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Guida maimonidea/Etica e fede

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Indice del libro
Frammento rinvenuto nella Geniza del Cairo[1]

Nel suo Saggio sulla risurrezione, Maimonide descrisse un incontro con un illustre studioso che aveva dubbi se Dio fosse corporeo o meno: "Ho incontrato alcuni che pensano di essere tra i saggi di Israele — per Dio, questi sanno veramente la via della Legge, sin dall'infanzia, e si dibattono in discussioni giuridiche — ma non sono sicuri se Dio sia corporeo, con occhi, mani e piedi... o se Egli abbia un corpo." Altri studiosi che Maimonide conosceva erano certi di saperlo: "Altri, che ho conosciuto in certe terre, asseriscono positivamente che Egli sia corporeo e chiamano miscredente chiunque non la pensi differentemente... Ho ricevuto notizie simili anche di alcuni che non ho incontrato" (Saggio sulla risurrezione, p. 212).

Incontri come questi rafforzavano la posizione di Maimonide che la conoscenza della halakhah non era in alcun modo collegata alla conoscenza di Dio e non forniva garanzie di estirpare credenze erronee — credenze che Maimonide considerava inferiori persino all'idolatria. Poiché la formazione talmudica non provvede gli strumenti necessari a comprendere i principi di fede, il saggio può benessimo essere ignorante dei principi di fede anche se è erudito in tutti i dettagli della halakhah. Come risultato, costui può adorare un dio fisico, e quindi estraneo, anche mentre dimostra grande meticolosità nell'osservanza della halakhah.[2] Maimonide pertanto decise di inserire i principi di fede in qualsiasi trattato halakhico avrebbe scritto:

« Conclusi che era necessario che io elucidassi chiaramente i fondamenti religiosi nelle mie opere di legge. Determinai di non insegnare queste verità basilari nell'idioma della ricerca... Pubblicai quindi i principi che necessitavano di essere riconosciuti, nell'introduzione al Commentario alla Mishnah in merito alla profezia e le radici della tradizione e quello che ogni Rabbanita doveva credere circa la Legge Orale. Nel capitolo 10 di Sanhedrin spiegai i fondamenti connessi con l'inizio e la fine, cioè, cosa si riferisce all'unità di Dio e la parola a venire e altri principi della Torah. »
(Saggio sulla risurrezione)

I 13 principi della fede
(dal Pirush Hamishnayot[3] di Maimonide)

  1. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il Creatore e la Guida di tutti gli esseri creati, e che Egli solo ha creato, crea e creerà tutte le cose.
  2. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è Uno; che non vi è unicità in alcun modo come la Sua, e che Egli solo è nostro Dio, lo è stato, lo è e lo sarà sempre.
  3. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è incorporeo; che non possiede alcuna proprietà materiale; che non esiste assolutamente alcuna somiglianza (fisica) a Lui.
  4. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il Primo e l'Ultimo.
  5. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il solo a cui è giusto pregare, e che non è giusto pregare ad altri che a Lui.
  6. Credo con fede assoluta che tutte le parole dei Profeti siano vere.
  7. Credo con fede assoluta che la Profezia di Mosè nostra Guida, la pace sia con lui, è vera; e che egli è stato il capo dei Profeti, sia di quelli che l'hanno preceduto, sia di quelli che l'hanno seguito.
  8. Credo con fede assoluta che tutta la Torah che ora possediamo, è la stessa che fu data a Mosè nostra Guida, la pace sia con lui.
  9. Credo con fede assoluta che questa Torah non sarà mai sostituita, e che non vi sarà alcuna altra Torah data dal Creatore, benedetto sia il Suo Nome
  10. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, conosca tutte le azioni e tutti i pensieri degli esseri umani, come è scritto:"Egli è colui che, solo, ha formato il cuore di loro tutti, che comprende tutte le opere loro." (Salmi 33:15).
  11. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, ricompensa coloro che osservano i Suoi Comandamenti e punisce quelli che il trasgrediscono.
  12. Credo con fede assoluta nella venuta del Messia e, anche se dovesse tardare, pur tuttavia attendo ogni giorno la sua venuta.
  13. Credo con fede assoluta nella risurrezione dei morti all'ora che sarà volontà del Creatore, benedetto sia il Suo Nome e glorificata sia la Sua rimembranza nei secoli dei secoli.

Sin dall'inizio dunque, Maimonide decise di introdurre elementi filosofici nei suoi scritti halakhici. Nota che il Commentario alla Mishnah era inteso non solo ad introdurre, in modo onnicomprensivo e ordinato, i supporti della halakhah e dei suoi principi, ma anche ad avere un ruolo nell'insegnare opinioni e credenze.

Un'affermazione vincolante dei principi di fede appare nell'introduzione al commentario nel capitolo della Mishnah noto come Pereq Ḫeleq (decimo capitolo del Trattato Sanhedrin).[4] Maimonide lì formula tredici principi di fede, suddivisi in tre gruppi.[5]

Il primo gruppo, che comprende i principi 1-5, tratta dei principi metafisici relativi alla natura della divinità:

1. L'esistenza di Dio — la conoscenza che esiste un Dio che è la causa di tutta l'esistenza ma che Egli Stesso è oltre l'esistenza e non da essa dipendente.
2. L'unità di Dio — la conoscenza che Dio è uno e indivisibile.
3. L'incorporeità di Dio — Dio non è né un corpo né una forza dentro un corpo, e i versetti biblici che sembrano riferirsi a Lui come tali devono quindi essere letti allegoricamente.
4. La preesistenza di Dio — Dio preesistette tutto e creò l'universo.
5. Dio come soggetto esclusivo di adorazione — solo Dio, e non qualsiasi creatura, è degno di essere adorato.

Il secondo gruppo, che contiene i principi 6-9, motiva la fede nella Torah e la sua autorevolezza:

6. Profezia — la conoscenza che la profezia esiste.
7. La supremazia della profezia di Mosè — la convinzione che Mosè nostro maestro raggiunse il pinnacolo della profezia e che nessun altro profeta della sua statura lo precedette o succedette. Questo principio espande in dettaglio le caratteristiche per cui la profezia di Mosè è unica.
8. Torah dal cielo — la convinzione che la Torah data da Mosè è interamente dalla bocca di Dio.
9. L'immutabilità della Torah — la Torah non sarà mai annullata, integrata, o diminuita.

Il terzo gruppo, i principi 10-13, riguardano la fede nella ricompensa e punizione:

10. Onniscienza divina — Dio tutte le azioni del genere umano.
11. Ricompensa e punizione — Dio ricompensa coloro che osservano la Torah e punisce chi la trasgredisce.
12. La fede nella venuta del Messiah.
13. La fede nella risurrezione dei morti.

Questi principi di fede non sono semplici idee a cui uno aspira; sono, per Maimonide, dogma vincolanti che definiscono i limiti della comunità ebraica. La mette in questo modo, a seguito della lista dei principi:

« Quando un uomo accetta tutti questi principi, credendoci pienamente, egli entra nella comunità di Israele e noi siamo tenuti ad amarlo, dimostrargli compassione, e con lui adempiere tutti i doveri che Dio ci ha imposto in merito all'amore e alla fratellanza... Ma se rifiuta uno di questi principi, egli abbandona la comunità e nega [la Torah], e viene chiamato eretico ed apostata, e noi siamo obbligati ad odiarlo e distruggerlo. Di lui è detto: "Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano e non detesto i tuoi nemici?" (Salmi 139:21) »
(Introduzione a Pereq Ḫeleq)

L'accettazione di questi principi investe la persona con l'appartenenza alla comunità d'Israele, gli riconosce i diritti goduti dai membri di tale comunità e lo indica come uno che deve essere trattato, in solidarietà, con l'amore e la compassione che tutti gli ebrei devono dimostrarsi reciprocamente. Fintanto che la persona accetta questi principi, la sua appartenenza alla comunità è mantenuta anche se pecca. Al contrario, la negazione di uno di questi principi rigetta l'apostata dall'appartenenza alla comunità. perde la sua condizione di uno a cui si riconoscono certi diritti giuridici e viene soggetto ad odio e distruzione: "siamo obbligati ad odiarlo e distruggerlo."[5]

Questa formulazione di principi di fede vincolanti — principi che formano la base di appartenenza alla comunità d'Israele e definiscono che ha lasciato tale comunità — fu veramente un passo rivoluzionario nella storia del pensiero ebraico.[6] Maimonide associò i principi alla Mishnah nel trattato Sanhedrin, ma i saggi del Talmud non formularono mai dei principi di fede. L'appartenenza alla comunità era determinata primariamente riferendosi alle norme di condotta che dimostrano fedeltà alla halakhah, ed un buon grado di diversità era permesso rispetto alle questioni di opinione e fede.[6]

Quanto sopra è vero riguardoè a quasi tutti i principi che Maimonide formulò. Alcuni saggi pensavano che Dio fosse corporeo; altri pregavano tramite intercessori come per esempio gli angeli; altri ancora credevano che il Messia sarebbe stato un profeta più grande di Mosè; e altri sostenevano che la Torah sarebbe stata annullata alla fine del mondo. Oltre a ciò, il Talmud solleva la possibilità che il Messia non sarebbe più venuto, perché il tempo della sua venuta era stato fatto passare. La letteratura rabbinica è piena di credenze e posizioni in contrasto con ciascuno dei principi di Maimonide, poiché quella letteratura vedeva la fede non come una serie di stretti principi cognitivi, il rispetto dei quali era una condizione indispensabile all'apartenenza alla comunità ebraica, ma semplicemente come un affidamento a Dio e dedizione a Lui ed alla Sua parola. Non c'è quindi da stupirsi che nelle generazioni successive a Maimonide, pensatori come Hasdai Crescas, Joseph Albo e Isaac Abrabanel stabilirono alternative ai tredici principi di Maimonide. L'opposizione tradizionale a questo approccio fu espresso chiaramente nel XIX secolo da R. Moses Sofer (detto Hatam Sofer), che asserì che all'ebreo non era richiesto di credere a nient'altro se non che la Torah veniva dal cielo. Tale fede era vincolante perché formava la base cognitiva dell'osservanza diligente dei comandamenti, ed era la condizione necessaria per avere la piena appartenenza alla comunità di Israele.[6][5]

Detto questo, ci si può allora chiedere cosa spinse Maimonide a fare un passo così radicalmente differente. La risposta implica una svolta profonda nella sua cognizione dell'uomo, svolta causata dall'incontro tra tradizione ebraica e filosofia arabo-aristotelica.[7]

Immortalità e anima

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Testo autografo del Commentario alla Mishnah: la pagina mostra il "Quarto Principio", tratto dalla introduzione al Trattato Sanhedrin, ed include una nota a margine (sinistro) che Maimonide aggiunse in seguito e che quindi non appare nelle edizioni premoderne

L'associazione di Maimonide con la sfera culturale di Aristotele e dei suoi interpreti lo condusse a proporre una lettura innovativa dei concetti teologici basilari dell'Ebraismo, incluso Dio e le Sue qualità, la profezia, la provvidenza, la creazione, ed i miracoli. Ma l'incontro col mondo greco nella sua veste araba implicò un ulteriore scontro, non meno drammatico, riguardo al significato della vita umana e l'realizzazione del potenziale umano. Come Maimonide trattò le complessità e le problematiche del concetto di Dio è un tema che verrà esaminato nei capitoli riguardanti la Guida dei perplessi, poiché l'argomento non viene considerato nel Commentario alla Mishnah. Quest'ultimo è un'opera intesa per tutti gli studenti di letteratura rabbinica e non specificamente per coloro che hanno interiorizzato una veduta aristotelica del mondo, e riguarda il confronto complesso e turbolento col significato dell'umanità e della vita umana. L'internalizzazione profonda del pensiero aristotelico in merito alla natura della vita giusta, come interpretata da al-Farabi, pose un'enfasi maggiore sulla fede come componente centrale dell'identità ebraica.[8]

Nella concezione aristotelica, la qualità definitrice dell'uomo è la sua abilità a distinguere tra verità e falsità. Il potenziale umano è raggiunto mediante l'apprendimento, fino al punto in cui l'intelligenza ne è capace, della verità sul mondo e su Dio. Secondo Aristotele, dopo che l'uomo ha sottratto ciò che condivide con le piante (nutrimento e crescita) e con gli animali non umani (sensi), ciò che rimane è la qualità distintamente umana, cioè, l'intelligenza posta nell'anima. L'attore umano è caratterizzato dalla sua abilità di agire sulla base (o al contrario) della riflessione intelligente. La vita giusta comporta l'adempimento dell'abilità caratteristica dell'uomo, quella di ottenere la conoscenza.[8] Maimonide accettò questa opinione del significato della vita umana, e la Guida descrive l'essenza dell'uomo definendo l'immagine di Dio in lui: "Poiché l'intelletto che Dio fece traboccare nell'uomo e che ne è la perfezione ultima... Fu a causa di ciò che di lui fu detto che fu creato nell'immagine di Dio e in Sua somiglianza (Guida I:2). Perciò, la vita umana ottiene la sua realizzazione attraverso la conoscenza: "La sua perfezione ultima è di diventare razionale in actu, voglio dire, di avere un intelletto in actu; ciò consisterebbe nel suo conoscere tutto riguardo a tutti gli esseri che è nella capacità dell'uomo conoscere secondo la sua perfezione ultima" (Guida III:27).

Si suppone che tutte le altre attività siano asservite a questo più alto proposito. Poiché l'uomo è anche una creatura materiale, necessita di una società ordinata, ben strutturata che possa fornirgli le essenzialità della vita. A tal fine, deve esserci un sistema politico ordinato dalla legge, il cui scopo è trattare dei bisogni corporali. Tale scopo è raggiunto anche dallo sviluppo di qualità morali, sia perché rendono possibile l'esistenza di una società appropriata e regolare sia perché permettono all'uomo di conmtrollare i suoi altri impulsi, presupposto per una vita di ricerca e contemplazione. Nell'introduzione al Commentario alla Mishnah, egli offre la seguente formulazione della vita umana come mezzo per raggiungere lo scopo della ricerca: "Dato che essi [i saggi] scoprirono che il fine [dell'uomo] è soltanto un'attività, e tutte le altre attività sono di conservare la propria esistenza in modo da perfezionare tale unica attività, che è quella di apprendere le cose intelligibili e conoscere le verità come sono. Nel quinto degli Otto Capitoli (introduzione al suo commentario al trattato Avot), questa formulazione appare ancor più energicamente: "È giusto che una persona impieghi tutte le forze della sua anima per avanzare nella conoscenza... e per prefiggeresi un solo proposito, cioè, la comprensione di Dio, che Egli sia glorificato ed esaltato, secondo le abilità della persona, cioè, la sua conoscenza. E deve dedicare tutte le sue azioni, i suoi movimenti e parole, a quello scopo" (Ibid., p. 241).

Il collocamento di questa posizione al centro dell'Ebraismo da parte di Maimonide, ebbe un vasto effetto sullo status della halakhah. I particolari dei comandamenti che richiedevano o proibivano varie azioni non sono lo scopo dell'esistenza religiosa; piuttosto, sono solo il mezzo che permette all'uomo di adempiere il suo proposito come creatura consapevole. La Torah comanda non solo la costruzione di una società retta e lo sviluppo di attributi morali, che siano il mezzo per ottenere la perfezione umana. Oltre a ciò, comanda convinzioni giuste e impegno nella contemplazione come via verso una più alta perfezione.[7]

Il concetto aristotelico tuttavia non è l'unico immaginabile, e si potrebbe assumere una posizione totalmente differente riguardo al significato della vita umana, una posizione che abbia radici profonde nella tradizione ebraica. In tale posizione, all'uomo, solo tra tutte le creature, è concesso il libero arbitrio, e ciò che lo caratterizza è l'abilità di usare la sua volontà per soggiogare i suoi desideri e passioni a leggi e modelli di condotta appropriata. È la halakhah che dirige l'uomo a farlo, e l'adempimento della halakhah in tutti i suoi particolari è l'essenza della distintività umana. La volontà di ottemperare i comandamenti relativi all'azione, e certamente la loro vera osservanza, sono espressione del carattere distintivo umano e della sua perfezione, non l'abilità di distinguere tra vero e falso. Come notato, Maimonide non accetta quest'ultimo concetto, e crede che la perfezione umana si ottenga attraverso l'attività intellettuale. Rende quindi l'adempimento dei comandamenti attivi un mezzo piuttosto che un fine e integra la halakhah con quello che pensa sia uno strato aggiuntivo di impegno molto importante: la formulazione vincolante di credenze ed opinioni vere e proprie riguardo a Dio e al mondo.[9]

Questa modificata percezione dell'essenza umana forma il concetto del mondo a venire presentato nell'introduzione a Pereq Ḫeleq. Maimonide lì cerca di rovesciare l'idea che il mondo a venire sia una ricompensa materiale o una qualche sorta di esistenza fisica dopo la morte. L'immortalità dell'anima, come la vede, non è un miracolo; segue semplicemente e causalmente da un certo modo di vita. Ciò che rimane di una persona dopo la morte è la conoscenza che ha acquisito durante la vita. Secondo l'impostazione aristotelica, l'uomo viene identificato con la sua conoscenza, attraverso la quale il suo intelletto si muove da potenziale a reale. È questa identità che assicura l'immortalità della anima. Invece di essere una ricompensa per aver osservato i comandamenti, il mondo a venire è il risultato di una vita dedita alla comprensione dell'intelligibile. La vita nel mondo a venire è dunque una continuazione pura e raffinata della vita della mente:

« Ed essi dicono, che siano benedetti, "Nel mondo a venire non si mangia, non si beve, non si fanno abluzioni, consacrazioni, rapporti sessuali; piuttosto, i giusti siedono incoronati, godendo dello splendore della presenza di Dio." Con l'espressione "incoronati" intendono l'esistenza dell'anima attraverso l'esistenza di ciò che si è appreso, l'anima e il suo conoscere diventano uno, come hanno detto i filosofi eruditi... E quando dicono "godendo dello splendore della presenza di Dio", intendono che l'anima gode di ciò che ha appreso del Creatore. »
(Introduzione a Pereq Ḫeleq)

Di primo acchito, questo concetto dell'immortalità dell'anima non lascia spazio alla distintività dell'anima sopravvissuta, poiché la porzione di anima che rimane è la raccolta delle verità metafisiche acquisite da una persona durante la propria vita. E infatti, la filosofia ebraica del Medioevo comprende diversi (deboli) tentativi di inserire una dimensione individuale nel concetto aristotelico dell'immortalità dell'anima.[10]

I critici del concetto filosofico maimonideo del mondo a venire erano tuttavia turbati dalla conclusione che agli ebrei che erano stati meticolosi nella propria osservanza di tutti i comandamenti, minori ed i maggiori, sarebbe stato negato accesso al mondo a venire solo perché non si erano impegnati nello studio della saggezza. E quale sarebbe stata la condizione degli ebrei comuni, saldi nel loro impegno religioso, che avevano vissuto vite dedicate alla Torah e ai comandamenti senza prestare attenzione alla questione se Dio fosse o meno corporeo? Ra`abad, uno dei critici più duri della Mishneh Torah, reagì aspramente al giudizio di Maimonide che la fede nella corporeità di Dio costituiva apostasia. In risposta alla posizione di Maimonide che colui che detiene tale credenza si è escluso dalla comunità di Israele e non ha posto nel mondo a venire, Ra`abad infuriò: "E perché chiama colui [che crede nella corporeità di Dio] un apostata, quando alcuni di coloro che sono maggiori e migliori di lui sostenevano quell'idea sulla base di ciò che videro nella Scrittura, più che sulla base di quello che videro negli aggadot rabbinici che provocano idee sbagliate?" (Commento alla Mishneh Torah, "Leggi sul pentimento", 3:7). Ra`abad si oppone a trattare la credenza nella corporeità di Dio come apostasia, sebbene egli stesso la consideri sbagliata.[10]

Questo concetto della perfezione umana e dell'immortalità dell'anima chiama in causa due altri aspetti di ricompensa e punizione nell'ambito della tradizione ebraica — la Geenna e la risurrezione dei morti. Per Maimonide, il concetto della Geenna quale luogo dove le anime soffrono tormenti per i peccati commessi è totalmente insensato. La peggiore punizione per un peccatore è la cessazione dell'anima e la sua dipartita dal mondo. Un peccatore che si è concentrato sulla vita del corpo ad esclusione della vita spirituale scompare dal mondo dopo la morte, e nulla rimane di lui.[10]

Nell'introduzione a Pereq Ḫeleq, dopo la sua identificazione della più grande ricompensa dell'uomo nell'immortalità dell'anima e la comprensione del Creatore, Maimonide parla della punizione peggiore: "Ed il male ultimo è l'escissione dell'anima e la sua perdita, il suo non avere il privilegio di continuare ad esistere... Chiunque si sia appigliato ai piaceri fisici, disprezzando la verità e scegliendo la falsità, viene tagliato fuori da tale beneficio e rimane nient'altro che materia annullata." L'immagine tradizionale — quella dell'anima che lascia il corpo e appare in giudizio davanti ad un tribunale celeste — svanisce in virtù di questa nozione. L'immortalità dell'anima si ottiene attraverso la comprensione dell'intelligibile, e la scomparsa, l'annullamento è il risultato diretto di una vita in cui si è mancato di attuare il proprio potenziale di essere umano. Questa veduta delle cose non lascia spazio alla Geenna come luogo di vasti tormenti e punizioni postmortem, dato che l'anima del peccatore non sopravvive la propria morte e quindi non può essere tormentata. Maimonide, cita comunque la Geenna, ma solo brevemente e senza elaborazione:

« Ma Geenna è un termine per la pena che accade al malvagio, ed il Talmud non chiarisce la natura di tale pena. Alcuni dicono che il sole si avvicina a costoro e li brucia, citando come prova il versetto "Ecco infatti sta per venire il giorno rovente come un forno" (Malachia 3:19), ed altri dicono che una strana febbre appare sui loro corpi e li brucia, citando come prova il versetto "il mio soffio vi divorerà come fuoco." (Isaia 33:11) »
(Introduzione a Pereq Ḫeleq)

Questa brano implica, da una parte, che Maimonide si sentì obbligato a far riferimento al concetto tradizionale della Geenna ma, dall'altra, che non poteva seriamente integrarlo nella sua prospettiva sistematica.

Nel suo Mishneh Torah, "Leggi sul pentimento", Maimonide ribadì queste formulazioni del mondo a venire e dell'immortalità dell'anima, ed enfatizzò le due idee chiave che ci si associavano. Una è che l'immortalità dell'anima è, in effetti, il risultato della connessione della persona con gli oggetti della sua cognizione durante il corso della vita, non un miracolo basato su un'inchiesta di un tribunale celeste che decide, dopo l'ascesa dell'anima al cielo, se questa meriti il bastone o la grazia eterna. L'altra idea è costruita sulla spiritualizzazione della vita religiosa, in quanto la più alta realizzazione dell'uomo è la conoscenza, e che il mondo a venire non fornisce quindi una ricompensa fisica ma la realizzazione perfezionata — e piacevole — di una vita di ricerca e conoscenza.[10]

Maimonide non cita la Geenna nella Mishneh Torah, in accordo con la sua coerente posizione sulla natura dell'uomo e della sua anima. Anche lì egli determina che il peggior male che possa accadere al peccatore è che nulla rimane di lui dopo la morte e che la sua presenza nel mondo è terminata. Nel 1232, dopo la morte di Maimonide, sorse una grande controversia sul Libro della Conoscenza (Sefer ha-Madda, primo volume della Mishneh Torah) e sulla Guida. I critici di Maimonide accusarono che egli non credesse nell'esistenza della Geenna, reputando ciò un ulteriore motivo per bandire il Libro della Conoscenza. Ma lì, come altrove, Maimonide aprì una porta ad una lettura più tradizionale di ciò che aveva scritto, ed i suoi difensori nella polemica, incluso Nahmanide, indicarono la sua citazione della Geenna nell'introduzione a Pereq Ḫeleq o al suo riferimento, nella Mishneh Torah, al giudizio del peccatore.[11] Questa dura disputa sul suo lascito non fu senza ragione, poiché la sua ferma posizione in merito all'anima e alla sua immortalità contraddice il suo breve riferimento alla Geenna. Può darsi che su questo punto i critici di Maimonide capissero la sua vera posizione.[7]

Risurrezione e perfezione

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Tombe nella Valle di Gē-hinnom, nota anche come Geenna, sul lato sud del monte Sion (Israele)

L'interpretazione da parte di Maimonide della natura e scopo della vita umana portò ad un riesame non solo della Geenna ma anche della risurrezione dei morti come elemento centrale del sistema tradizionale di ricompensa e punizione. Questo problema venne a galla durante la vita di Maimonide, a seguito della critica fattagli da Samuel ben Eli. I capitoli della Mishneh Torah che parlano in dettaglio del mondo a venire non menzionano la risurrezione, e Samuel ben Eli sosteneva che non fosse una coincidenza. Secondo Samuel, Maimonide negava la risurrezione del corpo, reputandola allegoricamente come una sopravvivenza dell'anima dopo la morte. La stessa affermazione fu fatta, verso la fine della vita di Maimonide, nel 1202, da R. Meir Halevi Abulafia di Toledo. In risposta a tale accusa, R. Aaron Hakohen di Lunel, un ammiratore provenzale di Maimonide, scrisse una difesa particolareggiata. Maimonide stesso aveva risposto a Samuel ben Eli nel suo Saggio sulla risurrezione, scritto nel 1191. Ma Maimonide negava proprio qualcosa che egli stesso aveva elencato come uno dei principi determinanti l'appartenenza al popolo ebraico? Prima di proporre una risposta a tale domanda, si devono descrivere gli aspetti degli insegnamenti di Maimonide che sollevano la domanda stessa.[12][5][10]

Nei passi del Commentario alla Mishnah e della Mishneh Torah che discutono dei riferimenti biblici alla ricompensa e punizione fisiche, Maimonide propone un argomento chiave: le ricompense fisiche promesse nella Torah per l'osservanza dei comandamenti, come la pioggia, l'assenza di malattie, la prosperità, e l'indipendenza, non sono lo scopo di quell'osservanza. Lo scopo della ricompensa fisica è quello di facilitare la ricerca del vero scopo — la conoscenza del Creatore. Un uomo che si confronta con la sventura, la fame, la malattia, o l'esilio, non sarà libero di perseguire ciò che lo conduce alla perfezione. La sua vita sarà consumata dalle avversità che gli si presentano e non avrà né il tempo psicologico né quello fisico di dedicarsi all'impresa che lo renderebbe veramente capace di svilupparsi. Allora, la ricompensa fisica promessa dalla Torah è semplicemente un modo di liberare l'uomo a seguire aspirazioni più elevate:

« Poiché l'uomo non si può impegnare nel servizio di Dio quando è ammalato, o affamato, o assetato o durante un tempo di guerra; ed Egli dichiarò pertanto che tutto ciò fosse rimosso, e che fossero sani e in pace, cosicché la loro conoscenza di Dio potesse essere perfezionata e si meritassero il mondo a venire. Dato che non è il proposito della Torah che la terra sia riccamente produttiva o che il popolo viva a lungo o abbia corpi sani; piuttosto, essi saranno sostenuti da tutte queste cose nel realizzare [il vero proposito]. »
(Introduzione a Pereq Ḫeleq)

La stessa idea viene ribadita nella Mishneh Torah:

« Egli ci ha inoltre promesso nella Torah che, se osserveremo i relativi ordini gioiosamente e allegramente, e mediteremo continuamente sulla sua [della Torah] saggezza, Egli rimuoverà da noi gli ostacoli che ci impediscono di osservarla, come la malattia, la guerra, la carestia, e altre calamità; e ci conferirà tutti i benefici materiali che rafforzeranno la nostra abilità ad adempiere la legge, come l'abbondanza, la pace, la copiosità d'argento ed oro. Pertanto non occuperemo tutti i nostri giorni a soddisfare i nostri bisogni corporali, ma avremo tempo libero per studiare la saggezza e osservare il comandamento, e quindi ottenere la vita nel mondo a venire. »
(Libro della Conoscenza, "Leggi sul pentimento", 9:1)

L'idea che la ricompensa fisica non è altro che uno stato di benessere che permette alla persona di concentrarsi ad ottenere una più alta perfezione determina anche la posizione di Maimonide in merito all'era messianica. La liberazione politica dalla dominazione straniera che è promessa dall'era messianica è intesa a forgiare le condizioni necessarie per raggiungere la perfezione umana ed il mondo a venire:

« Il grande beneficio di quell'era sarà che avremo tregua dalla servitù ad una tirannia malvagia, che ci impedisce di ottenere la virtù, e ci sarà un aumento di saggezza, poiché è detto, "la saggezza del Signore riempirà la terra" (Isaia 11:9), ed i conflitti e le guerre cessaranno, come è detto, "una nazione non alzerà piú la spada contro un'altra nazione " (Isaia 2:4). Chi sarà in vita a quel tempo otterrà grande perfezione e meriterà la vita nel mondo a venire... I tempi messianici non devono essere desiderati perché ci sarà abbondanza di prodotti e ricchezze o perché cavalcheremo cavalli e berremo da calici preziosi, come credono coloro che hanno la mente confusa. »
(Introduzione a Pereq Ḫeleq)

Questi motivi vengono estesi nella Mishneh Torah: "Pertanto, tutti gli Israeliti, i loro profeti e saggi, desideravano l'avvento dei tempi messianici, affinché potessero avere sollievo dalla tirannia malvagia che non permette loro di occuparsi dello studio della Torah e osservanza dei comandamenti; che potessero essere alleviati e dedicarsi all'ottenimento della sapienza, e quindi raggiungere la vita del mondo a venire" ("Leggi sul pentimento", 9:2). Gli ebrei aspettano con ansia l'era messianica non perché porterà loro potere e gloria dopo generazioni di asservimento; piuttosto, il suo fine è di fornire uno spaqzio politico che consenta la tranquillità e la prosperità necessarie al fiorire della perfezione umana che risulterà nel conseguimento del mondo a venire.[13]

Con questa interpretazione della ricompensa e punizione bibliche, Maimonide si confronta con un problema profondamente esistenziale della coscienza umana. Secondo lui, lo scopo centrale della Torah è di elevare la vita umana ad una dimensione che trascenda le necessità umane e l'appagamento degli impulsi materiali basilari. Il vero appagamento della vita umana sta nell'elevazione del pensiero e della consapevolezza verso la sfera spirituale. La persona che reputa la ricompensa fisica quale meta per osservare i comandamenti, potrebbe trasformare la Torah stessa in un mezzo per soddisfare i suoi impulsi di base. Se il mondo a venire è un luogo dove i desideri fisici — inclusi quelli proibiti in questo mondo — vengono realizzati, allora l'intero scopo della Torah è ridotto ad una preoccupazione di soddisfazione fisica futura, nell'era messianica e nel mondo a venire. Infatti, quando Maimonide spiega il proposito dell'era messianica e dei comandamenti della Torah, afferma che la ricompensa fisica non è la ragione per cui i comandamenti devono essere osservati; al contrario, sono intesi a liberare l'uomo dall'asservimento agli impulsi fisici. La ricompensa fisica non è altro che il mezzo che gli permette di sviluppare gli aspetti più alti della propria esistenza.[13]

Ma ritorniamo alla questione della risurrezione. Se la ricompensa fisica è semplicemente un mezzo per ottenere un'esistenza più alta di perfezione intellettuale, perché l'anima dovrebbe essere riunita al corpo dopo la morte? Di primo acchito, il rientro dell'anima nel corpo sembra più una punizione che una ricompensa.[10] Inoltre, abbiamo visto che l'immortalità dell'anima non è un miracolo strabiliante ma soltanto il risultato naturale della vita di una persona. La risurrezione dei morti, invece, è proprio un evento incomprensibile e meraviglioso — ma an che inutile. Non a caso, i discepoli filosofici di Maimonide reputavano che la risurrezione non foss'altro che un'allegoria per l'immortalità dell'anima spirituale. Maimonide stesso sostenne che alcuni interpretavano i suoi scritti in tal modo, e gliene fu chiesta spiegazione ancor prima che scrivesse il Saggio sulla risurrezione:

« Durante il 1185 mi pervenne una lettera dallo Yemen chiedendo varie informazioni. Riportava inoltre che alcuni di loro avevano deciso che il corpo si dovesse decomporre dopo la morte, che l'anima non sarebbe ritornata al corpo dopo la separazione, e che la ricompensa e la punizione sarebbe stata riservata solo all'anima. Si basavano su quanto avevo scritto sui mebri del mondo a venire. Quando furono portati alla loro attenzione le affermazioni chiare ede esplicite dei saggi, come anche alcuni versetti dei profeti, se ne liberarono affermando che fossero metaforici e richiedessero un'interpretazione. »
(Saggio sulla risurrezione, p. 217)

Si è già vista la difficoltà di trovare un posto per la Geenna nella visione sistematica e filosofica del mondo proposta da Maimonide, e non è meno difficile trovar posto per la risurrezione dei morti in senso stretto.[14] Nel Saggio sulla risurrezione, Maimonide si esonera dall'accusa: egli cita la risurrezione dei morti come principio di fede, la cui negazione rende apostati ed esclusi dalla comunità di israele, ed insiste che in nessun punto nei suoi scritti ha mai asserito che la credenza debba essere allegorica. Egli applicò interpretazioni allegoriche ai versetti che parlano di Dio in termini corporei, poiché è del tutto inverosimile che Dio sia corporeo, ma un miracolo come la risurrezione dei morti è certamente nella sfera del possibile. Colui che nega la fede nella risurrezione in effetti nega la possibilità di un miracolo e quindi considera come allegorie non solo la risurrezione, ma anche tutti i miracoli narrati nella Torah, come la discesa della manna dal cielo, la separazione delle acque, e la trasmutazione del bastone di Mosè in serpente. Tale sorta di linea d'interpretazione è inconcepibile, e viene rifiutata nella Lettera. Tuttavia, Maimonide non dà una spiegazione particolareggiata della risurrezione o del suo fine. Nella sua prospettiva, la natura miracolosa e mirabolante del soggetto preclude la discussione, e si deve solo accettare la fede in questo principio sulla base di relative affermazioni profetiche e rabbiniche.[14]

Una prima lettura della Lettera sulla risurrezione lascia alquanto insoddisfatti. Maimonide rigetta fermamente l'accusa di aver nutrito una convinzione allegorica della risurrezione, citando ripetutamente i suoi riferimenti al concetto nel suo senso comune. Da nessuna parte però fornisce una qualche spiegazione sullo scopo della risurrezione. La risurrezione può certo avvenire, poiché Dio è libero di fare cose che trascendono i confini della natura, ma perché dovrebbe farlo? Quale sarebbe l'obiettivodella risurrezione? Inoltre, Maimonide afferma nella Lettera che la risurrezione sarebbe un qualcosa di temporaneo. Coloro che verrebbero risorti dopo morirebbero nuovamente, e solo allora otterrebbero la vita nel mondo a venire. Ma se ciò è vero, la risurrezione sarebbe semplicemente una strana pausa nel processo il cui unico scopo è una sorta di esistenza più alta nel mondo a venire.[14]

L'indicazione che Maimonide potrebbe non aver creduto in uno dei principi di fede che egli stesso aveva stabilito ci porta a riesaminare la sua interpretazione di cosa si intenda per "principi di fede". Nella Guida, egli si riferisce alla distinzione, che verrà analizzata estensivamente più avanti, tra credenze vere e credenze necessarie. La distinzione ha la sua origine nel pensiero politico greco e arabo, che sostiene che l'ordine sociale si fonda sulla diffusione di credenze utili e necessarie. Platone, al-Farabi e altri credevano che il legislatore o governatore dovesse propagare una visione del mondo che facilitasse l'esistenza dello stato, senza riguardo per la verità o falsità di tale visione. Per esempio, la fede in un Dio che esercita supervisione, concedendo ricompense e imponendo punizioni, è il tipo di credenza che può giocare un ruolo altamente utile a promuovere l'ordine sociale. Una data società potrebbe benissimo sfasciarsi se i suoi membri non credessero che i trasgressori sono destinati a render conto di ogni loro azione.[15]

Questa nozione che l'ordine politico non possa durare in circostanze di assoluta trasparenza metafisica, e che le masse richiedano credenze necessarie, fece parte del pensiero politico fino al XVIII secolo. Fu condiviso da importanti pensatori illuministi, come Baruch Spinoza e John Locke. I primi che osarono sostenere che una società ben ordinata ma ateista fosse possibile furono David Hume e Pierre Bayle. Data questa venerabile tradizione di considerare il mito come parte necessaria dell'ordine politico, non si deve assumere che quando Maimonide promulgò i principi di fede, egli intendesse solo impartire le vere convinzioni essenziali all'ottenimento della perfezione umana. La promulgazione di tali principi serve anche il proposito di stabilire le credenze necessarie che facilitino un giusto ordine sociale.[15][12]

Nella Guida, Maimonide formula il suo duplice intento riguardo alle credenze esposte nella Torah:

« Tra le cose alle quali devi prestare attenzione è che devi sapere che in merito alle opinioni corrette mediante le quali si ottiene la perfezione ultima, la Legge ha comunicato soltanto la loro fine e chiama a crederci in modo sommario — cioè, credere nell'esistenza della divinità, che Egli sia glorificato, la Sua unità, la Sua conoscenza, la Sua potenza, la Sua volontà, e la Sua eternità... Allo stesso modo, la Legge chiama anche ad adottare certe credenze, credere nelle quali è necessario per amore del benessere politico. Tale, per esempio, è la nostra credenza che Egli, che Egli sia esaltato, possa essere irato con coloro che Lo disobbediscono e che sia quindi necessario temerLo e aver paura di Lui e far sì di non disobbedire. »
(Guida, III:28)

Mentre le credenze metafisiche relative alla divinità sono credenze vere, la credenza nell'ira di Dio contro i peccatori non è una credenza vera, poiché Dio non ha anima ed è impossibile descriverLo come irato. Tuttavia la credenza è necessaria per dissuadere le persone dal peccare. La distinzione tra credenze vere e credenze necessarie viene ribadita nella conclusione di quel capitolo:

« Riassumendo quello che abbiamo detto in merito alle credenze come segue: In alcuni casi un comandamento comunica una credenza corretta, che è la sola cosa a cui si mira — come, per esempio, la credenza nell'unità ed eternità della divinità ed il Suo non essere un corpo. In altri casi, la credenza è necessaria per l'abolizione di malefatte reciproche o per l'acquisizione di una nobile qualità morale — come, per esempio, la credenza che Egli, che Egli sia glorificato, provi un'ira violenta contro coloro che commettono ingiustizie, secondo quanto è detto: E la Mia ira sarà furente, ed Io ucciderò, e così via; e come la credenza che Egli, che Egli sia esaltato, risponda istantaneamente alla preghiera di uno che ha subito ingiustizia o inganno: E quando invocherà da Me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché Io sono pietoso (Esodo 22:27). »
(Guida, pp. 513-514)

E pertanto i principi di fede che servono un duplice scopo includono un livello di credenze necessarie che le masse farebbero bene ad assimilare e osservare e la cui verità dovrebbe essere proclamata dai filosofi. Se una credenza debba essere classificata come vera o necessaria è una difficoltà fondamentale nel pensiero di Maimonide.[15] A questo punto, prima di esaminare la questione in profondità, possiamo dire che molti principi elencati nell'introduzione a Pereq Ḫeleq sono formulati in maniera consistente con il loro essere credenze necessarie. Le credenze in un Dio che sorveglia il comportamento umano e nella ricompensa e punzione rientrano in tale categoria: Dio supervisiona le azioni umane, premiando coloro che adempiono i comandi della Torah e punendo coloro che trasgrediscono.[15] Queste credenze sono certamente essenziali ad un giusto ordine sociale, ma l'opinione maimonidea della provvidenza e di ricompensa/punizione, che considereremo più sotto, differisce dalle formulazioni esposte nei tredici principi ed è molto più complessa. È sicuramente possibile che la fede nella risurrezione e le altre credenze connesse alla provvidenza e a ricompensa/punizione incluse nei tredici principi, fossero interpretate da Maimonide come credenze necessarie dopo che erano state identificate dai saggi come fondamentali articoli di fede.[15][12]

Obbligo e virtù

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Gli Otto Capitoli di Maimonide sull'Etica, in ebraico e inglese (1912)[16]

Un modo di vita comprende più delle convinzioni e dei doveri condivisi da una data comunità. Include anche una nozione del tipo umano ideale, le cui caratteristiche sono riconosciute implicitamente seppure non esplicitamente. Per esempio, varie culture a volte generano uno stato d'animo normativo, che sia malinconico o gioioso, e a volte persino un modo normativo di camminare in una piazza pubblica: si deve camminare piano e con calma, o è meglio camminare svelti, comunicando un senso di urgenza ed operosità? Si deve tenere la testa eretta, gli occhi fissi in avanti, o è meglio adottare un comportamento più modesto, con gli occhi bassi? Una sorta di coreografia particolare, naturalmente, non è sempre condivisa dalla comunità intera — quella degli uomini divergerà da quella delle donne, per esempio, e quella dei ricchi divergerà da quella dei poveri. Un cambiamento dei valori basilari della comunità a volte apporterà un cambiamento significativo nelle qualità che sono considerate ammirevoli. Un cambiamento ideologico di questo tipo penetrerà gli strati più essenziali della vita di una comunità, formando personalità e influenzando persino dettagli come il tono verbale, il linguaggio del corpo, e la propria presentazione in pubblico.[17]

Avot è il trattato mishnaico il cui tema è il più riflessivo di queste problematiche. Non formula proibizioni o requisiti comportamentali, come fanno gli altri trattati, né presenta dogmi confessionali. Illustra una personalità — più precisamente, diverse personalità — e cerca di costruire un modello umano sulla base delle loro qualità ed inclinazioni. Di conseguenza, fu del tutto naturale che Maimonide usasse il suo commentario di questo trattato, specialmente la sua introduzione, per descrivere la sua opinione del giusto carattere umano. Tale descrizione, come si è visto precedentemente, nacque dai suoi legami con la tradizione greco-araba.[18]

L'etica aristotelica è un'etica di virtù e caratteristiche personali piuttosto che doveri e regole. Poiché il suo interesse basilare è la natura della vita buona e giusta, non si può accontentare col definire le regole che governano le relazioni interpersonali in situazioni dove le persone sono in grado di nuocersi o trarre beneficio l'una dall'altra; comprende un dominio molto più vasto. Prende in considerazione questioni come il comportamento di una persona verso la ricchezza o il grado di gravità o noncuranza che si deve assumere con gli altri. Particolareggia e formula le qualità dell'anima umana, come la generosità, il coraggio, la magnanimità, amicizia e autocontrollo.[19]

Questa sorta di impostazione presuppone che le reazioni emotive siano un'espressione profonda dei giudizi e delle affinità. Si consideri, per esempio, l'emozione della paura: la persona che ha paura crede che qualcosa di brutto gli possa accadere e recargli ingiuria. Il sentimento non è semplicemente una sensazione fisica, come dolore o fame; è piuttosto un'espressione di convinzione sul circostante stato delle cose.[17] Il sentimento di colpa, a differenza della paura, esprime la convinzione che la persona abbia fatto qualcosa di sbagliato, ma non che qualcosa di brutto gli possa accadere. La convinzione espressa mediante una reazione emotiva determina il sentimento che verrà percepit emotive di una persona sono o. Come possiamo dire, per esempio, che sentiamo paura invece di colpa? Possiamo farlo non perché paura e colpa implicano sensazioni diverse, ma perché le due emozioni esprimono differenti convinzioni sulla natura del mondo. Inoltre, l'emozione esprime un comportamento verso il mondo, una valutazione della situazione. Una persona che si sente impaurito indica qualcosa non solo sulla convinzione che una perdita sia possibile ma anche sul suo attaccamento all'oggetto che non vuol perdere o che gli sta provocando ansietà.[19]

Questa concezione della vita emotiva incide sul ruolo del saggio e del filosofo come guaritore di anime e sull'essenza della filosofia come terapia psicologica. Il malessere psicologico dscrive una situazione in cui le reazioni inadeguate all reale stato delle cose nel mondo. Ritornando all'esempio della paura, possiamo dire che l'ansia é irrazionale se non riesce a riconoscere che la convinzione espressa è un'illusione. Colui che ossessivamente ritorna a casa a controllare se ha chiuso il rubinetto del gas prova questo tipo di ansia. Ma una reazione di paura può riflettere accuratamente uno stato di cose nel mondo, mentre esprime anche un comportamento inadeguato verso ciò che sta succedendo. Uno che è preoccupato di perdere le cellule epidermiche della mani mentre se le sfrega, ha una percezione accurata della realtà ma è inappropriatamente affezionato alle specifiche cellule che sta perdendo, poiché ben sappiamo che saranno sostituite da altre. Sanare la psiche vuol dire promuovere reazioni emotive che riflettano convinzioni e affezioni appropriate. In linea con questa tradizione, Maimonide considera il saggio un guaritore d'anime.[19][20]

Il segno di buon carattere e qualità positive è che l'individuo che le possiede agirà virtuosamente a ragione della sua personalità e non avrà bisogno di usare la sua volontà per sopprimere le sue inclinazioni. La persona perfezionata non sentirà di soffrire quando agisce virtuosamente, poiché si sarà esercitato a farlo. La persona generosa si sentirà felice quando dona alla carità, dato che l'azione è consistente con la sua personalità. Un avaro, in contrasto, si sentirà angosciato quando usa la propria ricchezza per aiutare un povero. La differenza tra la persona superiore e quella ordinaria sarà evidente nel grado d'ansia che percepisce nell'eseguire un'azione virtuosa. L'ansia o il dolore che può essere associato all'esecuzione di un'azione virtuosa riflette un difetto caratteriale nell'attore e il suo bisogno di essere forte abbastanza per sottomettere le proprie inclinazioni alla volontà. Ansia di tale tipo indica che anche se una persona ha agito giustamente e ha fatto ciò che doveva esser fatto, la sue qualità psichiche rimangono alquanto lontane da quelle a cui aspira. Una vita etica è quella in cui le inclinazioni emotive corrispondono alle azioni virtuose. In tal modo uno integra nelle sue reazioni emotive la sua unicità come creatura abile ad esercitare giudizio e realizzare il vero ideale umano nella sua personalità.[19][18]

Tuttavia, questa inclinazione a fare il bene non è il solo modello di moralità; una posizione morale alternativa si concentra sul concetto dell'obbligo, del dovere. Tale posizione fu fortemente affermata da Immanuel Kant, che negò che ci fosse un qualsiasi significato in un'azione eseguita solo a causa della propria inclinazione naturale. Una persona che fa della carità perché si sente compassionevole può certo agire secondo il proprio dovere, ma non agisce per un senso del dovere. L'atto morale deve essere eseguito indipendentemente dalle inclinazioni della persona; deve riflettere la capacità di sottomettere le proprie inclinazioni ad un imperativo categorico. Perciò l'educazione morale non si basa su una formazione intesa a rendere compatibili le proprie disposizioni con le azioni virtuose; si basa piuttosto sulla premessa che una persona abbia la capacità, come libero agente, di agire secondo dovere nonostante le sue inclinazioni. Una persona morale assolverà i suoi obblighi senza preoccuparsi del suo stato mentale o delle sue propensioni passionali; e la vita morale fondamentalmente è un'espressione eroica della volontà umana, che funziona secondo il dovere iompostogli.[21][22]

La posizione filosofica di Kant riflette in molti modi un'impostazione venerabile che reputa la vita morale quella in cui la persona resiste con successo ai propri desideri: una prospettiva centrata sul dovere afferma — contrariamente all'idea aristotelica — che più duramente la persona deve combattere contro i suoi impulsi e istinti, più grande è la sua statura.[17] Lottando arduamente contro i propri istinti, tale persona esprime non solo la forza della propria volontà ma anche la sua abilità a sacrificare i suoi desideri — incluso il desiderio più fondamentale di tutti, il desiderio di vivere — sull'altare del dovere. Tracce di questa opinione appaiono nella letteratura rabbinica e nella tradizione ebraica attraverso i secoli, poiché la tradizione ebraica mette il concetto del comandamento al centro della consapevolezza religiosa e morale.[17] Non c'è quindi da sorprendersi che gli insegnamenti di Kant si siano rivelati attraenti per diversi pensatori ebraici moderni, che riconoscono la somiglianza tra l'imperativo categorico di Kant e il comandamento assoluto dell'Ebraismo.[22]

Maimonide internalizzò l'etica aristotelica del buon carattere e la introdusse al centro dell'Ebraismo. Farlo gli richiese di analizzare profondamente gli elementi di moralità basata sul dovere che permeavano la tradizione. Il Capitolo 6 della sua introduzione all’Avot è l'arena dove mette a confronto la moralità basata sulla virtù e quella sul dovere. Inizia con una dichiarazione della posizione aristotelica:

« I filosofi sostengono che sebbene l'uomo dell'autocontrollo esegua atti morali e lodevoli, tuttavia lo fa mentre allo stesso tempo e continuamente desidera atti immorali, ma, soggiogando le sue passioni e lottando attivamente contro il desiderio di fare quelle cose che le sue facoltà, passioni e disposizione psichica lo eccitano, egli riesce, sebbene con costante irritazione e fastidio, ad agire moralmente. Il sant'uomo, però, è guidato nelle sue azioni da ciò che incita la sua inclinazione e disposizione, a causa delle quali egli agisce moralmente per desiderio e anelito innati. I filosofi unanimemente ammettono che quest'ultimo sia superiore, e più perfetto, del primo che deve frenare le proprie passioni, sebbene aggiungano che sia possibile a questo primo uguagliare il sant'uomo in molti aspetti. »
(Otto Capitoli, pp. 376-377)

Una persona idonea non soggioga il proprio desiderio di commettere una cattiva azione; piuttosto, la buona azione scaturisce naturalmente da lui ed è coerente alle sue predisposizioni. Ma Maimonide è ben consapevole dell'altra corrente di pensiero, che appare nel Talmud, e la mette a paragone con la posizione filosofica:

« Quando però consultiamo i rabbini su questa materia, sembra ch essi considerino colui che desidera iniquità e la brama (ma non la commette), più lodevole e perfetto di colui che non sente tormento a rigettare il male; e arrivano fino al punto di affermare che più l'uomo è lodevole e perfetto, più grande è il suo desiderio di commettere iniquità e più irritazione sente nel dover desisterne. Esprimono ciò dicendo "Chiunque è più grande del suo prossimo ha parimenti una maggiore inclinazione al male" (Sukkah 52a). Inoltre, come se questo non fosse sufficiente, dicono anche che la ricompensa di colui che soggioga la sua inclinazione malvagia è proporzionata alla tortura causata dalla sua resistenza, pensiero che espressero con le parole "Secondo l'opera è la ricompensa." (Avot, 5:23) Altresì, comandano che l'uomo debba conquistare i suoi desideri ma gli proibiscono di dire "Io, di natura non desidero commettere una data trasgressione, anche se la Legge non lo proibisce." Rabbi Simeon ben Gamliel riassunse questo pensiero con le parole: "L'uomo non deve dire, "Io non voglio mangiare carne insieme al latte; non voglio indossare abiti fatti di miscela di lana e lino; non voglio contrarre un matrimonio incestuoso", ma dovrebbe dire, "Io veramente lo vorrei, ma mio Padre in cielo lo ha proibito." »
(Ibid.)

Questa raccolta di detti rabbinici, che Maimonide contrasta con la posizione aristotelica, riflette chiaramente l'approccio tradizionale al dovere, secondo cui il dramma morale raggiunge il culmine quando la persona passa la prova che gli si presenta davanti e trionfa, con poco o molto dolore, sui propri desideri.[18]

Per risolvere questa tensione mantenendo la sensitività aristotelica, Maimonide propose di distinguere tra due tipi di comandamenti. Un gruppo, che definisce "convenzionale", sono quelli che le persone dovrebbero seguire anche se non sono stati enunciati dalla Torah; "se non fossero stati scritti, meritavano di esserlo". Il secondo gruppo, denominato "rivelati", sono vincolanti solo perché la Torah li impone. Rispetto ai comandamenti convenzionali — come le proibizioni dell'omicidio, furto, frode, o nuocere agli innocenti — colui che li osserva trionfando sui propri impulsi è ad un livello inferiore rispetto a colui che non ha alcuna inclinazione a peccare. Il desiderio di commettere azioni malvagie di questa sorta, anche se superato vittoriosamente, comprova il carattere difettoso della persona: "Non c'è dubbio che un'anima che ha desiderio e brama i succitati misfatti è imperfetta; che l'anima nobile non ha assolutamente alcun desiderio di commettere tali crimini e non prova conflitto nell'astenersene" (Otto Capitoli, p. 378). In contrasto, azioni proibite dai comandamenti rivelati non sarebbero considerate malvagie se non fossero state proscritte dalla Torah, e l'obbligo di evitare tali azioni si genera interamente dal comando divino. In tali casi, una persona non deve perdere il desiderio di eseguire l'azione proibita, e colui che supera questo desiderio con ciò esprime la sua subordinazione alla volontà di Dio. Nell'opinione di Maimonide, non è una coincidenza che gli esempi citati dal midrash che dichiara la superiorità della persona che supera i desideri peccaminosi si riferisce soltanto alle proibizioni che mancano di una base morale razionale, come quelli contro la miscelazione di carne e latte, o lana e lino, e avere relazioni sessuali illecite. La preferenza di Maimonide per una moralità basata sul carattere piuttosto che sul dovere lo porta a relegare l'ideale di superare il test e trionfare sulle proprie inclinazioni alla sfera di quei comandamenti che difettano di un qualsiasi significato morale intrinseco.[23]

Pietismo e saggezza

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Prima pagina dell'Etica Nicomachea (gr. Ἠθικὰ Νικομάχεια) di Aristotele, edizione di Bekker (1837)

Il tipo umano descritto nell'Etica Nicomachea di Aristotele è caratterizzato dall'idea del giusto mezzo, l'idea che un buon attributo si possa trovare tra due estremi. Un estremo riflette un eccesso dannoso; l'altro un deficit distruttivo. Il coraggio, per esempio, rappresenta il giusto mezzo tra la codardia e l'audacia impetuosa. A differenza del codardo, la persona coraggiosa corre rischi genuini, ma a differenza della persona impetuosamente audace, lo farà solo per un giusto fine. La generosità rappresenta il mezzo tra la dissolutezza e l'avarizia, e la soddisfazione rappresenta il mezzo tra l'ingordigia e l'apatia. Questa idea del giusto mezzo non fornisce una linea di guida per l'azione retta in un dato caso; offre piuttosto un'esposizione di una personalità armoniosa ed equilibrata. Una persona di questo tipo agirà correttamente perché la sua struttura psichica lo porterà a farlo. Le inclinazioni di tale persona equilibrata e ragionevole la rendono virtuosa, e ha comportamenti misurati ed appropriati verso cose come la sicurezza, la ricchezza, il piacere e l'onore. È una persona di cui ci si può fidare, che rispecchia nel modo più profondo l'ideale civico della tradizione politica greca.[24]

In contrapposizione a questa figura, che molto attrasse il mondo greco-romano, si trova il pietista o santo. La pietà, portata all'eccesso, diventa radicalismo religioso. Il pietista — in effetti, il bohémienne religioso — è un estraneo, che mette alla prova costantemente, nel nome dell'intimità religiosa, i confini dell'esistenza legale e borghese. Non si considera vincolato ai particolari della legge, e si mette nelle mani di Dio, che soddisferà i suoi bisogni. Tende ad andare oltre i requisiti della legge.[24]

Uno dei punti culturali più affascinanti degli scritti maimonidei riguarda la relazione complessa tra l'aristocratico ed il santo, due tipi alquanto estranei l'uno dall'altro. Andrae oltre i requisiti della legge, come succede col santo, parrebbe una forma di eccesso, che non ha posto nel quadro aristotelico. Il santo comunque reputa il nobile cittadino, con tutte le sue virtù, un borghese appagato soddisfatto di sé. Non c'è da meravigliarsi che il Kotzker Rebbe (1787–1859) — uno dei personaggi più radicali ed indipendenti della storia ebraica — si dice che abbia esclamato ironicamente: "Quando guardo le strade, vedo solo i cavalli che vanno nel mezzo. Gli esseri umani vanno ai margini, sui marciapiedi."[25]

Maimonide accettò la nozione basilare che la persona idonea fosse caratterizzata dalla ricerca del giusto mezzo. Il quarto degli Otto Capitoli si apre con una formulazione chiara della posizione aristotelica: "Le buone azioni sono equilibrate, mantenendo il giusto mezzo tra due estremi ugualmente cattivi, il troppo ed il troppo poco. Le virtù sono condizioni e disposizioni psichiche che sono a metà strada tra due estremi riprovevoli, uno dei quali è caratterizzato dall'esaggerazione e l'altro dall'insufficienza" (Otto Capitoli, pp. 367-378). Un'affermazione simile appare successivamente, nella Mishneh Torah, "Leggi sulle Disposizioni Morali" — un testo che delinea la figura dell'ebreo normativo ideale. Coerente con la sua posizione fondamentale, Maiomonide descrive virtù come coraggio, generosità, cautela, tolleranza e giovialità come giusto mezzo tra due estremi. Ma come fanno l'ethos pietista e la grande virtù di fare più di quello che richiede la legge — idee con profonde radici nella tradizione ebraica — ad essere integrate nell'ideale umano del giusto mezzo? Man mano che il quarto degli Otto Capitoli si sviluppa, troviamo lo stesso punto chiave: l'ingresso di un ideale umano dal contesto culturale greco-arabo comporta una nuova interpretazione delle fonti tradizionali che altrimenti supportano un tipo umano alternativo.[24]

Le persone differiscono l'una dall'altra nelle proprie inclinazioni naturali. Codardia, avarizia ed edonismo non sono semplicemente tratti acquisiti. Il loro aspetto ereditario è supplementato dall'influenza dell'ambiente. Il ruolo della guarigione psicologica è quello di dirigere le inclinazioni di una persona verso il giusto mezzo. Questo tipo di terapia richiede una propensione temporanea verso l'estremo opposto, cosicché l'equilibrio nel mezzo venga infine ottenuto. Per esempio, l'avaro che intraprende un corso di dissolutezza ripetuta otterrà l'equilibrio nel mezzo, nella generosità. Un codardo che persegue atti ripetuti di audacia impetuosa emergerà come uomo di coraggio, e così via.[23][24]

Oltre a questo costrutto medico, fatto su misura per gli attributi di ogni persona ed influenzato dalle sue inclinazioni naturali, esiste una componente fissa insita nella natura umana con la quale Maimonide spiega il pietismo e le azioni al di là dei requisiti della legge. Secondo lui, i due estremi sono impari nell'attrazione ed influenza che esercitano. Per esempio, è più facile trasformare in persona generosa un dilapidatore che un avaro; è più facile trasformare in persona coraggiosa un audace impetuoso che un codardo; ed è più facile trasformare in persona moderata un apatico che un edonista: "Questo punto sottile, che è canone e segreto della scienza medica, ci dice che sia più facile per un uomo di abitudini eccessive moderarle in generosità, che non lo sia per un avaro diventare generoso. Similmente, è più facile per uno che è apatico (e rifugge il peccato) eccitarsi in godimenti moderati, che non lo sia per uno, bruciante di passione, frenare i suoi desideri" (Otto Capitoli, p. 370). L'asimmetria risulta dalla maggiore forza generalmente esercitata da inclinazioni che tendono a conservare l'Io piuttosto che da quelle che operano contro i suoi interessi. Codardia, avarizia, ed edonismo sono tratti che conservano e sostengono l'Io. La codardia protegge l'Io dal pericolo; l'avarizia lo proteggono dalla perdita di ricchezza, e l'edonismo accumola piaceri. Gli opposti di questi tratti — dissolutezza, audacia impetuosa, e ascetismo — operano nella direzione opposta, contro l'Io. Favoriscono gli altri a spese dell'Io o negano i suoi piaceri. La maggiore forza degli impulsi e sentimenti che operano per proteggere l'Io devono quindi essere bilanciati da una spinta costante verso l'altra direzione onde ottenere il giusto mezzo.[23]

Maimonide sostiene che questa disparità tra le forze attraenti degli estremi possono spiegare la condizione del pietismo e del fare più di quanto richieda la legge:

« Da parte sua, i santi non erano abituati a fare in modo che le loro disposizioni mantenessero un equilibrio esatto tra i due estremi, ma deviavano un po', per (cautela e) moderazione, ora dalla parte dell'esdaggerazione, ora da quella dell'insufficienza. Quindi, per esempio, l'astinenza pendava in un certo grado dalla parte della negazione eccessiva di tutti i piaceri; il valore si avvicinava piuttosto all'audacia; la generosità alla prodigalità; la modestia all'umiltà estrema, e così via. Ciò è quello a cui i rabbini alludevano, nel loro detto: "Fai più di quanto richiede la lettera precisa della legge" (Bava Metzia 35a). »
(Otto Capitoli, p. 370)

I devoti sono consapevoli che un estremo abbia naturalmente più forza attrattiva di un altro; per tale ragione, essi regolarmente si distaccano in una certa misura dal giusto mezzo in direzione dell'estremo meno attraente. Di conseguenza, il pietista non è il tipo umano ideale, ed il suo radicalismo non ha valore intrinseco. La via pietista è solo un recinto, un meccanismo per prevenire di cadere troppo verso la (più attraente) direzione dell'Io. Fare più di ciò che la legge richiede serve allo stesso scopo. In tal modo, Maimonide integra l'ethos pietista nella strettura del giusto mezzo, sebbene con ciò lo cambi in un mezzo per evitare di scivolare nella direzione più attraente. Ne consegue che egli permetta solo una minima dipartita dal giusto mezzo.[23][24]

Tuttavia, una mossa troppo forte verso l'estremo di abnegazione, costituiorebbe l'ascetismo che è contrario allo spirito della Torah. Una persona di tal fatta non deve essere presa come esempio ideale, ed è interamente possibile che le sue tendenze ascetiche siano soltanto un esercizio per aiutarsi a ritornare al giusto mezzo. L'ascetismo può a volte essere desiderabile come cura, ma Maimonide inequivocabilmente rifiuta qualsiasi sforzo per elevarlo ad un giusto modo di vita:

« Quando a volte alcuni dei devoti deviano verso l'estremo digiunando, osservando veglie notturne, astenendosi dal mangiare carne o bere vino, rinunciando al rapporto sessuale, vestendosi di indumenti di lana e grezzi, dimorando sulle montagne, e vagando per i deserti, lo fanno in parte come mezzo per ripristinare la salute delle loro anime... Quando gli ignoranti osservavano gli uomini santi agire in tal modo, non conoscendone i motivi, consideravano virtuose le loro azioni di per se stesse; così, imitandone ciecamente gli atti, pensando con ciò di diventare come loro, castigavano i propri corpi con ogni tipo di afflizione, immaginando di acquisirne perfezione e valore morale, e che in tal modo si sarebbero avvicinati di più a Dio, come se Egli odiasse il corpo umano e ne desiderasse la distruzione. »
(Otto Capitoli, pp. 370-371)

Il fine della Torah è di realizzare il potenziale umano, non di trasformare una persona in un'arena di sofferenze e difficoltà in cui la lotta contro il corpo viene elevata a valore in sé. Se lo scopo della Torah è di liberare l'uomo dal controllo dei suoi istinti più bassi e condurlo ad un livello più alto, l'ascetismo va contro tale scopo, poiché rappresenta un'ossessione continua col corpo, sebbene in forma di diniego sistematico. Inoltre, le proibizioni halakhiche esistenti hanno già definito la portata della minima dipartita dal giusto mezzo permessa in direzione dell'estremo meno attraente. Proibendo certi cibi e certe relazioni sessuali, la Torah sposta un po' la persona dal mezzo verso il ritiro dalla vita fisica. Similmente, i requisiti della Torah riguardo al dare — le decime, gli angoli del campo, i covoni lasciati o dimenticati, l'annullamento dei debiti nell'anno sabbatico, la reintegrazione dei campi durante il giubileo, e la carità in generale — rappresentano una leggera dipartita dal mezzo in direzione della dissolutezza.[23] Le norme halakhiche stesse richiedono di fare più di quanto non richieda la legge, e integrarle ulteriormente sarebbe una mossa di troppo, e proibita, verso l'estremo:

« Tuttavia, dovesse qualcuno — che sarebbe senza dubbio stolto se lo facesse — cercare di applicare questi comandi con ulteriore rigore, come per esempio proibendo di mangiare e bere più di quanto non lo proibisca la Legge, o limitando il rapporto coniugale in grado maggiore, o distribuendo tutti i suoi soldi ai poveri, o usandoli per propositi sacri più liberamente di quanto non lo richieda la Legge, o spendendoli interamente per oggetti sacri e per il santuario, egli commetterebbe veramente atti impropri, e andrebbe inconsciamente ad uno o l'altro degli estremi, abbandonando perciò il giusto mezzo. A questo proposito, ho sentito un detto alquanto rimarchevole dei rabbini, presente nel Talmud Yerushalmi al nono capitolo del trattato Nedarim, dove incolpano gravemente coloro che si vincolano con giuramenti e voti, a causa dei quali sono incatenati come prigionieri. Le parole esatte che usano sono: "Disse Rabbi Iddai, a nome di Rabbi Issac, « Non pensi forse che quello che la Legge proibisce non ti sia sufficiente, che tu debba gravarti anche di proibizioni aggiuntive? »" »
(Otto Capitoli, p. 374)

Il pietismo dunque è semplicemente un recinto eretto intorno all'ideale del giusto mezzo. Inoltre, la Torah stessa ha promulgato proibizioni che favoriscono la dipartita del pietista da tale mezzo. Integrare queste proibizioni con voti e giuramenti che rinunciano ad altre cose è una deviazione dannosa ed eccessiva dal giusto mezzo.[23][25]

Scienza e santità

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La caratteristica più prominente del tipo aristotelico ideale è la magnanimità, la "grandezza dell'anima", che è situata nel mezzo tra orgoglio e umiltà. La persona orgogliosa soffre di un'autostima esagerata, che lo porta a pretendere onori quando non ne è degno. La persona umile, d'altra parte, soffre di una bassa autostima e si degrada impropriamente. Una persona dignitosa conosce il proprio valore, che si genera dalle sue solide qualità morali, e si aspetta rispetto da quelli che lo circondano. I suoi tratti nobili gli conferiscono carisma. Cammina lentamente, senza fretta, la sua voce è profonda, ed i suoi discorsi equilibrati. Guarda con fermezza davanti a sé, e non adula nessuno; il suo aspetto rispecchia sicurezza, tranquillità e fiducia.[26]

Lo scontro fondamentale tra il cittadino ideale nella tradizione politica ed il concetto della persona ideale che scaturisce dalla tradizione religiosa avviene a causa delle differenti valutazioni della qualità dell'umiltà. La struttura armoniosa e bilanciata che pone la persona virtuosa nel giusto mezzo tra due estremi rifiutatiu si spezza, nella versione di Maimonide, quando l'umiltà diventa un problema.[10][25]

In primo luogo, il termine "magnanimità" non appare nel dizionario delle virtù di Maimonide. Nelle sue discussioni dell'onore e dell'autostima, definisce l'attributo mediano in modo differente: l'umiltà è il giusto mezzo tra orgoglio ed inferiorità, bassezza. Inoltre, nel caso di altri tratti desiderati, una leggera dipartita dal giusto mezzo è permessa come ulteriore atto di pietà. Però quando c'entra l'umiltà, Maimonide considera un'inclinazione verso l'inferiorità come caratteristica del tipo ideale. In Avot 4:4, la Mishnah insegna: "Sforzarti di essere povero di spirito, poiché la fine dell'uomo è [di nutrire] i vermi." Maimonide commenta:

« Abbiamo già spiegato nei capitoli precedenti che l'umiltà è uno dei tratti più elevati, il giusto mezzo tra l'orgoglio e la bassezza... E abbiamo spiegato nel quarto capitolo che è giusto per l'uomo propendere [in misura] verso [il meno attraente] degli estremi nella maniera di un recinto [intorno all'azione impropria]. Ma tale tratto — cioè, l'orgoglio — è un'eccezione, unico tra tutti i tratti, poiché i devoti, riconoscendo quanto sia difettoso e quanto danno possa arrecare, se ne allontanarono fino a portarsi all'altro estremo, l'assoluta bassezza.[27] »
(Commentario alla Mishnah, Avot 4:4)

Questa dipartita dal giusto mezzo verso l'estremo della bassezza viene ribadito nella Mishneh Torah: "Ci sono alcune disposizioni rispetto a cui è proibito di mantenersi solo nella via di mezzo. Devono infatti essere evitate al massimo. Tra queste è l'orgoglio. Il giusto mezzo qui è non solo di essere mansueti, ma di essere di mentalità umile e di spirito modesto all'estremo." (Libro della Conoscenza "Leggi sulle Disposizioni Morali", 2:3).

Maimonide qui si sposta notevolmente dalla posizione aristotelica e segue invece le fonti talmudiche che mettono l'umiltà come valore centrale. Un certo grado di mosdestia, di sentirsi insignificanti, è inerente alla posizione religiosa verso il mondo. A contrastare l'aristocratico, consapevole del proprio valore e presenza sociale, viene posto il pietista, colui che sopporta l'offesa ma non offende, e valuta la continua reticenza più dell'assertività. A causa di tali qualità, Maimonide associa la propensità all'ira con la dipartita dal giusto mezzo connesso all'umiltà:

« Anche l'ira è una passione veramente grave, e uno dovrebbe evitarla al massimo... I saggi quindi ci ammonirono che l'ira debba essere evitata in tal grado da doversi addestrare ad essere impassibili anche per cose che provocherebbero ira in modo naturale; e questa è la via giusta. La pratica del giusto è di sopportare l'insolenza e di non infliggerla; di sentirsi rimproverati, ma di non ribattere; da essere spinti dall'amore in ciò che si fa, e di gioire nella sofferenza. Di loro la Scrittura dice: "Ma coloro che Ti amano siano come il sole, quando sorge con tutto lo splendore" (Giudici 5:31) »
(Ibid.)

L'uomo aristotelico di gravitas considererebbe tale posizione perlomeno come passività smidollata; alla peggio, ipocrisia. Tale è il modo in cui Machiavelli, e (specialmente) Nietzsche, consideravano l'immagine del santo cristiano — una misera persona che usa la sua volontà contro se stesso. Nelle tradizioni religiose tuttavia, l'umiltà e la povertà di spirito sono considerate come virtù culminanti ("beati i poveri di spirito...", Matteo 5:3), che riflettono il modo in cui uno deve presentarsi davanti a Dio.[25]

Aristotele e molti dopo di lui consideravano l'umiltà come l'interiorizzazione della falsa stima di sé che la persona umile possiede. Se la propria opinione di se stessi corrispondesse al proprio vero valore, la persona in questione non si sentirebbe umile, poiché essa è persona virtuosa anche se ha una bassa opinione di sé. L'umiltà è uno stato apparentemente paradossale, in cui una persona interiorizza una falsa consapevolezza circa la propria valutazione del suo valore. Tale critica si basa sulla premessa che le persone umili misurano il proprio valore in relazione ad altri, con ciò diminuendo falsamente la propria statura mentre aumentano esageratamente quella degli altri. Nella tradizione dell'umiltà, tuttavia, un'autovalutazione umile non riflette il paragone della persona modesta rispetto ad altre persone. Riflette invece il suo senso di soggezione, che la porta a valutarsi rispetto al cosmo o a Dio.[19]

Inoltre i commenti di Maimonide in materia non indicano che egli consideri l'umiltà come negazione dell'autostima. Implica qualcosa di differente, che pone questa tradizione in confrontazione con l'ideale umano aristotelico. Parlando della virtù della povertà di spirito, Maimonide illustra l'umiltà con una storia che sembra estratta dalla tradizione sufi:

« Ho letto in uno dei libri sulla morale che ad una persona devota fu chiesto: Qual è il giorno più felice che tu abbia mai passato? Rispose: Fu il giorno quando stavo viaggiando su una nave, e il mio posto a bordo di tale nave era il più basso di tutti, ed ero vestito di stracci. Sulla nave c'erano anche mercanti e uomini ricchi. Stavo sdraiato al mio posto, quando uno degli uomini sulla nave si alzò per urinare. Notando la bassezza e l'inferiorità della mia situazione, si espose e mi urinò addosso. Mi stupii all'impeto della sua audacia ma, per Dio, non mi afflissi affatto della sua azione. Non mi arrabbiai e gioii molto per aver raggiunto un livello in cui non mi ero disperato per l'azione di questa persona deficiente e non ci prestavo attenzione. E non c'è dubbio che questo è il massimo della povertà di spirito, totalmente rimossa dall'orgoglio. »
(Commentario alla Mishnah 4:4)

La povertà di spirito non è per niente legata ad una bassa valutazione di se stessi. Il pietista, che non si era adirato col ricco mercante che gli aveva urinato addosso, non si credeva così degradato da essere idoneo ad essere urinato addosso. Al contrario. L'uomo umile, l'uomo povero di spirito, è colui la cui autostima non dipende dal riconoscimento sociale. Ne consegue che l'umiltà non è una convinzione della bassezza della propria statura; piuttosto, è un'indifferenza per il valore dell'onore. Una persona umile si è liberata, avendo ottenuto ciò che successivamente viene chiamata "la qualità dell'equanimità". La sua tranquillità è autonoma, indipendente da come il suo ambiente reagisce nel valutarlo. E così l'indifferenza della persona umile all'onore e al riconoscimento sociale è ancorata al proprio riconoscimento della sua vera autostima, un riconoscimento indipendente da qualsiasi estraneità.[28]

C'è una tensione tra l'umiltà così concepita e l'ideale civico della tradizione repubblicana greco-romana. Il buon cittadino persegue il riconoscimento e vuole apparire ed essere presente nella pubblica arena. La società controlla effettivamente i propri cittadini mediante l'assegnazione di onori e biasimi. La figura di abnegazione e stoicismo che Maimonide presenta è, in questo senso, una creatura apolitica, e Machiavelli e Rousseau avevano buone ragioni di vedere tale figura come una minaccia al potere e alla solidità dello stato. Una persona indifferente di tale sorta, che serve da soldato, non si preoccuperebbe di morire, ma neanche agognerebbe la vittoria.[28]

Il divario tra l'ideale della povertà di spirito e la virtù della dignità riflette una problematica ancora più basilare e profonda relativa al valore della vita politica. Un buon cittadino, affermava Aristotele, è un uomo buono. Come individuo privato, la persona è nella morsa circolare del ciclo di vita: nascita, lavoro, riposo, e morte, e via di seguito nella generazione successiva. Solo quando emerge nel pubblico dominio politico la persona si realizza veramente come essere umano nel senso completo. Giudica e legifera, valuta le cose e utilizza la forza della ragione, e dà espressione alle sue virtù come essere umano. Da qui il detto di Aristotele che "l'uomo per natura è un animale politico".[29] La natura dell'uomo come essere completo viene espressa nell'ordinamento politico; al di fuori dell'ordinamento politico stanno gli animali e gli dei. Certamente, nella Etica Nicomachea troviamo una tensione tra questo nobile ideale civico ed il filosofo che si dedica alla vita contemplativa; tale successiva figura appare nel Libro X del trattato. Ma nonostante la tensione, che è stata ampiamente discussa, la figura umana che Aristotele dipinge magistralmente raggiunge il suo apice nella partecipazione libera e sovrana alla vita pubblica.[19]

Nel Commentario alla Mishnah e nella Mishneh Torah, Maimonide tratta la vita contemplativa come picco della perfezione umana. L'ordinamento politico è semplicemente un mezzo per raggiungere il fine, necessario perché l'umanità non può esistere senza una divisione del lavoro e impegni di cooperazione. Coerente con tale opinione, egli usa il detto "l'uomo è un animale politico" in maniera alquanto differente: l'abilità dell'uomo di realizzare il suo fine e raggiungere la sua meta dipende dall'esistenza di un corpo politico stabile, ma quel corpo non è altro che un mezzo per promuovere la conoscenza del mondo e di Dio.[28][23]

Due idee — che la capacità di conoscere è l'essenza dell'umanità e che esistono convinzioni/credenze necessarie a mantenere l'ordine politico — portano Maimonide ad intraprendere un profondo spostamento del carattere della religione ebraica, cercando di identificare una serie vincolante di credenze che servano come criterio di appartenenza alla comunità d'Israele. Il processo iniziò col Commentario alla Mishnah e continuò con la Mishneh Torah, in cui Maimonide formulò la teologia normativa ebraica. Inoltre, questa impostazione fornì alla relazione tra filosofia e tradizione ebraica un significato distintivo che è importante esaminare. La premessa fondamentale della filosofia ebraica premaimonidea era che esistesse un processo razionale, indipendente dalla tradizione o rivelazione, per ottenere la conoscenza di Dio, del mondo, e la moralità. Pertanto, la conoscenza filosofica aveva la capacità di rinforzare la fede, sebbene contraddizioni occasionali potessero richiedere una reinterpretazione. Tale fu l'approccio preso dal primo filosofo sistematico ebreo, Sa`adyah Ga`on, nel suo trattato Credenze e Opinioni, ed costituisce l'elemento più basilare di qualsiasi interpretazione filosofica dell'Ebraismo.[25] Maimonide fece un considerevole salto per allontanarsi da questa premessa nella sua interpretazione della relazione tra filosofia e religione. Secondo lui, non solo la filosofia ha un peso critico, ma al vita di contemplazione filosofica possiede una dimensione religiose redentrice. I concetti basilari dell'esistenza religiosa — unione con Dio, amore e timore, il mondo a venire, ecc. — sono compresi come esperienze legate profondamente al processo di cognizione e speculazione. L'unione con Dio, per esempio, viene intesa come processo cognitivo, dato che l'epistemologia aristotelica insegna che il pensatore viene identificato con gli oggetti della sua conoscenza. L'amore è un bruciante desiderio di conoscere Dio ed il mondo, ed è generato a causa di precedenti esperienze di conoscenza. Il timore è un ritirarsi, un senso di futilità ed emarginazione che fluisce da una consapevolezza dell'universo e del posto dell'uomo in esso; è tuttavia accompagnato dal desiderio di sapere, definito come amore.[28]

Il pinnacolo della vita religiosa è la conoscenza di Dio secondo le abilità della persona, e può essere ottenuta mediante la conoscenza della fisica e della metafisica. Tale conoscenza della natura e quello che c'è al di là della natura, che è il fondamento della perfezione religiosa, viene acquisita attraverso un continuo contatto con le fonti della conoscenza che stanno al di fuori della tradizione ebraica — primariamente gli insegnamenti di Aristotele e le rispettive varie interpretazioni nella filosofia araba. Questa opinione non nega solo che ci sia una qualche ostilità tra filosofia e religione; ma indica inoltre e sostiene che per ottenere il più alto ideale di vita religiosa richiede l'utilizzo della tradizione filosofica. Maimonide dunque non condivide il modello di pensiero conosciuto oggi come torah u-madda (Torah e scienza), modello che cerca di superare i divari tra Torah e scienza e afferma che possono coesistere pacificamente. Per Maimonide, impegnarsi nella scienza è l'apice dell'esistenza religiosa, diretta alla realizzazione dello scopo dell'esistenza umana sulla terra.[24]

Fin dal Commentario alla Mishnah, quando Maimonide faceva i primi passi come halakhista, la sua consapevolezza religiosa era già caratterizzata da un ethos filosofico. Gli studi maimonidei hanno spesso fatto distinzione tra i suoi scritti halakhici e i suoi scritti filosofici, tra Maimonide l'halakhista e Maimonide il filosofo, e tra Maimonide l'halakhista che si rivolge al pubblico e Maimonide il filosofo che si rivolge all'individuo; ma queste distinzioni non furono mai veramente parte della sua vita. Gli elementi importanti della sua sensibilità filosofica — specialmente quelli che sembrano interrogare la centralità della via activa come fine religioso — appaiono già nelle primissime fasi della sua oeuvre letteraria. Questi elementi divennero più pronunciati nella Mishneh Torah, ed integrando l'ethos filosofico nel codice halakhico, Maimonide tentò di produrre una trasformazione senza precedenti nella storia ebraica e renderla una norma halakhica vincolante.[25]

Maimonide concluse il suo Commentario alla Mishnah con i seguenti versetti da Isaia (40:29-31):

Egli dà forza allo stanco
E moltiplica il vigore allo spossato.
I giovani faticano e si stancano,
Gli adulti vacillano e cadono;
Ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza,
Mettono ali come aquile,
Corrono senza affannarsi,
Camminano senza stancarsi.
  1. La data specifica è sconosciuta: i documenti rinvenuti nella Geniza variano in data, andando dall'870 e.v. fino al 1880.
  2. Theodore Howard Kreisel, Maimonides` Political Thought: Studies in Ethics, Law and the Human Ideal, State University of New York Press, 1999, cap. 3, pp. 93-124 & passim.
  3. Pirush Hamishnayot ebr. di Commentario alla Mishnah.
  4. Si veda la Bibliografia per le suddivisioni della Mishnah.
  5. 5,0 5,1 5,2 5,3 Per la lista particolareggiata dei principi e relativa spiegazione ad hoc, si veda Moshe Halbertal, Maimonides, op. cit., cap. 3, pp. 134-163; anche Herbert Davidson, "The Middle Way in Maimonides` Ethics", Proceedings of the American Academy for Jewish Research 54, 1987, pp. 31-72.
  6. 6,0 6,1 6,2 Joel L. Kraemer, Maimonides. The Life and World of One of Civilization`s Greatest Minds, Doubleday, 2008, Parte 3, pp. 164-186 & passim.
  7. 7,0 7,1 7,2 Moshe Halbertal, Maimonides, op. cit., cap. 3, pp. 137-142.
  8. 8,0 8,1 Lawrence Berman, "Maimonides the Disciple of al-Farabi", Israel Oriental Studies 4, 1974, pp. 154-178.
  9. Concetto bellissimo e fondamentale per l'essere umano, anche secondo il pensiero moderno laico, avvicinandosi a teorie filosofiche moderne che pongono l'intelletto al di sopra del fondamentalismo religioso, onde ottenere un giusto mezzo socratico nell'ambito della ragione e della ricerca di Dio; Tommaso d'Aquino ne fece tesoro, nella sua Summa. Cfr. int. al., John S. Spong, Re-claiming the Bible for a Non-Religious World, HarperOne, 2011.
  10. 10,0 10,1 10,2 10,3 10,4 10,5 10,6 Lenn Goodman, "Maimonides on the Soul", in Jay Harris (cur.), Maimonides after 800 Years: Essays on Maimonides and His Influence, Harvard University Press, 2007, pp. 65-80; cfr. anche Dov Schwartz, "Avicenna and Maimonides on Immortality", in R.I. Nettler (cur.), Medieval and Modern Perceptions on Jewish Muslim Relations, Harwood Academic Publishers, 1995, pp. 185-197; George Tamer (cur.), The Trials of Maimonides: Jewish Arabic, and Ancient Culture of Knowledge, in partic. "God and the Good Life: Maimonides` Virtue Ethics and the Idea of Perfection", Walter De Gruyter, 2005, pp. 123-136.
  11. Si vedano le allusioni di Maimonide nella Mishneh Torah, "Leggi del pentimento", 3, 5;6. Nahmanide, Kitvei ha-Rambam, ediz. Shavel, II, pp. 291-292.
  12. 12,0 12,1 12,2 Moshe Halbertal, Maimonides, op. cit., cap. 3, pp. 142-148.
  13. 13,0 13,1 Ilil Arbel, Maimonides: a Spiritual Biography, Crossroad Publishing Company, 2001, pp. 101-129 & s.v. "Messiah".
  14. 14,0 14,1 14,2 D.H. Baneth, “On the Text of Maimonides’ Treatise on Resurrection and its Translation”, Tarbiz 13, 1941, pp. 37-42 (in ebr.); Neil Gillman, The Death of Death: Resurrection and Immortality in Jewish Thought, Jewish Lights Publishing, 1997, pp. 143-168; R.S. Kirschner, “Maimonides’ Fiction of Resurrection”, Hebrew Union College, Annual 52, 1981, pp. 163-93; Ralph Lerner, “Maimonides’ Treatise on Resurrection”, History of Religions 23, 1983, pp. 140-55.
  15. 15,0 15,1 15,2 15,3 15,4 Louis Jacobs, Principles of the Jewish Faith, an Analytical Study, Basic Books, 1964, pp. 222-290 & passim.
  16. Pagine scorribili cliccando sull'immagine.
  17. 17,0 17,1 17,2 17,3 Moshe Halbertal, Maimonides, op. cit., cap. 3, pp. 148-153.
  18. 18,0 18,1 18,2 Kreisel, Howard Theodore, Maimonides` Political Thought: Studies in Ethics, Law and the Human Ideal, State University of New York Press, 1999, Introduzione; Steven Schwarzschild, “Moral Radicalism and ‘Middlingness’ in the Ethics of Maimonides”, Studies in Medieval Culture 9, 1977, pp. 65-94.
  19. 19,0 19,1 19,2 19,3 19,4 19,5 Dimitri Gutas, Avicenna and the Aristotelian Tradition: Introduction to Reading Avicenna’s Philosophical Works, Leiden, 1988; Arthur Hyman, “Maimonides’ ‘Thirteen Principles’”, Jewish Medieval and Renaissance Studies, Alexander Altmann (cur.), pp. 119-44; id., “Maimonides on Religious Language”, Perspectives on Maimonides: Philosophical and Historical Studies, Joel L. Kraemer (cur.), pp. 175-194; id., “Jewish Aristotelianism: Trends from the 12th through the 14th Centuries”, Judaeo-Arabic Studies, Norman Golb (cur.), pp. 187-211.
  20. Ma su Maimonide come "guaritore di corpi", e la sua profonda conoscenza psicoterapeutica, si veda l'Appendice: Maimonide medico.
  21. Immanuel Kant, “Analytic of the Sublime”, Critique of Judgment, trad. ingl. J. H. Bernard, Amherst, 2000, ss.vv.
  22. 22,0 22,1 Shlomo Pines, “Spinoza’s Tractatus Theologico-Politicus, Maimonides and Kant”, Scripta Hierosolymitana 20, 1968, pp. 3-54.
  23. 23,0 23,1 23,2 23,3 23,4 23,5 23,6 Eliezer Schweid, Studies in the Eight Chapters of Maimonides, Magnes Press, 1969, pp. 38-55 & passim (in ebr.)
  24. 24,0 24,1 24,2 24,3 24,4 24,5 David Shatz, "Maimonides` Moral Theory", in Kenneth Seeskin (cur.), The Cambridge Companion to Maimonides, Cambridge University Press, 2005, pp. 167-193.
  25. 25,0 25,1 25,2 25,3 25,4 25,5 Moshe Halbertal, Maimonides, op. cit., cap. 3, pp. 154-158.
  26. Etica Nicomachea, Libro 4.
  27. "Bassezza" nel significato inteso, indica un livello inferiore all'umiltà. Cfr. Eliezer Schweid, Studies in the Eight Chapters of Maimonides, cit., pp. 38-55.
  28. 28,0 28,1 28,2 28,3 Noram Lam, "The Wise and the Pious in Maimonides Teachings", Memorial Book of Shmuel Belkin, Erna Michael College of Hebraic Studies, 1981, pp. 11-28 (in ebr.)
  29. Politica, Libro 1, Cap. 2.