Apparentemente, la tradizione stessa, insieme alle sue sacre scritture, promuove il peccato capitale di imputare corporeità a Dio. Maimonide dedica quindi la maggior parte della Parte I della Guida a chiarire il problema del linguaggio religioso. La logica interna della sua argomentazione lo porta ad una delle posizioni più straordinarie presenti nella storia del pensiero ebraico.[5]

Una volta che il problema dell'antropomorfismo è stato posto al centro del piano religioso, il primo tema che deve essere affrontato è il linguaggio religioso della Scrittura stessa. La Guida pertanto è primariamente un libro esegetico che somministra terapia al linguaggio religioso. Non è un'opera sistematica di teologia o filosofia; è piuttosto un'opera interpretativa, come Maimonide dichiara nella frase di apertura della sua introduzione: "Il primo proposito di questo Trattato è di spiegare i significati di certi termini che ricorrono in libri di profezia" (p. 5). La chiave esegetica per liberarsi dalla perplessità è il riconoscimento che lo strato rivelato del linguaggio biblico si fonda sulla comprensione che, in qualsiasi lingua, un dato termine può avere significati multipli diversi. La parola ebraica ayin, per esempio, può denotare sia "occhio" (organo della vista), o una fontana. È una parola equivoca, cioè una che denota due oggetti interamente differenti. Ciò accade ancora di più quando si incontrano espressioni usate metaforicamente. Quando si dice che una persona ha un "grande cuore", non ci si riferisce letteralmente alle sue dimensioni cardiache; il termine è un'immagine metaforica della sua generosità, della sua capacità di dare. La parola "grande" in questo contesto è un modo di dire, una figura retorica; ha un significato letterale che denota dimensione, ed un significato metaforico. L'incapacità di distinguere tra significato letterale e significato metaforico è il primo fattore che dimostra l'inabilità di capire il linguaggio biblico.[10]

La confusione tra significati letterali e metaforici è uno spettro che infesta specialmente la terminologia relativa a Dio. Ciò è attribuibile ad un fenomeno che serve a maimonide come grande chiave esegetica: nel linguaggio ordinario, o in parti della Bibbia che non si riferiscono a Dio, noi riusciamo a distinguere facilmente tra termine metaforico e termine letterale. Sappiamo per esempio che l'espressione "il paese non vomiti anche voi" (Levitico 18:28) è metaforica, poiché non c'è altro modo di comprendere i problemi digestivi del paese. È analoga al chiedere "quando verran tosate le nuvole lanose?" Similmente, non prendiamo alla lettera il comandamento "Circonciderete perciò il prepuzio del vostro cuore" (Deut. 10:16) come se richiedesse un'operazione a cuore aperto, dato che comprendiamo la frase "prepuzio del vostro cuore" come modo di dire. Siamo in grado di fare tali distinzioni — di considerarle addirittura più che ovvie — grazie alle molte cose che sappiamo sui paesi e sui cuori oltre a ciò che ne dice la Bibbia. Per la stessa ragione, capiamo che " tutti gli alberi dei campi batteranno le mani" (Isaia 55:12) parimenti è una metafora.[10][5]

Ma le cose si complicano maggiormente quando i termini si riferiscono a Dio. Se tutto ciò che sappiamo di Dio è quello che la Bibbia dice di Lui, non abbiamo basi per distinguere tra espressione letterali e metaforiche. Come possiamo asserire se l'espressione "la mano di Dio" deve essere compresa letteralmente o come metafore di potenza? Tirare tale sorta di distinzione richiede della conoscenza metafisica precedente riguardo a Dio, indipendente dalla Scrittura. Uno che afferma che tutto quello che sa di Dio è derivato esclusivamente dalla Scrittura come la legge, spesso errerà su come egli comprenda il versetto che sta leggendo. Senza la conoscenza metafisica che Dio non può essere materiale, perché tutto il materiale è finito e corruttibile, non possiamo capire il linguaggio biblico stesso. Di conseguenza, la metafisica non è un rischio per la fede; è una condizione indispensabile per interpretare il linguaggio della fede nel modo più fondamentale.[10]

Vari capitoli nella Parte I della Guida sono dedicati a spiegare i termini biblici riferiti a Dio. In tali capitoli, Maimonide dimostra che espressioni apparentemente antropomorfiche, quando attribuite a Dio, sono solo metafore; per farlo, egli si basa molto sulla capacità di riconoscere distinzioni per sé evidenti. Un esempio rimarchevole è fornito dai verbi che sembrano descrivere il movimento di Dio nell'ambito di uno spazio e il Suo riposarsi. La Torah illustra Dio mentre ascende, discende, si siede o sta eretto. Affermando che Dio non è un corpus che occupa spazio fisico o ci si muove dentro, Maimonide considera queste espressioni come metafore. Ma prima di asserire che una particolare espressione applicata a Dio è una metafora, Maimonide rende chiaro che sebbene il verbo non sia usato invariabilmente nella Scrittura come una metafora, ci sono punti dove la sua natura metaforica è facilmente identificabile. Il verbo "stare (stare eretto/stare in piedi)", per esempio, denota la posizione di un corpus in un'estensione, ma nella terminologia biblica denota anche durevolezza e costanza astratte — un modo di dire che il lettore discerne facilmente, come nel versetto "la sua giustizia sta (dura/rimane) per sempre" (Salmi 112:3). È chiaro al lettore che la giustizia non ha gambe per stare (in piedi); "stare" diventa un modo di dire per denotare stabilità e costanza. Una volta che il lettore riconosce l'espressione come metafora, egli può espandere il suo uso metaforico per comprenderci ogni punto che si riferisce a Dio. Ciò è vero anche per tutti i verbi che indicano movimento e che sono usati come figure retoriche nel linguaggio biblico.[10]

Un altro esempio si riferisce ai verbi di vedere. La Bibbia attribuisce la vista a Dio e usa verbi come "guardò" (hibbit), "previde" (ẖaza), e "vide" (ra`ah). Dio guarda e vede le azioni degli uomini; per converso, le persone vedono Dio o parti di Lui. Attribuire a Dio i sensi della vista e del suono e gli organi corrispondenti è antropomorfismo di prim'ordine, come lo è anche l'affermazione che Dio può esser visto, basandosi sulla premessa che Egli abbia forma e superficie che possano essere apprese dall'occhio umano. Maimonide interpreta questi termini, quando usati nel contesto del linguaggio religioso, come si riferissero alla comprensione o conoscenza invece che alla percezione sensoriale. Anche in queste occasioni, egli prima dimostra che i verbi del "vedere" sono modi di dire, sia nel linguaggio quotidiano e sia nel linguaggio biblico, usati per connotare processi mentali di comprensione, e che è facile identificare il loro utilizzo metaforico (o, come si può dire anche in italiano, vedere che sono utilizzati metaforicamente). Il versetto di Ecclesiaste (1:16) che dichiara "il mio cuore ha visto molta sapienza e conoscenza" offre un chiaro esempio di uso metaforico — il "vedere" implica una comprensione mentale.[11] Di conseguenza, ogniqualvolta la terminologia del "vedere" è usata nel linguaggio religioso, deve intendersi a denotare comprensione e conoscenza, e non "vedere" letteralmente. Lo stesso si può dire dei verbi associati con il discorso e l'espressione, che la Bibbia parimenti attribuisce a Dio. Dio crea il mondo con la parola, e si dice che Egli si riveli mediante atti linguistici associati ai verbi "disse" (amar) e "parlò" (dibber). Attribuire la parola a Dio sembra quindi essere ugualmente una grave personificazione, e Maimonide prende anche questi verbi metaforicamente. Maimonide non determina che un dato termine si metaforico senza aver prima dimostrato che tale termine ha un significato metaforico nella Scrittura in generale. Egli quindi dimostra che nell'ebraico biblico "dire" (amirah) e "parlare" (dibbur) a volte connotano determinazione o volontà, come in "Pensi [lett. "dici", omer] forse di uccidermi" (Esodo 2:14), e a volte connotano una cognizione mentale, come in "Così ho deciso [lett. "mi son detto", amarti ani be-libbi]" (Ecclesiaste 3:18). Pertanto, quando il dire e il parlare sono attribuiti a Dio, i termini devono essere intesi nel senso astratto, intellettuale.[10][4][3]

Un esame di come i verbi del discorso e dell'espressione sono usati rivela un altro aspetto importante della Guida. Maimonide dedica solo un capitolo (I:65) all'uso di tali verbi nel linguaggio religioso, e non esamina sistematicamente tutti i loro utilizzi biblici. Ciò nonostante, Maimonide fornisce all'individuo perplesso i mezzi con cui risolvere la propria perplessità ogniqualvolta egli incontri i termini in questione nella Bibbia. Ma non dobbiamo prendere la cosa alla leggera: dedicare un solo capitolo alla materia non significa affatto sminuire la forza e le implicazioni dell'affermazione che Maimonide sta facendo. In un testo che sin dall'inizio si è dichiarato limitato a titoli di capitolo, una singola digressione può provocare un cambiamento radicale su come la tradizione ebraica venga interpretata.[12]

Infatti questo particolare capitolo ha profonde implicazioni per due aspetti della storia del pensiero ebraico, cioè, la creazione e la rivelazione. Una volta che il lettore apprende che la parola non può essere attribuita a Dio, non ha altra scelta se non reinterpretare il significato di profezia. La rivelazione non può essere un evento linguistico diretto in cui Dio promulga direttive al profeta apostrofandolo in una lingua umana, poiché Dio Stesso non è un essere linguistico. Lo stesso si può dire della creazione, che la Scrittura, presa letteralmente, considera un evento linguistico in cui Dio genera il mondo mediante un'espressione verbale. Influenzata da questo concetto linguistico della creazione, la tradizione ebraica ha sviluppato un'idea che enfatizza il potere creativo che si trova nel linguaggio. Tale tradizione si basa primariamente su un'opera antica nota col titolo di Sefer Yeẕirah, che descrive Dio che crea il mondo mediante il potere delle ventidue lettere dell'alfabeto ebraico, gli elementi costitutivi della creazione. Secondo la lettura di Maimonide, il versetto "Dio disse: «Sia luce!»" (Gen. 1:3) non connota un discorso; il versetto dice solo che la luce fu creata dalla forza di volontà di Dio; niente di più. Questa mossa interpretativa elimina la base di una tradizione importante e venerabile della teologia linguistica ebraica.[12]

Se Maimonide ha ragione, ed i termini che si riferiscono a vista, movimento, e parola, insieme agli altri termini personificatori, devono essere interpretati come astrazioni metaforiche, sorge la domanda del perché la Bibbia non si riferisca più direttamente e con immediatezza al significato più astratto, senza confondere e/o complicare le cose. Per fare un esempio, l'esperienza religiosa degli anziani nel Sinai è descritta come segue: "Ed essi videro il Dio d'Israele: sotto i suoi piedi vi era come un pavimento in lastre di zaffiro" (Esodo 24:10). Se il riferimento al vedere in questo versetto in realtà implica comprensione, perché il versetto non dice qualcosa del tipo "E gli anziani capirono" o "E gli anziani compresero Dio"? Usando il verbo "vedere", il versetto corre il rischio di favorire l'errore estremamente grave di attribuire forma a Dio, e lo fa ancor di più citando i piedi di Dio, contribuendo ulteriormente ad una lettura corporea del versetto. in una prima lettura, lo stesso linguaggio biblico, usando una metafora invece di una frase più diretta e astratta, sembra promuovere l'immagine personificata. Maimonide se ne rende conto e spiega la scelta di parole della Bibbia evidenziando che la Bibbia è diretta ad un pubblico che comprende sia le masse che le persone istruite. Le masse sono incapaci di interiorizzare l'esistenza di una realtà astratta. "La Torah parla un linguaggio umano", usando perciò immagini concrete, sensoriali a rinforzare nelle masse l'idea che Dio esiste. Una volta che l'esistenza di Dio è assicurata agli occhi delle masse, è possibile, sebbene con cautela, avanzare verso un concetto più elevato di Dio e dismetterlo dai suoi elementi antropomorfici. La terminologia astratta nello stesso testo biblico, tuttavia, potrebbe promuovere un'apostasia totale. La persona istruita possiede conoscenze metafisiche indipendenti dalla divinità, quindi è in grdo di identificare il significato metafisico nascosto nell'espressione e interpretare i versetti correttamente, in maniera consistente con i veri concetti metafisici.[12]

Che il linguaggio non sia interamente trasparente e che non ci sia una corrispondenza diretta tra significante e significato può causare errori fatali. Se uno prende la metafora letteralmente, egli interiorizza un'immagine personificata di Dio, che è peggio dell'idolatria. Allo stesso tempo, questa qualità del linguaggio fornisce vasti benefici politici, poiché permette di rivolgersi simultaneamente a due pubblici — le masse e l'élite istruita. Ciò succede non solo rispetto alle espressioni specifiche del linguaggio biblico, ma anche rispetto a tutte le unità letterarie che presentano lunghe parabole. Il primo capitolo di Giobbe, per esempio, che descrive la conversazione tra Dio e satana nell'assemblea celeste e le azioni di Satana sulla terra, sono solo una parabola, e Maimonide spiega il suo significato interiore soltanto mediante titoli di capitolo. Così anche il racconto della seduzione di Eva da parte del serpente e la consumazione del frutto proibito nel Giardino. La parabola, come la metafora, permette di rivolgersi a due pubblici: le masse, alle quali il significato esteriore dice qualcosa di idoneo e utile, e gli istruiti, che riescono a capire il significato interiore della parabola.[12]

Silenzio e lode

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Shiviti[13] su vellum coi Nomi di Dio (XVIII secolo)

I primi quarantanove capitoli della Guida offrono una reinterpretazione del livello palese del linguaggio religioso biblico. Sono in gran parte dedicati, capitolo per capitolo, a creare un dizionario che la persona perplessa può usare per ottenere una comprensione della struttura interna del linguaggio biblico. Nei successivi quindici capitoli, Maimonide presenta una critica più approfondita del linguaggio religioso come mezzo per rappresentare la divinità. Tali capitoli ci offrono uno dei pinnacoli del pensiero religioso maimonideo.[12] Anticipano molto della critica del linguaggio fatta dalla filosofia moderna, e hanno implicazioni di vasta portata per capire le posizioni di Maimonide in generale. In quei capitoli, la critica dell'antropomorfismo è riorientata dal linguaggio sensoriale al linguaggio concettuale. Alla conclusione di tale percorso critico, il lettore perplesso arriva a comprendere che la lingua in generale è limitata quando si adopera a descrivere la divinità e che il silenzio è l'apogeo dell'espressione religiosa verso Dio. Come dice la massima, "Per Te il silenzio è lode, o Dio" (Salmi 65:1).

Alcuni esempi ci possono assistere ad ottenere una piena comprensione di questo percorso intellettuale. Nella Parte I della Guida, il lettore apprende che un termine come "Dio vide" significa "Dio seppe". Similmente, il lettore interiorizza l'idea che quando si dice che Dio è seduto, gli si attribuisce un'esistenza stabile, immutabile. Questi capitoli gli insegnano che tali letture non sono forzate o artificiali perché "sedersi" può connotare esistenza in altri contesti, come nel versetto "Ma Giuda rimarrà [lett. "starà seduta", teishev] per sempre" (Gioele 3:20). Una consapevolezza del doppio significato dei termini lo aiuta ad epurare dal linguaggio biblico il suo carattere antropomorfico, spostandosi quindi da espressioni sensoriali ad espressioni concettuali o astratte. Tale mossa, tuttavia, è solo il primo passo per superare le insidei della lingua. I susseguenti capitoli della Guida ci insegneranno che persino il senso concettuale della lingua al quale egli è arrivato è ingannevole e limitato. Proprio come non possiamo dire che Dio "vede", così non possiamo dire che Dio "conosce"; e come non possiamo dire che Dio "siede", così non possiamo neanche dire Dio "è presente" o "esiste".[14]

Due argomenti chiave sottostanno alla critica di applicare attributi positivi — conoscenza, esistenza, unità, o eternità, per esempio — nell'ambito del linguaggio religioso. Uno è legato alla struttura basilare della frase, che comprende soggetto e predicato. La dichiarazione "Ruben esiste" assume che una data entità chiamata "Ruben" possieda l'attributo dell'esistenza. Nel linguaggio religioso, tale struttura ostacola l'unità di Dio e la relazione tra Lui ed i Suoi attributi. L'esistenza non è un incidente in cui Dio si è imbattuto, una qualità sovrimpostaGli; invece è analitica alla Sua essenza. Attributi come "sciente", "uno", o "eterno" soffrono lo stesso problema, inerente alla struttura del linguaggio. Attribuiscono una molteplicità interna a Dio, trattandolo come un'entità che include numerosi attributi, con ciò menomando la Sua unità semplice ed assoluta. Il rifiuto fondamentale della struttura fraseologica convenzionale come mezzo utile a caratterizzare Dio segue dal fatto che la relazione di Dio coi Suoi attributi è una di necessità. Di conseguenza, uno che legge "Il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno" deve capire bene che il significato profondo dell'unità di Dio gli rende impossibile in effetti di dire "il Signore è Uno". Il linguaggio umano quindi è limitato non solo perché tende ad usare una terminologia sensoriale per amor delle masse, ma anche a causa della sua struttura stessa; con le parole di Maimonide: "Tutti i passi che trovi nelle Scritture in cui si postula di Lui, che Egli sia glorificato, che Egli è il Primo e l'Ultimo, sono analoghi a quelli in cui di Lui si postula che Egli abbia un occhio o un orecchio... Tutte queste parole che Gli si applicano sono secondo il linguaggio dei figli dell'uomo. Similmente, quando diciamo uno, il significato è che Egli non ha uguali e non che la nozione di unicità si attacchi alla Sua essenza" (I:57, p. 133). La "lingua dei figli degli uomini" limitata e fallace considerata in questo paragrafo non è la lingua delle masse, che è incapace di conseguire una comprensione concettuale, ma lingua umana in generale. Tale lingua è imperfetta nella struttura più fondamentale delle sue frasi, fatta di soggetto e predicato. La lingua in generale, non solo il linguaggio sensoriale, è un veicolo comunicativo limitato ed ingannevole col quale si viene a conoscere la divinità.[14]

Il secondo e più forte argomento relativo ai limiti del linguaggio si collega al modo in cui gli aggettivi — cioè, descrizioni di attributi — funzionano e sono compresi in linguaggio umano. Capiamo un aggettivo come "saggio" o "buono" perché si applica ad un numero di persone. L'aggettivo ci permette di includere un gruppo di individui dentro ad una categoria comune. L'attributo "esiste" (o l'aggettivo "esistente") si applica, per esempio, a tavole, a persone, a insetti, e al sole. Tutte queste cose esistono. Attribuire aggettivi alla divinità quindi indebolisce non solo il concetto puro di unità ma anche la sublimità di Dio e la Sua assoluta alterità dal mondo. L'aggettivo serve in effetti come ponte linguistico tra Dio ed il mondo, incorporando Dio ed il mondo in una categoria condivisa. Per esempio, comprendiamo l'esistenza di Dio perché la compariamo all'esistenza di un qualche altro individuo nell'universo, e comprendiamo la bontà di Dio perché la identifichiamo con la bontà della gente. Ma se Dio differisce in un senso assoluto dal mondo, gli aggettivi non Gli possono essere attribuiti. La Sua esistenza differisce da qualsiasi altro essere perché è necessaria, non semplicemente possibile; la precedenza di Dio nel tempo differisce dalla precedenza di qualsiasi cosa nel tempo, perché Dio non è affatto situato sull'asse del tempo.[14][12]

La natura inclusiva dell'attributo/aggettivo trasforma il linguaggio religioso in un elemento che ignora la trascendenza di Dio dal mondo. Maimonide quindi sostiene che si possa solo negare l'associazione di certi attributi con Dio; uno può dire, per esempio, che Egli non è assente o che Egli non è multiplo, ma non gli si possono associare attributi positivi. Si deve evidenziare che gli attributi negativi sono negazioni categoriche, cioè, uno non può desumerne attributi positivi. La negazione ordinaria differisce logicamente dalla negazione categorica in quanto la negazione ordinaria permette di inferire il corrispondente attributo positivo — cioè, l'opposto dell'attributo che si nega. Se dico che una persona non è assente, se ne può dedurre che sia presente. Ma se dico che il numero tre non è giallo, non si può dedurre che sia verde o rosso. In tale sorta di negazione categorica, ciò che viene negato è la categoria di colore rispetto a numeri. L'espressione "Dio non è assente" non permette l'inferenza che Dio sia presente, come accadrebbe invece nel caso di una negazione ordinaria. La negazione categorica sostiene che la categoria di assenza o presenza, come la conosciamo, non si applica a Dio; lo stesso è vero dell'unità o molteplicità. Poiché non c'è modo di applicare attributi positivi a Dio, tutto quello che sappiamo in merito alla Sua essenza riguarda ciò che Egli non è. Una persona che conosce Dio avanza attraverso la sequenza delle negazioni ed arriva a sapere sempre di più che egli non sa: "la Sua comprensione consiste nell'inabilità di ottenere il termine ultimo per comprenderLo" (I:59, p. 139).[14]

Vedere gli attributi positivi come una categoria che pone Dio ed il mondo in una rubrica comune ha implicazioni interessanti per l'analisi di Maimonide in questi capitoli sui nomi di Dio. Nomi come shekhinah (Presenza), gevurah (Potenza), ribbono shel olam (Padrone del Mondo), adonai (Mio Signore), elohim (Dio), o ha-raẖaman (il Misericordioso) sono, in effetti, qualità condivise, che ottengono il loro significato mediante l'inclusione di un gruppo di individui in un singola categoria. I nomi connotano una caratteristica presente tra gli uomini e poi ascritta a Dio. Come gli attributi positivi, anche i nomi sono un mezzo ingannevole e limitato per riferirsi a Dio. E quindi, per esempio, il nome adonai deriva da un concetto di signoria condiviso da Dio e dagli uomini, ed il nome shaddai deriva, secondo Maimonide, dal composto yesh bo dai ("c'è sufficienza in Lui"), ad indicare che Dio è sufficiente a Se Stesso e non dipende da nulla al Suo esterno.[14][12]

Il solo nome divino che non è condiviso tra uomini e Dio è il Tetragramma, Y-H-W-H. La qualità unica di tale nome sta nel suo non essere un attributo o aggettivo; serve invece come nome proprio di Dio. Che il nome sia un nome proprio è evidente linguisticamente dal fatto che è il solo tra tutti i nomi che non regge l'articolo determinativo. La capacità di reggere l'articolo determinativo è ciò che distingue un aggettivo da un nome proprio, e tutti gli altri nomi divini possono reggere l'articolo determinativo; la Scrittura, per esempio, fa riferimento a ha-elohim (il Dio). Non lo fa col Tetragramma, poiché è il nome proprio di Dio, che Gli allude direttamente piuttosto che identificarLo mediante descrizione. (Si consideri per esempio il nome ebraico Yoram. In ebraico moderno, ha assunto il significato aggettivale di "conformista" o "puritano". Se uno dice "il yoram è venuto al congresso", la parola è usata aggettivamente e può reggere l'articolo determinativo. Ma se Yoram, una persona con questo nome, è venuto al congresso, l'articolo determinativo non può essere usato). La grandezza del Tetragramma non è legata ai presunti poteri magici attribuitigli, dato che Maimonide rigetta duramente qualsiasi associazione di poteri magici ai nomi. La sua unicità come nome sta nel suo ruolo totalmente distinto e speciale che acquisisce come nome proprio di Dio. Il Tetragramma (la cui radice grammaticale è il verbo "essere") incorpora una componente dell'esistenza il cui significato e connesso al fatto che l'esistenza di Dio è necessaria, ma quando tale attributo è trasformato in un nome, l'esistenza viene ad essere identificata con l'essenza di Dio piuttosto che con un Suo attributo. Tale sorta di identificazione non può avvenire nell'ambito di una frase normale, data la sua struttura basilare di soggetto-predicato e perché l'attributo "esiste" è condiviso da Dio e da altre cose nel mondo.[12][15]

Le due limitazioni del linguaggi — la menomazione dell'unità di Dio e la violazione della Sua trascendenza — sono formulate concisamente nel seguente paragrafo della Guida: "Sappi che quando fai un'affermazione attribuendoGli un'altra cosa, ti allontani maggiormente da Lui in due rispetti: uno di questi è che tutto quello che affermi è una perfezione solo con riferimento a noi, e l'altro è che Egli non possiede nulla se non la Sua essenza che, come abbiamo reso chiaro, è identica alla Sua perfezione" (I:59, p. 139). Poiché il linguaggio è limitato in come lo si comprende, e ogni espressione linguistica che tenta di descrivere Dio è fondamentalmente imperfetta, la persona istruita non usa simboli o allusioni ma semplicemente impone il silenzio a se stesso:

« La frase più adatta rispetto a questa materia è il detto che si trova nei Salmi, Per Te il silenzio è lode, che interpretato significa: il silenzio a Tuo riguardo è lode. Questa è la frase più adeguata a questo proposito. Poiché qualsiasi cosa dicessimo per esaltare e glorificare, da un lato troviamo che abbia una qualche applicazione a Dio, che Egli sia glorificato, e dall'altro vi percepiamo una qualche carenza. Di conseguenza, il silenzio e il limitarsi alla comprensione degli intelletti sono più opportuni — proprio come coloro che sono perfetti hanno ingiunto quando dissero: Sul vostro letto meditate nel vostro cuore e state in silenzio. Selah. (Salmi 4:4) »
(I:59, pp. 139-140)

La critica del linguaggio religioso porta quindi ad una necessità di liberarsi di quest'ultimo per rappresentare Dio.

Il silenzio è l'apice dell'attitudine religiosa; è la più alta espressione dell'unità ed elevatezza di Dio da una parte e dei limiti della cognizione umana dall'altra. Tuttavia il silenzio non può essere imposto all'intera comunità di credenti, poiché i credenti richiedono una qualche forma di linguaggio religioso quale ancora concreta delle loro vite. La liturgia contiene attributi, come "Dio grande, potente e maestoso". Questi aggettivi vennero adoperati dai Saggi, perché capivano la necessità di una qualche descrizione basilare di Dio — anche se erronea. Ma il linguaggio religioso di tale tipo deve essere tenuto al minimo necessario. Ogni aggiunta di attributi rappresenta un affronto alla grandezza di Dio ed implica un tentativo mancato di compendiare ciò che non può essere compendiato e descritto. Maimonide pertanto denigra duramente la poesia liturgica, reputandola un'espansione linguistica eccessiva che tanto diminuisce la statura di Dio quanto più Lo loda:

« Questo tipo di licenza vien spesso assunta dai poeti e predicatori o da coloro che pensano di discorrere liricamente, cosicché le espressioni di alcuni di loro costituiscono una negazione assoluta della fede, mentre altre espressioni contengono tali stupidaggini e tali fantasie perverse da far ridere le persone che le sentono, a causa della natura di queste espressioni, e da far piangere quando si considera che vengono attribuite a Dio, che Egli sia sempre esaltato e glorificato... Vi conviene inoltre considerare e dire che in vista del fatto che parlar male e diffamare sono atti di grande disobbedienza, lo è ancor di più sparlare riguardo a Dio, che Egli sia lodato, e assegnarGli attributi qualificativi per esaltarLo. Ma non dirò che ciò sia un atto di disobbedienza, ma piuttosto che costituisce calunnia preterintenzionale e vituperio da parte della moltitudine che ascolta queste espressioni e da parte degli ignoranti che le pronunciano. »
(I:59, pp. 141-142)
La Torre di Babele, dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio (1563). L'immagine viene spesso usata per illustrare i limiti del linguaggio.

Il Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein, opera fondamentale nella filosofia moderna del linguaggio, conclude con la necessità di restare in silenzio su materie di cui non si può parlare: "Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere".[16] Tale esigenza di silenzio è alla base della seguente osservazione critica: Poiché il linguaggio è lo strumento mediante il quale formiamo la nostra conoscenza del mondo, riconoscere i limiti del linguaggio è equivalente, in effetti, al riconoscere i limiti della nostra cognizione del mondo. La dottrina maimonidea degli attributi negativi anticipa tale osservazione per quanto concerne il linguaggio religioso, stabilendo effettivamente l'impossibilità di cognizione religiosa date le limitazioni insite nel linguaggio. Questa interpretazione del ruolo critico della filosofia, come sorta di discorso col fine di definire i limiti della cognizione, diede inizio ad uno dei modi principali di interpretare il significato esoterico della Guida. Tale interpretazione è stata proposta dallo studioso Shlomo Pines, uno dei maggiori specialisti maimonidei. Secondo questo approccio l'opera intende presentare una visione fondamentalmente critica della possibilità di ottenere una conoscenza metafisica di Dio.[17]

Lettura scettica e lettura mistica

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L'interpretazione scettica, naturalmente si pone nettamente contro la posizione tradizionale del credente, che suppone di essere capace a formulare certi principi di fede rispetto a Dio e al mondo. Inoltre contesta profondamente le certezze filosofiche sulle quali il mondo proprio di Maimonide sembra basarsi. Si ricordi che quando considerammo la Mishneh Torah ed il Commentario alla Mishnah, trovammo una solida espressione della nozione aristotelica che l'uomo ottiene la sua perfezione più alta attualizzando il suo potenziale intellettuale e raggiungendo, nella misura della sua capacità, una consapevolezza dell'universo e di Dio. L'immortalità dell'anima dipende, tra l'altro, da tale tipo di processo cognitivo, in cui l'uomo prova l'esistenza di Dio e riconosce la realtà che da Lui deriva. Ma se la critica del linguaggio religioso viene presa sul serio, allora una prova dell'esistenza di Dio che conclude con l'affermazione "Dio esiste" manca di qualsiasi significato. Dio non può essere conosciuto in nessun modo positivo, e così l'immortalità dell'anima è parimenti impossibile. Di conseguenza, la perfezione umana deve essere situata in un contesto diverso dalla conoscenza di Dio, poiché in questa visione critica, tale conoscenza include soltanto ciò che non può essere conosciuto.[17]

In questa fase della discussione critica dei limiti del linguaggio, si presenta una possibilità differente: la lettura mistica della Guida. La differenza tra lettura scettica e lettura mistica dipende dall'significato del silenzio a cui il filosofo perviene dopo aver interiorizzato l'incapacità di fare un qualsiasi tipo di affermazione riguardo a Dio. C'è qualche cognizione non linguistica di Dio? Oppure, per dirlo diversamente, le limitazioni del linguaggio indicano limiti di cognizione, che ci portano allo scetticismo, o consentono una qualche sorta di cognizione metalinguistica che non può essere formulata? È del tutto naturale non avere forme di cognizione che non si prestano ad espressione linguistica. Per esempio, possiamo identificare vari sapori di bevande senza essere in grado di descriverli. Secondo la lettura mistica, i limiti del linguaggio non definiscono i limiti di cognizione ed esperienza. Il silenzio è seguito da una grande illuminazione impossibile da formularsi. Qualsiasi tentativo di formulazione verbale di tale illuminazione, tale folgorazione, sarebbe ingannevole e potrebbe addirittura inficiare l'unità ed elevatezza di Dio. La critica del linguaggio dunque lascia il filosofo con un'esperienza pura che non può essere espressa. Ha raggiunto quell'esperienza attraverso la nullificazione del linguaggio, che lascia libero il campo alla cognizione metalinguistica intima.[18]

È importante notare che questa illuminazione mistica deve emergere dal fuoco filosofico del ricercatore, fuoco che gioca un doppio ruolo in questo percorso mistico. Come sappiamo, varie tradizioni mistiche cercano di liberare l'uomo dalla morsa da immagini ed impulsi terreni e, primariamente, purificare e svuotare la sua consapevolezza umana. È tale processo che infine permette l'illuminazione mistica. Varie manifestazioni mistiche ottengono questo svuotamento in vari modi, alcuni di essi estatici. Tra i metodi che sono stati usati per dissolvere l'Io e la sua incorporata consapevolezza si contemplano la danza continua, la ripetizione di mantra, gli esercizi di respirazione, particolari movimenti corporei. Nel misticismo della dottrina degli attributi negativi, la vacuità ricercata la si ottiene mediante un processo filosofico esaustivo il cui fine è di negare il linguaggio. Alla fine del processo, il conscio si svuota di ogni contenuto, a causa delle limitazioni del linguaggio indicate dallo sforzo filosofico.[18]

Ma la filosofia ha un ulteriore ruolo nell'esperienza mistica, che va oltre l'evacuazione del conscio. L'esperienza mistica segue il suo percorso tramite la negazione degli attributi positivi, e ciò assicura che l'oggetto dell'esperienza non sia illusorio o personificato. Senza tale processo rigoroso che lo preceda, l'esperienza mistica usuale si impossessa di oggetti illusori che non hanno nessi con la realtà. Di conseguenza, la purezza dell'esperienza dipende dal preciso regime filosofico che le prepara la strada. Il silenzio rinvia dal linguaggio all'esperienza.[18]

La lettura mistica della Guida ha un punto d'appoggio nell'atmosfera filosofica in cui Maimonide lavorava, e potrebbe anche essere che il trattato fosse letto così nei suoi ambienti immediati. Suo figlio Abraham era strettamente legato alle tradizioni mistiche dell'Islam Sufi, e potrebbe aver sviluppato queste inclinazioni da un'interpretazione degli scritti del padre. Queste due letture — scettica e mistica — non si riscontrano nei primi scritti di Maimonide. La posizione scettica appare solo nella Guida, e nessuno degli interpreti medievali di Maimonide abbracciò tale lettura. Una posizione simile fu attribuita ad al-Farabi, e Samuel Ibn Tibbon dedicò il suo commentario di Ecclesiaste ad una confutazione dello scetticismo, che mette in dubbio la base filosofica dell'esistenza umana.[17] A prescindere se ci sia qualcosa di vero nell'interpretazione della Guida proposta da Shlomo Pines, l'opera è certamente meno aristotelica delle opere halakhiche di Maimonide. Queste, come si è visto, interpretavano la halakhah ed il suo significato nell'ampio contesto di un concetto aristotelico dell'uomo e della sua capacità di conoscere Dio. Secondo l'interpretazione di Pines, Maimonide nel corso degli anni divenne meno convinto delle sue prime interpretazioni filosofiche, e all'epoca della stesura della Guida era giunto ad adottare una posizione critica nei riguardi dell'ethos filosofico.[17] Come si vedrà in seguito, è proprio nella sua opera più palesemente filosofica che questo sviluppo del suo pensiero lo portò a formulare la direzione della vita umana in termini molto più vicini all'ethos halakhico convenzionale.[18][5]

Ma ritorniamo alla lettura scettica. Secondo questa lettura, la dottrina degli attributi negativi ha molti più sviluppi di quanto non appaia da una prospettiva critica. Ha un'ulteriore componente chiave: il riposizionamento dell'uomo nel mondo una volta che ha compreso di non poter comprendere. La chiave per capire questo passo si trova nel Capitolo 54 della Parte I della Guida, che interpreta la richiesta di Mosè — citata nel capitolo 33 del Libro dell'Esodo — di vedere il volto di Dio e la risposta di Dio che, mentre il Suo volto non può essere visto, Egli rivelerà a Mosè le sue spalle (Es. 33:23). Maimonide naturalmente rifiutò qualsiasi lettura letterale visiva della rivelazione. Secondo il dizionario di Maimonide, la richiesta da parte di Mosè di vedere Dio deve essere intesa come il suo desiderio di conoscere l'essenza di Dio, nel modo in cui un uomo conosce il volto di un proprio amico. Tale desiderio gli è precluso, come del resto è precluso ad ogni uomo, come creatura fisica e linguistica. Tutto ciò che si può conoscere di Dio è la Sua schiena, che Maimonide intende significare le Sue azioni piuttosto che la Sua essenza. Secondo questa interpretazione, il termine "spalle" indica quello che viene portato da qualcuno: l'ordine causale della natura è l'unico segno di Dio che possediamo e, mediante esso, uno può ottenere una cognizione limitata del divino. Il risultato importante di Mosè non fu il conoscere l'essenza di Dio, che non può essere conosciuta, ma il conoscere l'Universo nella sua interezza.[17] Dio risponde alla richiesta di Mosè dicendo: "Io farò passare davanti a te tutta la mia bontà" (Es. 33:19), che Maimonide interpreta come segue:

« Il detto — Tutta la mia bontà — allude al mostrargli tutte le cose esistenti delle quali è detto: Allora Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco, era molto buono. Attraverso tale visione di tutte le cose, io intendo che Mosè comprenderà la loro natura ed il modo in cui sono mutualmente connesse cosicché egli capirà come Dio le governa in generale ed in particolare. Questa nozione è manifesta quando è detto: Egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa; cioè, Mosè ha colto l'esistenza di tutto il Mio mondo con una comprensione vera e saldamente affermata. Poiché le opinioni che non sono corrette non sono saldamente affermate. Di conseguenza, la comprensione di queste azioni è un comprensione dei Suoi attributi, che Egli sia glorificato, in rispetto ai quali Egli è conosciuto. »
(I:54, p. 124)

L'uomo, che non può conoscere l'essenza di Dio, guarda il mondo, che egli può comprendere e conoscere. Comprendendo le azioni di Dio nel mondo, l'uomo arriva ad attribuire a Dio le qualità che caratterizzerebbero una persona che esegue le stesse azioni. Per esempio, mentre considera la cura delicata esercitata dalla natura nel formare il feto di un mammifero e la capacità del feto di sopravvivere e crescere, l'uomo arriva ad attribuire a Dio la caratteristica della compassione — qualità che porterebbe un essere umanao ad agire in tal modo. Quando vede cose che provocano danno alle persone, l'uomo attribuisce ira e vendetta a Dio, poiché sono quelle caratteristiche che fanno agire gli esseri umani in quel modo. Ma quando quelle qualità sono attribuite a Dio, deve esserci un chiaro riconoscimento che Dio stesso non agisce secondo passioni interiori.[17] Come dice Maimonide: "Similmente, tutte le [Sue] azioni sono tali che paiono azioni eseguite dagli Adamiti [discendenti di Adamo] a causa delle passioni e sentimenti dell'anima, ma in verità non procedono assolutamente da Lui, che Egli sia lodato, a ragione di una nozione sopraggiunta alla Sua essenza" (I:54, p. 126).

Quando internalizza le limitazioni della cognizione religiosa e perviene alla conclusione che l'ordine naturale è il solo mezzo con cui le caratteristiche delle azioni di Dio possono essere conosciute, il filosofo viene spinto a volgersi vrso il mondo. La perfezione umana non si trova in una vita di speculazione, in cui l'uomo attualizza la sua essenza potenziale. Tale tipo di perfezione gli è preclusa. Ciò che rimane una volta che capisce le sue limitazioni è l'area di attività in cui imita Dio tramite le sue attività nel mondo, come dice Maimonide: "Poiché la più grande virtù dell'uomo è di diventare come Lui, che Egli sia lodato, per quanto ne sia capace; il che significa che dobbiamo svolgere le nostre azioni tenendo Lui come esempio, come i Saggi rendono chiaro quando interpretano il versetto, Tu sarai santo. Hanno detto: Egli è benevolo, pertanto sii anche tu benevolo; Egli è misericordioso, pertanto sii anche tu misericordioso" (I:54, p. 128). Ciò che è iniziato come critica del linguaggio e della cognizione metafisica si conclude con una svolta verso la società e l'esercizio di responsabilità morale e politica.[18][5]

Maimonide crebbe in una società in cui la relazione tra il filosofo amante della verità e la società in generale era uno scontro tra i modi nei quali la tradizione greca era interpretata dalle varie correnti della filosofia araba. Nella sua Allegoria della Caverna, descritta nella Repubblica, Platone descrive il filosofo come colui che è in grado di districarsi, con la forza dell'intelletto, dalla caverna dove altri esseri umani sono relegati. Le persone nella caverna sono coloro che sono intrappolati dalle impressioni sensoriali transitorie e variabili, che credono essere la somma e sostanza dell'Universo. Nell'allegoria di Platone, costoro sobo rivolti verso le pareti della caverna e vedono solo le ombre gettate dalla luce fuori della caverna, pensando che tutta l'esistenza si esaurisca lì tra le ombre. Il filosofo, che procede nel percorso della verità, riesce a voltarsi e a guardare il sole, e vede la realtà come è veramente, al di là delle impressioni sensoriali transitorie. Ma anche se si districa dalle tenebre della caverna, ci ritorna perché sente un dovere verso i membri della sua comunità che vi rimangono. Platone formula la responsabilità sociale e politica del filosofo in termini di dovere — egli deve ritornare nella caverna a dirigere la società in base all'illuminazione che egli è stato privilegiato di ottenere. Tale ritorno alle tenebre lo addolora, poiché consiste nell'abbandonare le sue delizie narcisistiche della vita pura dell'intelletto, e farlo è un atto di grande altruismo.[19]

Il ritorno del filosofo in società viene presentato in maniera differente dagli scritti di al-Farabi, che raffigurano il ritorno come qualcosa di più dell'adempimento di un dovere morale gravoso. Più vicino la persona arriva alla perfezione, e più grande è il premio per la sua anima e che ne emana. Il ritorno del filosofo in comunità comporta quindi non solo responsabilità ma anche un esubero di ricompense.[20]

Comunque vedano il suo rientro in società, entrambe queste posizioni richiedono che il filosofo sia coinvolto nella vita politica della comunità. Una posizione differente, più fatalista si sviluppò tuttavia durante il Medioevo, identificata con il filosofo Ibn Bājja. Secondo Ibn Bājja, il filosofo deve fare tutto ciò che può per evitare un eccessivo coinvolgimento con la società. Lasciare la caverna lo libera dalle condizioni violente e superficiali della vita politica in tutta la sua distruttività e corruzione. Il suo crudele risveglio gli insegna che non esiste un vero modo di migliorare la società e, peggio ancora, che egli corromperà la propria anima a causa degli inutili sforzi di cambiare il suo ambiente circostante. La vita del filosofo è un percorso spirituale che lo libera dai legami della società e lo porta ad uno splendido isolamento.[20]

Impegnato nella halakhah e coinvolto nella guida dell'ebraismo egiziano, Maimonide rifiutò la posizione di Ibn Bājja. La Mishneh Torah è una potente dichiarazione dell'impegno di un leader e della sua responsabilità verso la propria comunità. In termini platonici, quindi, Maimonide può essere descritto come un uomo d'azione. Consapevole dei suoi doveri politici e morali, egli si ritira dalla beata seclusione del filosofo. Ciò nonostante, la lettura critica e scettica di questo capitolo collega il ritorno alla comunità non solo al senso del dovere ma anche all'essenza dell'atto filosofico.[17][18]

Possiamo ottenere una migliore comprensione di questo collegamento interno esaminando una versione differente dell'Allegoria della Caverna. Qui, quando il filosofo volta la testa verso il sole, capisce che non può sopportarne la luce abbagliante, che arreca cecità e, si potrebbe dire, silenzio. Ritorna alla caverna perché tutto ciò che può sapere del sole stesso si basa sulla luce che sparge e le ombre che crea. Non ritorna, come vorrebbe Platone, a causa di un senso di responsabilità che lo spinge a rinunciare alla sua vita di contemplazione pura e redentiva. Invece la sua contemplazione lo fa ritornare nel mondo perché capisce che gli manca la capacità di considerare l'essenza di Dio e riesce solo a pren dere in considerazione il Suo mondo. È l'ideale della vita contemplativa stessa che porta il filosofo all'azione.[19][5]

Il capitolo finale della Guida racconta il complesso percorso del filosofo fuori dal mondo ed il suo rientro. All'inizio del capitolo, la posizione filosofica aristotelica in merito alla perfezione dell'uomo viene formulata in termini particolarmente forti. Dopo aver descritto la perfezione morale dell'uomo, Maimonide si concentra sul una perfezione ancor più alta, al perfezione speculativa:

« La vera perfezione umana... consiste nell'acquisizione delle virtù razionali — mi riferisco al concetto degli intellegibili, che insegnano le vere opinioni riguardo alle cose divine. Questo è in realtà il fine ultimo; questo è ciò che dà all'individuo la vera perfezione, una perfezione che spetta solo a lui; e gli fornisce una persistenza permanente;[21] mediante questa l'uomo è uomo. »
(III:54, p. 635)

Una realizzazione assidua della halakhah è semplicemente una preparazione per ottenere una perfezione più alta: "tutte le azioni prescritte dalla Legge — mi riferisco alle varie specie di adorazione e anche alle abitudini morali che sono utili a tutte le persone nei loro rapporti reciproci — che tutto ciò non deve essere paragonato a questo fine ultimo e non gli è pari, non essendo altro che preparazioni fatte per tale fine ultimo" (III:54, p. 636). Queste parole richiamano le posizioni maimonidee dei suoi scritti halakhici — il Commentario alla Mishnah e la Mishneh Torah — in relazione alla perfezione umana ed il ruolo della halakhah come mezzo per ottenerla.[15]

Se la Guida fosse terminata qui, sarebbe stata interamente coerente con le tendenze aristoteliche delle opere halakhiche di Maimonide. Tuttavia il capitolo continua con un'interpretazione elaborata di due versetti di Geremia, mediante i quali Maimonide esprime la svolta critica del suo pensiero successivo. Geremia dichiara: "Così dice il Signore: «Non si vanti il saggio della sua saggezza e non si vanti il forte della sua forza, non si vanti il ricco delle sue ricchezze. Ma chi vuol gloriarsi si vanti di questo, di avere senno e di conoscere me, perché io sono il Signore che agisce con misericordia, con diritto e con giustizia sulla terra; di queste cose mi compiaccio». Parola del Signore" (Ger. 9:22-23). I versetti di Geremia pongono la conoscenza di Dio come la grande realizzazione umana. Maimonide osserva, però, che i versetti non terminano con la conoscenza metafisica — per esempio, "di avere senno e di conoscere me, perché io sono uno, eterno ed onnisciente" — ma con l'idea che Dio agisce con misericordia, con diritto e con giustizia. Maimonide collega l'enfasi su questi aspetti della conoscenza di Dio con la dottrina degli attributi attivi. Nel susseguente paragrafo, egli si riferisce al Capitolo 54 della Parte I, che si occupava della rivelazione di Dio a Mosè. Lì descriveva il riconoscimento da parte di Mosè dei limiti della comprensione metafisica, per cui vennero a lui rivelati solo gli attributi delle azioni di Dio nel mondo:

« Ma dice che uno debba gioire della comprensione di Me Stesso e della conoscenza dei Miei attributi, con cui Egli intende la Sue azioni, come abbiamo reso chiaro con riferimento al detto Mostrami ora le tue vie, e così via. In questo versetto ci rende chiaro che quelle azioni che devono essere conosciute ed imitate sono la misericordia, la giustizia, il diritto... Quindi il fine che espone in questo versetto può essere detto come segue: È chiaro che la perfezione dell'uomo della quale egli può gioire è quella di colui che ha raggiunto, in una misura corrispondente alla propria capacità, la Sua comprensione, che Egli sia glorificato, e che conosce la Sua provvidenza che si estende su tutte le Sue creature come manifesto nell'atto di porle in essere e di governarle come fa. Il modo di vita di tale individuo, dopo che ha acquisito la comprensione, avrà sempre in vista la misericordia, la giustizia, e il diritto, per assimilazione delle Sue azioni, che Egli sia esaltato, proprio come abbiamo spiegato diverse volte in questo Trattato. »
(III:54, pp. 637-638)

La conoscenza di Dio allora è conoscenza delle Sue azioni sulla terra. L'uomo che imita Dio mediante atti di misericordia, giustizia e diritto, è l'uomo che conosce Dio nei limiti della capacità umana.[3]

Concludendo la Guida con la misericordia, la giustizia, e il diritto di Dio e col dovere di imitare le Sue azioni, Maimonide insegna che alla fine del percorso filosofico, l'uomo ritorna alla perfezione attiva diretta verso il mondo. Questa interpretazione della posizione di Maimonide compromette la distinzione che a volte vien fatta tra Maimonide l'halakhista della Mishneh Torah, e Maimonide il filosofo della Guida. Nella Mishneh Torah, Maimonide assume che la halakhah pratica non sia altro che uno strumento dell'ideale filosofico della comprensione e contemplazione. Ma nella Guida — presumibilmente il veicolo che Maimonide il filosofo usa per esprimersi — egli sostiene l'idea delle limitazioni della capacità umana nella comprensione metafisica e dimostra come la speculazione conduca l'uomo all'ideale halakhico pratico di misericordia, giustizia, e diritto.[3]

La transizione dalla Mishneh Torah alla Guida comporta un'alterazione di vasta portata di come uno debba considerare il destino dell'uomo e la sua relazione col mondo.Uno potrebbe certo attribuire il cambiamento di enfasi allo sviluppo del pensiero maimonideo mentre la sua critica del linguaggio religioso lo portava ad adottare un'attitudine scettica verso l'ideale speculativo della filosofia. Potrebbe anche essere che tale visione del linguaggio religioso fosse accompagnata da un suo crescente scetticismo sulla capacità della ragione di risolvere questioni metafisiche cruciali. In un commovente brano dei suoi scritti medici dopo aver completato la Guida, Maimonide descrive i limiti e i problemi della conoscenza medica e fornisce un'espressione personale dei suoi crescenti dubbi in tutti i campi di ricerca:

« Tuttavia, caro lettore, non pensare che questa [osservazione] si applichi solo alla medicina, poiché se ti applichi nelle scienze naturali e religiose troverai lo stesso. Poiché più la persona è proficiente ed erudita in una data disciplina e più ci si dedica, più dubbi avrà; e [molte] questioni gli saranno difficili ed egli si dedicherà maggiormente alla materia ma non ne riceverà risposte. D'altra parte, una persona che manca di conoscenza troverà ogni difficoltà facile da spiegare. »
(Trattato sull'Asma, pp. 113-114)

Tuttavia, data anche tale progressione, non dobbiamo vedere la Mishneh Torah e la Guida come ponessero un conflitto irrisolto. Tutta l'oeuvre maimonidea presenta varie fasi che sono necessarie ed appropriate nella biografia spirituale di una persona — biografia spirituale che maimonide stesso provò. Nella prima fase, la vita d'azione è una preparazione a realizzare la perfezione umana come creatura dotata di abilità a conoscere, ed il desiderio di conoscere è espresso con un amore ardente per Dio. Nella seconda fase, dopo che la persona ha ottenuto il livello di cognizione che sembra permettergli di uscire dai confini ristretti dell'esistenza umana materiale, è tale cognizione stessa che lo fa rientrare nel mondo, poiché arriva a capire che la conoscenza, dopo tutto, è semplicemente una comprensione dei limiti della conoscenza. La filosofia gli insegna che gli umani difettano dell'abilità di conoscere l'essenza di Dio e possono solo conoscere le Sue azioni ed il Suo mondo. L'uomo ritorna quindi nel mondo come uno che agisce ad imitazione delle azioni di Dio nel mondo.[14][12]

Questo percorso intellettuale fuori e dentro il mondo non finisce mai, e la persona oscilla lungo la via tutta la vita. Tale è il significato del sogno di Giacobbe, che simbolizza questo movimenmto. A Beth-El, Giacobbe sogna una scala piantata per terra e con la cima che raggiunge il cielo; gli angeli di Dio ascendono e discendono lungo questa scala. Maimonide considerò "angelo" una parola equivoca che poteva connotare anche un profeta (dato che il profeta, come l'angelo, è un messaggero), e considerò il sogno come simbolo della vita spirituale di un profeta, che va al di là del mondo e poi rientra. Salire la scala simbolizza i sempre più elevati gradi di comprensione del profeta: "Ognuno che sale lo fa ascendendo questa scala, cosicché inevitabilmente comprende Colui che vi è sopra" (I:15, p. 41). Scendere la scala viene descritto come segue: "La frase ascendere e discendere è ben espressa, per cui ascesa vien prima di discesa. Poiché dopo l`ascesa e il conseguimento di certi gradini della scala che possono essere conosciuti, viene la discesa con un qualche decreto di cui il profeta è stato informato — con l'obiettivo di governare ed insegnare al popolo della terra... è per questo che viene chiamata discesa" (ibid.). Il ritorno ad occuparsi degli affari del mondo segue all'ascesa attraverso i gradini della conoscenza. La lettura scettica della Guida ci insegna che questo ritorno non obbliga a rinunciare le delizie gratificanti della cognizione, né proviene da un qualche eccesso traboccante di generosità che il filosofo dispensa verso il basso, come suggerisce Maimonide ad un certo punto. Scaturisce piuttosto dalla natura della conoscenza stessa ed il suo ruolo critico. In cima alla scala che punta al cielo, la persona comprende che l'unica cosa che è in grado di comprendere è il movimento di Dio nella realtà, e a seguito di questa comprensione, egli ritorna alla realtà come partecipante attivo.[14][5]

  1. La guida dei perplessi, ebraico: מורה נבוכים, traslitt. Moreh Nevukhim, arabo traslitt. delāla elḥā'irīn דלאל̈ה אלחאירין دلالة الحائرين, unicode: דלאל̈ה אלחאירין.
  2. Stralci del testo della Guida sono stati tradotti dalla versione inglese, in 2 voll., curata da Shlomo Pines, University of Chicago Press, 1963. I numeri di pagina si riferiscono a tale edizione.
  3. 3,00 3,01 3,02 3,03 3,04 3,05 3,06 3,07 3,08 3,09 3,10 3,11 Per questo capitolo si sono consultati specificamente Alexander Altmann, "Maimonides on the Intellect and the Scope of Metaphysics", Von der Mittelalterlichen zur modernen Aufklärung—Studien zur jüdischen Geistesgeschichte, J.C.B. Mohr, 1987, pp. 60-129; James Diamond, Maimonides and the Hermeneutics of Concealment: Deciphering Scripture and Midrash in the Guide of the Perplexed, State University of New York Press, 2002, passim; Joseph Stern, "Logical Syntax as the Key to the Secret in the Guide of the Perplexed", Iyyun 38, 2, 1999, pp. 137-166 (in ebr.).
  4. 4,0 4,1 4,2 4,3 4,4 4,5 4,6 4,7 4,8 Aviezer Ravitzky, "Esotericism and Philosophical Education", Maimonidean Studies, 2006, pp. 59-80 (in ebr.); Joseph Stern, "Maimonides on the Growth of Knowledge and the Limitation of the Intellect", Maimonides, 2004, pp. 143-191; Moshe Halbertal, Concealment and Revelation: Esotericism in Jewish Tradition and Its Philosphical Implications, Princeton University Press, 2007, passim.
  5. 5,00 5,01 5,02 5,03 5,04 5,05 5,06 5,07 5,08 5,09 5,10 Per le quattro interpretazioni specifiche si vedano specialmente Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 277-311; Yair Lorberbaum, "On Contradictions, Rationality, Dialectics, and esotericism in Maimonides`s Guide of the Perplexed", Review of Metaphysics 55, 4, 2002, pp. 711-750; id., "On Allegory, Metaphor, and Symbol in the Guide of the Perplexed", Studia Judaica 16, 2008, pp. 95-106.
  6. 6,0 6,1 6,2 Jeffrey Macy, "Prophecy in al-Farabi and Maimonides", in Sholom Pines and Yirmiyahu Yovel (curatori), Maimonide and Philosophy: Papers Presented at the Sixth Jerusalem Philosophical Encounter May 1985, Matinus Nihoff, 1986, pp. 185-201; Abraham Nuriel, "Divine Will in the Guide of the Perplexed", Revealed and Hidden in Medieval Jewish Philosophy, Magnes Press, 1980, pp. 41-63; id., "Providence in the Guide of the Perplexed", loc. cit., pp. 83-92; id., "Creation of the World or Eternity According to Maimonides", loc. cit., pp. 25-40.
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 Joseph Stern, "Maimonides on Language and the Science of Language", Maimonides and the Sciences, 2000, pp. 173-226; id., "Maimonides` Epistemology", The Cambridge Companion to Maimonides, K. Seeskin (cur.), Cambridge Univesity Press, 2005, pp. 105-133; id., "Maimonides on Growth of Knowledge and the Limitation of the Intellect", Maimonides, 2004, pp. 143-191.
  8. Bavli Yoma 69b.
  9. Tradotto da The Authorised Daily Prayer Book of the United Hebrew Congregations of the Commonwealth, Centenary Edition, Londra, 1998, p. 422.
  10. 10,0 10,1 10,2 10,3 10,4 Bernard Septimus, "Maimonide on Language", The Heritage of the Jews of Spain, Levinski College of Education Publ. House, 1994, pp. 35-54.
  11. La Nuova Diodati traduce così. La CEI traduce invece "La mia mente ha curato molto la sapienza e la scienza"; la Nuova Riveduta 2006 traduce: "il mio cuore ha posseduto molta saggezza e molta scienza".
  12. 12,0 12,1 12,2 12,3 12,4 12,5 12,6 12,7 12,8 Mordechai Z. Cohen, Three Approaches to Biblical Metaphor: from Abraham Ibn Ezra and Maimonides to David Kimhi, Leiden & Boston, 2003, passim; Leonard S. Kravitz, “The Revealed and the Concealed—Providence, Prophecy, Miracle and Creation in the Guide”, CCAR Yearbook 16, 1969, pp. 2-30, & 1971, pp. 59-62; id., The Hidden Doctrine of Maimonides’ Guide for the Perplexed: Philosophical and Religious God-Language in Tension, Lewiston, 1988; Yair Lorberboim, “On Contradictions, Rationality, Dialectics, and Esotericism in Maimonides’s Guide of the Perplexed”, Review of Metaphysics 55, 2002, pp. 95-134.
  13. Shiviti (שויתי in ebraico) sono rappresentazioni meditative di una menorah formata dai Nomi di Dio in ebraico - vengono usate in alcune comunità ebraiche per la "contemplazione del Nome".
  14. 14,0 14,1 14,2 14,3 14,4 14,5 14,6 Shalom Rozenberg, "Biblical Interpretation in the Guide", Jerusalem Studies in Jewish Thought 1, nr. 1, 1981, pp. 85-157 (in ebr.); Aviezer Ravitzky, "Maimonides Concealed Teaching in The Guide of the Perplexed: The Interpretation in the Past and Present", Al Da`at ha-Maqom: Studies in the History of Jewish Thought, Keter Press, 1991, pp. 142-181 (in ebr.)
  15. 15,0 15,1 Leonard S. Kravitz, “The Revealed and the Concealed—Providence, Prophecy, Miracle and Creation in the Guide”, loc. cit., pp. 59-62; id., The Hidden Doctrine of Maimonides’ Guide for the Perplexed: Philosophical and Religious God-Language in Tension, Lewiston, 1988, pp. 65-101.
  16. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Proposizione nr. 7 (ed. a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 1964).
  17. 17,0 17,1 17,2 17,3 17,4 17,5 17,6 Shlomo Pines, The Limitation of Human Knowledge, cit., Studies in Medieval Jewish History, cit., 1979, pp. 82-109; si veda anche il suo "The Philosophical Purport of Maimonides` Halakhic Works and the Purport of the Guide of the Perplexed", loc. cit., 1986, pp. 1-14.
  18. 18,0 18,1 18,2 18,3 18,4 18,5 J. Faur, Homo Mysticus: a Guide to Maimonides’ Guide for the Perplexed, Syracuse, 1999, s.v.
  19. 19,0 19,1 Mario Vegetti, Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza, 1999, passim.
  20. 20,0 20,1 Jeffrey Macy, "Prophecy in al-Farabi and Maimonides", in S. Pines & Y. Yovel (curatori), Maimonides and Philosophy, cit., 1986, pp. 185-201; Sarah Stroumsa, "The Guide and Maimonides Philosophical Sources", The Cambridge Companion to Maimonides, K. Seeskin (cur.), Cambridge University Press, 2005, pp. 58-81.
  21. Questa frase si riferisce al concetto filosofico del "perdurantismo", una teoria filosofica che tratta della persistenza e dell'identità. Il punto di vista perdurantista difende il fatto che gli oggetti siano composti da diverse fasi o parti temporali, e si oppone all'"endurantismo", in cui si afferma che ogni persona mantiene la sua individualità, senza incrinature o divisioni in ogni momento della sua esistenza. Cfr. N. McKinnon, "The Endurance/Perdurance Distinction", The Australasian Journal of Philosophy 80:3, 2002, pp. 288-306.