Guida maimonidea/Problemi e dottrine

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Indice del libro
La Guida dei perplessi, manoscritto in ebraico del 1348, Museo della Diaspora, Tel Aviv
« Ognuno di noi decide se diventare istruito o rimanere ignorante, compassionevole o crudele, generoso o avaro. Nessuno ci forza, nessuno decide per noi.
Noi siamo responsabili di ciò che siamo.
 »
(Maimonide)

Questioni fondamentali

Le quattro letture della Guida che abbiamo visto nei precedenti capitoli presentano modi differenti di interpretare le questioni fondamentali con cui Maimonide si cimentò nel suo trattato. Ciascuna lettura ha la sua maniera di confrontarsi con problematiche come il ruolo della filosofia, il concetto di Dio, la condizione dell'uomo nel mondo e la sua perfezione ultima, ed il modo in cui una persona perplessa supera la propria crisi esistenziale.[1]

La lettura scettica considera la filosofia uno strumento critico, in grado di rivelare il fatto che il linguaggio, come un dipinto o una scultura, può fornire solo una rappresentazione limitata ed ingannevole di Dio. Ne consegue che nessuna conoscenza positiva di Dio può essere trasmessa tramite il linguaggio, e che per conservare l'unità pura e la trascendenza di Dio è richiesto il silenzio. La persona perplessa abbandona il linguaggio tradizionale e accettato di fede, comprendendo che qualsiasi tentativo di formulare affermazioni positive di fede su Dio trasformerebbero l'oggetto dell'adorazione in una divinità estranea e immaginaria. Il più alto grado di conoscenza di Dio viene espresso da un concetto scettico raffinato e ripulito da qualsiasi cosa che possa deturpare la sublimità divina, e riporta la persona perplessa nel mondo. Riesce a capire che anche il grande problema metafisico della creazione nel tempo in contrapposizione alla preesistenza eterna non è risolvibile. Tutto ciò che rimane è la rivelazione di Dio nel mondo, che riflette le azioni di generosità, giustizia e rettitudine. Il silenzio porta all'azione nel mondo, che è il percorso esclusivo e diretto per adottare le vie del Signore nella vita umana.[2]

La lettura mistica conferma che il ruolo della filosofia sia primariamente quello critico, poiché mette dei limiti a ciò che è possibile conoscere; tuttavia vede il percorso filosofico come un processo che sgombra la via all'illuminazione diretta e ad un'esperienza di Dio metalinguistica e metarazionale. Questa esperienza mistica avviene dopo che il conscio è svuotato da tutto il contenuto positivo, specialmente tramite la negazione del linguaggio. La lettura mistica, al contrario di quella scettica, crede in una cognizione diretta e in un'illuminazione non linguistica di Dio, che si possono ottenere solo dopo che il linguaggio ha raggiunto il suo limite finale. L'esperienza mistica non viene raggiunta mediante meccanismi estatici familiari nella storia del misticismo, come il movimento, gli esercizi respiratori, o la ripetizione automatica di sillabe fisse. Per liberare il proprio conscio in un modo che renda possibile l'illuminazione, uno deve intraprendere un difficile ed esaustivo processo di argomentazione filosofica precisa. La negazione filosofica di immagini false assicura che l'oggetto dell'esperienza non sia fruttodi un'immaginazione ingannevole, poiché avviene solo dopo che il proprio conscio è stato purificato, mediante la filosofia, da ogni ingannevole immagine positiva di Dio. La persona perplessa intraprende il suo cammino in uno stato di crisi esistenziale generata dal conflitto tra un sistema filosofico di convinzioni ed uno tradizionale. Nella lettura mistica, tuttavia, la persona non conclude il suo cammino, come nella lettura scettica, con un ritorno nel mondo dell'azione; lo fa piuttosto con un'esperienza metalinguistica diretta del sublime.[2][1]

Nella lettura conservatrice, la grande realizzazione della Guida sta nell'aver dimostrato che la preesistenza eterna del mondo non può essere provata. La persona perplessa può aderire alla modalità filosofica senza mettere in dubbio i fondamenti dell'Ebraismo, che si basano sull'attribuzione della volontà a Dio. La volontà divina stabilisce l'esistenza mediante la creazione ex nihilo; inoltre, l'esercizio della volontà fornisce la base per considerare la rivelazione a Mosè come un evento di autorità vincolante eterna. Anche il principio della saggezza gioca un ruolo importante nella lettura conservatrice, poiché la dimensione della volontà è tenuta in contesti straordinari e ristretti. Dio certamente ha creato il mondo ex nihilo, ma da quel punto in poi è la causalità, non la volontà, il modo in cui si esprime la Sua rivelazione — la teologia giudeo-cristiana non ha progredito molto oltre questa affermazione maimonidea.[1] Tutta la profezia eccettuata quella di Mosè è interpretata come evento con una struttura causale interna relativa alla perfezione del profeta. La supervisione provvidenziale postulata sull'intervento intenzionale di Dio nella vita umana viene limitata ad un ristretto numero di persone, mentre le altre creature (umane e bestie insieme) sono soggette solo alla causalità naturale che prosegue dalle azioni originali di Dio. La persona perplessa può accettare l'ethos filosofico senza compromettere i fondamenti sacri della fede.[2]

La lettura filosofica, in contrasto, sostiene che la Guida fornisce un'interpretazione sistematica dei concetti fondamentali dell'Ebraismo sulla base della saggezza e di un mondo preesistente eterno. Scoprire il significato nascosto della Torah rende possibile alla persona perplessa di interiorizzare la tradizione della filosofia greco-araba senza indebolire il proprio legame alla Torah di Israele. Il trattato ritraduce i concetti di profezia, provvidenza e creazione in una maniera interamente coerente con la strtuttura causale del mondo, che rispecchia la saggezza di Dio. I riferimenti alla volontà divina che abbondano nel linguaggio della Bibbia e della tradizione sono collegati alle credenze necessarie, senza le quali l'ordine sociale e la fedeltà alla halakhah potrebbero essere compromessi. E lo stesso potrebbe dirsi della Guida stessa, che nasconde il suo significato profondo al lettore che non è stato iniziato alla filosofia. Il processo filosofico porta la persona perplessa dalla volontà alla saggezza. Viene liberato dal caos e dalla frenesia e dai desideri mondani, e la sua consapevolezza è diretta totalmente verso l'oggetto del suo anelito: Dio. I comandamenti sono una parte sostanziale del suo percorso e del suo esercizio spirituale che indebolisce la morsa dell'esistenza terrena sul proprio mondo interiore. Alla fine del processo, l'adoratore filosofico di Dio viene liberato dalla potenza distruttiva della morte.[1][3]

Le varie letture della Guida riflettono vedute del mondo che differiscono sostanzialmente l'una dall'altra, e qualsiasi tentativo di proporre una lettura singola e coerente del trattato pare destinata al fallimento, nonostante la buona intenzione del tentativo. Lettori scettiti, per esempio, potrebbero sostenere che la lettura filosofica non è nulla di più di un passo preparatorio verso la molto più significativa lettura scettica ed il conseguente ritorno al mondo. Per converso, l'interpretazione mistica cita gli elementi di illuminazione rivelatrice nell'ambito del trattato, che proseguono dall'annullamento della conoscenza ottenuto mediante la lettura scettica. Proponenti della lettura filosofica affermano che le idee sulla creazione nel tempo, nel modo in cui appaiono nei livelli superficiali della Guida, non sono altro che uno strato esterno di credenze necessarie che occultano il significato nascosto del libro. E gli interpreti conservatori dicono che interpretare l'opera a favore della preesistenza eterna del mondo la fraintende considerando solo i principi di saggezza che riporta, ma ignorando gli sforzi di Maimonide nel difendere gli elementi basilari della fede dagli effetti corrosivi della fede nell'eternità.[1]

Tentativi come i succitati di interpretare la Guida in maniera uniforme sono stati fatti nel corso di tutta la storia dell'opera. Tuttavia una lettura profonda e attenta dimostra l'insuccesso di tali tentativi, per quanto siano sofisticati e creativi. Per esempio, come si fa a riconciliare lo spirito della Parte III, Capitolo 51, che descrive la redenzione dell'anima del filosofo dai vincoli mondani e dalla morte, con il Capitolo 54, che descrive il ritorno del filosofo nella vita mondana dopo che ha riconosciuto che tutto ciò che può conoscere di Dio sono le Sue azioni nel mondo che esiste? Come si può armonizzare l'unicità e la miracolosità della profezia di Mosè che viene affermata nella Guida II, 35, con la descrizione della Guida I, 51, in cui l'intuizione di Mosè relativa alla natura fornisce la fonte ed il contenuto della sua rivelazione? Oppure, in che modo si può l'asserzione di Maimonide che adotta la creazione ex nihilo nella Guida II, 25, mentre gli altri capitoli propongono una spiegazione naturalistica dei passi principali della storia biblica della creazione? E c'è forse una possibilità di riunire la natura miracolosa della provvidenza dsecritta nella Guida III, 51, che protegge la persona virtuosa da tutti i mali, con la versione naturalistica proposta nella Guida III, 23, dove l'uomo saggio, come Giobbe, interiorizza che la vera felicità consiste nella conoscenza di Dio, qualsiasi cosa accada? Pare innegabile che la Guida dei perplessi lasci aperte al lettore possibilità multiple, e ciò potrebbe benissimo essere stata l'intenzione di Maimonide. Permettendo quattro differenti modi di interpretazione, Maimonide si rivolge tacitamente alla persona perplessa come segue: Puoi conservare la tua fede nell'Ebraismo sia che tu affermi l'esistenza eterna o la creazione nel tempo, e la tua ricerca filosofica ti porterà ad un'esperienza mistica o ad un rientro nel mondo. La tua perplessità non è una frattura paralizzante che possa essere risolta solo con un suicidio intellettuale e spirituale mediante l'amputazione di una parte importante del tuo spirito. La tua perplessità, sorta dall'incontro tra Torah e saggezza, ti apre davanti varie possibilità di esistenza religiosa e di significato.[1][4]

Il trattato quindi non propone un'unica via per comprendere la tradizione ebraica. Se Maimonide sostenne tale posizione — di certo una possibilità — non ce la presenta come tale. È inoltre probabile che egli stesso si dibattesse tra le varie alternative e che le sue posizioni basilari subirono cambiamenti nel corso della sua vita. In ogni case, lo scopo principale del trattato sembra essere quello di prevenire che la persona perplessa giunga alla terribile decisione di negare una parte importante del proprio mondo. Quando il lettore perplesso inizia il libro, pensa di aver abbandonato o la tradizione ebraica o il suo impegno filosofico. Una volta che lo ha terminato, arriva a capire che la sua situazione esistenziale non lo conduce ad una terribile fenditura interna — al contrario, è un potente stimolo ad approfondire la sua visione religiosa. La perplessità rende possibile, tra l'altro, di identificare le prospettive più profonde della tradizione ebraica alla quale rimane fedele.[1][4]

Elementi comuni[modifica]

Stella di David con Rotolo della Torah (Vetrata del Cimitero di Montparnasse, Parigi)

Nonostante i significati multipli del trattato, esiste un nucleo condiviso da tutte le impostazioni. Riguarda la trasformazione religiosa che Maimonide cercò di causare mediante la sua interpretazione innovativa della tradizione ebraica, e tale trasformazione incorpora tre elementi.[5]

Il primo elemento è lo spostamento della lotta contro l'idolatria dalla sfera della rappresentazione plastica a quella della rappresentazione mentale interiore. La guerra contro l'idolatria venne rinnovata perché il problema religioso del credente divenne quello dell'antropomorfizzazione di Dio piuttosto che quello di adorare statue ed immagini. L'apertura di tale nuovo fronte richiedeva la formulazione di una nuova impostazione del linguaggio religioso, prima fonte dell'immagine presonificata di Dio serbata interiormente. Il linguaggio religioso deve essere letto come simbolo o allegoria per superare l'immagine invalida di Dio che può essere generata da una lettura letterale. Similmente, la transizione verso l'enfasi di un'immagine interiore integrava un elemento necessario di fede nel servizio religioso. Un uomo può essere meticoloso nell'osservare i comandamenti ma essere comunque peggio di un idolatra se osserva i comandamenti con un'immagine antropomorfica della divinità in mente. Tale persona in effetti sta adorando non Dio ma un'immagine più elevata di umanità. Questo elemento della trasformazione religiosa maimonidea è collegato anche ad una consapevolezza dello stato marginale dell'uomo nell'universo. L'antropomorfismo si sviluppa in parte dal vedere l'uomo al centro dell'esistenza. La guerra contro questa concezione pertanto è una lotta contro una veduta megalomane del posto dell'uomo nell'universo.[5]

Il secondo elemento della trasformazione religiosa prodotta da Maimonide è la focalizzazione sull'ordine causale e l'inerente saggezza come la più importante rivelazione della divinità. Molte tradizioni di fede pongono l'apparizione di Dio nella rubrica del "miracolo", un evento in cui l'ordine causale si dissolve e la mano tesa di Dio interviene in ciò che che accade nel mondo. Maimonide considerava che tale credenza offrisse una fragile espressione ad hoc della rivelazione divina. Al centro della consapevolezza religiosa il mondo deve rimanere com'è, la più alta espressione della misericordia, giustizia e saggezza divine. Fare affidamento sul miracoloso e lo straordinario come base dell'esperienza religiosa vuol dire un'incapacità di distinguere l'impossibile dal possibile. Tale concetto proviene dalla facoltà immaginativa, l'elemento dell'anima che favorisce il pensiero idolatra. Accettare l'ordine del mondo come espressione della rivelazione estirpa aspettative messianiche di cambiamento nell'ordine causale naturale. Offre inoltre una risoluzione profonda di quello che pare essere il problema del male. La filosofia riconcilia l'uomo ed il mondo causale. Gli insegna che questa è la sua dimora a patto che regoli i suoi fini ad essere coerenti con quello che la natura può fornirgli. L'enfasi sul principio della saggezza come espressione di rivelazione divina porta Maimonide a ritenere la Torah stessa un sistema inteso ad elevare l'uomo alla sua perfezione naturale. Questo ordine teleologico, e non l'obbedienza alla parola di Dio come decreto supremo arbitrario, è ciò che investe la Torah di profondo significato religioso.[5]

Il terzo elemento della nuova sensibilità religiosa forgiata da maimonide è il rifiuto della distinzione tra quello che è nell'ambito della tradizione ebraica e quello che ne è fuori. La filosofia è conoscenza che non deriva dalle fonti canoniche della tradizione stessa. La scuola filosofica nella quale maimonide si impegna profondamente deriva i propri concetti da Aristotele, importati mediante il pensiero mussulmano — primariamente quello di Ibn Sina (Avicenna), al-Farabi, Ibn Bajja e Ibn Rushd (Averroè). Nessuna delle letture presentate nei precedenti capitoli propone una filosofia definita come qualcosa di esterno con cui la tradizione deve contendere. Similmente, l'interpretazione dell'Ebraismo che Maimonide offre non è qualcosa intesa solo a riconciliare credenze fondate sulla Torah con le esplorazioni della filosofia e della scienza; la filosofia gioca piuttosto un ruolo centrale nel costruire la prospettiva religiosa stessa. La conoscenza indipendentemente dalla tradizione è necessaria per capire la tradizione, poiché senza tale conoscenza non possiamo riconoscere, per esempio, se un termine particolare della Torah sia inteso letteralmente o metaforicamente. La filosofia è pertanto un meccanismo mediante il quale la Torah di israele realizza la sua missione come la religione dei monoteisti in opposizione all'idolatria. Inoltre, il pinnacolo dell'esperienza religiosa viene ottenuto con la conoscenza. L'immersione nella saggezza è parte sostanziale del percorso interiore della persona religiosa verso la redenzione della propria anima e in particolar modo del suo muoversi dal timore di Dio all'amore di Dio ed il proprio confronto con le limitazioni del mondo e con la morte.[5][6]

Il ruolo centrale di filosofia e scienza nel percorso spirituale è radicato in una delle più profonde intuizioni che riguardano la condizione umana. La reazione iniziale dell'umanità al mondo è paura e strumentalità. Riteniamo il mondo una fonte potenziale sia di pericoli che di piaceri. Essendo presi nella morsa di ansie e stimoli potenti, siamo inclini a strumentalizzare il mondo; il mondo è lì per noi o contro di noi. Allo stato iniziale, essendo motivati da paure e desideri, siamo anche prigionieri della nostra immaginazione, che è segnata dall'incapacità di distinguere tra ciò che è possibile e ciò che è impossibile. La combinazione di paura e immaginazione rende gli esseri umani vulnerabili alla manipolazione. La masse sono quindi mobilitate facilmente da promesse e minacce, verso magia, superstizione, e idolatria. Condizioni di instabilità politica ci bloccano ancora più profondamente in tale modalità di "manutenzione", in cui tutti i nostri orizzonti interiori si riducono alla necessità di sopravvivenza. Questa caratteristica della condizione umana è la fonte anche di una potente tendenza a strumentalizzare la Torah stessa, obbedendo le sue leggi e comandamenti per timore di punizioni e desiderio di ricompense.[6]

La conoscenza del mondo e di Dio punta ad alleviarci dal peso della paura e a liberarci dalla morsa dell'immaginazione. La posizione della conoscenza implica la capacità di vedere il mondo com'è, indipendentemente dal suo ruolo strumentale. È quindi la chiave dell'amore che viene definita come una relazione non strumentale. Comprendendo la grande bellezza e potenza del mondo impariamo a percepirlo per ciò che è — una stupenda manifestazione della saggezza di Dio in cui noi umani siamo un aspetto marginale di tale piano divino. Interiorizzando questo aspetto non strumentale ci riconciliamo col mondo, un mondo idoneo al nostro potenziale come creature capaci di conoscenza e capaci di trascendere la morsa iniziale della paura e dell'immaginazione. Integrando questa visione della condizione umana con l'interpretazione dell'Ebraismo, Maimonide ha reso la scienza e la saggezza una parte integrale della tradizione ebraica, che le considera attentamente e comanda che siano studiate. Il fine dell'Ebraismo nella vita comunitaria ed individuale dipende dell'ethos filosofico che viene interiorizzato nel cuore più profondo della tradizione.[5][7]

I tre elementi della nuova sensibilità religiosa di Maimonide possono essere ritrovati anche nei suoi scritti halakhici. La definizione di Dio nella Mishneh Torah si basa sulla realtà causativa quale strumento centrale della rivelazione divina nel mondo. Nei primi capitoli della Mishneh Torah, Dio viene descritto in termini di essenza ed esistenza, non di personalità e storia. Secondo le "Leggi del Pentimento", l'ideazione corporea di Dio è apostasia e chi la sostiene si pone al di fuori della comunità di Israele e perde il proprio posto nel mondo a venire. La Mishneh Torah ritiene filosofia e scienza una parte sostanziale della halakhah, poiché il fine dell'uomo e della halakhah nel suo complesso è definito in termini di perfezione umana come creatura razionale, e l'apice dell'esperienza religiosa — timore ed amore — è raggiunto e realizzato tramite la conoscenza del mondo e di Dio. È la conoscenza che libera l'uomo dal comportamento strumentale del mondo e lo conduce ad un comportamento di amore di Dio. Una consapevolezza filosofica viene ad introdursi anche in aree chiaramente halakhiche, come la totale proibizione della magia e dell'uso scaramantico di oggetti rituali ebraici.[7]

La presenza di questi tre fattori negli scritti halakhici di Maimonide esclude naturalmente qualsiasi distinzione tra Maimonide l'halakista e Maimonide il filosofo. Infatti è specificamente negli scritti halakhici che gli elementi filosofici sono maggiormente prominenti e intensi, come si è visto nella nostra analisi della Mishneh Torah. In queste opere, Dio è definito in termini di preesistenza eterna del mondo, come per la profezia. Inoltre, gli scritti halakhici di Maimonide non mettono assolutamente in dubbio il fine più alto dell'uomo quale creatura razionale, e tale definizione trasforma l'osservanza quotidiana della halakhah in un mezzo piuttosto che in un fine di per se stesso. Nella Guida invece la credenza nella preesistenza eterna viene analizzata con una critica sistematica, come lo è l'idea che la perfezione umana risieda nella cognizione di Dio. Pertanto gli elementi filosofici che appaiono nel Commentario alla Mishnah e nella Mishneh Torah smentiscono chiaramente qualsiasi distinzione tra halakhah e filosofia negli insegnamenti di Maimonide.[6][7]

Che il nucleo basilare della trasformazione religiosa maimonidea si possa trovare anche nei suoi scritti halakhic ha implicazioni al di là del dimostrare semplicemente la coerenza del mondo interiore di Maimonide. L'integrazione di elementi filosofici in un codice halakhico rispecchia il tentativo di elevare la sensibilità religiosa filosofica da una proposta personale — un'interpretazione della tradizione intesa solo per l'individuo perplesso — ad una halakhah vincolante, intesa a formare le credenze e le autopercezioni degli ebrei di tutti i tempi. Fornendo una formulazione vincolante dei principi filosofici nella Mishneh Torah, Maimonide usò tutto il suo scibile halakhico per trasformare la religione ebraica. Rese la filosofia un dovere halakhico e religioso mediante, tra l'altro, la sua definizione dei comandamenti di conoscere, amare e temere Dio, il suo concetto del messianismo, e la sua trattazione delle leggi che proibiscono l'idolatria. Integrando questi elementi nel suo grande codice halakhico, egli rese la prospettiva filosofica un aspetto sostanziale e vincolante della halakhah. Non c'è quindi da meravigliarsi che il suo tentativo nella Mishneh Torah di stabilire la sensibilità filosofica come una parte integrante dell'Ebraismo normativo vincolante provocò più ostilità da parte dei suoi oppositori che qualsiasi formulazione innovativa ed audace della Guida.[6][7]

Prospettiva storica[modifica]

Frontespizio della Mishneh Torah (1575)
Frontespizio della Guida dei perplessi

Nella lettera al suo discepolo, Maimonide cita i due scopi che aveva quando scrisse la Mishneh Torah — scopi che rappresentano due grandi trasformazioni che egli cercò di portare a termine nel corso della propria vita: "poiché, come è vero che Dio vive, sono stato zelante a nome del Signore Dio di Israele, vedendo che la nazione mancava di un libro vero e comprensivo delle proprie leggi e difettava di opinioni vere e chiare; così ho fatto ciò che ho fatto solo per amr di Dio" (Iggerot, p. 301). Il primo scopo si concentra sulle credenze vere che Maimonide incorpora nella Mishneh Torah. Esse non rispecchiano un tentativo di formulare un denominatore comune più fondamentale della fede ebraica che possa essere selezionato dalla tradizione; sono invece intese a provocare un cambiamento profondo nella religione di Israele.[7]

Lo scopo aggiuntivo che cita, "un libro vero e comprensivo delle proprie leggi", rappresenta la seconda trasformazione che Maimonide cercò di ottenere. Come opera che comprendeva tutta la halakhah, esente da dispute controverse e universalmente accessibile, la Mishneh Torah era intesa a presentare il sistema halakhico una volta per tutte e per sempre. Questa grande impresa letteraria era volta a creare una versione autorevole e unitaria dell'intera sfera halakhica, includendo tutte le sue branche e minuzie. L'autorevolezza del trattato doveva derivare non dalla reputazione istituzionale di Maimonide, di cui difettava, bensì dall'accettazione universale che si aspettava otenesse in tutto il mondo ebraico. Tale accettazione avrebbe concesso al trattato la condizione non solo di rappresentazione primaria e fondamentale della halakhah ma proprio quella di halakhah stessa. Maimonide credeva che, a causa delle circostanze politiche di scisma e dispersione subite dagli ebrei, nessun testo o giudizio halakhico aveva ottenuto una tale sorta di approvazione sin dal tempo di Ravina e Rabbi Ashi. Tali circostanze peggiorarono con la distruzione degli ebrei andalusi e, in gran parte, determinò il corso della vita dello stesso Maimonide. Mediante il prestigio della Mishneh Torah, che sarebbe stata accettata in tutto Israele alla stessa maniera del Talmud stesso, Maimonide intendeva alterare la situazione halakhica senza cambiare la situazione politica e la rispettiva preclusione di centralizzazione istituzionale. In tal modo, il popolo ebraico, nonostante la sua dispersione e fragilità politica, avrebbe acquisito un trattato centrale degno di essere stimato non per la sua solida struttura politica ed istituzionale ma esclusivamente per la sua grandezza letteraria.[7][8]

Nella sua lettera a Pinẖas il Giudice, Maimonide parla dei suoi sforzi nei seguenti termini: "Sono stato preceduto da grandi saggi e studiosi che hanno compilato trattati e promulgato giudizi halakhici sia in ebraico che in arabo su materie ben note. Ma a promulgare giudizi riguardo all'intero Talmud e a tutte le leggi della Torah — in ciò nessuno mi ha preceduto sin dal nostro santo Rabbino [cioè, R. Giuda il Principe, compilatore della Mishnah] ed i suoi santi colleghi" (Iggerot, pp. 440-441). In verità, l'impresa di Maimonide eclissa persino la Mishnah di R. Giuda il Principe, La Mishnah, a differenza della Mishneh Torah, incorpora dissensi e opinioni minoritarie, ed il suo redattore non pare avesse inteso di occuparsi sistematicamente della Torah intera. Mai prima nessun ebreo aveva tentato di provocare due trasformazioni così importanti, una del pensiero ebraico e l'altra della halakhah. Queste trasformazioni erano intese a reinterpretare l'Ebraismo come religione idonea alle sensibilità della religiosità filosofica e a creare una halakhah unificata ed accessibile che fosse accettata da tutte le comunità ebraiche, ovunque si trovassero. Questo grande profugo dell'Andalusia tentò di compiere queste trasformazioni senza alcun supporto e senza organizzazione o autorità formale; si basò soltanto sulla grande potenza del suo spirito e del suo intelletto.[8][6]

Nel complesso, si può dire che Maimonide non riuscì a provocare le trasformazioni che sperava. La Mishneh Torah certamente divenne un'opera univocamente importante nella storia della halakaha ed un'inesauribile fonte di ispirazione per le generazioni di studenti che cercarono di estrarne le sue profonde interpretazioni. Ma il trattato non venne accettato come se fosse la halakhah stessa, e certamente non alterò fondamentalmente la struttura halakhica frammentaria delle comunità. Sviluppi paralleli nel campo della halakhah preclusero possibilità di tal genere. Il periodo in cui Maimonide si aspettava che la Mishneh Torah avesse il suo effetto, fu uno di crescita senza precedenti nella produzione halakhica degli ebrei che vivevano nell'Europa cristiana. I Tosafisti della Francia settentrionale e gli studiosi di Provenza e, in seguito, di Catalogna allargarono la portata del discorso halakhico e offrirono alternative in ciascuna di quelle aree che Maimonide credeva di aver definito una volta per tutte. Questi personaggi halakhici di rilievo considerarono Maimonide uno di loro, inter pares, sommo halakhista, ma non autorità ultima e finale.[8]

Il concetto basilare della halakhah nell'ambito delle comunità ebraiche aschenazite era in contrasto, in maniera sostanziale, con le impostazioni maimonidee di unificazione halakhica. Gli halakhisti di queste comunità dirigevano le proprie energie a produrre novellae in ogni area, diversificando pertanto la halakhah e ampliandola. Gli studiosi aschenaziti vedevano la halakhah prima di tutto come una tradizione vivente delle comunità, basata su diverse costumanze ataviche; l'autorità del rabbino, piuttosto che quella del trattato, era centrale nel procedimento di giudizi e sentenze. La Mishneh Torah veniva reputata la posizione di una persona — importante quanto si voglia, certo, ma non vincolante come opera halakhicha.[7]

Le cose erano differenti nel mondo sefardita. Lì, la Mishneh Torah divenne un testo importante e autorevole, in parte a causa della sua potente influenza sul Shulẖan Arukh, il codice halakhico scritto da R. Joseph Karo nel XVI secolo. Tale influenza è evidente non solo in risoluzioni halakhiche specifiche ma anche in formulazioni che Karo estrasse dalla Mishneh Torah e nel modello stesso di trattato che organizzava la halakhah per argomento. Ma anche lo Shulẖan Arukh non si basava esclusivamente sui giudizi di Maimonide. R. Joseph Karo affermò che le sue decisioni si problemi disputati si basavano su posizioni della maggioranza tra tre studiosi che lo avevano preceduto: R. Isaac Alfasi (il Rif), Maimonide, e R. Asher ben Yeẖiel (Rosh). Maimonide aveva maggior peso nell'organizzazione e formulazione dello Shulẖan Arukh di quanto non lo avesser il Rif o Rosh, ma quando determinazioni halakhiche specifiche erano necessarie, Maimonide era solo uno tra i tre.[7]

Inoltre, da una prospettiva storica a lungo termine, sembra che la Mishneh Torah in realtà affrettasse l'apparizione di una tendenza che Maimonide evidentemente voleva prevenire. Maimonide credeva che il sua trattato potesse stabilizzare la crescita incontrollata dell'organismo halakhico e alterare la struttura dello studio ebraico, ridirigendolo da un'attenzione esclusiva alla lettera della halakhah verso una maggiore focalizzazione sul Racconto della Creazione e sul Racconto del Carro. Ironicamente però, l'opera diede un contributo decisivo ad allargare proprio quel discorso che desiderava stabilizzare. Generazioni di studiosi hanno faticosamente sondato le fonti di Maimonide ed il modo in cui interpretò passi talmudici per cercar di risolvere contraddizioni interne alla Mishneh Torah. Il processo è evidente in dozzine di eruditi trattati scritti sulla Mishneh Torah a tutt'oggi. Lo sforzo di risolvere un passo difficile della Mishneh Tora — "un Rambam difficile" detto nel gergo della yeashivah — è basilare per l'istruzione di qualsiasi vero o potenziale "genio" talmudico.[8]

Maimonide credeva che il grande ruolo dell'Ebraismo fosse quello di liberare l'uomo dai bisogni basilari, dalle paure, dai desideri e appetiti, e spostarlo verso una dimensione spirituale e intellettuale più alta, dove potesse apparire come creatura totalmente umana. Soprattutto egli disprezzava quell'approccio che vedeva l'Ebrasimo stesso come strumento per realizzare quegli impulsi mondani. Le sue affermazioni polemiche più dure sono dirette contro due bersagli fissi — la personificazione e corporeità di Dio, e il rendere la religione un sistema magico inteso primariamente a mantenere l'uomo e soddisfarne i bisogni. La morsa di questi comportamenti — visti come necessari per la conservazione della vita — ha un'influenza potente sulla società nel suo complesso, e Maimonide capì tale dinamica completamente. Sapeva bene, per esempio, che diversi correligionari della sua sinagoga credevano che in futuro, nel mondo a venire, avrebbero goduto di ricompense materiali per aver studiato la Torah in questo mondo. La loro rinuncia a desideri di base non era altro che una graticiazione differita, sulla premessa che i loro desideri sarebbero stati realizzati postumi. Invece di elevarli a più alti aneliti, la Torah in effetti diventava un mezzo per ottenere un appagamento totale dell'impulso umano al piacere. I tonanti pronunciamenti delle "Leggi del Pentimento" e l'introduzione a Pereq Heleq, in cui Maimonide cercò di estirpare questa immagine del mondo a venire, furono solo un piccolo passo in una battaglia infinita senza speranza. In un certo modo, fu una battaglia che si concluse con la sconfitta; infatti, persino la presunta tomba di Maimonide a Tiberiade è diventata un sito di culto. A coloro che giungono presso la tomba per confessare le proprie pene, non importa assolutamente se Maimonide approvasse o contestasse tale comportamento presso le tombe dei giusti.Per costoro, come per molti altri, la religione è intesa soprattutto ad assicurare la propria sopravvivenza, salute e progenie; il suo ruolo di innalzare l'uomo verso il sublime è secondario. La religione ha sempre avuto un ruolo da giocare nel soddisfare le esigenze basilari dell'uomo. Anche Maimonide credeva che osservare la halakhah potesse promuovere prosperità, una società ben ordinata, generosità, e salute, ma non pensava che sarebbe stata la causa diretta di tali risultati felici. Li promuoveva invece perché osservare la halakhah in effetti ne è la relativa propria ricompensa. Ma il suo impegno a presentare l'Ebraismo come religione il cui scopo primario è di elevare l'uomo al livello di esistenza che sta oltre le paure e gli impulsi fondamentali della vita, andava direttamente contro la tendenza opposta, che utilizzava la stessa religione come mezzo per alleviare quelle paure e soddisfare quegli impulsi.[8][6]

La trasformazione spirituale che Maimonide sperava di provocare rimase una voce importante e centrale tra le altre molte che il pensiero ebraico sviluppò nei secoli. Egli lasciò una testimonianza potente per un tipo di impostazione reigiosa che poteva essere una possibile interpretazione dell'Ebraismo: un impegno religioso volto a purificare ed esaltare l'immagine di Dio; a vedere la saggezza divina nella causalità e nella natura; ai comandamenti della Torah quale fonte più grande di ispirazione verso l'esperienza religiosa e la redenzione dell'anima. La reputazione di Maimonide come gigante tra gli halakhisti, insieme alla profondità del suo pensiero, mantennero la visione religiosa da lui creata come una possibilità vera e stimolante, anche se le sue caratteristiche severe tesero a marginalizzarla sulla scena della vita ebraica. Inoltre, anche per coloro che non condividono le prospettive metafisiche e religiose specifiche di Maimonide e non sono influenzati dalla sua impostazione fondamentale, ha lasciato una testimonianza più basilare che riecheggia in tutte le generazioni a lui successive. I perplessi che appaiono dopo la Guida, in altre circostanze storiche e differenti tipi di crisi, hanno imparato da Maimonide che qualunque sia la risoluzione della loro perplessità esistenziale, non devono mai permetterle di precludere il pensiero umano e l'integrità interiore. Tale sorta di autodistruzione è un prezzo che non deve mai esser preteso dal credente; infatti, ne sminuirebbe il suo mondo e comprometterebbe ciò che è umano in esso. Eliminando la distinzione tra esteriore ed interiore, tra ciò che fluisce dalla tradizione interna e ciò che ne è esterno, Maimonide trasformò l'altra voce, quella esteriore, in una potente opportunità di rinnovamento e di più profonda religiosità.[7][6]

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 1,2 1,3 1,4 1,5 1,6 Joseph Stern, "Maimonides` Epistemology", The Cambridge Comapanion to Maimonides, K. Seeskin (cur.), Cambridge University Press, 2005, pp. 105-133; id, "Maimonides on the Growth of Knowledge and the Limitation of the Intellect", Maimonides, 2004, pp. 143-191; Alfred Ivry, "The Problematics of the Ideal of Human Perfection for Maimonides", The Thought of Moses Maimonides, Ira Robinson, Lawrence Kaplan & Julien Bauer (curatori), E. Mellen Press, 1983, pp. 16-26.
  2. 2,0 2,1 2,2 Arthur Hyman, "Maimonides on Religious Language", in Joel L. Kraemer (cur.), Perspectives on Maimonides, Littman Library, 1991, pp. 175-191.
  3. David Blumenthal, "Maimonides Philosophic Mysticism", Philosophic Mysticism, 2006, pp. 128-151; Alfred Ivri, "Islamic and Greek Influences on Maimonides` Philosophy", Maimonides and Philosophy, S. Pines & Y. Yovel (curatori), Kluwer Academic Press, 1986, pp. 139-156.
  4. 4,0 4,1 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp.354-357.
  5. 5,0 5,1 5,2 5,3 5,4 Kenneth Seeskin, Maimonides: A Guide for Todays' Perplexed, Behrman House, 1991, pp. 201-229 & passim; Gad Freudenthal, "Maimonide on the Knowability of the Heavens and of Their Mover (Guide II:24)", Aleph 8, 2008, pp. 151-157.
  6. 6,0 6,1 6,2 6,3 6,4 6,5 6,6 Sarah Stroumsa, "The Guide and Maimonides Philosophical Sources", The Cambridge Companion to Maimonides, K. Seeskin (cur.), Cambridge University Press, 2005, pp. 58-81.
  7. 7,0 7,1 7,2 7,3 7,4 7,5 7,6 7,7 7,8 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 358-368.
  8. 8,0 8,1 8,2 8,3 8,4 Dov Rapel, "Maimonides` Didactic Policy in the Mishneh Torah", Mikhtam le-David: Memorial Book for Rabbi David Oaks, Bar Ilan University Press, 1978, pp. 291-298.