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Indice del libro
Illustrazione dalla Mishneh Torah: al fondo pagina del Libro XII - Libro delle Donazioni e Acquisizioni - si vede Mosè che consegna le Tavole della Legge al popolo di Israele (miniatura del 1296)[1]
« ...Affinché non vi sia bisogno di un altro libro di leggi, questo libro raccoglie la legge orale assieme agli usi e alle discussioni prese dai Maestri dai tempi di Mosè nostro maestro fino alla composizione del Talmud e ai libri scritti dopo il Talmud... Perciò ho chiamato questo libro "Mishneh Torah" (Ripetizione della Torah), perché ognuno leggendo prima la Torah scritta e poi questo libro, sia in grado di conoscere tutta la Torah orale, senza aver bisogno di altri libri. »
(Maimonide)

Nell'introduzione a Sefer ha-Miẕvot, il suo Libro dei Comandamenti, Maimonide descrive il suo faticoso impegno nell'organizzare il materiale halakhico della Mishneh Torah. Inizialmente pensava di seguire la sequenza di ordini e trattati della Mishnah. Tale struttura sembrava offrire benefici considerevoli, poiché era familiare ed autorevole; inoltre, Maimonide aveva detto nell'introduzione al Commentario alla Mishnah che era concettualmente logica e sistematica. Per di più, Maimonide riteneva la Mishnah un precedente della Mishneh Torah, e sembrava quindi naturale adottare l'organizzazione dell'opera precedente.[2]

Un'alternativa al basarsi sulla Mishnah era di adottare il metodo usato dal Rif (Isaac Alfasi) e seguire, pagina per pagina, la sequenza di temi discussi nel Talmud. Ciò aveva un certo vantaggio, in quanto assicurava che ogni area esaminata dal Talmud babilonese (il Bavli) sarebbe stata inclusa. Tuttavia era chiaro a Maimonide che la discussione talmudica girava casualmente da tema a tema e non forniva la desiderata struttura sistematica. Alla fine, evitò di adottare queste due strutture, rigettando sia l'organizzazione talmudica sia quella mishnaica; come scrisse a Pinhas il dayyan, "Poiché non seguo né la sequenza del talmud né la sequenza della Mishnah" (Iggerot, p. 444). Credeva che la Mishnah non riuscisse a dare la struttura sistematica e concettuale di cui aveva bisogno e che seguirne la struttura non gli permettesse di coprire sistematicamente tutte le aree della halakhah, presentandole in una sequenza accessibile e trasparente. Rifiutando sia l'organizzazione mishnaica che quella talmudica, egli diede avvio ad un'importante nuova forma di scrittura halakhica: la presentazione originale ed indipendente della halakha nel suo complesso.[2]

Un primo esame della struttura della Mishneh Torah mostra che il sistema di classificazione e l'organizzazione del trattato vanno ben oltre il trasferimento amministrativo di un ammasso di materiale da un fascicolo all'altro o un ordinamento tecnico di materiale che poteva essere organizzato differentemente. Nella sua organizzazione innovativa della halakhah, la Mishneh Torah non impone solo una struttura esterna al materiale halakhico, ma interpreta e forma anche il materiale stesso. Radunando giudizi separati e frammentati in ujna singola unità letteraria, Maimonide forgia nuove aree della halakhah. Similmente, l'organizzazione interna delle unità riflette una comprensione concettuale dei principi halakhici. Questa caratteristica innovativa della Mishneh Torah è evidente in ognuno dei suoi volumi, e possiamo qui analizzare solo alcuni esempi che illustrino il fenomeno nel suo complesso. Per iniziare, tuttavia, dobbiamo considerare l'ampia struttura del trattato.[2]

Il primo volume, il Libro della Conoscenza (Sefer ha-Madda), pone le fondamenta: gli elementi della fede e della morale ebraiiche. Include "Leggi sui Fondamenti della Torah" (Hilkhot Yesodei ha-Torah), "Legge sulle Disposizioni Morali" (Hilkhot De`ot), "Leggi sullo Studio della Torah" (Hilkhot Talmud Torah), "Leggi sull'Idolatria e le Istituzioni delle Nazioni Pagane" (Hilkhot Avodah Zarah ve Huqqot ha-Goyim) e "Leggi sul Pentimento" (Hilkhot Teshuvah).

Subito dopo si trova il Libro dell'Amore (Sefer Ahavah), che compre i doveri ricorrenti dell'uomo verso il suo Dio. Maimonide li descrive come "precetti che devono essere osservati continuamente, e che siamo stati istruiti a mantenere, in modo da poter sempre amare Dio e pensare sempre a Lui" (Mishneh Torah, Introduzione). Il volume comprende "Leggi sulla Lettura dello Shema" (Hilkhot Qeri`at Shema), "Leggi sulla Preghiera e la Benedizione Sacerdotale" (Hilkhot Tefillah u-Birkat Kohanim), "Leggi sui Filatteri, Mezuzah, e Rotolo della Torah" (Hilkhot Tefillin u-Mezuzah ve-Sefer Torah), "Leggi sulle Frange" (Hilkhot Ẕiẕit), "Leggi sulle Benedizioni" (Hilkhot Berakhot) e "Leggi sulla Circoncisione" (Hilkhot Milah). Includere le leggi della circoncisione in questo volume fu problematico, poiché non è un comandamento ricorrente alla stessa maniera degli altri trattati nel volume. Nell'introduzione, Maimonide spiega la sua decisione come segue: "perché questo è un segno sulla nostra carne, che serve da costante ricordo, anche quando i filatteri e le frange dell'indumento non sono indossati" (Mishneh Torah, Introduzione). La circoncisione non è un obbligo ricorrente, ma è un segno che attesta continuamente il proprio amore di Dio, anche quando gli altri comandamenti non sono praticati.[2]

Nel terzo volume, il Libro delle Stagioni (Sefer Zemanim), troviamo quei comandamenti tra uomo e Dio che non si applicano sempre ma solo in occasioni stabilite. Rispecchiando il ciclo dell'anno ebraico, il volume include "Leggi sullo Shabbat" (Hilkhot Shabbat), "Leggi sull'Eruvin" (Hilkhot Eruvin), "Leggi sul Riposo del Dieci Tishri" (Hilkhot Shevitat asor), "Leggi sul Riposo dei Festival" (Hilkhot Shevitat Yom Tov), "Leggi sul Pane Lievitato e Azimo" (Hilkhot Hamez u-Maẕah), "Leggi su Corno, Capanna e Ramo di Palma" (Hilkhot Shofar ve-Sukkah ve-Lulav), "Leggi sulle Quote Shekel" (Hilkhot Sheqalim), "Leggi sulla santificazione della Luna Nuova" (Hilkhot Hiddush ha-Hodesh), "Leggi sui Giorni di Digiuno" (Hilkhot Ta`aniyot), e "Leggi sul Rotolo di ester e Hanukkah" (Hilkhot Megillah ve-Hanukkah).[2]

Il Libro delle Donne (Sefer Nashim), quarto volume, riguarda il diritto di famiglia: "Leggi sul Matrimonio" (Hilkhot Ishut), "Leggi sul Divorzio" (Hilkhot Gerushin), "Leggi su Levirato e Rilascio" (Hilkhot Yibbum ve-Haliẕah), "Leggi sulla Fanciulla Vergine" (Hilkhot Na`arah Betulah) e Leggi sulla Donna Ribelle" (Hilkhot Sotah).[2]

Il quinto volume, il Libro della Santità (Sefer Qedushah), offre un esempio interessante dell'unione di temi apparentemente disparati in un'unità singola sotto l'influenza de in concetto matahalakhico globale. Il volume include "Leggi sul Rapporto Proibito" (Hilkhot Issurei Bi`ah), "Leggi sui Cibi Proibiti" (Hilkhot Ma`akhalot asurot) e "Leggi sulla Macellazione di Animali per Cibo" (Hilkhot Shehitah). Il primo di questi definisce e stabilisce le regole riguardanti le relazioni sessuali proibite; il secondo e terzo trattano del kashrut e dei cibi permessi e vietati. Ci si poteva aspettare che le "Leggi sul rapporto Proibito" fossero incluse nel volume precedente, il Libro delle Donne, ma Maimonide offre la seguente spiegazione per averle incluse qui: "in queste due materie, l'Onnipresente ci ha santificato e separato dalle nazioni: [rispetto alle relazioni sessuali proibite e ai cibi vietati]" (Mishneh Torah, Introduzione). La proibizione di certe relazioni sessuali e il divieto di certi cibi sono simili in quanto entrambi delimitano stimoli biologici di base. Riflettono l'idea di santità, che è legata all'abilità di separarsi da impulsi corporei basilari.[2]

Il Libro delle Asseverazioni (Sefer Hafla`a), il sesto volume, si occupa delle proibizioni relative al discorso. Include "Leggi sui Giuramenti" (Hilkhot Shevu`ot), "Leggi sui Voti" (Hilkhot Nedarim), "Leggi sul Nazireato" (Hilkhot Nezirut), e "Leggi sulle Valutazioni e Ex-Voto" (Hilkhot Arakhim ve-Haramin).

Nel Libro dell'Agricoltura, settimo volume, Maimonide raccoglie le leggi relative ai vari aspetti dell'agricoltura. Include "Leggi sui Tipi Diversi" (Hilkhot Kil`ayim), "Leggi sui Doni ai Poveri" (Hilkhot Matanot Aniyyim), "Leggi sulle Offerte del Raccolto" (Hilkhot Terumot), "Leggi sulle Decime" (Hilkhot Ma`asrot), "Leggi sulle Seconde Decime e Frutti del Quarto Anno" (Hilkhot Ma`aser Sheni ve-Neta Reva`i), "Leggi sui Primi Frutti e Altri Doni al Sacerdozio" (Hilkhot Bikkurim u-She`ar Matanot Kehunah Shebi-Gevulin) e "Leggi sull'Anno Sabbatico e Anno del Giubileo" (Hilkhot Shemittah ve-Yovel). Un'interessante dipartita dall'organizzazione di questo volume appare negli ultimi quattro capitoli di Hilkhot Matanot Aniyyim, che riguarda le leggi della carità, estranee a materie agricole. Maimonide qui segue l'ordine della Mishnah, dove le leggi della carità sono incluse nel trattato Pe`ah dell'ordine Zera`im. La disposizione ha senso perché molte delle leggi del volume — per esempio, quelle relative agli angoli del campo, raccolti dimenticati e tralasciati, la decima ai poveri, e alcune delle leggi in merito agli anni sabbatici e giubilei — riguardano i donativi agli indigenti.[2][3]

L'ottavo volume, il Libro del Servizio al Tempio (Sefer Avodah), espone le leggi relative al Tempio ed il culto pubblico stabilito, come anche le caratteristiche dei vari tipi di sacrifici. Include "Leggi sul Tempio" (Hilkhot Beit ha-Beẖirah), "Leggi sui Vasi del Santuario e Coloro che Vi Servono" (Hilkhot Kelei ha-Miqdash ve-ha-Ovedim bah), "Leggi sulle Cose Proibite all'Altare" (Hilkhot Issurei ha-Mizbeiaẖ), "Leggi sulla maniera di Offrire sacrifici" (Hilkhotẖ Ma`aseh ha-Qorbanot), "Leggi ẖsulle Offerte Quotidiane e Aggiuntive" (Hilkhot Temidim u-Musafim), "Leggi sulle Offerte Sante Rese Inadatte" (Hilkhot Pesulei ha-Muqdashin), "Leggi sul Servizio nel Giorno dell'Espiazione" (Hilkhot Avodat Yom ha-Kippurim) e "Leggi sulla Trasgressione Riguardo agli Oggetti Sacri" (Hilkhot Me`hilah). Il volume si sposta in un modo particolare dalla sequenza della Mishnah. In quest'ultima, le leggi del Giorno dell'Espiazione sono considerate nel trattato Yoma, che copre sia il servizio sacrificale del giorno al tempio sia il dovere di digiunare e addolorarsi imposto su tutti gli ebrei individualmente. Nella Mishneh Torah, i due aspetti delle leggi del giorno sono divisi: il servizio sacrificale presso il Tempio è incluso nel Libro del Servizio al Tempio, mentre gli obblighi sostenuti dall'individuo — cordoglio e astensione dal lavoro — sono esposti nel Libro delle Stagioni, "Leggi sul Riposo al Dieci di Tishri".[2][3]

Il Libro delle Offerte (Sefer Qorbanot), nono volume, presenta le leggi relative ai sacrifici del fedele. Include "Leggi sulle Offerte di Pesach" (Hilkhot Qorban Pesaẖ), "Leggi sulle Offerte Festive" (Hilkhot Hagigah), "Leggi sulle Primizie" (Hilkhot Bekhorot), "Leggi sulle Offerte per Trasgressioni Commesse per Errore" (Hilkhot Shegagot), "Leggi su Coloro la cui Espiazione non è Completa" (Sefer Meẖusrei Kapparah) e "Leggi sulle Offerte Sostituite" (Hilkhot Temurah).[2]

Come per i due volumi che lo precedono, il Libro della Purezza (Sefer Taharah), decimo volume, riflette l'impegno di Maimonide a coprire la halakhah nella sua interezza — quegli aspetti che si applicavano al suo tempo e quelli che invece non si potevano applicare. In gran parte le leggi della purezza si applicano solo quando il Tempio è esistente (cfr. "Tempio di Gerusalemme" e "Terzo Tempio"), poiché gli stati di purezza e impurità riguardano basilarmente se una persona possa entrare nell'area del Tempio e se possa consumare cibo sacrificale. Il volume include "Leggi sulla Contaminazione da Cadavere" (Hilkhot Tum`at Met), "Leggi sulla Giovenca Rossa" (Hilkhot Parah Adumah), "Leggi sulla Contaminazione da Lebbra" (Hilkhot Tum`at Ẕara`at), "Leggi sulla Contaminazione di un Giaciglio o Sedia" (Hilkhot Matame`ei Moshav u-Mishkav), "Leggi su Altre Fonti di Contaminazione di Prim'Ordine" (Hilkhot She`ar Avot Tum`ah), "Leggi su Contaminazione da Cibo" (Hilkhot tum'at okhalim), "Leggi sui Vasi" (Hilkhot Keilim) e "Leggi sulle Vasche di Immersione" (Hilkhot Miqva`ot).[3]

La sezione finale della Mishneh Torah, che comprende i volumi dall'11 al 14, si occupa del diritto penale, civile e costituzionale. Le leggi presentate in questi volumi si riferiscono al perfezionamento dell'ordine sociale, stabilendo le istituzioni autorevoli rispetto alla halakhah e alla società e determinando la maniera in cui funzionano. L'undicesimo volume, il Libro degli Illeciti (Sefer Neziqin), include "Leggi sul Danno alla Proprietà" (Hilkhot Nizqei Mammon), "Leggi sul Furto" (Hilkhot Geneivah), "Leggi sulla rapina e la Proprietà Smarrita" (Hilkhot Gezeilah va-Aveidah), "Leggi sul Ferimento e danneggiamento" (Hilkhot Hovel u-Maziq) e "Leggi sull'Omicidio e la Salvaguardia della Vita Umana" (Hilkhot Roẕeiaẖ u-Shemirat ha-Nefesh). Il volume evidenzia certe difficoltà nell'organizzare tutte queste leggi in un'unica unità onnicomprensiva. La sua struttura porta a meravigliarsi perché Maimonide abbia separato le leggi del furto dalle leggi della rapina e unito queste ultime alle leggi della proprietà smarrita. La proprietà smarrita sembrerebbe meglio trattata nel Libro dell'Acquisizione, che si occupa di quando e come una persona acquisisca possesso della proprietà che ha trovato. È possibile che il raggruppamento della rapina con la proprietà smarrita rifletta la connessione tra la proibizione della rapina e l'obbligo di restituire la proprietà smarrita. Colui che omette di restituire la proprietà in suo possesso viene considerato un ladro, poiché la proprietà resta nell'ambito di appartenenza di chi l'ha persa. Il raggruppamento di leggi nel Libro degli Illeciti dimostra l'impegno che Maimonide ha attuato nell'organizzare la struttura interna dei vari volumi. Il volume si sviluppa dalle forme di danneggiamento meno gravi fino a quelle più gravi: dal danno alla proprietà, al furto e rapina, alle lesioni ed infine all'omicidio. Ma la conclusione dell'intera unità — la fine di "Leggi sull'Omicidio e la Salvaguardia della Vita Umana" — tratta dei doveri di una persona in relazione al salvaguardare la propria vita, per esempio costruendo una ringhiera intorno al suo tetto. Il raggruppamento intende dimostrare che la proibizione dell'omicidio si basa sulla santità della vita, che richiede non solo la prevenzione di violenza grave ma anche la protezione della vita.[2][3]

Il dodicesimo volume, il Libro dell'Acquisizione (Sefer Qinyan), affronta problematiche relative alla determinazione del possesso della proprietà ed i diritti e doveri corollari. Include "Leggi sulle Vendite" (Hilkhot Makhirah), "Leggi sull'Acquisizione Originale e Doni" (Hilkhot Zekhiyyah u-Matanah), "Leggi sui Vicini" (Hilkhot Shekheinim), "Leggi sugli Agenti e Soci" (Hilkhot Sheluẖin ve-Shutafin) e "Leggi sugli Schiavi" (Hilkhot Avadim).

Il Libro del Diritto Civile (Sefer Mishpatim), tredicesimo volume, similmente tratta dei diritti civili. Contiene "Leggi sulle Assunzioni" (Hilkhot Sekhirut), "Leggi su Prestiti e Depositi" (Hilkhot She`eilah u-Piqqadon), "Leggi su Creditore e Debitore" (Hilkhot Malveh ve-Loveh), "Leggi sui Patrocini" (Sefer ỊTo`en ve-Nit`an) e "Leggi sull'Eredità" (Hilkhot Naẖalot).[3]

Il quattordicesimo e ultimo volume, il Libro dei Giudici (Sefer Shofetim), è dedicato alle istituzioni della magistratura e della rispettiva sua amministrazione, dell'autorità dei giudici, e delle procedure operative. Include "Leggi sul Sinedrio e sulle Pene di Giurisdizione" (Hilkhot Sanhedrin ve-ha-Onshim ha-Mesurim Lahem), "Leggi sul Lutto" (Hilkhot Avel), "Leggi sulle Prove" (Hilkhot Eidut), "Leggi sui Ribelli" (Hilkhot Mamrim), "Leggi sui Re e le Guerre" (Hilkhot Melakhim u-Milẖemoteihem). Lo scopo di questo volume solleva una spinosa questione, sulla quale ritorneremo in seguito: perché le leggi del lutto sono poste tra le leggi dei ribelli e le leggi dei re? La fine del Libro dei Giudici è dedicata all'idea messianica, diretta alla situazione politica che permetterà alla conoscenza di Dio di prosperare nel mondo. La Mishneh Torah termina ritornando al punto di partenza, il comandamento di conoscere Dio, ed il trattato nel suo complesso indica che il fine della halakhah è di promuovere la conoscenza e l'amore di Dio.[3]

Questa panoramica generale delle componenti del trattato dimostra che Maimonide produsse gruppi di leggi su materie che non erano connesse tra loro o non esistevano come materie di per se stesse nella precedente letteratura halakhica. Gli esempi più lampanti di ciò sono le "Leggi sui Fondamenti della Torah", le "Leggi sul Pentimento", le "Leggi sullo Studio della Torah" e le "Leggi sui Re". Sebbene il Talmud includa trattati o capitoli che corrispondono alle "Leggi sullo Shabbat" o alle "Leggi sul Ferimento e Danneggiamento", esso non contiene paralleli alle leggi citate nella frase precedente. Da nessuna parte nella Mishnah le idee teologiche fondamentali dell'Ebraismo sono trattate sistematicamente ed esposte. L'omissione non rispecchia una redazione scadente; punta piuttosto al senso basilare del carattere complessivo dell'Ebraismo da parte del redattore. L'Ebraismo è prima di tutto una religione di halakhah, e coloro che vi aderiscono non vengono identificati in base a principi di fede; tali principi al massimo identificano coloro che negano o tradiscono l'Ebraismo. Seguire la struttura della Mishnah non avrebbe permesso a Maimonide di realizzare una delle sue grandi rivoluzioni riguardo a come la halakhah e la tradizione ebraica dovevano essere interpretate: l'elevazione di filosofia e scienza a obblighi religiosi della massima importanza.[2]

Il posizionamento del Libro della Conoscenza come primo volume della Mishneh Torah ed il suo inizio con le "Leggi sui Fondamenti della Torah" esprimono in modo profondo come un principio organizzativo possa causare un cambiamento nella comprensione complessiva della halakhah. Similmente, raggruppando gli halakhot estratti dai quattro angoli del Talmud in un unico schema, Maimonide generò, a volte ex nihilo, nuove (ed innovative) aree halakhiche. Per esempio, le "Leggi sul Pentimento" ispirarono lo sviluppo di tale materia come argomento ricco e centrale della halakhah e del pensiero ebraico. Le "Leggi sui Re" costituiscono una branca della halakhah che non esisteva come corpo di conoscenza indipendente prima che Maimonide affrontasse la materia, e la halakhah del governo e della politica come vi vengono presentati servono come sostegno vitale per tutto il successivo pensiero ebraico in merito alla politica ed i suoi halakhot.[4]

Tuttavia l'organizzazione innovativa della Mishneh Torah fece più di portare alla formazione di nuove aree di halakhah. In aggiunta, ridefinì il carattere di un'area halakhica alla luce del volume o del gruppo di halakhot nel quale fu integrata. Queste decisioni relative al posizionamento riguardano non solo la raccolta di gruppi completi di halakhot dentro un singolo volume ma anche l'integrazione di materie secondarie nell'ambito di un gruppo. Ogni volume ed ogni gruppo di halakhot nella Mishneh Torah contiene potenti esempi di come operasse questo grande artefice concettuale. Qui considereremo solo uno di questi, già citato: l'integrazione delle "Leggi sul Lutto" nel Libro dei Giudici, messo tra le "Leggi sui Ribelli" e le "Leggi sui Re".[3]

Lutto[modifica]

Lutto ebraico

Diversi studiosi dell'Ebraismo medievale hanno affrontato l'analisi di una delle decisioni più problematiche nell'organizzazione della Mishneh Torah: come si spiega il posizionamento al centro del Libro dei Giudici — un trattato che si occupa primariamente del diritto costituzionale e della struttura delle istituzioni sociali autoritarie — di una serie di leggi associate ad eventi del ciclo della vita di un individuo e le sue reazioni davanti alla morte?[5] Maimonide stesso riconobbe il problema e, all'inizio della sezione inclusa nell'introduzione alla Mishneh Torah, spiega inusitatamente la collocazione di quegli halakhot: "compiangere parenti (defunti); anche un sacerdote deve contaminarsi (col contatto delle salme di) parenti defunti e addolorarsene, ma non si deve portare il lutto per coloro che sono stati messi a morte per ordine del Tribunale." Tuttavia la connessione che Maimonide indica lì tra le "Leggi sul Lutto" ed il Libro dei Giudici pare artificiosa, forzata. Certamente il Libro dei Giudici, nel contesto delle "Leggi sul Sinedrio" tratta di persone che sono state giustiziate dal Tribunale; ma la regola che i criminali giustiziati non devono essere compianti con lutto è solo tangenziale al tema principale delle "Leggi sul Lutto" e non può fornire veramente una ragione sufficiente per il loro posizionamento — in verità, anche soltanto citarle accentua il problema. Come si vedrà, tuttavia, un'ulteriore considerazione dell'anomalia di posizionamento offre un'indicazione di come Maimonide abbia interpretato il lutto. Può inoltre spiegare l'organizzazione del materiale riguardante il lutto e varie decisioni halakhiche ad esso associate. Iniziamo quindi con le leggi stesse.[5]

Raffigurate convenzionalmente come struttura halakhica che aiuta il portatore di lutto a superare la perdita e ritornare gradualmente ad una vita normale, le regole del lutto vengono giustamente considerate come uno dei più grandi successi psicologici e sociali della halakhah. Il concetto del lutto proposto da Maimonide si sviluppa però in una direzione differente, come è evidente sia dal suo collocamento delle leggi nel Libro dei Giudici sia dal modo in cui egli le organizza. Secondo Maimonide, il lutto è innanzitutto un'affermazione della reputazione e dell'onore del defunto. Il dovere dei parenti in lutto deriva dal fatto che la morte di una persona dovrebbe essere un evento che lascia una forte impressione all'ambiente circostante. La morte che non lascia segno rappresenta una diminuzione della reputazione e onore del defunto, poiché l'assenza di una reazione alla sua morte dimostra che la sua vita non ebbe molto peso. Mediante il lutto, la società esprime il suo cordoglio al defunto, ed i riti non devono esser visti solo come mezzo per ripristinare lo spirito di coloro che portano il lutto. Il lutto è un meccanismo per costruire l'ordine sociale di base, esprimendo la piena appartenenza e reputazione di una persona nell'ambito della comunità. Ecco perché la proibizione di entrare in lutto per un criminale giustiziato non è un particolare marginale che collega semplicemente queste leggi alla materia complessiva del Libro dei Giudici. Se il lutto è soprattutto un mezzo per riconoscere la reputazione del defunto, i peccatori non sono degni del riconoscimento espresso attraverso i rituali del lutto. Questo concetto del lutto ha un impatto sulla formulazione del primo capitolo delle "Leggi sul Lutto". Inizia, come molti gruppi di halakhot, con una breve definizione della materia in questione — qui, il dovere di portare il lutto. Poi considera il tempo quando tale lutto deve iniziare e, negli halakhot successivi, la questione per chi si sia obbligati ad osservare il lutto. Ma invece di introdurre tale discussione con un elenco affermativo dei parenti per cui si applica il dovere di compiangere (elenco che finalmente appare all'inizio del Capitolo 2), Maimonide inizia con un elenco negativo di chi non si deve considerare nel lutto, anche per i parenti. Tale elenco include, tra gli altri, i criminali giustiziati:

« Tuttavia, per coloro che sono stati giustiziati per ordine del tribunale, non si devono osservare i riti del lutto; ma i parenti se ne lamentino, poiché il dolore è una faccenda del cuore...
In quanto a chi abbia deviato dalle pratiche della congregazione — cioè, uomini che si sono liberati dal controllo dei comandamenti, non si sono uniti ai propri correligionari ebrei nella pratica dei precetti, nell'osservanza dei festival, nella frequenza della Sinagoga e Casa di Studio, ma si sono sentiti liberi di fare ciò che volevano nel modo delle altre nazioni, come anche gli epicurei, gli apostati e i delatori — per costoro non viene osservato il lutto. Nel caso della loro morte, i loro confratelli e altri parenti indossino indumenti bianchi e si fascino di vesti candide, mangino, bevano e gioiscano, perché i nemici del Signore sono morti. Su di loro la Scrittura dice: Non odio, forse, Signore, quelli che ti odiano? (Salmi 139:21). »
("Leggi sul Lutto", I:9-10)

Il lutto rappresenta una dichiarazione pubblica che riflette la statura del defunto quale membro effettivo della comunità. Non si devono quindi compiangere quei trasgressori che sono usciti dai confini comportamentali della comunità, o gli eretici, apostati e coloro che sono stati banditi, poiché sono considerati essere al di fuori dell'ordine sociale. Il lutto diventa pertanto un modo di segnare i confini della comunità, che identifica la linea di demarcazione tra coloro che sono dentro e quelli che ne sono fuori.[5]

L'idea che il lutto sia un'espressione di onore per il defunto è trasmessa anche da un'altra importante componente delle "Leggi sul Lutto". Il Capitolo 2 inizia con una definizione precisa e dettagliata dei parenti che uno è obbligato a compiangere nel lutto. Subito dopo, dalla halakhah 6 del Capitolo 2 alla fine del Capitolo 3, Maimonide considera dovere del sacerdote contaminarsi per poter assistere i parenti del morto. Un sacerdote, è noto, ha la proibizione di cadere nell'impurità arrecata della prossimità di un cadavere, ma gli è permesso — anzi, ha l'obbligo — di farlo per poter seppellire i suoi parenti. Il gruppo di parenti per i quali il sacerdote può diventare impuro è identico a quello per cui un ebreo deve portare il lutto: padre, madre, fratello, sorella, figlia e figlio. I particolari esatti, del tipo quando, come e per chi il sacerdote possa diventare impuro, sono integrati nelle leggi del lutto, occupando un capitolo e mezzo, tuttavia, uno si aspetterebbe di trovarli in un'altra sezione della Mishneh Torah, nelle "Leggi sulla Contaminazione da Cadavere" nel Libro della Purezza che tratta di tali materie direttamente. Maimonide stesso offre le sue ragioni per tale decisione organizzativa, collegando la materia del lutto all'autorizzazione del sacerdote ad essere contaminato per amore di un parente defunto, nella sua transizione tra temi: "Come è importante il comandamento di osservare il lutto! La legge che proibisce al sacerdote di diventare impuro è messa da parte nel caso di un parente più prossimo, in modo che possa presenziare alle esequie e osservare il lutto" ("Leggi sul Lutto", 2:6). L'autorizzazione di diventare impuro onde poter seppellire un parente morto può essere interpretata nel contesto di onorare i morti. Poiché di solito sono i parenti che pensano a seppellire una persona, anche al sacerdote, a cui normalmente è proibito venire contaminato da un cadavere, viene comandato di contaminarsi per potere seppellire un parente defunto. Lo stesso dovere si applica rispetto ad un defunto che non è parente del sacerdote ma che non ha nessun altro che lo possa seppellire. Tale persona è nota come met miẕvah, ed il sacerdote ha l'obbligo di contaminarsi per seppellirlo. Al contrario, un sacerdote non deve contaminarsi per curarsi di coloro per i quali non si porta il lutto anche se fossero parenti stretti — eretici, coloro che abbandonano la comunità, ed i criminali giustiziati. La sua autorizzazione a farsi contaminare è intesa ad accentuare la reputazione del defunto, e persone come queste ultime non devono essere trattate come se avessero una reputazione di valore.[5]

L'associazione del dovere generale di portare il lutto con il dovere del sacerdote di contaminarsi per un defunto — associazione stabilita dall'organizzazione delle "Leggi sul Lutto" da parte di Maimonide — scaturisce dalla sua percezione che due doveri condividono una fonte comune: lo status del defunto. Come già menzionato, l'associazione influenzò il collocamento delle leggi sul lutto nel Libro dei Giudici e l'integrazione delle leggi sulla contaminazione sacerdotale da cadavere nelle "Leggi sul Lutto". La connessione tra le due idee appare anche in Sefer ha-Miẕvot, dove Maimonide integra il dovere dei sacerdoti di diventare impuri per amore dei propri parenti defunti nella sua discussione del dovere di onorare il lutto nel primo giorno, il giorno della sepoltura:

« Con questa ingiunzione siamo comandati che i Sacerdoti si contaminino per [quei loro defunti] parenti che sono enumerati nella Torah... Su questo comandamento si basa il dovere del lutto; cioè, l'obbligo vincolante per ogni uomo di Israele di onorare il lutto per [la perdita di] parenti... È per confermare questo obbligo che Egli ha espressamente dichiarato nel caso del Sacerdote, a cui [ordinariamente] è vietato di venir contaminato, che [rispetto ai sei parenti stretti] egli debba contaminarsi in ogni modo come gli altri Israeliti cosicché la legge del lutto non sia presa alla leggera. »
(Libro dei Comandamenti, Comandamenti Positivi 37)

Considerando questo comandamento, Maimonide fornisce un'interpretazione originale dell'idea, mantenuta dai Geonim e dal Rif stesso e seguita anche da Maimonide, che il lutto nel primo giorno fosse un comandamento de-Orayta (legge biblica). (I Tosafisti non erano d'accordo, ritenendo che fosse solo rabbinica). R. Joseph Karo rigetta la prova di Maimonide in base a quanto segue: "C'è ragione di meravigliarsi di questa prova, poiché l'impurità ed il lutto sono materie differenti; e se ha comandato di contaminarsi per amore dei propri parenti, ciò non implicherebbe che debba portarne il lutto." (Kesef Mishneh, "Leggi sul Lutto", 1:1). Ciononostante, data l'opinione di Maimonide che il fine del lutto sia di onorare il defunto e enfatizzarne lo status, ne consegue che le due materie sono inerentemente e logicamente connesse.[6]

Questa interpretazione del lutto fa luce su un altro giudizio di Maimonide, relativo ad una persona che muore senza che nessuno ne onori il lutto: "Se il defunto non ha lasciato parenti stretti da consolare, dieci persone degne vengano e si pongano al loro posto per tutti i sette giorni di lutto ed altri vengano (a consolarli). Se dieci presenze fisse non sono disponibili, il numero richiesto sia supplito quotidianamente da coloro che si offrono volontari. Vengano e si pongano al loro posto" ("Leggi sul Lutto, 13:4). Questa halakhah esprime profondamente l'idea che l'intento del lutto sia di dare rilievo alla reputazione (status) del defunto: se uno muore senza parenti che lo rimpiangano, nessuno ne rimpiangerà pubblicamente la perdita. Di conseguenza, dieci persone non imparentate devono interpretare il ruolo sociale di chi è in lutto. Si mettono in lutto per sette giorni in onore del morto, ed il pubblico viene a confortarli. E quindi il lutto non è un mezzo per aiutare chi è in lutto a riprendersi, quanto piuttosto una attestazione dell'onore e reputazione del defunto. Un morto che non ha parenti è una sorta di met miẕvah, e tutti sono obbligati a seppellirlo e a compiangerlo nel lutto.[6]

Ra`abad, nei suoi commenti a questo passo della Mishneh Torah, lo rifiuta sommariamente: "non ha basi". Sembra voler dire che non ha fonti nel Talmud, e in verità pare basato su una lettura innovativa e meno che chiara di un brano talmudico. È utile citare qui l'affermazione talmudica per esteso:

« Disse R. Judah: Se un defunto non ha consolatori, dieci persone vengono e si siedono in lutto. [Si racconta una storia:] Uno che morì nel vicinato di R. Judah non aveva consolatori. Ogni giorno R. Judah radunava dieci uomini e si sedevano in casa del defunto. Dopo sette giorni, il defunto apparve a R. Judah in sogno e gli disse: Che la tua mente stia serena, poiché hai reso serena la mia mente. »
(BT Shabbat 152a-b)

R. Judah fa riferimento a "un defunto [che] non ha consolatori", indicando così che i dieci uomini che si radunano dove era morto interpretano il ruolo dei consolatori, non dei portatori di lutto. Il loro consolare è diretto al defunto stesso, la cui anima compiange la propria morte. Il bisogno di conforto da parte del defunto è dimostrato dall'affermazione che precede il succitato paragrafo: "Disse R. Hisda: L'anima di una persona piange per lui tutti i sette giorni, poiché è detto, 'La sua anima lo compiange' [Giobbe 15:22]" (BT Shabbat 152a). L'idea che il defunto stesso necessiti di conforto e il giudizio di R. Judah in merito sono una risposta alle afflizioni dell'anima del morto; per questo la gratitudine espressa dall'anima del morto a R. Judah nella storia che segue il suo giudizio. Sembra quindi che il brano si basi sul defunto che è in lutto ed il conseguente bisogno di confortarlo.[6]

Leggere il passo secondo il suo significato semplice altera non solo la ragione della halakhah ma anche la sua sostanza. I dieci uomini non si siedono nella casa del morto per tutti i sette giorni nella maniera dei portatori di lutto; e altri non vengono a consolarli. Dato che loro stessi sono consolatori, essi vengono solo una volta al giorno presso la casa del defunto, e gli altri membri della comunità non si radunano a confortarli. Data questa lettura semplice del passo talmudico, Ra`abad ha buone ragioni di rifiutare il giudizio di Maimonide. La tradizione halakhica aschenazita evidentemente interpretava il Talmud nello stesso modo di Ra`abad e giudicò che dieci uomini si debbano radunare a casa di un defunto senza parenti per pregare e recitare il Kaddish. Tuttavia non si siedono lì come portatori di lutto per sette giorni, e altri non vengono a consolarli. I dieci si riuniscono una volta al giorno nella casa del defunto o nella sinagoga per confortare l'anima del morto.[6][5]

Maimonide stesso quasi sicuramente conosceva questa opinione, dato che conosceva bene le tradizioni geoniche che interpretavano il passo secondo il suo senso più semplice. A R. Hai Ga`on fu chiesto, con riferimento al passo, dove sedessero i dieci uomini — era al posto del defunto nella sinagoga o a casa sua, dove era morto? Egli rispose a favore di quest'ultima opzione, spiegando che l'anima del defunto compiangeva se stessa sul posto di morte:

« Così dissero i saggi. Disse R. Hisda: L'anima di una persona, il suo spirito, lo compiange tutti i sette giorni... Ed è in lutto solo al luogo dove se ne è dipartita da lui... Così anche se non ha consolatori, quando viene e si siede nel luogo in cui l'anima dipartì, essa è confortata. »
(Oẕar ha Ge`onim, Shabbat, p. 467)

L'innovativa lettura della fonte talmudica da parte di Maimonide, contrariamente all'interpretazione geonica ed al senso semplice del testo, evidentemente consegue dal suo rigetto dell'idea che l'anima di una persona stia in lutto per la morte del corpo per sette giorni dopo la morte. Tale nozione è estranea a Maimonide ed il suo approccio metafisico, poiché le anime dei morti non si soffermano sul luogo di morte per sette giorni dolorosi. Ne consegue che radunarsi per consolare l'anima del defunto, credendo che stia ancora nella casa, è una tradizione insensata. L'interpretazione alternativa di Maimonide, e la halakhah che ne deriva, riflette il grande divario tra lui e coloro che dissentivano da lui, poiché egli interpretava il passo talmudico secondo il proprio concetto complessivo dello scopo del lutto: riconoscere l'onore del defunto. In tale prospettiva, una persona che muore senza che nessuno lo compianga è considerato un met mizẕvah, e c'è un dovere di radunare dieci uomini per onorarne il lutto. Il giudizio non solo risolve un difficile brano talmudico, ma corrisponde anche con la prospettiva maimonidea del significato del lutto in generale.[5]

Il testo di Maimonide ci permette di dedurre come egli reinterpreti il brano talmudico. La Gemara dice "se un defunto non ha consolatori", che egli sottilmente cambia in "se un defunto non ha nessuno da consolare". In ebraico, il cambiamento è effettuato inserendo solo una lettera, una tav, trasformando "met she-ein lo manaẖamin" in "met she-ein lo mitnaẖamin". Il piccolo cambiamento, che altera l'intero significato del passo talmudico, è evidente nella goffa riformulazione del passo nella Mishneh Torah. Invece di dire semplicemente, "Se un defunto non ha parenti stretti che lo compiangano", Maimonide scrive "Se il defunto non ha parenti stretti da consolare". La formulazione crea un senso di parafrasi della fonte talmudica, senza enfatizzare il piccolo cambiamento dell'espressione. Il successore di Maimonide in Provenza, R. Menaẖem Ha-Me`iri, seguì l'indicazione di Maimonide e offrì la seguente interpretazione del brano talmudico: "Se un defunto non ha consolatori — cioè, non ha portatori di lutto che necessitino di conforto — allora dieci uomini vengono per tutti i sette giorni e si siedono nella casa dove morì, e altri vengono e li circondano come se avessero bisogno di conforto. E ciò avviene in onore del defunto" (Beit ha-Beẖirah, Shabbat 152a).

Questo giudizio fornisce un chiaro esempio della grande creatività che Maimonide esercitò nel cristallizzare la halakhah. In questo caso, il suo giudizio è legato ad una vasta comprensione concettuale della natura del lutto, ad un rifiuto dei principi metafisici che egli trova inaccettabili, e alla propria tecnica esegetica, che non si trattiene dall'apporre un cambiamento minore nell'espressione testuale che trasformi l'intera interpretazione del testo stesso.[6][5]

Il posizionamento problematico delle "Leggi sul Lutto" nel Libro dei Giudici è uno dei molti esempi della connessione nella Mishneh Torah tra una struttura organizzativa originale ed una nuova interpretazione concettuale di importanti principi halakhici. Tale interpretazione interessò non solo la collocazione di questo gruppo di leggi nel vasto contesto della Mishneh Torah, ma anche l'organizzazione interna del gruppo e le decisioni halakhiche stesse.[5]

Generalizzazioni e distinzioni[modifica]

Rotolo della Torah (XVIII secolo)

L'esegesi sistematica e continuativa della Mishneh Torah risale addirittura al XIV secolo, quando Shem Tov ibn Ga`on scrisse il suo Migdal Oz e R. Vidal di Tolosa scrisse Maggid Mishneh. Questi commentatori erano figure relativamente marginali nel mon do halakhico del XIV secolo, ma il XVI secolo vide la produzione di commentari della Mishneh Torah scritti da grandi halakhisti. R. Joseph Karo scrisse Kesef Mishneh; R. Abraham di Boton di Salonicco intitolò il suo commentario Leẖem Mishneh; R. David Ibn Zimra (detto Radbaz), uno dei maggiori halakhisti della generazione susseguente all'espulsione dalla Spagna, scrisse un commentario su porzioni della Mishneh Torah noto col titolo Peirush ha-Radbaz. Inoltre, la raccolta di responsa di Ibn Zimra, Teshuvot ha-Radbaz, includeva una vasta serie di voci chiamate Leshonot ha-Rambam (le affermazioni di Maimonide), che coprivano quei responsa riferiti a giudizi complicati della Mishneh Torah. Questi interpreti della Mishneh Torah vennero conosciuti come gli "scudieri" di Maimonide, ed i loro trattati, inclusi nelle edizioni stampate della Mishneh Torah largamente diffuse, adornano i circondano il testo della Mishneh Torah stessa. Gli "scudieri" considerarono la Mishneh Torah innanzitutto come fonte di giudizi halakhici, esaminandone le fonti nel Talmud e tentando di risolvere occasionali divari tra tali fonti e i giudizi di Maimonide. Questi divari, tra l'altro, erano stati notati inizialmente dai commentatori critici della Mishneh Torah, i saggi provenzali R. Abraham ben David (Ra`abad) e R. Moses ha-Kohen (Ramakh), contemporanei di Maimonide.[7]

Gli inizi del XX secolo videro l'arrivo di una nuova ondata di scritti sulla Mishneh Torah ed un approccio più profondo al trattato. Degni di nota tra questi scrittori innovativi sono R. Hayyim Halevi di Brisk, autore di Hiddushei Rabbi Hayyim Halevi; R. Meir Simẖah Hakohen di Dvinsk, autore di Or Sameaẖ; e R. Yitẕẖaq Ze`ev Soloveitchik, figlio di R. Hayyim di Brisk e autore di una raccolta di novellae sulla Mishneh Torah.[8] Queste grandi opere, e altre a loro contemporanee, differiscono dai loro predecessori in quanto non trattano la Mishneh Torah come fonte di decisioni halakhiche. La usano invece per ottenere una migliore comprensione della sottostante discussione talmudica e sviluppare una conoscenza concettuale della halakhah. Questo nuovo approccio alla Mishneh Torah coincise con la nascita di un nuovo metodo di studio talmudico, annunciato non a caso da questi stessi studiosi. Tale metodo di studio, che venne adottato dalle grandi yeshivah lituane, si concentrava su un impegno ad intendere la halakhah come sistema concettuale. Un'anomalia interna nell'ambito di un passo talmudico, o una contraddizione tra due passi, veniva meglio risolto non con fasi locali, come una clausola relativa ad un'affermazione o una correzione testuale, ma facendo distinzioni sostanziali che riguardassero categorie e definizioni halakhiche. Questo procedimento — la creazione di distinzioni sostanziali che stbilissero categorie concettuali — permette non solo una differenziazione tra vari fenomeni ma anche il congiungimento di fenomeni apparentemente diversi nell'ambito di una categoria comune.[8]

Molti sono gli esempi che si possono citare per questo nuovo approccio analitico e la sua associazione al cambiamento di opinioni riguardo alla Mishneh Torah. Uno di questi implica l'analisi del concetto di kavanah (tradotto liberamente: "intenzione", "deliberatezza", o "concentrazione" — a causa dei vari sensi di questa parola in italiano, si userà il termine ebraico in quanto segue) nei suoi vari contesti halakhici. Nelle "Leggi sulla Preghiera" della Mishneh Torah, due dei giudizi di Maimonide sembrano contraddirsi a vicenda. Da un lato, sentenzia che, poiché la preghiera senza kavanah non è considerata vera preghiera, colui che recita una preghiera obbligatoria senza kavanah non ha adempiuto al suo obbligo e deve ripetere tale preghiera. Altrove tuttavia Maimonide sentenzia che l'adempimento dell'obbligo richiede solo che la prima benedizione della amidah[9] sia recitata con kavanah; se ad uno manca kavanah durante il resto della amidah il suo obbligo è comunque adempiuto. Si potrebbe sostenere, come fanno diversi interpreti della Mishneh Torah, che quest'ultima affermazione sia semplicemente una qualificazione della seconda, che limita la portata dell'obbligo di mantenere kavanah. Su questa lettura locale del problema, Maimonide sentenzia che, sebbene kavanah sia la caratteristica determinante della preghiera, una persona che mantiene kavanah solo durante la prima benedizione ha nondimeno adempiuto al suo dovere di pregare.[10]

R. Hayyim Soloveitchik, che non accettava questo tipo di spiegazione, cercava di chiarire la differenza in modo più sostanziale, proponendo che ci fossero in realtà due tipi di kavanah. Sentenziando innanzitutto che la preghiera senza kavanah non era preghiera, Maimonide usava il termine kavanah a significare una consapevolezza di stare davanti a Dio. Maimonide stesso lo affermò quando scrisse: "Come si ottiene l'intenzione corretta? Uno deve liberare la mente da tutti i pensieri e vedersi come se fosse dinanzi alla presenza Divina. Quindi, uno dovrebbe sedersi per un po' prima di pregare in modo da concentrare la propria mente, e poi pregare dolcemente e in maniera supplichevole" ("Leggi sulla Preghiera e la Benedizione Sacerdotale", 4, 16). In seguito però, quando scrive del requisito minimo — che uno abbia kavanah solo durante la prima benedizione — egli usa il termine in senso diverso, a far attenzione al significato e alle parole del passo che si recita.[8]

C'è una differenza pratica tra questi due tipi di kavanah. Uno si può alzare in piedi a pregare con la sensazione di trovarsi davanti a Dio — la forma di kavanah richiesta affinché la preghiera sia considerata preghiera — senza dirigere necessariamente la propria attenzione a quello che significhino le parole. Di conseguenza, l'esigenza che uno stia attento al significato delle parole è limitata alla prima benedizione; per tutto il resto della preghiera, la persona adempie al suo obbligo anche senza prestare attenzione alle parole fintanto che rimanga consapevole di trovarsi di fronte a Dio. Seguendo questa distinzione, il nipote di R. Hayyim, R. Joseph B. Soloveitchik, creò un nuovo termine concettuale — qiyyum she-be-lev (lett., adempimento nel proprio cuore) — per riferirsi a quei comandamenti in cui kavanah è un elemento determinante dell'azione richiesta e non solo una condizione di eseguirla appropriatamente. Si può ragionevolmente discutere, per esempio, se una persona che prende un lulav durante Sukkot senza kavanah abbia ugualmente adempiuto al suo obbligo. Tuttavia, quando si tratta di preghiera, è inconcepibile che l'obbligo sia considerato adempiuto, poiché la sostanza della preghiera è il trovarsi davanti a Dio e kavanah è l'essenza dell'adempimento del comandamento.[8][10]

Quale che sia il suo posto negli scritti di Maimonide — il problema è molto dibattuto tra gli studiosi maimonidiani — la distinzione proposta da R. Hayyim di Brisk rispecchia la nuova sensibilità esegetica. La soluzione di un problema locale può trovarsi in una distinzione concettuale indipendente, chiamata una ẖiluq (distinzione). Questa impostazione tuttavia non fa solo distinzioni; permette anche generalizzazioni. Una volta che si è stabilita la distinzione tra due tipi di kavanah, diventa possibile di mostrare come una di queste rappresenti una categoria generale che permette una migliore comprensione di altri casi halakhici. Per esempio, dopo aver stabilito la categoria di qiyyum she-be-lev nel contesto della preghiera, tale categoria distintiva può essere estesa a coprire ulteriori comandamenti, come il pentimento. Come per la preghiera, l'atto di pentimento è radicato nell'intenzione del cuore, nonostante la sua articolazione verbale necessaria nella confessione.[10]

Le qualità distintive della Mishneh Torah le forniscono la capacità di servire da fonte di ispirazione per questa impostazione analitica. Il processo di concettualizzazione della halakhah richiede prima di tutto un uso del linguaggio preciso e sistematico. La qualità linguistica della Mishneh Torah e le sue formulazioni elaborate e rigorose invitano tale sorta di lettura. Stilisticamente la Mishneh Torah è uno dei pinnacoli della letteratura ebraica. La sua fusione di frugalità e lucidità, che non ne diminuiscono affatto la precisione e la distinzione particolareggiata, rendono la Mishneh Torah il documento ebraico linguisticamente più suggestivo dai tempi della Mishnah. Ogni sua parola è misurata e pesata attentamente, ed i chiarimenti di formulazioni specifiche non implicano letture o eisegesi troppo sofisticate. Allo stesso tempo, l'espressione precisa e attenta non interferisce con la stupenda scorrevolezza del testo. Il grande sforzo applicato alla scelta delle parole di primo acchito non si nota, e ci confrontiamo quindi con un'opera multidimensionale e profonda, senza asperità. Nessuno è finora riuscito ad emulare questa impresa letteraria su tale scala e, per esempio, una lettura dello Shulchan Arukh ci dimostra immediatamente la grande differenza tra i due. Quando Joseph Karo, autore del Shulchan Arukh, cita la Mishneh Torah senza nominarla — caso frequente — il lettore attento riesce ad identificare la qualità letteraria unica di Maimonide, altamente superiore a quella diegli halakhisti passati e futuri.[10]

Oltre a queste qualità letterarie ed il loro invito ad un'analisi precisa, Maimonide sperava di produrre un quadro sistematico della halakhah in toto, nell'ambito di una nuova struttura organizzativa. Ciò gli richiedeva di formulare modelli di pensiero concettuale che diversificassero e generalizzassero. Un interprete che si sposta da tema a tema non usa necessariamente una forma di pensiero che, rispetto ad ogni halakhah, prenda in considerazione il sistema halakhico completo mentre valuta i modi in cui questa halakhah somigli o differisca da altre. Vediamo brevemente un esempio in cui Maimonide fa distinzione tra due situazioni halakhiche aggiungendo alcune parole.

La halakhah differenzia in svariati modi tra beni mobili ed immobili. Tra questi si trova il modo in cui tali beni sono acquisiti da un nuovo proprietario. I beni mobili sono acquisiti per trasferimento da persona a persona, riferendocisi col termine meshikhah ("tirare"); i beni immobili sono acquisiti con titolo scritto. Similmente, i beni immobili possono essere presi da un creditore ad estinzione di debito contratto dal proprietario incapace a pagare, e anche dopo che l'immobile è stato venduto, rimane subordinato all'interesse del creditore pre-vendita. Questo non è il caso rispetto ai beni mobili, che non sono assoggettati ai diritti del creditore. I beni mobili ed immobili differiscono anche rispetto alle leggi di comodato. Se un depositario non retribuito perde un articolo datogli in consegna, non è tenuto a ripagarlo purché giuri che tale articolo non è più in suo possesso e che non abbia agito negligentemente nel prendersene cura. Similmente, un depositario retribuito è tenuto a ripagare beni mobili datigli in consegna se sono rubati o smarriti, ma non a ripagare i beni immobili. Classificare un dato articolo come bene immobile o mobile è quindi importante in diversi rispetti. Il Talmud riporta un dissenso se i frutti maturi di un albero, pronti per essere raccolti, siano considerati beni mobili o immobili. Da un lato, i frutti restano connessi alla terra e potrebbero essere considerati parte del campo; dall'altro, i frutti sono pronti per essere raccolti e, in quel senso, possono essere considerati beni mobili.[11]

Nella Mishneh Torah, Maimonide giudica, come esposto nella discussione del Talmud, che i frutti, anche se non raccolti, abbiano lo status giuridico di beni mobili. Ma Maimonide giudica anche, coerentemente con una discussione su BT Shevu`ot, che i frutti pronti per essere raccolti abbiano lo status di bene immobile, non di bene mobile: "Se un uomo consegna ad un suo conoscente qualcosa da custodire che sia annessa alla terra, anche se fosse uva pronta da raccogliere, la si considera proprietà terriera rispetto alla legge di comodato" ("Leggi sulle Assunzioni", 2:4). Alcuni commentatori hanno esaminato l'apparente contraddizione riguardo allo status dei frutti.[8] Tuttavia Maimonide include un'importante riserva nel suo giudizio: "la si considera proprietà terriera rispetto alla legge di comodato", che indica una distinzione tra lo status dei frutti secondo le leggi di comodato e altrimenti. Rabbi Vidal di Tolosa, autore di Maggid Mishneh, vide la definizione ma annotò la sua incapacità di giustificarla: "Sembra distinguere tra le leggi di comodato e altre leggi, ed io non conosco solide ragioni per farlo" ("Leggi sui Patrocini", 5:4).

Maimonide non spiega il suo fondamento logico per tale distinzione, ma il suo significato diventa chiaro nelle novellae di BT Shevu`ot di R. Joseph Ibn Migash, che Maimonide considerava suo maestro e lo teneva in grande stima. Ibn Migash affermava che i frutti che stanno per essere raccolti hanno lo status di beni immobili in tutti i rispetti, eccetto ai sensi delle leggi di comodato, dove sono considerati beni immobili. La ragione è che il depositario è obbligato a restituire la proprietà datagli in consegna nella stessa condizione in cui l'ha ricevuta, e non può cambiare lo status dei frutti affidatigli. Di conseguenza, anche se i frutti che stanno per essere raccolti normalmente hanno lo status di beni mobili, se furono affidati al depositario mentre erano ancora attaccati alla terra, egli deve restituirli come li ha ricevuti, cioè come beni immobili. La breve aggiunta al testo della Mishneh Torah — "rispetto alla legge di comodato", appena due parole in ebraico — riflette quindi una distinzione sostanziale che ci permette di distinguere tra differenti manifestazioni di una halakhah che in superficie appaiono identiche.[11]

La precisione concettuale di Maimonide come halakhista non consegue soltanto dall'impegno dimostrato a risolvere le contraddizioni tra brani talmudici. A volte egli elabora distinzioni importanti che mancano di un qualsiasi impeto esterno, facendolo sulla base di un'analisi interna dell'istituzione halakhica stessa. Un chiaro esempio appare nel testo maimonideo sulle leggi relative al comandamento di rimproverare i propri simili. Un ebreo è obbligato a rimproverare un correligionario che trasgredisce una legge della Torah. Il comandamento è dedotto dal versetto "rimprovera apertamente il tuo prossimo" (Levitico 19:17) ed è elaborato estensivamente nei midrashim halakhici e nel Talmud. Una lettura dell'analisi di Maimonide rivela due tipi differenti di rimprovero:

« 5. Chiunque alberghi nel cuore odio per qualsiasi Israelita, trasgredisce una proibizione, poiché è detto, "Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello" (Lev. 19:17)...
6. Quando un uomo pecca contro un altro, la parte lesa non deve odiare l'offensore e rimanere in silenzio, poiché è detto in merito al malvagio, "E Assalonne non disse una parola ad Amnòn né in bene né in male; perché Absalom odiava Amnòn" (2 Sam. 13:22). Ma è suo dovere informare l'offensore e dirgli "Perché mi hai fatto questo? Perché hai peccato contro di me in questa faccenda?" E perciò è detto, "rimprovera apertamente il tuo prossimo" (Lev. 19:17). Se l'offensore si pente e implora perdono, egli deve essere perdonato. Il perdonatore non deve essere ostinato, poiché è detto, "Allora Abrahamo pregò Dio (per Abimelek)" (Gen. 20:17).
7. Se uno osserva che una persona ha commesso un peccato o cammina per un sentiero non buono, è suo dovere riportare l'uomo sulla giusta via e avvisarlo che si sta facendo del male seguendo vie malvagie, poiché è detto "rimprovera apertamente il tuo prossimo" (Lev. 19:17). »
("Leggi sulle Disposizioni Morali", 6:5-7)

Nella halakhah 6, Maimonide collega il dovere di rimproverare alla proscrizione dell'odio. Colui che viene leso da un altro ha il dovere di rimproverare l'offensore, poiché in mancanza di tale rimprovero verbale, la parte lesa arriverà ad odiare il suo offensore. Tale sorta di rimprovero è intesa non solo a prevenire che l'odio dell'offensore infesti il cuore della parte lesa; può anche portare ad una riconciliazione, poiché se l'offensore dopo il rimprovero chiede perdono, la parte lesa ha il dovere di metter da parte la propria collera e concedergli il perdono. Nella halakhah 7 tuttavia Maimonide passa ad una categoria differente di rimprovero. Qui, viene comdandato di rimproverare il prossimo se lo vede peccare, onde farlo rientrare sulla giusta via. Il dovere è del tutto estraneo a qualsiasi rapporto tra danneggiante e dannaggiato, ed è prescritto a tutti coloro che sono testimoni di una trasgressione. Il dovere si basa non sulla proibizione di "Tu non odierai" ma sull'interdipendenza dei membri di una comunità. Come dice Maimonide alla fine della halakhah 7, "Chiunque sia in grado di impedire un torto e non lo fa è responsabile delle iniquità che avrebbe potuto evitare."

Maimonide divide quindi il dovere di rimproverare in due categorie interamente differenti, ognuna basata su una sua logica e applicabile a persone diverse. Una revisione del trattamento talmudico del comandamento dimostra che si concentra estesamente sulla seconda categoria: come rimproverare, chi rimproverare, per quanto tempo rimproverare qualcuno che non reagisce. L'innovazione di Maimonide è nella sua costruzione di una categoria aggiuntiva nell'ambito del comandamento, relativa al dovere della parte lesa di esprimere la propria rimostranza all'offensore cosicché il suo sentimento di affronto non si trasformi in odio profondo. Per quanto se ne possa sapere, questa distinzione non si trova in nessuna tradizione halakhica premaimonidea.[11] La prima categoria di rimprovero la si può riscontrare nei Rotoli del Mar Morto e nella letteratura apocrifa del Secondo Tempio, ma nella letteratura rabbinica non è collegata al "rimprovera apertamente".[8]

Maimonide creò questa categoria aggiuntiva come interpretazione diretta della Scrittura, in cui l'obbligo di rimproverare segue immediatamente dopo la proibizione di odiare: "Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai d'un peccato per lui" (Lev. 19:17). In questa lettura, il dovere di rimproverare deriva dalla proibizione di odiare; sono internamente e psicologicamente continui. La proibizione di covare odio nel proprio cuore, che di primo acchito sembra essere uno sforzo inspiegabile di insistere sulla responsabilità dei propri sentimenti, è resa possibile dal dovere di esternalizzare quei sentimenti e rimproverare l'offensore. Maimonide supporta la sua lettura della sequenza del versetto e della dinamica psicologica che postula un nesso tra la proibizione di odiare ed il dovere di rimproverare, citando il nesso della Scrittura tra il silenzio di Assalonne ed il suo odio di Amnòn. In questo caso, il processo mentale concettuale nella Mishneh Torah è basato non su una contraddizione delle fonti halakhiche ma da una distinzione interna tra due aspetti molto differenti di ciò che sembrava essere una istituzione halakhica singola. La distinzione provvede anche un bell'esempio di Maimonide quale esegeta biblico.[8][11]

Scuola talmudica (dipinto di Samuel Hirszenberg)

Il pensiero concettuale si muove in due direzioni differenti ma interconnesse. Una, che abbiamo considerato ed illustrato, formula distinzioni sostanziali nell'ambito di una singola istituzione halakhica, come nel caso di kavanah o del rimprovero. L'altra porta materie halakhiche apparentemente diverse nel campo di una rubrica concettuale comune. Un esempio interessante di tale processo venne notato dal grande studioso lituano del XIX secolo R. Meir Simẖah Hakohen di Dvinsk nel suo libro Or Sameaẖ; si riferisce alla visione politica complessiva di Maimonide. Il punto di partenza per analizzare questo esempio è la collocazione peculiare dei sette comandamenti noachici all'interno della Mishneh Torah. Secondo la halakhah, i noachici (figli di Noè, che includono tutta l'umanità) sono vincolati da sette comandamenti: il divieto di idolatria, di bestemmiare Dio, di omicidio, di incesto, di mangiare un arto lacerato da un animale vivente, di derubare e l'obbligo di stabilire tribunali che giudichino materie relative ai succitati comandamenti.[12]

Gli halakhot relativi ai comandamenti noachici sono inclusi nella Mishneh Torah sotto le "Leggi sui Re". Di primo acchito, il tema dovrebbe essere trattato altrove, La proibizione dell'omicidio poteva essere inclusa nella "Leggi sull'Omicidio"; la proibizione di mangiare un arto lacerato da un animale vivente poteva stare nelle "Leggi sul Cibi Proibiti", e così via. Il solo elemento delle Leggi Noachiche che riguardi il Libro dei Giudici — che, come già detto, si occupa di problemi di diritto costituzionale — è il dovere dei noachici di formare tribunali e giudicare casi. È possibile che Maimonide volesse mantenere i sette comandamenti noachici come unità singola piuttosto che disperderli nei vari libri della Mishneh Torah, e ciò avrebbe un notevole senso organizzativo. Ma le "Leggi sui Re" si occupa interamente di leggi applicabili ai re di Israele, e non sembra esserci ragione per includerci i comandamenti noachici.[12]

Come si è visto,aspetti organizzativi unici della Mishneh Torah si basano su strutture profondamente concettuali. In questo caso, il posizionamento dei comandamenti noachici nella "Leggi sui Re" si collega con il concetto distintivo maimonideo che riguarda il ruolo politico del Re di Israele. Col suo posizionamento delle leggi noachiche, Maimonide mantiene l'opinione che i comandamenti noachici rientrano nell'ambito della comunità ebraica. Il Re ed i tribunali di Israele sono responsabili di assicurare che i noachici osservino i loro sette comandamenti. Questa idea è evidenziata da una serie di giudizi in materia, sebbene si debba notare che gli halakhisti medievali dissentivano da tali giudizi. La responsabilità di Israele riguardo all'adempimento dei comandamenti noachici è affermata programmaticamente all'inizio della discussione: "Inoltre, Mosè nostro Maestro venne comandato da Dio di obbligare tutti gli esseri umani ad accettare i comandamenti ingiunti ai discendenti di Noè. Chiunque non li accetti viene messo a morte" ("Leggi sui Re", 8:10).[13] Su tale base, Maimonide giustifica gli atti di Simeone e Levi, figli di Giacobbe, che uccisero la gente di Shekhem dopo lo stupro della loro sorella Dinah; secondo questa opinione, Shekhem fu punita dai figli di Giacobbe perché la popolazione non aveva stabilito tribunali che potessero giudicare Shekhemp per lo stupro di Dina. Nahmanide, in contrasto, sosteneva che l'adempimento dei sette comandamenti noachici non era una materia di competenza giuridica di Israele: "poiché ai figli di Giacobbe non fu data l'autorità di esprimere un giudizio in merito" (Commentario a Gen. 35:13).[12]

Coerente con la sua idea che assicurare l'adempimento dei comandamenti noachici non è soltanto una responsabilità delle nazioni noachiche e che l'autorità ebraica si estende anche a loro, Maimonide include nelle "Leggi sui Re" due giudizi significvativi per la legge di guerra. Primo, la Torah proibisce ad Israele di stipulare un patto con le sette nazioni cananee e richiede di far loro guerra fino alla fine, senza alcuna possibilità di pace. Maimonide giudicò che se le nazioni cananee accettano i sette comandamenti noachici, Israele può stipulare un trattato di pace con loro e diviene proibito far loro guerra. Ra`abad dissentì, non vedendo alcuna base nelle fonti talmudiche per tale giudizio. Secondo, riguardo alle guerre contro nazioni non cananee — citate come "guerre opzionali" — la halakhah richiede che le forze israelite invitino e permettano una resa pacifica prima di attaccare. Se il nemico accetta di assoggettarsi al dominio israelita e pagare tributi, è proibito fargli guerra. Maimonide sosteneva che la proposta di una resa pacifica doveva includere l'obbligo da parte del nemico di sottostare ai sette comandamenti noachici. Anche qui Ra`abad dissentiva, non trovando nessuna fonte talmudica per tale giudizio. Ma Maimonide affermava che uno degli scopi sostanziali di dichiarare guerra era quello di imporre i comandamenti noachici.[12] Di conseguenza, nel contesto sia di guerra comandata (cioè contro i cananei) e guerra facoltativa, sarebbe stato proibito muovere guerra contro un nemico che si impegnava a adempiere questi comandamenti: "Non si dichiara guerra contro una nazione prima che le si facciano offerte di pace. Ciò si applica sia per una guerra facoltativa sia per una guerra per cause religiose, poiché è detto: Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace (Deut. 20:10). Se gli abitanti fanno la pace e accettano i sette comandamenti imposti ai discendenti di Noè, nessuno verrà ucciso." ("Leggi sui Re", 6:4).

Questi due giudizi particolari procedono dal concetto di Maimonide che la responsabilità politica del regno israelita si estende all'adempimento obbligatorio dei sette comandamenti noachici. Queste innovazioni, evidenziate da Gerald Bildstein nel suo libro sui principi politici di Maimonide, rivelano influenze islamiche nei giudizi maimonidei e nella visione universale della responsabilità politica della sovranità ebraica.[14] In questo contesto della missione universale dell'ordinamento politico ebraico, Maimonide fa un'affermazione normativa e teologicain merito alla situazione religiosa del noachita che adempie i suoi obblighi, affermazione che ha attirato l'attenzione di generazioni di lettori:

« Chiunque accetti i sette comandamenti e li osservi scrupolosamente è da annoverarsi tra i Pii dei Gentili e avrà una porzione del mondo a venire, a patto che li accetti e li pratichi perché il Santo, che Egli sia benedetto, li comandò nella Torah, e li fece conoscere mediante Mosè, nostro Maestro, che i discendenti di Noè furono inizialmente comandati di osservarli. Ma se la sua osservanza si basa su una conclusione ragionata, egli non viene considerato uno straniero residente, o uno dei pii dei Gentili, ma uno dei loro uomini saggi. »
("Leggi dei Re e delle Guerre", 8, 11)

È quindi non solo la missione di Israele di imporre i comandamenti universali, ma piuttosto l'accettazione di tali comandamenti e la piena condizione religiosa che è implicita in questa accettazione devono essere basate su un riconoscimento che essi furono comandati nella Torah e conosciuti tramite Mosè. L'adempimento delle leggi noachiche che scaturisce solo dalla ragione garantisce al noachita la condizione di gentile saggio, ma non quella del pio dei Gentili. Il punto che Maimonide vuole stressare è che l'autorità di queste leggi universali si fonda non nella ragione universale o in altra tradizione religiosa, ma solamente sulla Torah di Mosè. La missione universale dell'ordinamento politico ebraico si fonda proprio sulla fonte di autorità di tale credo universale.[12]

Un'ulteriore connessione profondamente radicata tra le "Leggi sui Re" e i sette comandamenti noachici venne notata da R. Meir Simẖa Hakohen di Dvinsk. Una delle innovazioni halakhiche importanti di Maimonide nella sfera politica riguarda il ruolo del re come giudice e funzionario penale. La halakhah esprime standard molto rigorosi quando viene imposta una pena, specialmente una pena capitale — standard così rigorosi da precludere in effetti tutte le possibilità di punizione. Per condannare qualcuno, per prima cosa devono esserci due testimoni oculari che ammoniscano il trasgressore prima che compia il reato. Tra le altre restrizioni, questi testimoni devono essere insieme quando osservano la trasgressione. Quando si decide una condanna, la halakhah rifiuta qualsiasi ricorso a prove indiziarie, come un chiaro motivo per commettere il reato, o la testimonianza di un solo testimone o testimoni invalidati. I testimoni vengono interrogati così severamente da rendere una condanna virtualmente impossibile, e la halakhah ha ampi margini per definire gli elementi di un reato. L'atto proibito deve essere commesso direttamente, per mano dell'accusato; se la sua azione è indiretta, non verrà condannato anche se fosse chiaramente responsabile del reato stesso. Coerentemente con tale principio, una persona eviterà la pena del tribunale se lega un'altra persona, la mette davanti ad un leone e permette al leone di divorare la vittima; in tal caso, la morte è provocata indirettamente, e non per mano diretta dell'accusato. La halakhah riconosce la responsabilità morale di un tale accusato e lo ritiene responsabile davanti al tribunale celeste, ma lo esenta da punizione imposta da un tribunale umano.[14]

Come già detto, questi rigorosi standard di prova e reati definiti senso stretto precludono quasi tutte le possibilità di punizione da parte di un tribunale e creano un vuoto che potrebbe risultare in anarchia. Secondo Maimonide una delle funzioni del re è di colmare tale vuoto. Nelle "Leggi sull'Omicidio", dopo aver citato gli standard rigorosi che devono essere osservati prima che un tribunale possa imporre la pena, Maimonide aggiunge: "In merito a questi ed altri omicidi che non sono soggetti a condanna di morte con verdetto del tribunale, se un re di Israele desidera mandarli a morte con decreto reale a beneficio della società, egli ha il diritto di farlo." ("Leggi sull'Omicidio e la Salvaguardia della Vita", 2:4). Ribadisce la sua opinione particolare del ruolo del re in "Leggi sui Re": "Se una persona ammazza un'altra e non esiste prova chiara, o se non la si è avvisata, o c'è solo un testimone, o se uno uccide accidentalmente una persona che odiava, il re può, se l'esigenza del momento lo richieda, mandarlo a morte onde assicurare la stabilità dell'ordine sociale" (Ibid. 3:10). Il re dunque opera in quelle aree dove la halakhah riconosce la responsabilità morale dell'omicida ma non ne permette la punizione da parte di un tribunale umano, sia per mancanza di prove accettabili sia perché l'atto criminale è stato commesso indirettamente. Il re viene qui visto come responsabile dell'ordine sociale e della stabilità; a tal fine, gli viene data ampia autorità giudiziaria per riempire il vuoto lasciato dalla halakhah.[14]

I commentatori della Mishneh Torah si chiesero quale fosse la fonte di Maimonide in merito all'ampia autorità del re ad imporre la pena capitale dove la halakhah stessa non la contemplasse. Il Talmud fa riferimento alla legge reale ma non contiene riferimenti ad un concetto così ampio e certamente non lo menziona come modo per colmare una lacuna halakhica. Ma una lettura delle leggi noachiche nelle "Leggi sui Re" rivela la fonte di ispirazione per l'ampio concetto di legge reale, come dimostra R. Meir Simẖa Hakohen di Dvinsk nel suo libro Or Sameiaẖ. Ai noachiti è vietato uccidere, e sono soggetti a pena di morte se lo facessero. Discutendo le leggi evidenziarie relative ai noachiti, Maimonide seguendo il Talmud afferma che "un noachita viene giustiziato su prova di un solo testimone, sulla sentenza di un solo giudice, e senza previo ammonimento. È condannato anche (per testimonianza di) un parente" ("Leggi sui Re, 9:14). La possibilità che un noachita venga punito aumenta non solo allentando le norme evidenziarie ma anche ampliando la definizione del reato punibile. Secondo Maimonide, un noachita può essere giustiziato anche se uccide indirettamente: "Così anche se uccide uno che soffre di malattia terminale, o lega un uomo con una corda e lo mette davanti ad un leone, o lo lascia in condizioni affamate che ne provocano la morte per inedia, egli viene giustiziato, poiché in ultima analisi ha provocato la morte della vittima" ("Leggi sui Re", 9:4). Nella Mishneh Torah pertanto le leggi evidenziarie e la definizione di reato applicabile al noachita corripondono a quelle applicate per aggiudicazione dal re. Il parallelo tra la legge applicabile a noachiti e la giustizia reale israelita deriva dal fatto che entrambe sono connesse al perseguimento di stabilità e armonia sociale. Questo è un aspetto universale della giustizia che vincola ogni società umana, noachita e israelita. La legge assegna al re l'autorità di migliorare la società ed il mondo, e tale responsabilità gli deriva dalle leggi noachiche e le corrisponde.[14][12]

Questa analisi della relazione tra la legge del re israelita e i sette comandamenti noachici dimostra come Maimonide creò paralleli strutturali e organizzativi e, su tali basi, pose due principi halakhici apparentemente differenti sotto una rubrica concettuale condivisa che ne chiarisce la natura. Mosse generalizzanti di questo tipo, come anche facendo distinzioni tra varie forme di halakhot simili, sono il nucleo del pensiero concettuale in merito alla halakhah. Non è una semplice coincidenza che tale sorta di pensiero halakhico si sviluppasse durante il XX secolo grazie ad un'esegesi intensa della Mishneh Torah. Ogni capitolo del trattato è una miniera di profondi pensieri concettuali, che hanno modellato le categorie dell'interpretazione halakhica.[14]

Fonti talmudiche[modifica]

Frontespizio del Talmud babilonese (edizione di Vilna)

L'originale comprensione concettuale della halakhah da parte di Maimonide diventa evidente anche nel suo trattamento delle fonti talmudiche nella Mishne Torah. Il Talmud babilonese (Bavli) comprende vari livelli di tradizioni. Il primo livello comprende le dichiarazioni degli amora`im citate nel Talmud, tra cui il nucleo centrale dei loro dibattiti.[15] Tale livello fu integrato da un livello noto in ricerca talmudica col termine stamma (da stam, che significa "anonimo"); comprende le dispute talmudiche anonime, che chiariscono ed interpretano le affermazioni e posizioni amoraiche. Studiosi come Jacob Levinger e Meir Simẖa Feldblum hanno notato che Maimonide non considerava la disputa talmudica anonima come autorevole e vincolante. A volte giudica secondo le dicvhiarazioni amoraiche stesse, rifiutando ciò che viene implicato dal successivo dibattito anonimo. Questo approccio gli permise un notevole grado di indipendenza nella comprensione della halakhah e nell'arrivare a decisioni halakhiche. Inoltre Maimonide non è necessariamente impegnato a rispettare la logica degli halakhot che appaiono nel Talmud. A volte suggerisce altri fondamenti logici, e quelli suoi originali possono, in rari casi, condurre a sostanziali differenze nel giudizio halakhico stesso.[16]

Non è semplice presentare un quadro consistente dell'approccio maimonideo alle sue fonti. Di primo acchito, tale quadro potrebbe derivare da un paragone dei giudizi di Maimonide così come sono con la nostra propria interpretazione dei passi talmudici su cui sono basati i giudizi. Ma in assenza di motivazioni specifiche per gli halakhot nel trattato di Maimonide, l'identificazione di una divergenza tra la controversia talmudica ed il modo in cui Maimonide interpreta la halakhah dipenderà spesso dalla sola speculazione. Non sappiamo come Maimonide interpretava il passo, e quindi non possiamo affermare facilmente che egli consapevolmente dissentisse dal suo significato. Dai molti esempi di tali dissensi è quindi meglio concentrarsi su quelli che Maimonide dichiarava, reagendo a domande sui suoi giudizi, di non essere assolutamente influenzato dalle controversie talmudiche. Due volte assunse tale posizione per principio, e queste due volte vale la pena di esaminarle.[16]

Una delle sue risposte si riferisce ad un giudizio nella Mishneh Torah che preoccupava i saggi di Lunel perché si allontanava da quello che veniva chiaramente implicato dalla discussione talmudica. Nella sua risposta, Maimonide dice di aver combattuto col problema per diversi giorni: "Quando scrissi il libro, considerai questa materia per svariati giorni, e la versione originale, che ritrassi e non inclusi, evidentemente rifletteva questa halakhah secondo l'opinione di R. Isaac" (Teshuvot, sez. 345). Quindi, nella prima bozza della Mishneh Torah, che Maimonide non incluse nella versione autorevole, la halakhah venne risolta secondo l'opinione di R. Isaac, risoluzione raggiunta dalle delibere talmudiche. Ma dopo uno studio del problema, Maimonide cambiò parere e ne spiegò la ragione: "non dobbiamo mettere da parte l'insegnamento accettato e decidere la halakhah secondo la discussione della Gemara... certamente non dobbiamo decidere la halakhah sulla base di discussioni" (Ibid.).

Una risposta aggiuntiva che rivela la complessa disposizione di Maimonide verso il dibattito talmudico coinvolge il primo passo di Bava Batra. Il passo considera se i comproprietari di un cortile condiviso possano costringersi l'un l'altro a dividere il cortile e costruire una separazione tra loro, fornendosi così di un certo grado di risevatezza. Il Talmud risolve il problema sulla base se il danno causato dal vedere il dominio privato di un altro sia considerato un danno riconoscibile che giustifichi la richiesta di uno dei comproprietari a che l'altro condivida le spese per costruire una partizione alta quattro cubiti. Ad un certo punto dell'inchiesta il Talmud solleva la possibilità che tale partizione possa essere costruita solo con accordo, poiché il danno causato dal vedere non è danno riconoscibile. Poi contesta tale opinione, citando la regola che costruire una partizione possa essere obbligatorio nel caso di un campo di verdure e chiedendo la ragione per cui non lo si possa fare anche per un cortile condiviso. Il Talmud risponde distinguendo il campo di verdure in base al fatto che la costruzione di una partizione può essere obbligatoria per evitare il malocchio. Il significato semplice della risoluzione talmudica è che, nel caso di un campo, la costruzione della partizione può essere obbligatoria perché un socio potrebbe danneggiare il raccolto dell'altro a causa di malocchio, una considerazione che non si applica nel caso di un cortile, dove non ci sono raccolti.[16][15]

Nella Mishneh Torah, la halakhah viene decisa in accordo con ciò che segue nel passo talmudico, cioè che il danno causato dal vedere è in verità un danno riconoscibile, e i comproprietari del cortile si possono costringere a vicenda a costruire una partizione di quattro cubiti. Ciò nondimeno, Maimonide giudica che la partizione nel campo di verdure debba essere alta solo di dieci palmi, non quattro cubiti. Una partizione alta dieci palmi non è abbastanza elevata da ostruire il campo visivo di una persona, ed indica soltanto che i lotti di ambo le parti sono possedimenti diversi. Di primo acchito, questo giudizio sembrerebbe essere in disaccordo col Talmud, in cui una partizione alta quattro cubiti deve essere costruita nel campo di verdure a causa di preoccupazioni sul malocchio. Infatti Ra`abad commenta che la sentenza di Maimonide è in errore; secondo lui, uno può costringere a costruire una partizione alta quattro cubiti in un campo di verdure. I saggi di Lunel chiesero a Maimonide di spiegare il suo giudizio, ed egli rispose:

« Questa è una domanda che grandi uomini come voi non avrebbero dovuto farmi. Perché non vedete forse la differenza che il [tipo di] danno causato dal vedere — un danno grande e genuino, in quanto uno vede il suo vicino mentre gira e siede e svolge i suoi affari — e il [tipo di] danno causato dal vedere il proprio vicino produrre con malocchio? Dato che è un atto di compassione che uno non guardi un altro di malocchio [cioè, gelosia; cfr. la discussione che segue], e quella risposta è una spiegazione anonima non in accordo con la halakhah. L'essenza del danno di vedere è in un cortile, luogo dove la gente vive; ma in un orto, non c'è bisogno di quattro cubiti, poiché la gente non ci vive e una partizione di dieci palmi è sufficiente, tale che uno possa essere catturato come ladro [se prendesse le verdure dall'altra parte della partizione]. E tale è il caso a fortiori in un campo di verdure. »
(Teshuvot, sez. 395)

Maimonide inizia la sua risposta con un principio ragionato: c'è una differenza considerevole tra un cortile e un campo di verdure, poiché il danno causato riguarda la protezione della vita privata. Questa è pertinente solo ad un luogo dove vive la persona, come un cortile di casa. In contrasto, partizioni tra orti o campi di verdure, dove non risiedono persone, non sono intese a proteggere la riservatezza privata ma solo a delimitare la proprietà. Di conseguenza, una partizione nel cortile deve essere alta quattro cubiti, in modo che il campo visivo sia ostruito, ma quella di un campo necessita solo dieci palmi, sufficienti a delimitare l'estensione della proprietà di ciascuno.[16]

I commenti del talmud circa la partizione del campo, che deve essere costruita a causa del malocchio, in verità contraddice la succitata distinzione, ma Maimonide li rifiuta come spiegazione anonima non vincolante. Sostiene tale opinione in parte perché obietta alla credenze magiche e non credeva al malocchio come agente di danni. Secondo lui, il riferimento all'"occhio maligno" del Talmud non denota protezione contro danni ma protezione dell'anima di chi guarda dall'avarizia e dalla gelosia: "Dato che è un atto di compassione che uno non guardi un altro di malocchio". Secondo lui, la discussione del Talmud deve superare la prova della ragione. In questo caso, tale discussione non è vincolante, poiché non si può costringere a costruire una partizione basandosi su considerazioni di compassione, e la proposta appare nel Talmud come spiegazione rifiutata.[15]

La risposta illustra due elementi dell'approccio maimonideo al Talmud. Primo, alla luce della sua posizione filosofica, egli tenta di eliminare dalle decisioni halakhiche e dall'interpretazione di passi talmudici qualsiasi elemento che egli considera avere un carattere "magico". Secondo, non si impegna inequivocabilmente a seguire le implicazioni di discussioni talmudiche. Una simile indipendenza è evidente nelle ragioni fornite da Maimonide per vari halakhot, ragioni che sembrano differire da quelle proposte dal Talmud stesso. Una dichiarazione di principio in merito a tali divergenze appare nella sua risposta relativa alla differenza tra una motivazione esposta nella Mishneh Torah e quella del Rif e del Talmud. Ai sensi della legge della Torah, la proibizione di mangiare lievito durante Pesach va in vigore all'inizio della settima ora del 14 Nisan, la Vigilia di Pesach, prima che inizi il festival stesso.[17] I rabbini ampliarono la proibizione, estendendola ad includere tutta la sesta ora e persino la quinta. La ragione data nel Talmud e ripetuta dal Rif è che in un giorno nuvoloso, la gente potrebbe confondere la settima ora con la quinta. Nella Mishneh Torah, Maimonide dice che i saggi estesero la proibizione fino alla sesta ora e in seguito dichiararono che si applicava anche alla quinta, poiché la gente poteva confondere la sesta ora con la quinta. A Maimonide fu chiesta la ragione di questa divergenza dalla motivazione talmudica ed egli rispose: "Ciò che appare negli halakhot [del Rif] — cioè, per evitare di confondere la quinta ora con la settima — è infatti accurato; è l'affermazione del Talmud in risposta alla domanda ivi posta. Ma io ho fatto riferimento a quello che accade comunemente, che è di confondere un'ora con l'ora che la segue, poiché la mia intenzione in tutto questo trattato è esporre le leggi più vicine alla ragione o a quello che accede comunemente" (Iggerot, p. 654). Un errore di due ore è insolito e Maimonide specifica quindi una motivazione differente per rendere la materia più ragionevole, e lo fa sebbene la versione del Rif citi la ragione che appare nel Talmud. Maimonide dichiara comunque che questo è il suo metodo in tutto il trattato della Mishneh Torah.[15]

Studio del Talmud (dipinto di H. Wimmer, ca. 1900)

Spesso le motivazioni indipendenti non alterano la halakhah. Inoltre una lettura del passo talmudico dimostra che la motivazione di Maimonide è fondata su una compresnsione esatta del passo stesso. Talvolta però, una motivazione differente implica una comprensione originale della halakhah in esame. Un esempio istruttivo appare in uno dei suoi responsa, dove suggerisce una formulazione innovativa di un giudizio talmudico che sembra incorporare considerazioni magiche.[16] Il Talmud (BT Yevamot 64b) determina che una donna diventata vedova per due volte non deve sposarsi una terza volta perché viene considerata una "donna letale". La discussione offre due motivazioni per tale decisione: che "la fontana è la causa", cioè i rapporti sessuali sono la causa di morte, o che "le stelle sono la causa", cioè ci sono ragioni astrologiche per le morti dei mariti di tale donna. Maimonide considerò la questione in risposta ad una domanda che chiedeva su una donna due volte vedova, il cui secondo marito era morto senza lasciar figli, potesse contrarre un matrimonio di levirato col fratello di lui (yibbum). Rispose: "Mi meraviglio molto cari studiosi, costantemente occupati dalla Torah, che abbiate dubbi in merito al grado specifico delle ammonizioni e non sappiate distinguere tra qualcosa di proibito dalla Torah, qualcosa di proibito dalle loro [cioè, i rabbini] parole, e qualcosa che è soltanto ripugnante ma non proibito" (Iggerot, p. 622). Maimonide determina sin dall'inizio che la halakhah che limita ad una donna due volte vedova di risposarsi non invoca una vera proibizione ma reputa tale sorta di matrimonio ripugnante. Poi continua e caratterizza la repugnanza di tale matrimonio per una donna già vedova due volte: "Rischio possibile di mortalità basato sulla divinazione o preoccupazioni immagnarie, che a volte affliggono corpi di debole costituzione" (Ibid.). La ripugnanza del terzo matrimonio non implica una vera influenza della vedova sulla salute del terzo marito ma si basa su considerazioni psicosomatiche: una preoccupazione basata sulla superstizione potrebbe nondimeno esercitare un effetto reale sulla persona. La trasformazione della specifica proibizione talmudica in una semplice dichiarazione di ripugnanza, fondata sull'influenza psicologica della superstizione, dimostra che Maimonide aveva un approccio differente al problema pratico presentatogli.[15] Basò la sua argomentazione anche sulla pratica andalusa:

« La halakhah pratica che abbiamo sempre applicato in tutte le città dell'Andalusia è che, se una donna rimane ripetutamente vedova, ella non debba essere impedita dal risposarsi, specialmente se è giovane, poiché ci si preoccupa del discapito che potrebbe derivarne. .. Come possiamo mettere a rischio le figlie di Israele che potrebbero così smarrirsi? Ciò che la gente compassionevole e timorosa di Dio faceva era di evitare di organizzare il matrimonio di una vedova multipla ma dicendole esplicitamente: se sei capace di trovare qualcuno che ti sposi, non gli chiederemo di divorziarti. E la donna ed il nuovo marito congegnano che ella si prometta a lui davanti a soli due testimoni, e poi ella deve presentarsi al tribunale, che redigerà una ketubbah (contratto di matrimonio) per lei, ed ella entrerà sotto il baldacchino nuziale ed il tribunale reciterà le sette benedizioni per lei, poiché è stata già promessa. Tale fu la pratica del tribunale di rabbeinu Isaac di benedetta memoria, autore degli Halakhot [cioè, il Rif] come anche il tribunale di Rabbeinu Joseph Halevi [cioè, Ibn Migash], suo studente, di benedetta memoria, e fu la pratica di tutti coloro che li seguirono; e questo è quanto noi stessi abbiamo insegnato ed agito in terra d'Egitto da quando ci siamo arrivati. »
(Iggerot, pp. 622-623)

Una preoccupazione basata su divinazione magica non può avere facoltà di lasciare una donna bloccata nella vedovanza. Di conseguenza, la pratica dell'Andalusia era di eludere la proibizione avvisando la donna di trovarsi il marito per conto suo, ed il tribunale avrebbe confermato il matrimonio come fatto compiuto. Questa posizione ha la sua fonte nella lunga tradizione andalusa, e Maimonide la usa nella pratica halakhica. Il suo giudizio in merito, esposto nella Mishneh Torah, si basa sia sulla motivazione cambiata della halakhah e sia sulla pratica andalusa: "Se una donna è stata sposata in successione a due mariti ed entrambi sono morti, non dovrebbe sposarsi una terza volta, ma se lo fa, non è soggetta a divorzio. Anche se solo la promessa di matrimonio è stata fatta, il terzo maritoè può consumare il matrimonio" ("Leggi sul Rapporto Proibito", 21:31). Secondo questa sentenza, una volta che il matrimonio di tale tipo è avvenuto, non deve essere annullato, e ciò avviene anche se è stata fatta solo la promessa e gli sposi devono ancora entrare sotto il baldacchino nuziale.[15]

Non ci si deve meravigliare che la tradizione andalusa, che Maimonide seguiva in pratica, era duramente criticata dagli halakhisti che avevano un'opinione radicalmente diversa sulle considerazioni magiche. Rabbi Yom Tov Ishbili (detto Ritva) del XIV secolo, studente degli studenti di Nahmanide, scrisse quanto segue:

« Riguardo al matrimonio, [anche se] un uomo vuole sposare una donna letale e provocarsi danno, noi non gli permetteremo di farlo, poiché è proibito e nell'ambito della rubrica di spargimento di sangue [cioè, suicidio]; ed il tribunale lo bandisce finché la divorzia. E così io ho visto l'opinione di [Nahmanide], di benedetta memoria, che agì in tal modo. »
(Novellae di Ritva su Yevamot 64b, s.v. "nesu`in")

Ritva, fedele alla logica talmudica, era dell'opinione che un matrimonio di tale sorta era suicida e assoggettato alla proibizione di mettersi in pericolo. Di conseguenza, non solo tale matrimonio era vietato in primo luogo, ma anche dopo che fosse avvenuto non doveva essere permesso e il marito era obbligato a divorziarsi — contrariamente al giudizio della Mishneh Torah. La disputa indica la connessione tra visioni scientifiche e decisioni halakhiche, ed il modo in cui un cambiamento nella motivazione può condurre ad una differente interpretazione halakhica.[16]

L'organizzazione indipendente della Mishneh Torah, estranea alla sequenza dei passi talmudici, e la sua formulazione della halakhah in un contesto innovativo e originale, contribuiscono in un certo modo alla distanza tra i giudizi di Maimonide e i dibattiti talmudici. È possibile tuttavia andare ben oltre, poiché l'approccio si fonda sulla posizione unica di Maimonide rispetto all'autorità del Talmud. Come la vedeva lui, l'autorevolezza del talmud non si basava sulla saggezza superiore e la profonda comprensione degli amora`im (saggi talmudici) o sul fatto che l'opera aveva come sua fonte lo Spirito Santo o era affermata divinamente. Come abbiamo visto nel Capitolo 5 di questa sezione, Maimonide considerava il Talmud come vincolante e canonico perché si era diffuso in tutto Israele. Lo status canonico del Talmud era connesso all'accettazione dei suoi giudizi come materia pratica; ma la sua autorevolezza vincolante non si estendeva ai dibattiti e motivazioni riportati, poiché la comunità aveva accettato solo quel contenuto che poteva essere espresso in pratica. Potrebbe essere quindi che Maimonide fosse assolutamente fedele ai giudizi del Talmud ma non alla maniera in cui venivano spiegati ed interpretati tali giudizi. Questa indipendenza, derivata da un concetto che il Talmud fosse autorevole in principio, permise a Maimonide, tra le altre cose, di cristallizzare la sua nozione concettuale originale nella Mishneh Torah.

Funzioni dell’Aggadah[modifica]

Aggadah miniata del XIV secolo (pagina col Salmo 79)

Nel Libro della Conoscenza, primo volume della Mishneh Torah, Maimonide incorpora sezioni e capitoli che trattano di credenze vincolanti e tratti caratteriali desiderabili. In tutto il trattato, egli integrò i principi halakhici con un grande numero di dichiarazioni che non sono nell'ambito della definizione stretta di halakhah e riguardano il proibito ed il permesso, il puro e l'impuro, il colpevole e l'innocente. Queste osservazioni — che ai fini della discussione possono essere definiti come "aggadah" — includono spiegazioni, rilievi, parole di incoraggiamento ed esortazione, polemiche contro pareri opposti, e parole di consolazione alla conclusione di unità halakhiche, nello stile della Mishnah.[18] Per esempio, nella halakhah relativa all'obbligo di pregare con una congregazione, Maimonide scrive: "La preghiera in comune è sempre ascoltata da Dio. Il Santo Che Sia Bnedetto non rifiuta mai le preghiere dei molti, anche se ci sono peccatori tra loro. Quindi una persona dovrebbe sempre partecipare in una congregazione e non pregare mai da solo quando potrebbe pregare in una congregazione" ("Legge sulla Preghiera e Benedizione Sacerdotale", 8, 1). Nella halakhah in cui proibisce di scrivere nomi sacri nella mezuzah, aggiunge con dura polemica:

« Ma quelli che scrivono il nome degli angeli, i nomi santi, i versetti o forme speciali sulla mezuzah, sono inclusi nella categoria di coloro che non hanno posto nel mondo a venire, poiché questi stolti non solo cancellano il comandamento ma fanno di un grande comandamento, l'unificazione del Santo, che sia benedetto, il Suo amore e la Sua adorazione, un amuleto a loro beneficio dato che nella loro stupidità pensano che questa sia una materia che li benefici per le vanità terrene. »
("Leggi sui Tefillin, Mezuzah, Rotolo della Torah", 5:4)

Nella halakhah che si occupa del festeggiare durante un festival con cibo e bevande, Maimonide stabilisce il dovere di invitare i poveri a condividerne la gioia. Tale dovere, che va oltre all'obbligo di fare la carità, non ha fonte specifica nel Talmud. È accompagnato da una spiegazione e ammonizione:

« E mentre uno mangia e beve, è suo dovere nutrire anche lo straniero, l'orfano, la vedova, e altre persone povere e sfortunate, poiché colui che chiude le porte del proprio cortile e mangia e beve con sua moglie e la sua famiglia senza dar niente da mangiare e da bere ai poveri e indigenti — il suo pasto non è un gioire nel comandamento divino ma un gioire nel proprio stomaco... Gioire in questo modo è una vergogna per coloro che ci si appagano, poiché la Scrittura dice, E spanderò sulla vostra faccia escrementi, gli escrementi delle vittime immolate nelle vostre solennità (Mal. 2:3) »
("Leggi sul Riposo nei Festival", 6:18)

La presenza regolare nella Mishneh Torah di brani aggadici di tale tipo dimostra che Maimonide aveva uno scopo pedagogico nei suoi scritti halakhici; intendeva motivare le persone ad eseguire gli halakhot. Tuttavia, oltre all'importanza retorica e pedagogica dell’aggadah nella Mishneh Torah come una sorta di appendice alla halakhah, si possono identificare tre ruoli assegnati all’aggadah nella costruzione della halakhah nel trattato: 1) fornisce contesto e significato alla halakhah stessa; 2) complementa la halakhah; 3) critica la halakhah in maniera sovversiva.[19]

Iniziamo col ruolo dell’aggadah che fornisce contesto e significato a principi halakhici specifici — un ampio contesto che a volte ha attinenza anche al contenuto della halakhah. L'uso di aggadah in questo modo è evidente in alcuni punti dove Maimonide inizia un'importante unità halakhica con un'introduzione aggadica; esempi includono il primo capitolo delle "Leggi sull'Idolatria" e i primi halakhot delle "Leggi sul Matrimonio". Uno degli esempi più evidenti è il passo introduttivo delle "Leggi sulla Preghiera", che esaminiamo qui appresso.[19]

Gli halakhot iniziali delle "Leggi sulla Preghiera" presentano un insieme storico originale inteso ad infondere significato all'atto della preghiera. La prima halakhah afferma che la preghiera è un comandamento positivo dell'autorità biblica, basato sul versetto "servendoLo con tutto il vostro cuore e con tutta la vostra anima" (Deut. 11:13) — "Qual è il Servizio del cuore? La Preghiera" ("Leggi sulla Preghiera e Benedizione Sacerdotale", 1, 1). In quella fase, dice Maimonide, il dovere di pregare non si estendeva ad un tempo fisso o ad un testo vincolante. La preghiera, cioè il servizio del cuore, era un obbligo conferito ad ogni individuo, e ciascuno lo adempieva secondo le proprie abilità e necessità.[18] L'unico requisito fisso era che la preghiera includesse suppliche e petizioni per la realizzazione dei propri bisogni, e che le petizioni fossero precedute da lodi e seguite da ringraziamenti, come è giusto farlo per un appello dignitoso presentato ad un re:

« Il numero di preghiere non è stabilito nella Torah, né il loro formato, né la Torah prescrive un tempo fisso per la preghiera... Questo comandamento obbliga piuttosto che ogni persona preghi, supplichi e lodi il Santo, che Egli sia benedetto, al meglio delle proprie capacità ogni giorno; e poi richieda e implori ciò di cui abbisogna; e dopo lodi e ringrazi Dio per tutto quello che Egli gli ha elargito. Colui che è articolato offre molte suppliche e richieste, mentre chi è inarticolato prega al meglio delle proprie capacità, quando desidera. »
("Leggi sulla Preghiera e Benedizione Sacerdotale, 1:1)

La preghiera mantenne questo carattere individualizzato fino a dopo l'Esilio Babilonese, durante il quale l'abilità linguistica di Israele fu sconvolta, poiché gli Israeliti persero la loro padronanza dell'ebraico e iniziarono a mischiarlo con altre lingue. Questa crisi portò Esdra e la sua corte a formulare un testo fisso di preghiere e a promulgare una condizione che la preghiera venisse detta un numero fisso di volte al giorno, ad ore prestabilite.[18] Questo resoconto della storia della preghiera ha importanti implicazioni halakhiche. In contrasto con la posizione di Nahmanide, Maimonide seguì i Geonim ed il Rif nella convinzione che il dovere di pregare fosse biblico. La successiva istituzione della preghiera da parte dei saggi fu semplicemente l'istituzionalizzazione di un dovere preestistente. L'istituzione di preghiere fisse da parte dei saggi non può essere interpretata come se il dovere complessivo di pregare fosse qualcosa che essi istituirono a seguito della distruzione del Tampio come sostituzione dei sacrifici.[18]

L'introduzione di tipo aggadico forma inoltre la visione del significato e dell'essenza della preghiera. Secondo questo resoconto storico, fu una crisi che portò alla formulazione e ai tempi prestabiliti, ma la crisi non riflette la natura centrale della preghgiera. L'essenza della preghiera è la kavanah interiore — il servizio del cuore — e quindi è un dovere assunto da ogni individuo, che deve pregare nella propria lingua e secondo i propri bisogni. Tuttavia il concetto di preghiera che Maimonide presenta non è per sé evidente, ed esiste un'interpretazione alternativa interamente differente. Si può argomentare, in opposizione all'opinione di Maimonide, che la preghiera sia per principio il pubblico e la comunità che si rivolge a Dio e che la formulazione ed i tempi prestabiliti siano l'unico modo in cui Lo si può invocare. Secondo questa visione, la preghiera fissa istituzionalizzata, come i sacrifici comuni all'epoca del Tempio, è l'essenza della preghiera. Tale concetto appare in un midrash che spiega il perché sia proibito pregare più di tre volte al giorno.[10] Il midrash contrasta l'opinione di R. Yoẖanan, che credeva che una persona dovesse pregare abbondantemente, al punto di pregare l'intera giornata. Il midrash usa il seguente colloquio per spiegare la proibizione di pregare più di tre volte al giorno:

« Antonino (imperatore romano) chiese al nostro santo rabbino [cioè, R. Giuda il Principe]: È permesso pregare sempre? Egli disse: È proibito. Antonino gli chiese: Perché? Ed egli rispose: Affinché uno non agisca irriverentemente davanti all'Onnipotente [Dio]. Antonino non ne fu persuaso. Cosa fece [R. Giuda]? Andò davanti [Antonino] di mattina presto e disse: La pace sia con te. Dopo un'ora, andò da lui e disse: Imperatore! Dopo un'ora, gli disse: La pace sia con te, Re. [Antonino] gli disse [a R, Giuda]: Perché ridicolizzi il re? [R. Giuda] rispose: Che le tue orecchi ascoltino ciò che la tua bocca pronuncia. E se tu, semplice carne e ossa, dici così ad una persona che ti saluta ripetutamente, quanto molto più inopportuno sarebbe ridicolarizzare in tal modo il Re dei Re, il Santo Che sia benedetto? »
(Midrash Tanẖuma, Miqqeẕ, 11)

Questo midrash, costruito in base al protocollo per le udienze di Cesare, dimostra che la preghiera ripetuta senza una formulazione fissa comporta un certo grado di ridicolo nei riguardi di Dio. I tempi della preghiera e la formulazione fissa, secondo questo midrash, non sono soltanto un'istituzionalizzazione post factum della preghiera personale libera; sono piuttosto l'unico modo in cui Dio può essere invocato senza irriverenza. La formulazione ed il tempo servono come sistema che rende possibile all'indivisuo di avvicinarsi a Dio. Ma il resoconto storico che Maimonide premette alle leggi della preghiera presenta l'interpretazione opposta. La formulazione ed i tempi fissi sono semplicemente l'istituzionalizzazione della preghiera, ed il loro intero scopo è di facilitare il servizio del cuore da parte di coloro che hanno perso l'abilità di perseverare in tale maniera di adorazione per conto proprio.[18][19]

Il contesto nel quale Maimonide inserisce le leggi della preghiera attesta la centralità che egli assegnava a kavanah nel contesto halakhico. Come dice nel definire kavanah (qui intesa come "concentrazione") nella preghiera:

« Cosa implica l'intenzione corretta? Qualsiasi preghiera recitata senza l'intenzione corretta non è preghiera. Uno che prega senza l'intenzione corretta deve pregare di nuovo con l'intenzione corretta. Uno che è confuso o preoccupato non dovrebbe pregare finché non diventi tranquillo... Come si ottiene l'intenzione corretta? Uno deve liberare la mente da tutti i pensieri e vedersi come se fosse dinanzi alla presenza Divina. Quindi, uno dovrebbe sedersi per un po' prima di pregare in modo da concentrare la propria mente, e poi pregare dolcemente e in maniera supplichevole. »
("Leggi sulla Preghiera e la Benedizione Sacerdotale", 4:15-16)

Queste affermazioni nella Mishneh Torah indicano due punti importanti relativi alla centralità di kavanah. Uno è che la preghiera recitata senza kavanah non è affatto preghiera, secondo Maimonide. Kavanah non è un dovere; è piuttosto la vera essenza della preghiera, e la realizzazione della preghiera come servizio del cuore si basa interamente sulla kavanah con cui è detta. Kavanah si riferisce al senso del trovarsi davanti a Dio ed è espressa tramite suppliche ed invocazioni.Il secondo punto, rispetto al quale Maimonide segue l'opinione del Talmud, è che ad una persona che crede di non poter mantenere kavanah non è permesso pregare finché recupera la propria compostezza mentale. Se la preghiera senza kavanah non è preghiera, allora è proibito pregare quando uno pensa di non avere kavanah. Pronunciare le parole senza kavanah non è preghiera; non è altro che pronunciare il Nome di Dio invano.[8]

Sebbene il secondo punto di Maimonide segua il persorso stabilito dalla discussione talmudica in materia, si deve notare che nel Medioevo, una visione contraria era ampiamente diffusa tra gli halakhisti. Secondo tale visione, la selezione diligente di un tempo in cui uno poteva pregare con kavanah non era una condizione per adempiere all'obbligo della preghiera, ed uno certamente non doveva ripetere una preghiera che era stata recitata senza kavanah, poiché la capacità di mantenere la giusta kavanah era comunque andata persa. R. Meir Hakohen del XIII secolo, studente di Maharam di Rothenberg e autore di Hagahot Maimoniyot, che sepplementava la Mishneh Torah con i giudizi contrari che erano stati emessi in Germania e Francia, scrisse quanto segue sull'approccio di Maimonide: "Tosafot scrissero che in tutte queste materie oggigiorno non siamo rigorosi... poiché non abbiamo tutta quella kavanah nella preghiera." L'asserzione citata a nome dei Tosafisti rappresenta uno spostamento drastico nella relazione halakhica tra kavanah e azione, poiché dubita la necessità di kavanah nella preghiera e modera i requisiti che provengono dalla sua posizione centrale. La proibizione di pregare fintanto che la propria mente non si sia composta è preso come ideale, non come requisito vincolante. L'opinione dell'autore di Hagahot Maimoniyot appare anche nell’Arba`ah Turim di R. Jacob, figlio di Rosh,; e R. Joseph Karo sentenzia nello Shulchan Arukh che uno non deve essere intransigente in quelle materie che derivano da un'insistenza rigorosa sulla kavanah in preghiera.[10]

Maimonide era familiare con nozioni di questa sorta. Appaiono negli scritti di R. Natronai Ga`on e, evidentmente, nei giudizi del Rif, che omise dal suo trattato la halakhah, citata nel Talmud, che era vietato pregare fintanto che la mente non si fosse composta. Che Maimonide mantenesse l'interpretazione che appare nel Talmud anche quando evidentemente ammettava il contrario, evidenzia la sua opinione che la preghiera senza kavanah non è preghiera. La centralità di kavanah nei giudizi di Maimonide scaturisce dalla sua determinazione, nell'introduzione alle leggi della preghiera, che l'essenza della preghiera è il servizio del cuore ordinato biblicamente e che solo dopo, a seguito di una crisi storica, la preghiera ricevette una natura istituzionalizzata e fissa. Il contesto aggadico nel quale l'unità halakhica fu posta influenzò la formazione della halakhah stessa.[10]

Il secondo ruolo dell’aggadah nella Mishneh Torah è quello di riempire il vuoto lasciato dalla halakhah ufficiale. In questa capacità, l’aggadah non offre un sostegno o una spiegazione dei principi halachici; piuttosto, li complementa. Aggadot di questo tipo appaiono nella Mishneh Torah quando la halakhah propone solo una struttura formale di base che è insufficientemente sensibile alle aspirazioni morali e religiose o manca di evidenziare la gravità del problema trattato.[18]

Esempi di supplementi di questo tipo si possono trovare in situazioni dove esista un divario tra la serietà di una trasgressione e la punizione relativamente mite che comporta. Come sappiamo, la severità di una trasgressione è generalmente considerata corrispondere alla severità della punizione imposta al trasgressore. Alcuni reati non incorrono in pene, e ciò sembra indicare che non siano particolarmente seri. Ci sono però occasioni in cui l'assenza di pena non deve far pensare che il reato sia relativamente blando. In tali occasioni, Maimonide usa l’aggadah per complementare la limitazione formale della severità della trasgressione:

« Sebbene una persona che ne umili un'altra non viene punito con frustate, è pur sempre una grande infrazione. E quindi i saggi hanno detto, "Colui che umilia un altro in pubblico non ha porzione nel mondo a venire." Uno pertanto deve guardarsi dall'umiliare pubblicamente una qualsiasi persona, che sia giovane o anziana. Uno non deve chiamare una persona con un nome di cui possa vergognarsi, né raccontare qualcosa in sua presenza che lo umili. »
("Leggi sulle Disposizioni Morali", 6:8)

Umiliare un altro non è una trasgressione per cui si è puniti, ma l'assenza di pena non implica che il reato sia mite. La ragione per la mancanza di punizione è più che altro formale, e l’aggadah completa il quadro evitando l'impressione che possa essere stata data da una lettura legale ristretta della trasgressione e dalla relativa (mancanza di) punizione. Un esempio somigliante appare nel successivo capitolo:

« Chiunque racconti storie su un'altra persona viola una proibizione, poiché è detto "Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo" (Lev. 19:16). E sebbene non vengano inflitte frustate, è offesa grave e porta alla morte di molte anime in Israele. Per cui, queste precetto e subito seguito dalla frase "Né coopererai alla morte del tuo prossimo" (Lev. 19:16).
Per un esempio delle tragiche conseguenze di questa trasgressione, leggete cosa successe dopo il resoconto di Doeg in merito ai sacerdoti di Nob (1 Sam. 22:6-19).[20] »
("Leggi sulle Disposizioni Morali", 7:1)

Le conseguenze sociali di contar storie può arrivare persino allo spargimento di sangue, e quindi è una grave trasgressione. Che il reato non incorra pena è dovuto ad una considerazione incidentale: i reati che non implicano un'azione fisica (distinta, per esempio, dal discorso) non incorrono in frustate. L’aggadah cita il drammatico precedente biblico di Doeg l'Idumeo, che a Re Saul raccontò la storia dei sacerdoti di Nob che avevano dato rifugio a David, causando quindi la loro morte. In questo caso Maimonide colma una lacuna tra la severità morale del reato ed il trattamento giuridico apparentemente clemente, senza punizione. In seguito nello stesso capitolo, quando Maimonide definisce la diffamazione, espande la caratterizzazione aggadica e indurisce il suo tono nell'esporre la severità della trasgressione ed il modo in cui provochi lo sgretolamento di fiducia e intimità nella società.[8]

Altre aggadot che giocano questo ruolo complementare sono quelle che supportano le azioni caratterizzate come consistenti con "l'attributo di pietà" — la moralità a cui uno deve aspirare, al di là di quello che è richiesto dalla sola lettera della legge. Per esempio, ẕiẕit (le frange) sono un requisito degli indumenti a quattro angoli. In linea di principio, uno potrebbe esentarsi dal comandamento non indossando mai un indumento a quattro angoli. Alla fine delle "Leggi sulle Frange negli Indumenti", Maimonide considera tale situazione:

« Anche se uno non è obbligato ad acquistare un tallit e avvolgerselo addosso, cosicché debba attaccarci le frange, non è appropriato che una persona che è pia si esenti da questo comandamento.... Uno dovrebbe sempre far in modo di osservare il comandamento delle frange... poiché la Scrittura lo ha soppesato a fronte degli altri comandamenti e li ha resi dipendenti da questo [delle frange], poiché dice, Sarà una frangia alla quale guarderete per ricordarvi di tutti i comandamenti dell'Eterno e metterli in pratica, [e per non seguire invece il vostro cuore e i vostri occhi che vi portano alla fornicazione] (Num. 15:39). »
("Leggi sulle Frange", 3, 11-12)

In questa categoria di aggadah complementare ci sono brani della Mishneh Torah che presentano lo scopo e l'ethos dei principi halakhici che non si prestano ad una definizione o quantificazione precisa. Tale sorta di presentazione aggadica raggiunge un picco poetico ed ispiratore nel capitolo finale delle "Leggi sui Doni ai Poveri". Il capitolo è preceduto da tre altri dove Maimonide definisce in grande dettaglio il dovere privato e pubblico di fare la carità. Quei capitoli includono, tra l'altro, la definizione di una persona povera, la somma che deve essere data, le priorità assegnate ai vari recipienti della carità, e la maniera in cui i fondi caritatevoli devono essere distribuiti. Alla conclusione di tale resoconto esauriente e particolareggiato, Maimonide passa ad esaminare l'ampio ethos del comandamento:

« È nostro dovere essere più attenti nell'osservare il comandamento delle elemosine di quanto non si richieda degli altri comandamenti positivi, poiché fare l'elemosina è il segno dell'uomo giusto che è del seme di nostro padre Abramo, poiché è detto: Infatti io l'ho scelto, perché egli obblighi i suoi figli e la sua famiglia dopo di lui ad osservare la via del Signore e ad agire con giustizia e diritto (Gen. 18:19). Il trono d'Israele non può esser stabilito, né la vera fede fatta valere, eccetto mediante la carità, poiché è detto, Sion sarà riscattata con la giustizia, i suoi convertiti con la rettitudine (Isa. 1:27). »
("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:1)

La carità non è soltanto un comandamento positivo, parte della lista generale dei comandamenti. È piuttosto il comandamento che costituisce l'identità ebraica. Pone le basi per l'esistenza della nazione e della religione ebraiche, e apre la porta alla redenzione.[18]

Maimonide incorpora l’aggadah anche nei successivi halakhot, notando che fare la carità non diminuirà mai la ricchezza di una persona e sottolineando l'ethos di solidarietà rappresentato dalla carità: "Tutti gli Israeliti e coloro che ne seguono le costumanze sono tra loro come fratelli, poiché è detto, Voi siete i figli dell'Eterno, il vostro Dio (deut. 14:1). Se fratello non mostra compassione a fratello, chi lo farà? E verso chi alzeranno gli occhi i poveri d'Israele? Verso i pagani, che li odiano e li perseguitano? I loro occhi si puntano quindi solamente sui propri confratelli" ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:2).


Fare la carità ha importanza per la costituzione dell'identità ebraica; astenersi dal farla invece è considerata un affronto all'intera Torah, equivalente ad idolatria: "Colui che leva via gli occhi dalla carità viene chiamato persona abietta, proprio come colui che adora idoli... È inoltre chiamato peccatore, poiché è detto, Ed egli griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su di te (Deut. 15:9) ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:1). I poveri hanno una connessione intima con Dio, e nuocere a loro è molto peggio che nuocere a qualcun altro: "Il Santo Che sia benedetto ascolta il lamento dei poveri, poiché è detto, Tu senti il pianto del povero. Uno deve quindi prestare attenzione al loro pianto, perché un patto è stato fatto con loro, poiché è detto, E se avverrà che egli gridi a me, io lo udrò, perché sono misericordioso (Es. 22:27)" ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:1).

Determinare l'ampio ethos fondazionale apre la via ad una serie di orientamenti che, per loro natura, non si prestano ad una quantificazione precisa:

« Colui che fa l'elemosina al povero con un contegno ostile e con il volto basso, perde il merito e ne è privato, anche se dovesse dare più di mille monete d'oro. Invece deve dare con contegno amichevole e gioioso. Deve aver compassione delle sventure del ricevente, poiché è detto, Non ho pianto io forse con chi aveva i giorni duri e non mi sono afflitto per l'indigente? Deve inoltre parlargli con parole di preghiera e conforto, poiché è detto, E al cuore della vedova infondevo la gioia (Giobbe 29:13). »
("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:4)

La carità non è solo supporto materiale; include anche l'identificarsi con le afflizioni della persona povera. Il donatore pertanto ha il dovere di rispondere allo stato psicologico della persona che chiede l'elemosina. L'alto grado di sensibilità che il donatore deve dimostrare consegue dal suo riconoscere che la persona povera si sente umiliata dalla situazione in cui si trova: "Se un povero ti chiede l'elemosina e non hai nulla da dargli, consolalo con parole. È proibito rimproverare un povero o alzare la voce per sgridarlo, pur vedendo che il suo cuore è infranto e derelitto... Guai a colui che svergogna un povero! Guai a lui! Uno dovrebbe invece essere come un padre per il povero, con compassione e buone parole, poiché è detto, Padre io ero per i poveri (Giobbe 29:16)" ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:5).

Dopo aver stabilito che la povertà è uno stato psicologico oltre che una situazione economica, e che la reattività a tale stato psicologico fa parte dell'essenza della carità, Maimonide prosegue ad esporre uno dei più noti pinnacoli halakhici della Mishneh Torah: i livelli della carità, decisi in base a come rispondono alla dipendenza e umiliazione associate alla povertà. Tale classificazione, che non appare nel Talmud in questa formulazione dettagliata e raffinata, è un risultato ispiratore esclusivo di Maimonide stesso. Identifica otto livelli di carità, elencati in ordine discendente. Il livello più meritorio è una forma di far la carità mirata a liberare il povero dalla sua condizione di dipendenza: "Ci sono otto livelli di far l'elemosina, uno superiore all'altro. Il più alto, dei quali non ce n'è più alti, è uno che sorregge la mano di un Israelita ridotto in povertà dandogli un dono o un prestito, o stipulando con lui una società, o trovandogli lavoro, per rafforzargli la mano, in modo che non debba aver bisogno di mendicare da altre persone" ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:7). In fondo alla scala sta una forma di carità che perpetua lo stato di dipendenza e non manifesta consapevolezza del possibile senso di umiliazione del povero, "Sotto a questo sta colui che fa l'elemosina con un contegno accigliato" ("Leggi sui Doni ai Poveri", 10:14). Tra questi estremi, Maimonide elenca i livelli intermedi di carità, dal donare segretamente, in modo che né il donatore né il recipiente possa identificare l'altro, fino al dare piacevolmente, sebbene meno dell'ammonto appropriato e solo dopo che gli venga chiesto. L'ampia discussione aggadica sulla carità apre quindi una discussione normativa dove sono impossibili una definizione e quantificazione precise. La halakhah determina il numero di pasti e la quantità di cibo che una persona povera dovrebbe ricevere quotidianamente dal fondo caritatevole comunitario, ma è l’aggadah che fornisce le linee guida relative al dare con benevolenza piuttosto che con ostilità e a liberare la persona povera dalla sua dipendenza.[21]

Nel suo terzo ruolo, l’aggadah offre una critica dei particolari halakhici. Un esempio rimarchevole di tale ruolo appare nell’aggadah che conclude le "Leggi sugli Schiavi":

« È permesso far lavorare uno schiavo pagano con rigore. Sebbene questa sia la regola, è la qualità della compassione e la maniera della saggezza che un uomo sia misericordioso e persegua la giustizia e non renda il giogo del suo schiavo troppo pesante o lo affligga, ma gli dia da mangiare e da bere di tutti i cibi e bevande.
I Saggi dell'antichità erano soliti lasciare che lo schiavo prendesse parte alla consumazione di quei piatti che loro stessi mangiavano e di dare precedenza al pasto del bestiame e a quello degli schiavi prima del loro pasto stesso. Non è forse detto, Come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona (Salmi 123:2)?
Quindi anche il padrone non li deve umiliare con mano o parola, perché la legge scritturale li ha dati in schiavitù e non in disgrazia. Né si deve riempire lo schiavo di improperi e ingiurie, ma gli si deve parlare con dolcezza e ascoltare le sue richieste. Così viene inoltre spiegato nei buoni discorsi di Giobbe, di cui si vantava:

Se ho negato i diritti del mio schiavo
e della schiava in lite con me...
Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui?
Non fu Lo stesso a formarci nel seno?
Crudeltà e sfrontatezza non sono frequenti eccetto che coi pagani che adorano idoli. I figli di nostro padre Abramo, tuttavia, cioè gli Israeliti, su cui il Santo, che Egli sia benedetto, ha concesso il favore della Legge e ha dato gli statuti e i giudizi, sono un popolo misericordioso che ha compassione per tutti.
Pertanto viene anche dichiarato per gli attributi del Santo, benedetto Egli sia, che siamo intimati ad imitare: Buono è il Signore verso tutti, la Sua tenerezza si espande su tutte le creature (Salmi 145:9).
Inoltre, chiunque abbia compassione riceverà compassione, poiché è detto: Ed Egli ti conceda misericordia, abbia pietà di te e ti moltiplichi (Deut. 13:18). »
("Leggi sugli Schiavi", 9:8)

Iniziando la sua critica della possibilità di sfruttare uno schiavo cananeo con inflessibilità, Maimonide invoca gli attributi della compassione e cita il precedenti dei primi saggi, che trattavono i propri schiavi giustamente e compassionevolmente. Poi continua intensificando il suo attacco sul trattamento duro usando i tre motivi che portano la critica ben oltre il semplice l'attributo della compassione. Il primo motivo è quello dell'uguaglianza fondamentale degli uomini, come articolata da Giobbe: "Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu Lo stesso a formarci nel seno?" Per secondo motivo, Maimonide fa riferimento alla definizione dell'identità ebraica come stabilita dalla Torah. Un ebreo che agisce con crudeltà verso non ebrei, sfruttando il proprio schiavo cananeo con troppo rigore, diventa come loro e perde il suo carattere di ebreo. Questo concetto, che postula una dissimilarità fondamentale tra ebreo e gentile, sembrerebbe opporsi al motivo di uguaglianza appena citato.[21] Ma si deve riconoscere che la distinzione tra ebreo e gentile, secondo Maimonide, non scaturisce da una qualche inerente differenza innata. Risulta piuttosto dal fatto che Israele possieda statuti e leggi basati su principi di giustizia e misericordia. Le leggi della Torah sono trattate in questa halakhah come supporto dell'identità ebraica: "Gli Israeliti, su cui il Santo Che sia benedetto ha concesso il favore della Legge e dato statuti e giudizi, sono misericordiosi con tutti." Maimonide non pone l'attributo della misericordia in contrasto con le leggi degli schiavi, che sono dopotutto parte della Torah. Piuttosto le colloca contro gli statuti e le leggi della Torah stessa, notando che l'autorizzazione in principio di umiliare uno schiavo cananeo e farlo sgobbare è in opposizione alle leggi della Torah, che sono misericordiose con tutti.[21]

Il terzo motivo, che appare alla fine, critica la distinzione tra schiavo ebreo e schiavo cananeo, che va contro l'immagine di Dio Stesso, che è misericordioso verso tutte le Sue creature e richiede che gli esseri umani facciano lo stesso. Come halakhista, vincolato all'autorità e alla forza della halakhah, Maimonide presenta le leggi degli schiavi nella loro interezza.[21] Ma l’aggadah che egli intreccia coi principi halakhici gli permettono di interrogare, sulla base di considerazioni religiose e morali, l'autorizzazione halakhica di far lavorare duramente gli schiavi cananei. Lo fa invocando criticamente i concetti di uguaglianza, del determinativo centrale dell'identità ebraica ed il carattere della Torah, e dell'immagine di Dio ed il dovere di imitarLo.[22]

Il Libro dell'Agricoltura della Mishneh Torah si conclude con un brano halakhico che sta a cavallo della linea tra il ruolo complementare dell’aggadah ed il suo ruolo critico. Il brano appare nell'ultimo capitolo della "Leggi sull'Anno Sabbatico e l'Anno del Giubileo", che si occupa dello status della tribù di Levi. Tale tribù non ricevette un apporzionamento di terra in Israele; ricevette invece dei campi nelle città dette di "rifugio" e si affidò ai donativi degli altri Israeliti.[22] Maimonide giustificò lo status particolare dei Leviti come segue: "Perché alla Tribù di Levi non fu concesso il diritto di una parte della Terra d'Israele ed il suo bottino, insieme ai suoi fratelli? Perché essi furono separati dagli altri per adorare il Signore, servirLo ed insegnare le Sue rette vie e i Suoi giusti giudizi ai molti." ("Leggi sull'Anno Sabbatico e l'Anno dei Giubileo", 13:12). Poi prosegue, nella halakhah finale del libro, a definire tutto ciò che è stato implicato precedentemente nel capitolo:

« Non solo la Tribù di Levi, ma anche ogni singolo individuo di coloro che vongono al mondo, il cui spirito lo spinge e la cui conoscenza gli concede la comprensione di distinguersi per poter stare di fronte al Signore, servirLo, adorarLo e conoscerLo, che cammina dritto come Dio gli ha comandato, e libera il proprio collo dal giogo delle molte speculazioni che i figli dell'uomo sono soliti perseguire — tale individuo è consacrato al Santo dei Santi, e la sua porzione ed eredità sarà nel Signore per sempre nei secoli dei secoli. Il Signore gli concederà in questo mondo quello che gli basta, lo stesso che ha cancesso ai sacerdoti e ai Leviti. Così disse invero David, la pace sia con lui, Il Signore è mia parte di eredità e mio calice; Tu, o Eterno, tieni al sicuro quel che mi è toccato in sorte (Salmi 16:5) »
("Leggi sull'Anno Sabbatico e l'Anno dei Giubileo", 13:13)

Queste parole non sono semplicemente un'estensione della posizione dei Leviti rispetto agli altri; essi possono essere considerati una contestazione dell'intera idea del diritto ereditario, determinando che una particolare tribù israelita avesse una condizione unica e privilegiata davanti a Dio. La critica dello status tribale e famigliare è reso più potente dall'estensione da parte di Maimonide della sua opposizione estrema, che comprende "ogni singolo individuo di coloro che vongono al mondo; quindi, non soltanto gli Israeliti. Ogni persona allora ha la possibilità di porsi di fronte a Dio ed essere Santo dei Santi. Un cambiamento così profondo di consapevolezza, mediante cui una persona viene liberata dal giogo del mondo e si sposta verso un'esistenza più elevata, non è qualcosa di ereditario; è piuttosto il prodotto della propria completa santificazione e operato esistenziale.[22]

In momenti riduttivi occasionali, Maimonide descrive la Mishneh Torah come un tentativo di catturare e riassumere la halakhah in una maniera accessibile, trasparente, organizzata e onnicomprensiva. Il suo impegno a redigere un sommario esaustivo e conciso viene espresso in un contesto polemico come segue: "Tutti voi che avete letto le miei opere ben sapete che io tendo sempre ad evitare disaccordi e contestazioni. Se potessi concentrare l'intera Legge della Torah in un capitolo, non ne scriverei due" (Saggio sulla Risurrezione, p. 225). Riuscire in una tale impresa è un'immensa realizzazione, come Maimonide stesso afferma nello scrivere al circolo di studiosi di Lunel: "Son sicuro che voi capiate quanto ho faticato giorno e notte per quasi dieci anni nel comporre [Mishneh Torah]. Uomini della vostra competenza apprezzerete l'importanza di questa opera. Ho raccolto materiali che erano dispersi e separati tra colli e montagne, e li ho radunati "da una città e due da una famiglia" (Geremia 3:14)..." (Iggerot, pp. 542-543). Pur tuttavia, la Mishneh Torah è un'opera di gran lunga più trasformativa e monumentale.[2] Come libro che può mirare a divenire non solo una presentazione della legge ma la legge stessa, postula un audace tentativo di trasformare da sola la struttura stessa dell'autorità della halakhah. Tramite la potenza pura della compilazione senza supporto istituzionale e senza ricorso alla diretta autorità divina, aspira a costituire un tipo di stato virtuale che galvanizzi il popolo ebraico con un codice obbligatorio condiviso. Tale impresa, secondo Maimonide, sarebbe fattibile senza dover apportare un cambiamento nella condizione geopolitica dispersa degli ebrei, condizione che egli credeva fosse l'ostacolo alla creazione della halakhah come sistema legale genuino. Se, come sperava Maimonide, la Mishneh Torah fosse stata accettata da tutto Israele, avrebbe acquisito lo status del Talmud stesso, e quindi avrebbe servito non solo il ruolo modesto di un sommario onnicomprensivo ma piuttosto il fine più ambizioso di un sostituto ultimo. Con la sua integrazione di filosofia e halakhah, la Mishneh Torah mirava ad un impatto normativo profondo sulla consapevolezza religiosa, toccando gli aspetti basilari delle credenze e delle esperienze religiose. Al cuore di questa grande riforma c'era il tentativo di stabilire la conoscenza del mondo come cruciale nello spostare la posizione umana dalla morsa di assetto strumentale a quella di amore di Dio e del mondo, e quindi al timore reverenziale e stupore dell'universo. Nell'assegnare tale ruolo centrale al perseguimento della conoscenza, la Mishneh Torah legifera l'ethos filosofico come apice della vita religiosa. Questa sensibilità religiosa si fonda sulla visione, espressa nei primi capitoli del libro, che alla fine la rivelazione di Dio risiede nell'ordine naturale stesso, e che la prosperità umana dipende dal trascendere gli impulsi basilari di paura e speranza, verso un perseguimento spirituale della verità. Tale posizione implica anche una riformulazione nella Mishneh Torah del quadro escatologico ebraico — il mondo a venire ed il messianismo.[19]

Nella sua organizzazione innovativa dei differenti campi della halakhah, e col suo linguaggio indipendente, la Mishneh Torah di gran lunga sorpassa la semplice condizione di elegante opera sommativa. Essa infatti riforma le categorie della halakhah in tutti i suoi svariati domini, e li reinterpreta con rara profondità e chiarezza. La Mishneh Torah servì quindi alle generazioni future di studiosi non solo come una guida normativa per decisioni pratiche, ma come fonte duratura di comprensione della halakhah e della sua struttura concettuale. Lungi da più modeste formulazioni di creare un manuale onnicomprensivo di halakhah facilmente comprensibile a tutti, queste caratteristiche rendono la Mishneh Torah un'opera trasformativa monumentale. Non c'è da stupirsi che, tra tutte le opere che Maimonide scrisse — inclusa la Guida dei Perplessi — egli si riferisse spesso alla Mishneh Torah come la "nostra grande compilazione".[19][2]

Note[modifica]

  1. Poiché il libro contiene le leggi sulle donazioni e acquisizioni, l'artista illustra il frontespizio con l'offerta del vero dono, la rivelazione della Legge. La scena si riferisce alla leggenda che riguarda il testo biblico: Dio sradicò il Monte Sinai e lo capovolse, come un cesto sottosopra posto sugli israeliti, in modo da forzarli ad accettare la Legge con i suoi obblighi onerosi. L'illustrazione raffigura Mosè che mostra le Tavole della Legge agli israeliti, le cui teste appaiono dentro un'apertura della montagna.
  2. 2,00 2,01 2,02 2,03 2,04 2,05 2,06 2,07 2,08 2,09 2,10 2,11 2,12 2,13 Per i seguenti paragrafi, si vedano specialmente Haym Soloveichiek, "Reflections on Maimonides` Organization of Mishneh Torah: Real and Imagined Difficulties", Maimonidean Studies 4, 2000, pp. 107-115 (in ebr.); Isadore Twersky, "The Arrangement of Maimonides` Mishneh Torah: Philosophical and Halkhic Principles", Divrei ha-Qongres ha-Olami ha-Shishi le-Madda`ei ha-Yahadut 3, 1977, pp. 179-189 (in ebr.); id., Introduction to the Code of Maimonides (Mishneh Torah), Yale University Press, 1980, passim; Jacob Levinger, Maimonides Halakhic Thinking, Magnes Press, 1965 (in ebre.); David Henshkeh, "The Reason for Halakhah in Maimonides` Thought", Maimonidean Studies 4, 2000, pp. 45-80 (in ebr.)
  3. 3,0 3,1 3,2 3,3 3,4 3,5 3,6 Jacob Levinger, Maimonides’ Techniques of Codification; a Study in the Method of the Mishneh Torah, Gerusalemme, 1965 (in ebr.); Isadore Twersky, “The Mishneh Torah of Maimonides”, Proceedings of the Israel Academy of Sciences and Humanities 5, 1971-79, pp. 265-96.
  4. Menachem Lorberbaum, Politics and the Limits of the Law, Stanford University Press, 2001, pp. 95-102; Dov Rapel, "Maimonides` Didactic Policy in the Mishneh Torah", Mikhtam le-David: Memorial Book for Rabbi David Oaks, Bar Ilan University Press, 1978, pp. 291-298.
  5. 5,0 5,1 5,2 5,3 5,4 5,5 5,6 5,7 Si vedano, int. al., Moshe Halbertal, Maimonides, cit., pp.236-243; Laurence Kaplan, "The Unity of Maimonides` Religious Thought: The Law of Mourning as a Case Study", Judaism and Modernity: The Religious Philosophy of David Hartman, J. Malino (cur.), Aldershot, 2004, pp. 393-412; Isadore Twersky, "The Arrangement of the Maimonides` Mishneh Torah: Philosophical and Halakhic Principles", loc. cit., 1977, pp. 179-189.
  6. 6,0 6,1 6,2 6,3 6,4 Si veda partic. Laurence Kaplan, "The Unity of Maimonides` Religious Thought: The Law of Mourning as a Case Study", Judaism and Modernity: The Religious Philosophy of David Hartman, J. Malino (cur.), Aldershot, 2004, pp. 393-412.
  7. Meir Feldblum, "Maimonides` Rulings in Light of His Attitude to the Anonymous Material in the Babylonian Talmud", American Academy of Jewish Studies, 1980, pp. 111-120 (in ebr.); Jacob Levinger, Maimonides Halakhic Thinking, Magnes Press, 1965 (in ebr.); Isadore Twersky, "The Arrangement, cit.", pp. 179-189.
  8. 8,0 8,1 8,2 8,3 8,4 8,5 8,6 8,7 8,8 Hayyim Soloveitchik, "Reflections on Maimonides` Organization of Mishneh Torah, cit., pp. 107-115; id., "Mishneh Torah: Polemic and Art", Maimonides after 800 Years, Harvard University Press, 2007, pp. 327-343; Hayyim Halevi Soloveitchik, Novella on the Mishneh Torah, Gerusalemme, 1991, passim.
  9. La amidah (lett. [la preghiera recitata] in piedi) è la preghiera centrale obbligatoria della liturgia ebraica, che comprende diciannove benedizioni da recitarsi tre volte al giorno durante la settimana (originalmente diciotto, per cui il suo nome alternativo shemoneh esreh). Nella letteratura rabbinica, tra cui la Mishneh Torah, viene spesso citata come tefillah, "preghiera". È della amaidah che Maimonide parla nel passo in questione.
  10. 10,0 10,1 10,2 10,3 10,4 10,5 10,6 Jacob Bildstein, Prayer in Maimonides` Legal Teachings, Bialik Press, 1994, pp. 45-57 (in ebr.); Ehud Ben Or, A Concept of Prayer: A Study of Prayer in Maimonides and his Sources, University of Michigan Press, 1992, passim.
  11. 11,0 11,1 11,2 11,3 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 243-255.
  12. 12,0 12,1 12,2 12,3 12,4 12,5 The Divine Code, R. Moshe Weiner (cur.), Michael Schulman Ph.D., Vol, I., Ask Noah International, p. 21, 2008.
  13. Paradossale questa affermazione: si vieta l'omicidio, ma si condanna a morte. Se la vita è sacra, lo è indistintamente — si sostiene che solo Dio possa decidere su vita e morte, ma a tutt'oggi in molte nazioni del mondo la pena di morte è corrente.
  14. 14,0 14,1 14,2 14,3 14,4 Gerald Bildstein, Political Concepts in Maimonidean Halakha, II ed., Ramat Gan., 2001 (in ebr.); si vedano anche i suoi “Holy War in Maimonidean Law”, Perspectives on Maimonides: Philosophical and Historical Studies, Joel L. Kraemer (cur.), pp. 209- 20; “Maimonides and Me’iri on the Legitimation of Non-Judaic Religion”, Scholars and Scholarship: The Interaction between Judaism and Other Cultures, pp. 27-35; “The Status of Islam in Maimonidean Halakhah”, Multiculturalism in a Democratic and Jewish State, Avi Sagi, Menachem Mautner, e Ronen Shamir (curatori), pp. 465-476; “Living in the Land of Israel According to Maimonides, ‘Laws of Kings V.9-12’”, Me’ah She‘arim: Studies in Medieval Jewish Spiritual Life in Memory of Isadore Twersky, Gerald Blidstein et al., pp. 171-190; Authority and Dissent in Maimonidean Law, Tel Aviv, 2002, passim
  15. 15,0 15,1 15,2 15,3 15,4 15,5 Per questa sezione si vedano in particolare Meir Feldblum, "Maimonides` Rulings in Light of His Attitude to the Anonymous Material in the Babylonian Talmud", American Academy of Jewish Studies, 1980, pp. 111-120 (in ebr.); Binyamin Zeev Benedict, Maimonides with no Deviation from the Talmud, Mosad Ha-Rav Kook, 1995 (in ebr.); Hayyim Soloveitchik, "Reflections on Maimonides` Organization of Mishneh Torah, cit., pp. 107-115; Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp. 255-262.
  16. 16,0 16,1 16,2 16,3 16,4 16,5 Jacob Levinger, Maimonides Halakhic Thinking, Magnes Press, 1965 (in ebr.), loc. cit.; Meir Feldblum, "Maimonides` Rulings in Light of His Attitude to the Anonymous Material in the Babylonian Talmud", loc. cit., 1980, pp. 111-120 (in ebr.)
  17. Un'"ora" halakhica è un dodicesimo del tempo tra alba e tramonto; la sua durata quindi varia a seconda delle stagioni. L'inizio delle settima ora è, in effetti, mezzogiorno.
  18. 18,0 18,1 18,2 18,3 18,4 18,5 18,6 Per questa sezione si vedano in partic. Ehud Ben Or, A Concept of Prayer: A Study of Prayer in Maimonides and his Sources, University of Michigan Press, 1992, passim; Zeev W. Harvey, "Aggadah in Maimonides` Mishneh Torah", Dine Israel 24, 2007, pp. 197-207; Jacob Bildstein, Prayer in Maimonides` Legal Teachings, Bialik Press, 1994 (in ebr.).
  19. 19,0 19,1 19,2 19,3 19,4 Moshe Halbertal, Maimonides, cit., 2014, pp.263-276.
  20. Cfr. 1 Samuele 22:6-19 su biblegateway.com
  21. 21,0 21,1 21,2 21,3 Zeev W. Harvey, "Aggadah in Maimonides` Mishneh Torah", Dine Israel, cit., 24, 2007, pp. 197-207.
  22. 22,0 22,1 22,2 Yair Lorberboim, Image of God: Halacha and Aggada, Gerusalemme, 2004, pp. 221-234 (in ebr.); Jacob Katz, Between Jews and Gentiles, Gerusalemme, 1960, pp. 65-70 e passim (in ebr.)