Storia intellettuale degli ebrei italiani/Immortalità dell'anima

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Allegoria dell'immortalità, di Giulio Romano (XVI secolo)
Exemplar Humanae Vitae, di Uriel da Costa
Repetitio ad D. 41.2 di Uriel da Costa, manoscritto del XVI secolo. Real Biblioteca del Monasterio de San Lorenzo de El Escorial, Manuscritos latinos, K.II.2, ff. 522-550
Sara Copia Sullam, Manifesto di Sarra Copia Sulam hebrea Nel quale è da lei riprovate, e detestata l’opinione negante l’Immortalità dell’Anima, falsemente attribuitale da SIG. BALDASSARE BONIFACCIO, Venetia, Giovanni Alberti, 1621

Immortalità dell'anima e apertura al mondo cristiano[modifica]

Immortalità dell'anima come soggetto filosofico e religioso[modifica]

Ereditata da un dibattito medievale e continuata fino alla prima età moderna, la questione dell'immortalità dell'anima è stata una delle questioni principali nella letteratura filosofica e teologica del Rinascimento. Sia il platonismo che il pensiero cristiano avevano sviluppato l'idea della separazione tra il corpo e l'anima e, come qualcosa di correlato, l'idea della natura corruttibile del primo e della natura incorruttibile della seconda. Il corpo era fatto di materia, ed era così destinato alla decomposizione e alla morte; l'anima aveva un'essenza divina, e quindi viveva per sempre in un mondo celeste dopo aver lasciato la sua residenza terrena. Negare questa idea significava condividere una visione del mondo completamente materialistica e, quindi, un'incredulità nella natura parzialmente divina dell'uomo, che era stato creato, secondo la Bibbia, a immagine e somiglianza di Dio. Dio aveva soffiato l'anima nelle narici di Adamo; per quanto riguardava il suo corpo, poi, l'uomo era soggetto alle leggi naturali della riproduzione, mentre l'anima era creata nuovamente da Dio per ogni uomo.

Inoltre, la visione materialistica era problematica sul piano etico. Secondo la dottrina cristiana, l'uomo – o, per dirla meglio, la sua componente spirituale – doveva ricevere premi o punizioni per il suo comportamento durante la vita; poiché era chiaro che questa giustizia divina assoluta non veniva sempre attuata in questo mondo, si doveva presumere che esistesse un altro mondo, in cui tutte le innegabili ingiustizie umane sarebbero state corrette, una volta per sempre.

Una dimensione epistemologica fu aggiunta a questo problema dalla teoria aristotelica della conoscenza. Nella sua analisi molto dettagliata del processo della conoscenza nel De Anima e in altri libri, Aristotele non arrivò a una conclusione chiara sulla capacità dell'anima intellettiva – presumibilmente in grado di formulare concetti universali privi di fondamento materiale – di agire indipendentemente da il corpo. Le diverse interpretazioni di alcuni passi controversi del filosofo stagirita, generalmente letti nelle università medievali europee attraverso il commento di Averroè, servirono da base per concezioni opposte, una spiritualista e l'altra materialista (la cosiddetta posizione alessandrina, da Alessandro di Afrodisia).[1] Inoltre, la lettura araba della teoria della conoscenza di Aristotele aveva portato alla necessità di immaginare un agente della natura divina, o una mente attiva indipendente dall'uomo, che rendesse possibile il processo di conoscenza facendo emergere le nozioni universali che risiedevano in potenzialità all'interno dell'intelletto umano, o passivo. Ma se la conoscenza consisteva nell'unione tra l'intelletto umano individuale e l'intelletto attivo unico, allora ogni formulazione di nozioni universali implicava che l'uomo dovesse unirsi a questo intelletto attivo e unico; attraverso l'atto di comprendere, l'uomo stesso diventava intelletto e quindi perdeva la sua individualità. Come anima intellettuale in azione, l'uomo doveva essere unito ad altri uomini che avevano sviluppato le stesse idee disincarnate.

Questo concetto, tuttavia, era l'opposto della dottrina cristiana della punizione e della ricompensa, che identificava nell'individualità dell'anima dell'uomo una condizione della sua responsabilità morale. La questione provocò un aspro dibattito teologico e filosofico tra i cristiani, sfociando nelle formulazioni dogmatiche che definirono la posizione ortodossa.[2]

Come ha affermato Paul Richard Blum nel suo capitolo sull'immortalità dell'anima in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, abbiamo qui una questione dalle molteplici sfaccettature: la questione esegetica – l'interpretazione di Aristotele, con la sua indiscutibile autorità filosofica – implicava il problema epistemologico; questo, a sua volta, portava alla questione etico-religiosa, che implicava anche una dimensione cosmologica: il posto dell'anima umana in un universo ben definito fatto di esseri corruttibili e incorruttibili.[3]

Le risposte date a queste domande hanno prodotto effetti che sono andati ben oltre le mura dell'università. Il pericolo per la dottrina cristiana ufficiale non derivava solo dalla possibilità di una visione materialistica, del resto abbastanza rara, ma anche, e forse più azzardata, dalla separazione tra sfera razionale e sfera religiosa: una visione individuata come "averroista". A seguito della lettura dei testi di Aristotele, un filosofo poteva benissimo sostenere l'idea della mortalità dell'anima da un punto di vista meramente filosofico, ma riaffermare la sua fede nell'immortalità perché quella era la verità affermata dalla rivelazione divina e dal Padri della Chiesa. La questione divenne così delicata che nel Concilio Lateranense V, nel 1513, fu emanata un'autorevole dichiarazione sull'immortalità e l'individualità dell'anima, imponendo non solo ai teologi ma anche ai filosofi universitari il compito di provare razionalmente quelle verità.

Non è questa la sede per approfondire la storia di tale problema nel mondo intellettuale cristiano. Citiamo solo due opere maggiori: Theologia platonica de immortalitate animorum dell'umanista fiorentino Marsilio Ficino (1469-74) e Tractatus de immortalitate animae del docente universitario Pietro Pomponazzi (1516).

Il primo libro è una vera e propria "summa", il riferimento principale per lo schema neoplatonico che vedeva l'anima umana in una posizione intermedia, ovvero la "terza essenza", tra il livello superiore di Dio e degli angeli e quello inferiore della materia e delle sue qualità, rappresentando così il legame tra quei due livelli: aspirare alla divinità, mentre allo stesso tempo riempire la materia corruttibile del corpo. L'immortalità dell'anima veniva dimostrata da Ficino in molti modi, seguendo il metodo della logica aristotelica ma assumendo l'idea neoplatonica, che divenne una nozione centrale del Rinascimento, che accompagnava e fondava un'altra nozione importante, quella della dignità dell'uomo.

Di tutt'altra natura era il Tractatus di Pomponazzi, non solo perché opera di un tipico rappresentante della filosofia aristotelica insegnata all'università (Pomponazzi, professore a Padova, fu il più prestigioso conferenziere del suo tempo), ma anche perché criticava radicalmente lo schema intellettuale seguito da Tommaso d'Aquino. Il metodo di Tommaso fu ritenuto molto tempo dopo di lui (e durato fino ai nostri giorni) come posizione ufficiale della Chiesa Romana riguardo all'accordo sostanziale tra le verità della ragione e le verità della fede. Secondo Pomponazzi, bisognava credere nell'immortalità dell'anima perché tale era l'insegnamento della Chiesa, depositaria della divina rivelazione; ma la filosofia non poteva giungere alla stessa conclusione, e nemmeno Aristotele. Questa fu la conclusione del filosofo padovano. Il libro di Pomponazzi fu bruciato, ma siccome fu preceduto da alcune altre opere meno radicali, che gli aprirono la strada, così fu seguito da un gran numero di testi che vi reagirono, tutti aderenti alla posizione ufficiale cattolica, e cercando di usare la ragione per provare l'immortalità dell'anima.

Dopo il declino dell'epistemologia aristotelica, la questione dell'immortalità dell'anima continuò a essere discussa: la prima edizione delle Meditationes de prima philosophia (1641) di Cartesio portava il sottotitolo in qua existentia et animae immortalitatis demonstrantur. Inoltre, oltre all'analisi strettamente filosofica, sia l'immortalità dell'anima, sia la sua purezza e nostalgia di Dio nell'aldilà furono al centro della devozione cristiana nel cosiddetto periodo barocco.

Qual era la posizione ebraica su questo tema? Gli ebrei presero parte alla controversia? Per quanto riguarda il Rinascimento e la prima età moderna, l'argomento deve ancora essere studiato a livello globale. Due casi, però, sono stati oggetto di diverse ricerche: in primo luogo la controversia ad Amsterdam, durante i primi due decenni del Seicento, alimentata dalla posizione antirabbinica di Uriel da Costa, e in secondo luogo il dibattito tra la poetessa ebrea Sara Copio Sullam e il prete cattolico Baldassare Bonifacio, avvenuta a Venezia negli stessi anni e che si può mettere in relazione con la controversia di Amsterdam. Sebbene questi casi siano già stati approfonditi, meritano comunque un breve commento alla luce del nostro interesse per le questioni delle relazioni ebraico-cristiane e della crescente secolarizzazione della cultura europea. Inoltre, si capiranno meglio se verranno posti in continuità con i testi di altri intellettuali ebrei del Rinascimento, specificamente in Italia, che si occuparono dello stesso tema.

È difficile trovare una linea di pensiero comune in questi autori ebrei; c'erano neoplatonici, che si riferivano a Platone direttamente o indirettamente, attraverso, ad esempio, riferimenti alla Cabala; e c'erano gli aristotelici, che seguivano la tradizione arabo-ebraica che comprendeva Averroè, Maimonide e Gersonide. Questa tradizione intellettuale aveva interessi e metodologie simili ma non identiche a quelle della scolastica cristiana. Nessuno fece dell'immortalità dell'anima una questione centrale della propria opera, o più esattamente, come vedremo, della propria opera ebraica. In altre parole, il "sottogenere" delle dimostrazioni sull'immortalità dell'anima, così comune nella teologia e nella filosofia cristiana dell'epoca, non sembra essere stato un genere giudaico-ebraico.

Tra gli autori neoplatonici possiamo annoverare i già citati Mosheh da Rieti (1388—ca.1465) e Yehudah Moscato (c.1530—c.1593); secondo entrambi, l'immortalità dell'anima era un fatto, sul quale un poeta-filosofo come il primo o un esegeta-retore come il secondo potevano elaborare, talvolta in modo lirico; ma non cercarono mai di dimostrarlo in modo argomentativo. Vanno esaminati anche gli scritti di Yitzḥaq Abravanel (1437-1508), lo spagnolo in esilio che visse i suoi ultimi anni in Italia. Nell'Italia rinascimentale, Abravanel scrisse molto su questo argomento e la sua posizione è chiaramente neoplatonica; i suoi riferimenti ebraici, invece, appartengono probabilmente più alla tradizione spagnola che a quella italiana. Quanto a una posizione aristotelica "ortodossa", il principale rappresentante fu senza dubbio Elia Del Medigo (ca.1458-1493), le cui affermazioni sulla questione dell'immortalità dell'anima erano a dir poco ambigue e meritano quindi un'attenzione speciale.

Per comprendere le posizioni di questi autori, dovremmo tenere presente quanto, a diversi livelli, i filosofi ebrei più influenti, Maimonide, Nahmanide, Ḥasdai Crescas e Yosef Albo, scrissero su questo tema.

Discussione tra i pensatori ebrei del Medioevo[modifica]

Moshe ben Maimon, più noto nell'Europa medievale col nome di Mosè Maimonide, conosciuto anche con l'acronimo di Rambam o l'appellativo Grande Aquila
Moshe ben Nahman Girondi, noto come Nahmanide (raffigurato artisticamente)
Levi ben Gershon, latinizzato Gersonide, noto tra gli ebrei anche con l'acronimo di Ralbag

Maimonide – in quanto filosofo e autore della Guida dei perplessi, non nelle sue qualità di giurista o di autore di un elenco di dogmi – ammetteva la difficoltà di provare razionalmente l'immortalità dell'anima: nozione ancora più difficile da dimostrare rispetto a quello della creazione del mondo.[4] In questo contesto, non affrontò in modo esplicito la questione, limitandosi a indicare semplicemente che la Torah prepara alla perfezione del corpo e dell'anima, e che quest'ultima conduce a una condizione di eterna felicità.[5] L'anima, che si separa dal corpo, è la forma di quel corpo (in senso aristotelico), cioè è l'intelletto che ha raggiunto la vera conoscenza di Dio (secondo i suoi limiti) e può così evitare la morte.[6] Questo è il vero obiettivo (takhlyth aḥaron) della Torah.

Quanto alle sue affermazioni dogmatiche, quelle che compaiono nelle altre sue opere non filosofiche, Maimonide scrive più ampiamente, tenendo una posizione risolutamente spirituale: le anime dei giusti vivranno nel Mondo a venire (‘olam ha-ba), rallegrandosi nella contemplazione spirituale e intellettuale della presenza divina. La risurrezione dei morti non è che una tappa intermedia: il popolo risorto finirà infatti per morire di nuovo, secondo Maimonide, e l'eternità sarà raggiunta solo nel Mondo a venire, quando le anime non saranno più legate ai corpi. Anche quando scrive come giurista, Maimonide sottolinea l'aspetto intellettuale del comportamento umano. I meriti dell'anima sono essenzialmente intellettuali, e di conseguenza la più alta ricompensa nell'aldilà consiste nella pura contemplazione intellettuale del divino, senza il peso del corpo e i doveri della vita terrena:

« L'anima continuerà ad esistere per l'eternità, proprio come Dio, che ne fu la causa, avendola percepita, come è stato spiegato dalla prima filosofia. Ciò costituisce il bene più grande al quale nessun altro bene può essere paragonato, poiché come si può paragonare l'eternità senza fine a qualcosa di effimero? »
(Maimonide, Commentario alla Mishnah, introduzione a Sanhedrin X[7])

Il catalano Nahmanide (Mosheh ben Naḥman o Ghirondi, in catalano Bonastruc ça Porta, 1194-1270), da parte sua, ama la descrizione del destino dell'uomo dopo la morte come raccontato dalla tradizione ebraica, che considera di origine divina, e come tale superiore alla filosofia umana; non è quindi interessato al fondamento razionale della nozione di immortalità. Riferendosi agli insegnamenti dei rabbini (Ḥazal) nel Talmud e nel Midrash che spesso è costretto a interpretare, l'autore catalano fornisce una descrizione molto precisa delle ricompense e delle punizioni delle anime nell'aldilà, delle loro caratteristiche e della loro durata nelle varie sezioni di ciò che può essere chiamato inferno e paradiso. Quanto al rapporto tra la risurrezione e la vita eterna, obiettava all'affermazione di Maimonide che nel mondo futuro le anime dei giusti, dopo aver vissuto nel paradiso celeste (gan ‘eden), si sarebbero riunite per sempre ai loro corpi.

« Che bisogno aveva lui [Maimonide] di cercare di dimostrare che in quel mondo non ci sono corpi ma solo anime? Anche uno scolaro ebreo sa che l'anima di un giusto che muore rimane nel bene, cioè nel bene del mondo superiore in cui non c'è materia e non c'è corpo. »
(Sha‘ar ha-gemul[8])

Nahmanides conclude che Maimonide voleva attirare l'attenzione sul fatto che, anche dopo la riconnessione delle anime con i corpi al momento della risurrezione, le persone (incluso il Messia) moriranno di nuovo e otterranno la loro ricompensa nel mondo spirituale dell'anima. Per Nahmanide, invece, dopo la resurrezione, il popolo risorto vivrà per l'eternità, con un corpo dalle caratteristiche angeliche e separato dalla materia corruttibile.

Inoltre, commentando il libro di Giobbe, Nahmanide fa allusioni alla teoria cabalistica della trasmigrazione delle anime, anche se, seguendo la sua abitudine, non insiste sulla sua importanza.[9]

La posizione di Gersonide (Levi ben Gershom, Provenza 1288-1344), espressa nel famoso e controverso trattato Milḥamoth Adonay (Le Guerre del Signore, I ed. Riva di Trento, 1560) può essere considerata una chiarificazione e un'accentuazione della posizione razionalista di Maimonide. Infatti, nella prima parte di quest'opera, il filosofo e scienziato provenzale offre una lunga e complessa dimostrazione della necessità dell'immortalità dell'"intelletto acquisito", cioè dell'intelletto materiale (umano) di cui si appropriano gli eterni intelligibili, presenti nell'"Intelletto Agente".[10] "L'intelletto acquisito", scrive Gersonide, "è immortale; poiché ciò che apprende di questi oggetti di conoscenza è esso stesso un intelletto nell'Intelletto Agente". Procede con un sillogismo: "L'intelletto acquisito è immateriale, e una sostanza immateriale non ha le condizioni richieste per la corruzione; e tutto ciò a cui mancano queste condizioni è incorruttibile".[11] L'immortalità è dunque funzione dell'apprendimento e riguarda l'anima intellettuale.

Per il filosofo catalano Ḥasday Crescas (ca.1340-1410/11), la discussione sull'immortalità dell'anima si colloca all'interno di una più ampia riflessione sulla perfezione richiesta dalla Torah: questa riflessione porta ad una somma condanna della scuola intellettualistica di Maimonide, e a uno spostamento dell'accento dalla perfezione intellettuale all'amore dei fedeli verso Dio. Che l'intelletto accresce la sua capacità fino a raggiungere l'immortalità grazie all'intelletto degli universali; che l'intensità della sua beatitudine nell'aldilà dipende dall'altezza delle sue intellezioni: sono due affermazioni tipiche dell'intellettualismo di Maimonide che, secondo Crescas, sono in totale opposizione alla Torah e alla tradizione, oltre che assurde da un punto di vista razionale.

Il conflitto dell'intellettualismo con la Torah e la tradizione è piuttosto semplice da dimostrare. I testi, scrive Crescas, mostrano abbondantemente che l'azione, non l'intelletto, e soprattutto l'esecuzione delle mitzvot, porta a una ricompensa in questo mondo e nell'altro. Più complicato è dimostrare l'assurdità razionale dell'ottica intellettualistica; si basa su un gran numero di prove dialettiche basate su premesse aristoteliche e articolate in sillogismi.

Ciò che Crescas intende dimostrare, soprattutto, è che non l'intelletto, ma l'anima nella sua interezza – che possiede anche facoltà intellettuali – è immortale, come sostanza separata dalla materia che sopravvive alla corruzione materiale.[12] L'anima è, quindi, immortale per natura, anche se può essere distrutta da alcuni mali, e rimane individuale dopo aver abbandonato il corpo materiale. L'idea di un unico intelletto universale risultante dall'unione dei singoli "Intelletti Passivi" (umani) con l'"Intelletto Agente" (divino), che aveva suscitato molte tempeste polemiche nel mondo cristiano del XIII secolo, viene quindi scartata da Crescas come empio e assurdo.[13]

Avendo sviluppato l'idea che l'azione è superiore all'intelletto, Crescas arriva quindi alla nozione dell'amore per Dio come obiettivo autentico dell'uomo. L'anima che ama Dio, perseguendo il suo vero obiettivo, si perfeziona, e così ottiene l'immortalità eterna e la felicità.

« È quindi chiaro che la perfezione richiesta dalla Torah è obbedire [a Dio] con il massimo zelo, osservando i suoi comandamenti e stando attenti a non violare i suoi divieti; con gioia e leggerezza di cuore, che sono il segreto del servizio e del vero amore. Questo è evidente in molti testi rabbinici. Poiché questa è la perfezione richiesta dalla Torah, essa risulta necessariamente nella felicità eterna e nell'immortalità [per l'anima]. »
(Ibid., Maamar 2, kelal 6, pereq 1, pp. 238-239)

Il legame causale tra amore per Dio e immortalità è sostenuto anche razionalmente da Crescas. Se la perfezione dell'anima sta nell'amare il Bene, l'amore per il Summum Bonum, che è Dio, conduce alla massima perfezione dell'anima. Inoltre – e qui Crescas si riferisce al pensiero di Empedocle[14] – se, in natura, l'amore è causa di unità tra gli elementi, lo stesso deve valere per il regno spirituale: quanto più intenso è l'amore (ahavah) per Dio (finché non diventa passione; la parola ebraica ḥesheq entrerà nella discussione più avanti) più forte sarà l'unione (devequth) dell'anima con Dio. La perfezione e il legame con Dio hanno un valore pari a quello dell'immortalità e della beatitudine.[15]

Lo spostamento di enfasi rispetto a Maimonide e Gersonide è evidente. Dopo Crescas – salvo rare eccezioni come nell'opera di Elia Del Medigo – l'immortalità dell'anima sarà trattata nell'ambito religioso devozionale, anche se – saltuariamente – dimostrazioni si svolgono secondo la dialettica scolastica. La preoccupazione intellettualistica, che legava l'immortalità alla conoscenza intellettuale, sarà definitivamente abbandonata. L'amore per Dio, lo zelo religioso e il timore del peccato, l'incomprensione intellettuale del divino (anche se alla fine sfocia nell'amore) diventano allora i valori religiosi più diffusi all'interno del mondo ebraico, compreso quello italiano.

Quanto all'autore del più noto elenco di articoli di fede ebraici, Yosef Albo (1380-1412), egli non si preoccupa di trovare una giustificazione razionale per l'idea dell'immortalità. La sua preoccupazione è esclusivamente dogmatica. In Sefer ha-‘Iqqarym[16] (IV, 29-30), Albo enuncia quattro possibili opinioni sulla remunerazione delle azioni umane dalle quali si possono trarre le sue conclusioni sulla natura dell'anima. Il primo postulato (ispirato da Aristotele) nega l'esistenza della remunerazione; l'anima è, in effetti, una funzione del corpo e muore con esso. Il secondo (ispirato alla lettura di Aristotele da parte di Alessandro di Afrodisia) ammette una remunerazione materiale; l'anima è una funzione del corpo – e di conseguenza svanisce con la sua morte – ma grazie alla facoltà intellettuale può entrare in contatto con Dio, che premia l'uomo nel corso della sua vita. Il terzo (che è quello di Maimonide) mantiene una remunerazione spirituale unica nel Mondo a venire sulla base dei risultati intellettuali raggiunti durante la vita sulla terra; secondo questa concezione, l'anima è separata e immortale e la sua parte più nobile è quella intellettuale. Albo obietta, osservando che abbracciare questa concezione estremamente elitaria escluderebbe dall'immortalità le persone non particolarmente dotate intellettualmente ma che hanno meriti in base alla loro devozione religiosa. Il quarto postulato, che è di Albo e, secondo lui, anche l'autentica posizione della Torah e dei rabbini, contempla una remunerazione materiale durante la vita terrena, nonché una remunerazione spirituale destinata all'anima dopo la morte del corpo. I testi della Torah e i maestri del Talmud, secondo Albo, parlano esplicitamente a tal fine.[17]

Questi, dunque, erano i presupposti teologici su cui riflettevano i pensatori ebrei italiani. Nessuno di loro, fino alla diffusione della Cabala di Safed nel XVII secolo, si occupò della descrizione del destino dell'anima dopo la morte, dei piaceri del paradiso e dei tormenti dell'inferno.[18] Vi erano atteggiamenti diversi, ma per lo più l'immortalità dell'anima era da loro presa come un'indubbia convinzione che sostiene e giustifica la devozione religiosa. Questa credenza, nel tempo, diventa uno dei cardini della loro fede, che permette l'apertura, o almeno la volontà di aprire, di un dialogo religioso con i cristiani.

Neoplatonici e aristotelici[modifica]

L'Anima: Protagonista nella poetica di Mosheh da Rieti[modifica]

Mosheh ben Yitzḥaq da Rieti (1388-ca.1465) fu un poeta, filosofo e medico estremamente importante tra gli ebrei italiani nel XV secolo, ben noto fino alla fine del XVI secolo. In seguito fu dimenticato, e sebbene fosse riscoperto nel XIX secolo, la piena portata del valore e dell'originalità della sua opera, sia in versi che in prosa, deve ancora essere pienamente apprezzata. In quasi tutti i suoi scritti l'anima gioca un ruolo importante. È probabilmente il protagonista di Ya‘ar ha-Levanon (Foresta del Libano),[19] un testo difficile e interessante, scritto in prosa rimata, in cui un personaggio femminile, No’ah (il cui nome potrebbe essere tradotto come "Errante"), identificata come la "figlia del Re", lamenta di essere stata separata dal padre e costretta a vagare in una terra ostile. L'allusione alla separazione dell'anima dalla sua fonte celeste è piuttosto chiara; questo personaggio femminile, però, possiede anche tratti tipici della proiezione spirituale del Popolo d'Israele, la Shekhinah, anch'essa in esilio, in attesa di redenzione, che ripristinerà la sua affettuosa vicinanza al padre divino. L'ispirazione dietro la narrazione lirica di questo doppio esilio è chiaramente neoplatonica e cabalistica.

Senza dubbio, Mosheh da Rieti credeva nell'immortalità dell'anima; una posizione di per sé evidente per un rabbino, ma vera anche per qualsiasi ebreo osservante. Come aveva notato Nahmanide, persino uno scolaretto ebreo sapeva che dopo la morte l'anima si separa dal corpo e ritorna alla sua sfera celeste. Ciò che è interessante qui è scoprire l'uso di questa credenza, sia appoggiandosi alla prospettiva aristotelico-maimonidea orientata all'intellettualismo, sia ad un atteggiamento più "pietistico", devozionale.

Il suo scritto più ambizioso, Miqdash me‘at (Il Picciol Santuario), una "risposta ebraica" alla Divina Commedia di Dante Alighieri,[20] consiste, per la maggior parte, in un viaggio nell'aldilà, o più precisamente nel paradiso ebraico, dove l'autore incontra le anime dei santi ebrei: profeti, maestri, martiri e bambini morti innocenti. La sua guida in questo viaggio celeste è suo padre, che era morto quando Mosheh era un ragazzino. È evidente che un viaggio così immaginario implicava l'idea dell'immortalità delle anime, o almeno dei giusti.

Un intero capitolo del poema consiste in un discorso diretto tra l'autore e la sua anima, finché quest'ultima non prende coscienza dei suoi peccati in vista della giustizia divina. Rieti la chiama nefesh, anche se i filosofi chiamavano neshamah l'anima intellettuale, scrivendo probabilmente sotto l'influsso dei Salmi, soprattutto 103;104, in cui il poeta dialoga con la propria interiorità. L'anima è descritta come "prigioniera celeste", "un'ombra fuggente che resta indietro in un cadavere" ma si rialzerà quando il suo calice si riempirà d'acqua terrena. Deve assumere coscienza di come la neshamah dell'uomo, qui corrispondente all'anima vegetativa, possa essere punita dopo la morte, bruciando nel fuoco e allontanata dal mondo della Santità.

« Anima mia (nafshy), stai attenta
che le ali spiegate della passione (ḥesheq)
non si stanchino nel loro movimento

E gli spiriti amari non la incontrino
Per strappargli le piume; o demoni
Che corromperanno le sue qualità

Anima mia, non hai sentito come l'anima (neshamah)
brucia nel fuoco dell'ira
E viene cacciata dal luogo santo a uno profano? »
(Il Dante ebreo, ff. 43a e 43b.)

In un precedente capitolo del poema, nel contesto di un elogio di Aristotele, Mosheh da Rieti aveva decisamente regolato i conti con il pensiero di Alessandro di Afrodisia, che costituiva una pericolosa deviazione dal pensiero dello stagirita: "In una parte delle scienze, c'è una radice che sprigiona veleno: è Alessandro. / Anche la Guida [allusione alla Guida dei perplessi di Maimonide] riporta gli argomenti".[21] Il riferimento è certamente all'idea, attribuita ad Alessandro, che l'anima non è altro che una disposizione del corpo e quindi muore con esso.

Dialoghi d'amore
Dialoghi d'amore, 1595

Mosheh ritorna sulla questione della sopravvivenza dell'anima post mortem in un'elegia composta in occasione della morte della moglie.[22] Le domande che si pongono in questo caso sono di natura esistenziale, non teorica. Nascono dalla sofferenza, e si pongono in modo diretto, in tono urgente e ansioso: le anime dei due innamorati si ritroveranno nell'aldilà? Le azioni compiute durante la vita terrena conseguiranno per loro destini diversi? Filosofia e dogma non vengono qui in soccorso all'autore: le sue domande restano senza risposta. Occorre notare che l'autore non mette in dubbio l'immortalità dell'anima ma le forme di questa immortalità, il modo in cui l'anima vivrà nella dimensione oltre la vita terrena.[23]

Mosheh da Rieti aveva ricevuto una formazione filosofica tradizionale, fondata sull'aristotelismo arabo ed ebraico, le cui figure più importanti furono Aristotele, Porfirio (l'autore di Isagoge), Al-Ghazali, Averroè, naturalmente Maimonide, e infine Mosheh Narboni e Gersonide (con il quale è in parziale disaccordo su alcuni punti non precisati).[24] Per lui filosofia e religione non sono in conflitto, ma sono anzi complementari: la prima non è "impura" ma costituisce invece uno strumento neutrale, necessario per salire la scala del sapere che culmina nella Torah. Mosheh associa gli strumenti concettuali che l'aristotelismo gli offre con una dimensione chiaramente neoplatonica, in accordo con la sua propensione lirica. A questo proposito, oltre all'importanza da lui attribuita al tema dell'anima e al suo esilio nel corpo, si deve ricordare anche l'insistenza sulla nozione di ḥesheq, o desiderio, eros, lo stimolo posto nell'uomo che aspira ad elevarsi verso le sfere superiori della conoscenza e dell'essere.[25] Due successivi pensatori ebrei italiani, Yoḥanan Alemanno (ca.1435-ca.1504)[26] e Yehudah Moscato, entrambi con inclinazioni neoplatoniche, insisteranno anche sull'importanza del ḥesheq, che risale a Platone (in particolare nel Fedone e nel Simposio) e che fu ripreso in Italia e sviluppato poeticamente da Dante (il modello di Mosheh da Rieti).[27] Un altro importante filosofo ebreo, originario dell'Iberia ma attivo in Italia, Yehudah Abravanel ("Leone Ebreo", figlio del celebre Yitzḥaq) fa di tale nozione l'argomento dei celebri Dialoghi d'Amore (pubblicati per la prima volta integralmente a Roma nel 1535).

Spesso la sensibilità neoplatonica dei pensatori ebrei si esprime attraverso un linguaggio cabalistico, e Mosheh da Rieti, come abbiamo visto, non fa eccezione. Nei suoi scritti, i riferimenti alla diffusa letteratura cabalistica in Italia del suo tempo – come il Sefer Yetzirah, percepito come testo cabalistico, il Sefer ha-Bahir, la Cabala castigliana, tra cui il Sefer ha-Zohar e le opere di Nahmanide – sono associati, in modo armonico, a nozioni neoplatoniche: qui si trovano gli inizi di una sintesi che è destinata a dispiegarsi tra i pensatori ebrei e cristiani nel successivo periodo del cosiddetto Rinascimento. Va notato che questa complementarità tra filosofia aristotelica, soggetti platonici e Cabala si attenuerà tra la fine del XVI secolo e l'inizio del XVIII, quando i cabalisti ebrei si proclameranno nemici irriducibili della filosofia.[28]

In sintesi, per un poeta-filosofo come Mosheh da Rieti, il tema dell'anima e del suo rapporto con il corpo e il divino è centrale, ma è trattato in maniera più lirica che argomentativa. Questo approccio verrà apprezzato in un periodo successivo, quando l'accento sarà posto su una devozione religiosa interiorizzata e spiritualizzata. Le succitate pagine di Miqdash me’at, in cui il poeta si rivolge alla propria anima, sono le uniche sopravvissute all'oblio del suo lavoro; furono copiate come modello di poesia ebraica[29] e tradotte in italiano in quattro diverse versioni da autori ebrei, che evidentemente le consideravano un esempio di "poesia spirituale"[30] confacentesi alla sensibilità barocca dell'epoca.

Yitzhaq Abravanel: Conciliazione tra Cabala e Filosofia[modifica]

Yitzḥaq Abravanel

Yitzḥaq Abravanel fu una delle figure di spicco della comunità spagnola prima e subito dopo l'espulsione degli ebrei da quel paese nel 1492. Questo "filosofo e uomo di Stato"[31] è considerato uno dei pensatori ebrei più aperti alle culture non-ebraiche, in particolare le culture della Grecia ellenistica e classica e la teologia cristiana dal periodo patristico al medioevo. La cultura del Rinascimento ebbe certamente un'influenza importante su Abravanel, che visse gli ultimi anni della sua vita esiliato in Italia. Allo stesso tempo, era un erede della cultura ebraica spagnola in cui la Cabala, considerata un tradizionale insegnamento rivelato, occupa un posto centrale.

È proprio risalendo alla Cabala che Abravanel afferma l'idea della trasmigrazione delle anime (gilgul ha-nefashoth), che circolano all'interno del loro mondo celeste e si reincarnano in diversi corpi umani, forse anche animali, secondo i loro meriti e difetti. Un'ulteriore elaborazione di questa concezione riguarda la reincarnazione delle anime all'inizio di ogni nuovo ciclo cosmico.[32] Alla fine di ogni ciclo di 4900 anni, infatti, nel successivo millennio o giubileo cosmico, man mano che la materia si annichilisce, le anime perdono la propria individualità per riassorbirsi nel mondo divino. Tutto ricomincia da capo – torna ad essere materializzato e le anime a discendere nei corpi loro assegnati – all'inizio del ciclo successivo.

Nonostante attribuisca queste dottrine alla tradizione ebraica come rivelate da Dio ai profeti, Abravanel si sente in dovere di giustificarle secondo criteri filosofici. Come è stato notato,[33] le sue fonti sono più platonico-rinascimentali che cabalistiche nel vero senso della parola: i suoi continui riferimenti alla prisca theologia, a Ermete Trismegisto (che identifica con Ḥanokh), al "divino" Socrate e a Platone, lo rendono un lettore molto probabile di Marsilio Ficino.

La dottrina di Abravanel sull'anima, dunque, appartiene a un pensatore rinascimentale per eccellenza. Tuttavia, non sembra che pensatori ebrei italiani di quel periodo, o di epoche successive, almeno fino al XVII secolo, formulassero concezioni così precise e articolate del destino dell'anima nell'aldilà, né che abbracciassero in modo così esplicito la teoria della trasmigrazione che, in ambito ebraico, era sostenuta solo dai cabalisti.

Prima della diffusione della Cabala lurianica e dell'insegnamento di figure influenti come Mosheh Zacuto (ca.1610-1697), in Italia non esistono visioni complete dell'aldilà che siano direttamente ispirate alla Cabala.[34] Come pensatore ebreo, Yitzḥaq Abravanel, pur essendo impegnato nella cultura filosofica del Rinascimento, di origine essenzialmente italiana, va comunque considerato come pienamente appartenente alla tradizione filosofico-cabalistica spagnola.[35]

Elia Del Medigo (ca. 1458-1493): Ambiguità di un tardo aristotelico[modifica]

Elia del Medigo

Non stupisce che Elia del Medigo, che si può definire uno degli ultimi filosofi ebrei del tutto fedeli alla prospettiva aristotelica,[36] tratti in modo del tutto diverso il tema dell'immortalità dell'anima. Del Medigo, originario di Creta, viveva a Padova, insegnando nella prestigiosa università, baluardo dell'aristotelismo, dove si svolgevano i dibattiti più significativi sulla questione dell'anima. Allo stesso tempo, era erede di una tradizione filosofica ebraica che interpretava Aristotele attraverso i commenti di Averroè e condivideva gran parte delle posizioni del filosofo cordovano.[37]

Del Medigo espresse il suo pensiero sulla questione dell'anima su invito di Giovanni Pico della Mirandola, scrivendo due trattati in latino che poi tradusse lui stesso in ebraico col titolo "Domande sull'anima".[38]

Da buon filosofo aristotelico, Del Medigo assimila la questione dell'anima a quella dell'intelletto, riportando il tema dell'immortalità a un livello gnoseologico. Le domande che egli pone sono le stesse che occupavano i teologi cristiani: l'intelletto acquisito, prodotto dell'unione tra intelletto passivo e attivo, è unico per tutti gli individui, o vanno contati solo gli individui che raggiungono tale condizione? In altre parole, i singoli intelletti perdono la loro individualità quando concepiscono nozioni universali? La questione era implicitamente legata a quella dell'immortalità individuale dell'anima – poiché Del Medigo non la nota – che sarebbe inconcepibile se gli intelletti si unissero in un intelletto universale. La risposta del filosofo cretese si ispira alla posizione "moderata" di Averroè: l'intelletto acquisito è unico, ma le vie per raggiungere l'intelligibile sono numerose. Sembra che il lettore sia lasciato a trarne le proprie conclusioni, collegandole all'immortalità dell'anima.

Un aspetto interessante di questi scritti è l'ambiguità con cui si formula il rapporto tra filosofia e religione. Da un lato, Del Medigo critica i teologi cristiani, ma anche ebrei e musulmani, per aver mischiato religione e filosofia: l'idea che Dio abbia creato miracolosamente anime individuali ed eterne, ad esempio, potrebbe essere, secondo lui, proprio ciò che la Torah richiede a ogni ebreo di credere, ma è infondato da un punto di vista filosofico. Non sorprende che le masse abbraccino tali credenze, sostiene Del Medigo, ma i teologi dovrebbero astenersi dal cercare giustificazioni razionali. Filosofia e religione, alle quali possiamo applicare rispettivamente ragione e fede (emunah), dovrebbero restare separate. Del Medigo, invece, dopo aver elogiato Aristotele e Averroè per la loro posizione nei confronti dell'intelletto e dell'anima, nega che la loro sia anche la sua posizione. La sua fede, afferma, è quella della Torah, e la filosofia può contenere elementi contrari ad essa.

Questa posizione deve essere confrontata con quella avanzata più tardi in Beḥynath ha-dath (Esame della Religione, composto a Candia nel 1490 e pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1629 in un libro scritto dal suo discendente Joseph Del Medigo). Beḥynath ha-dath è un libro di piccole dimensioni ma di notevole significato storico, tanto da essere considerato da vari studiosi il canto del cigno del razionalismo ebraico medievale e il tentativo di armonizzare Ragione e Rivelazione.[39] In questo scritto Del Medigo analizza l'affermazione che il metodo da applicare alle nozioni rivelate profeticamente (almeno alle principali) è diverso dal metodo applicato nella ricerca filosofica.[40] Non si tratta di teorizzare una "doppia via" che porta agli stessi risultati: religione rivelata e filosofia possono infatti portare a conclusioni diverse, e i tentativi dei teologi razionalisti (compreso Maimonide) di giungere a una armonizzazione tra le due vie sono criticati per non essere né veramente religiosi né veramente filosofici.[41] In caso di contraddizione tra le due disposizioni, l'ebreo deve aderire alla Torah, che è certa, mentre la filosofia – specie nella fase finale della sua ricerca – ha confini incerti. La preferenza per la religione, però, è valida finché non obbliga a credere ad assurdità concettuali o a negare prove ragionevoli, come nel caso del cristianesimo: questa religione irrazionale va di certo confutata.

Le nozioni fondamentali della religione ebraica, secondo Del Medigo, anche se non possono – e non devono – essere dimostrate in modo razionale, non entrano in opposizione con i "primi intelligibili", che sono naturalmente presenti nell'intelletto umano.[42] È evidente, prosegue, che le idee della religione ebraica (comprese quelle riguardanti l'anima) non contraddicono quelle leggi fondamentali del funzionamento del pensiero umano: "La nostra santa Torah non ci obbliga affatto a credere a principi contraddittori, né a confutare i primi intelligibili, né a credere a concetti simili a quei primi, o all'esperienza ragionevole";[43] affermazione che sembra in parziale contraddizione con quella delle sue opere latine sull'anima, e che mette in dubbio la reale posizione di Del Medigo.

Retorica e Religione: Yehudah Moscato (1532/33-1590)[modifica]

Il fervore spirituale di Mosheh da Rieti, che si avvale di elementi sia neoplatonici che cabalistici, e si fonda su una base aristotelica, si ritrova cento anni dopo nell'opera di uno dei più raffinati intellettuali dell'Italia ebraica del XVI secolo, il Mantovano Yehudah Moscato.[44] Il nome di Moscato è legato a due importanti opere: il Qol Yehudah (La Voce di Yehuda, Venezia, 1594), un classico commento al Kuzari di Yehudah Ha-Levy, e il raccolta di sermoni Nefutzoth Yehudah (La Dispersione di Yehudah, Venezia, 1589). Il tema dell'anima è affrontato direttamente nel secondo sermone della raccolta. Qui si ritrovano gli stessi riferimenti di Rieti, anzitutto al desiderio (teshuqah)[45] che Dio ha posto nell'uomo perché possa elevarsi dagli oggetti materiali alla loro prima forma e causa, Dio; poi all'anima, chiamata anche in questo testo "figlia del Re",[46] che deve essere ricondotta alla sua sede celeste, ma avendo cura che non sprofondi nell'abisso materiale; e infine al carattere intellettuale di questa perfezione, che corrisponde alla felicità eterna descritta dai filosofi "medievali", osher we-hatzlaḥah nitzḥyth.[47] Lo tzaddiq, l'uomo giusto, è colui che sa contemplare la verità divina nel modo corretto, "senza distorsione o confusione". La contemplazione a cui allude Moscato non è probabilmente una semplice conoscenza di tipo argomentativo ma una disposizione dell'anima, che si focalizza sull'eterno oggetto della conoscenza:

« Derekh tzaddiqim la‘ad, il sentiero dei giusti è eterno. [...] I giusti contemplano il firmamento della conoscenza della Sua verità, che è benedetta, senza distorsioni o confusione, in modo tale che la loro stessa direzione (derekh) sia l'intelligibile permanente ed eterno. Il loro modo di cercare raggiunge così una giusta e vera conoscenza di Dio. »
(F. 52v.)

Questo esito contemplativo della conoscenza, ispirato a Maimonide ma anche a Platone, non esclude, né svaluta, la materia. Per Moscato, invece, solo attraverso una "alchimia interna" capace di trasformare in oro elementi senza valore, ovvero di elevare le componenti inferiori dell'anima, l'uomo "sarà unito al suo Creatore in una beatitudine eterna",[48] salvato dall'oceano tempestoso del mondo terreno (zeman).[49] Se non pratica questa elevazione delle componenti materiali dell'anima, si verificherà un'inversione e "il suo oro diventerà opaco". L'elevazione del corpo, più che il suo rifiuto, può essere vista come un tratto tipico della sensibilità umanistica, che si disconnette dalla disposizione ascetica della cultura medievale, sia essa cristiana o ebraica.

L'immortalità dell'anima non è, nell'opera di Moscato, il risultato dell'argomentazione razionale tipica della scolastica, ma piuttosto il nucleo fondamentale di un complesso discorso esegetico e retorico.[50] Ciò è in accordo con la tipologia di questi scritti – che sono sermoni, non lezioni - ed è, d'altra parte, in armonia con l'ispirazione platonica di buona parte della letteratura cristiana del suo tempo, nota come "umanistica".

Tentativo di dialogo coi cristiani[modifica]

David de Pomis (1525-1593): Ebraismo come Religione basata sull'Etica[modifica]

La seconda metà del Cinquecento e del Seicento, in Europa, non sono segnate solo dalla nascita di una nuova scienza e di una nuova razionalità: c'è anche un periodo di nuova devozione basata su una visione interiore, un'esplorazione del paesaggio dell'anima. La caducità della vita, come valle dell'inganno, della corruzione e del peccato, insieme al desiderio di un'altra dimensione più pura, non soggetta alla devastazione del tempo, erano anche luoghi comuni della letteratura religiosa dell'epoca.

Gli ebrei italiani condividevano questa sensibilità con i cristiani; o almeno, questo era il volto che mostravano ai cristiani quando scrivevano in italiano o traducevano in italiano alcune delle loro poesie religiose. In effetti, molte delle traduzioni poetiche fatte dagli ebrei italiani dalla fine del Cinquecento alla prima metà del Seicento hanno avuto come soggetto o protagonista l'anima.[51]

Le traduzioni e i commenti biblici seguirono lo stesso motivo. Nel 1572 il medico e lessicografo David de Pomis pubblicò a Venezia un libro intitolato Discorso intorno a l'humana miseria, e sopr'al modo di fuggirla, che accompagnò la sua traduzione italiana e commentario al libro dell'Ecclesiaste. Il libro dell'Ecclesiaste era visto (abbastanza curiosamente, considerando il suo chiaro significato) come un testo che metteva in guardia gli uomini contro lo scetticismo, il pessimismo e l'eccessiva indulgenza nei piaceri mondani. Nel suo Discorso, de Pomis scrive sulla miseria fisica dell'uomo, dalla nascita alla vecchiaia, sui peccati più comuni dell'uomo, in particolare quelli sessuali, e sul comportamento dei giusti. La prima parte del libro "mostra che la felicità umana è nel futuro, non in questa vita transitoria e fragile".[52]

Lo stesso commentario dell'Ecclesiaste è pieno di riferimenti alla vera felicità dell'aldilà. Il versetto 10:15, "La fatica dello stolto stanca ciascuno di loro, perché egli non sa come andare in città" ha, per esempio, questo commentario:

« Si come interviene al rustico, che per non conoscere le delicattezze della città, non si vuol partir dalla libertà della villa, ancor che piena di fatica gli sia, così parimente occorrere allo stolto: il quale, per non comprendere le delicie del paradiso, se dà agli piaceri terreni: onde poi gli ne succede un eterno stento. »
(f. 37r)

In questo commentario, de Pomis, come avevano fatto Ficino e tutti i pensatori spiritualisti, prende Epicuro e i suoi seguaci materialisti come i principali avversari; poiché, scrive de Pomis, affermavano che l'anima periva con il corpo, e seguivano i desideri concupiscenti perché non credevano nel bene eterno.[53]

De Pomis era un ebreo che scriveva in italiano e si rivolgeva a un pubblico cristiano-italiano. È interessante notare che scelse un testo filosofico-morale dalla propria tradizione ebraica per illustrare un discorso morale universale. Probabilmente presumeva – come era più esplicitamente dimostrato nella sua opera latina De medico haebreo enarratio apologica (Discorso apologetico sul medico ebreo, Venezia, 1588) – che i valori religiosi e morali fondamentali fossero condivisi da cristiani ed ebrei: soprattutto la condanna della carne e l'esaltazione dello spirito immortale, e che questi valori fossero radicati nella tradizione ebraica. Nell'insieme dell'opera di de Pomis si possono trovare chiari accenni a una visione religiosa comune, risalendo alla figura biblica di Abramo; l'islam non è escluso da questo atteggiamento "universale", sebbene la sua inclusione abbia alcune riserve.

Sara Copio Sullam: Immortalità dell'Anima come valore condiviso tra ebrei e cristiani[modifica]

Sara Copio Sullam

Uno degli esempi più interessanti di un terreno comune basato sulla credenza dell'immortalità dell'anima è il dibattito che ebbe luogo a Venezia nel 1621.[54] In quell'anno, una giovane donna ebrea, Sara Copio Sullam, pubblicò un Manifesto in cui pubblicamente si difese dalle accuse di negare l'immortalità dell'anima.[55] Famosa per le sue capacità letterarie e per aver presieduto un salon littéraire, Sara Copio era lei stessa una poetessa, scrivendo in italiano. La sua nota corrispondenza con il poeta Ansaldo Cebà, iniziata da Sara, che aveva letto e ammirato il suo poema La reina Esther, è un esempio eloquente di letteratura barocca e illustra come i cristiani non fossero pronti ad accettare l'idea che un ebreo di talento potesse partecipare alla mondo della cultura generale pur rimanendo ebreo: Cebà tentò in quasi tutte le lettere di convincere la "bella ebrea" a convertirsi al cristianesimo, ma senza successo.[56]

Ma torniamo al dibattito che ebbe luogo nel 1621.

L'intellettuale cristiano Baldassarre Bonifacio, poi vescovo di Capodistria, avviò con Sara Copio uno scambio filosofico-religioso sulle questioni dell'immortalità dell'anima e del peccato originale. La veneziana si rivolse a lui in una lettera in cui negava il carattere ereditario del peccato di Adamo. Un'anima, sosteneva, non si trasmette alla generazione successiva, e inoltre la macchia del peccato originale non si trasmette. Oltre a queste argomentazioni, molto probabilmente ispirate dal rabbino veneziano Leone Modena – suo stretto conoscente[57] – aggiunse alcune ulteriori ipotesi circa l'eterna natura della materia, che suscitò a sua volta una dura risposta da parte di Bonifacio.

Nella sua replica, il Discorso sull'immortalità dell'anima, opera che cerca di sintetizzare le manifestazioni tradizionali della tradizione teologico-filosofica, Bonifacio denuncia pubblicamente l'eterodossia di tali idee.[58] Afferma che, negando l'immortalità dell'anima, Sara Copio sceglie di accettare l'autorità di Aristotele e la dottrina appestata di Epicuro a scapito degli "oracoli dei profeti". Bonifacio aggiunge che questi "oracoli", queste dottrine erano chiaramente affermate nelle Scritture e che, negandole, Copio si separava dal proprio popolo.

Anche se Bonifacio era fermamente convinto che Copio dovesse convertirsi se voleva che la sua anima diventasse immortale, si nota tuttavia che la controversia era basata molto più su una differenza di idee che sull'appartenenza religiosa. Infatti, sosteneva il cristiano Bonifacio, non accettando l'immortalità dell'anima, Copio rinunciava a una dottrina della propria religione, dottrina alla quale aderivano i suoi correligionari ebrei. La controversia aveva così implicitamente, e nonostante le dichiarazioni della parte cristiana, varcato i confini delle religioni.

Copio rispose con il suo Manifesto, in cui negava vigorosamente di mettere in dubbio l'immortalità dell'anima. Nel contesto della sua argomentazione, viene sottolineato il carattere interreligioso di questa idea religiosa. Sara Copio pone questa enfasi in parti strategiche del suo testo, sia all'inizio che alla fine. Nel suo discorso "Al lettore" annuncia che la controversia è vana, poiché nessuno, ebreo o cristiano, può contraddire l'immortalità dell'anima. Il testo stesso inizia con una serie di affermazioni vigorose:

« L'anima dell'uomo, signor Baldassare, è incorruttibile, immortale e divina. È innata, una creazione di Dio nei nostri corpi nel momento stesso in cui il nostro essere organizzato è pronto, nel grembo materno, a riceverla. Questa verità è tanto certa e infallibile per me quanto lo è – io credo – per ogni ebreo e ogni cristiano [...] tanto che mi sono chiesta a che giova presentare ora un simile trattato, e soprattutto qui a Venezia, a che serve pubblicare tali cose tra i cristiani? »
(Manifesto di Sarra Copia, "Al lettore")

Concludendo, Sara scrive: "Vivi felice e spera che l'immortalità che predichi sarà tua se davvero vivrai seguendo la tua legge cristiana, proprio come dichiaro di seguire la mia legge ebraica".[59]

Sara Copio difese così la legittimità della propria religione esprimendo contemporaneamente il suo rispetto per un cristianesimo altrettanto legittimo. Per inciso, in un altro passaggio del suo Manifesto, si riferiva a Gesù come al "Cristo", cioè come al Messia, e lo lodava per la sua risposta ai Sadducei, che negavano loro stessi l'immortalità dell'anima. (Questi erano gli stessi Sadducei che suscitarono la simpatia di Uriel da Costa, come si vedrà.) Allo stesso tempo, Sara Copio dimostrò la sua fedeltà all'ebraismo, scrivendo che la devozione alla Legge ebraica le impediva di attaccare Baldassare con troppo vigore. Notiamo qui l'aspetto morale di questa osservazione, che un lettore cristiano potrebbe comprendere perfettamente. In altre parole, suggeriva che l'ebraismo, non meno del cristianesimo, fosse una religione di umiltà e di autentica devozione.

Copio si rifiutò esplicitamente di intavolare una controversia religiosa con Baldassare, come fece in corrispondenza con Cebà.[60] Gli unici valori religiosi che era disposta a condividere con i suoi corrispondenti cristiani erano la devozione e l'immortalità dell'anima.

Questo aspetto morale e devozionale dell'ebraismo, che avrebbe confuso i cristiani che consideravano l'ebraismo come una forma di religione inferiore – o gli ebrei come una sorta di sottospecie nella categoria Homo-religiosus – è illustrato da alcuni sonetti che Sara Copio compose per altre occasioni. Uno dei sonetti inizia con un'invocazione a Dio:

« Signor, che dal mio petto arderti avanti
Mai sempre scorgi in olocausto il core
E sai ch’altro desìo che frale onore
M’instiga a porger preghi, a versar pianti.[61] »

In un altro sonetto si rivolge all'anima:

« O di vita mortal forma divina
E dell’opre di Dio mèta sublime. »
(Ibid., 123[62])

Conclude ricordando l'impossibilità del ragionamento umano di comprendere i mondi effimeri e divini.

In questo dialogo comune (i sonetti non fanno menzione di appartenenza settaria), e nel contesto di quelle scene intellettuali e religiose italiane ed europee che progressivamente si allontanarono dalla scolastica, lo spirito religioso ebraico è descritto tanto intenso quanto il cristianesimo, e quindi pienamente comprensibile ai cristiani. Si tracciava sempre più una linea di demarcazione meno tra religioni diverse e più tra credenti e non-credenti, tra religiosi e atei. Sulla questione dell'immortalità dell'anima, ebrei e cristiani potevano essere pienamente d'accordo, differenziandosi insieme dai Materialisti.

Tragiche conseguenze del problema: Il caso di Uriel da Costa[modifica]

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Uriel da Costa istruisce il giovane Spinoza (1901), di Samuel Hirszenberg, Louvre, Parigi

Il drammatico episodio del converso Uriel da Costa (1585–1640) è l'unico caso di controversia pubblica sull'immortalità dell'anima avvenuta all'interno del mondo ebraico. Ciò avvenne nella comunità sefardita di Amsterdam, la cui composizione sociale e intellettuale era molto peculiare. Uriel da Costa credeva che l'anima non fosse affatto una sostanza separata ma che risiedesse nel sangue, e quindi fosse mortale. Questa posizione era in totale contraddizione con l'insegnamento rabbinico. Il materialismo, se non l'ateismo, penetrò nell'ebraismo attraverso gli ex conversos iberici.[63] Piuttosto che entrare qui nei dettagli di questo processo, dobbiamo solo osservare che l'intensa polemica si svolse principalmente in portoghese: sia l’Exame das tradições phariseas di da Costa (1624 ) sia il relativo Tratado da immortalitade da alma (1623) di Samuel da Silva furono scritti in tale lingua.[64] Così erano anche i testi sullo stesso argomento scritti da Moses Raphael d'Aguilar[65] e Isaac Cardoso.[66] Menasheh ben Israel scrisse in spagnolo e latino.[67] Nel 1568, Daniel Arón Afia aveva già pubblicato in spagnolo Las Opiniones sacadas de los más auténticos y antigos philósofos que sobre la alma escrivieron y sus definiciones (Le opinioni dei più autentici e antichi filosofi che scrissero sull'anima, e le sue definizioni).[68]

Menasheh ben Israel

In sintesi, quando gli ebrei dedicavano testi specifici all'immortalità dell'anima, sottolineando sia l'aspetto etico e devozionale dell'argomento sia il suo lato problematico, lo facevano in latino o nelle loro varie lingue volgari: italiano, portoghese e spagnolo — ma non in ebraico. Fanno eccezione i libri scritti in ebraico dai tre principali rabbini di Amsterdam, Saul Levi Mortera, Isaac Aboab de Fonseca,[69] e Menasheh ben Israel. Tuttavia, il testo di Levi Mortera non fu mai pubblicato ed è ora perduto;[70] e per quanto riguarda il testo ebraico di Menasheh ben Israel Nishmath ḥayym (Anima vivente),[71] apparentemente ebbe più successo tra i cristiani che tra gli ebrei.[72]

Si può così parlare di una comune visione ebraico-cristiana italiana sull'immortalità dell'anima, e di una controversia ebraica interna ad Amsterdam, conclusasi con l'apertura di un dialogo con i cristiani. Possiamo considerare questi due eventi storici come manifestazioni dello stesso fenomeno: una crescente comunanza di interessi religiosi tra ebrei e cristiani, focalizzata su tale questione. Dopotutto, la reazione ebraica ad Amsterdam contro le posizioni materialistiche di da Costa era all'unisono con la posizione cristiana, e anzi forse era determinata da essa, come sostiene in modo convincente Steven Nadler, a proposito del caso parzialmente simile di Spinoza, nel suo Spinoza's Heresy.[73]

Un'altra possibile conclusione è che gli ebrei non considerassero l'immortalità dell'anima una questione problematica all'interno del proprio pensiero religioso e filosofico. Raramente scrissero testi specifici su di essa, né si impegnarono in una qualche polemica sull'argomento, e quando lo fecero, scrissero per lettori non ebrei – come Pico della Mirandola – o per lettori ebrei di educazione cristiana, educazione che molti ebrei possedevano ad Amsterdam. Dopotutto, Menasheh ben Israel si stava rivolgendo ai cristiani per creare, insieme a loro, un fronte comune contro coloro che negavano l'immortalità dell'anima. Lo stesso avveniva a Venezia nel medesimo periodo, anche se in modo meno diretto, nella polemica tra Sara Copio e Baldassare Bonifacio.[74]

Gli ebrei generalmente credevano nell'immortalità dell'anima e condividevano con naturalezza questa convinzione con i cristiani. Entrambi erano preoccupati per i pericoli del materialismo e dell'ateismo, a tal punto da poterne farne la base di un terreno intellettuale comune. Non condividevano l'esperienza descritta da Uriel da Costa quando scriveva dei suoi "anni cristiani" in Portogallo:

« In verità, il periodo più angosciante e miserabile della mia vita è stato quando ho creduto che la beatitudine o miseria eterna attendesse l'uomo e che secondo le sue opere si sarebbe guadagnato quella felicità o quella miseria. »
(Uriel da Costa, Esame delle tradizioni farisaiche, 34)

La storia di Uriel da Costa è comunque drammatica e dolorosa. Nato in una famiglia di ricchi commercianti ebrei sefarditi, costretti a convertirsi al cattolicesimo dopo l'entrata in vigore del decreto di Granada e la sua estensione legislativa al di fuori della Spagna (Portogallo e Americhe), studiò teologia cristiana e diritto canonico all'Università di Coimbra, dove lavorò anche come professore. Non convinto della dottrina cristiana, attirò su di sé i sospetti dell'Inquisizione. Da Costa, con la moglie, la madre e i tre fratelli, emigrarono in Olanda Settentrionale per scappare dalle persecuzioni. Stabilitisi ad Amsterdam, dove esisteva già una fiorente comunità ebraica di rifugiati, si riconvertirono tutti quanti all'ebraismo ortodosso e frequentarono insieme agli altri esuli la Sinagoga portoghese della città.

Ad Amsterdam assunse il nome di Uriel, sostituendo il nome Gabriel impostogli nel battesimo. Di idee materialiste e razionaliste, espose negli scritti le sue critiche alle dottrine e alle pratiche ebraiche: nel 1623 pubblicò l'Esame delle tradizioni farisaiche, sostenendo che l'anima muore insieme con il corpo. Censurato dalla sinagoga, si trasferì nella comunità ebraica di Amburgo, dalla quale però fu in breve espulso e tornò ad Amsterdam.

Nel 1640 da Costa raggiunse un accordo con le autorità ebraiche per rinnegare pubblicamente le proprie idee e potersi così reinserire nella comunità. Nelle sue memorie, Exemplar humanae vitae, narra in dettaglio quelle circostanze affermando che, pur avendo accettato quell'accordo, avrebbe in realtà mantenuto le proprie idee. Quel giorno, nella sinagoga, lesse pubblicamente una confessione di pentimento redatta dai rabbini; poi, legato a una colonna, ricevette 39 frustate; ancora, seduto a terra, ascoltò l'annuncio della sua riabilitazione. Infine, sdraiato nell'ingresso della sinagoga, dovette subire l'ulteriore umiliazione di essere calpestato dalla comunità dei fedeli che usciva dal tempio; solo a questo punto poté dirsi integralmente reintegrato nella comunità della "Nuova Gerusalemme". Nei giorni successivi a questo episodio, da Costa concluse le sue memorie, le cui ultime pagine descrivono l'episodio della punizione e della riabilitazione, e si suicidò con un colpo di pistola.

Salomone Fiorentino (1743-1815): Idee ebraiche nella poesia italiana[modifica]

Salomone Fiorentino (stampa d'epoca)
La lapide a Salomone Fiorentino, via delle Oche, Firenze

Salomone Fiorentino (1743–1815) visse in un'epoca successiva a quella generalmente presa in considerazione ai fini di questo libro. Tuttavia questo poeta, che nonostante la sua ottima conoscenza dell'ebraico scriveva esclusivamente in italiano, si può vedere in linea di continuità con gli altri autori fin qui considerati. Allo stesso tempo, rappresenta, in un certo senso, il punto in cui gli ebrei italiani arrivarono al modernismo.

Fiorentino fu, culturalmente e politicamente, francofilo e antimaterialista, estimatore del progresso scientifico, uomo di spirito profondamente religioso.[75] Le storie della letteratura italiana, pur non trascurandolo del tutto, gli riservano uno spazio molto limitato e non esplicano sufficientemente il contributo che diede alla letteratura italiana con l'uso di alcuni soggetti tipicamente ebraici. Allo stesso tempo, le storie della cultura ebraica – che lo tralasciano quasi del tutto – potrebbero giovare a vederlo come qualcuno che, spogliandosi del linguaggio della propria tradizione religiosa ed evitando riferimenti espliciti ad essa, ne presentava tuttavia i valori in un lingua occidentale, traducendole linguisticamente e concettualmente.

I soggetti ebraici sono già presenti nei sonetti giovanili di Fiorentino. Non era infatti comune, alla fine del Settecento, descrivere in versi temi come il diluvio universale, l'ascesa di Elia al cielo, un "Confronto tra Jefte e Abramo", o rispondere poeticamente alla questione: "Si cerca il motivo per cui la legge mosaica instilla i doveri del figlio verso il padre e mette a tacere i doveri del padre verso il figlio".[76] Non bisogna lasciarsi trarre in inganno da questi temi: nonostante il loro carattere didattico-moralistico, la fluidità dell'espressione e la sincerità dell'autore rendono queste composizioni perfettamente apprezzabili anche per un lettore moderno.

La relativa fama di Fiorentino, però, ha a che fare con le Elegie, scritte in occasione della morte della moglie, soprattutto le prime tre delle sei da lui composte, note come "La Malattia", "La morte" e "La visione".[77] Con la massima sincerità, senza esitare a cogliere le sue emozioni più dolorose, in alcuni casi contraddittorie, Fiorentino ripercorre le tappe di un evento fondamentale per la sua esistenza e le sue concezioni filosofico-religiose.

Le Elegie sono un viaggio catartico che tenta di dare un senso a una ferita incurabile. In effetti, anche dopo aver ricevuto una visione notturna della moglie, che gli rivela quanto sia ingiustificato soffrire per una perdita terrena, l'autore non trova ancora pace: "Ma sospirando ancor cerco il conforto".[78]

Scritte in terzine endecasillabiche – la metrica della Divina Commedia – queste Elegie sono ricche di riferimenti a Dante e Petrarca. Nella sua apparizione postuma, la moglie esibisce molte caratteristiche della Beatrice di Dante: il poeta non la vede com'era alla sua morte ma "In tal atto amoroso, e in tal sembiante / che trasformati avria gli uomini in Dei".[79] Questa donna angelicata, chi trasforma gli uomini in esseri divini, si vede risplendere di luce celeste, pur restando insieme umile e nobile:

« Serbava il volto amabilmente umile
E dagli occhi umidetti un certo raggio
Sovrumano piovea, e signorile. »
(Ibid., , 21)

Questa Beatrice settecentesca, però, ricordava anche la Laura del Petrarca (curiosamente la moglie di Fiorentino si chiamava infatti Laura Gallico): "La sua veste era bianca e all'aura sparsa"[80] e il poeta, preda al suo desiderio insoddisfatto di ritrovare la moglie, "spinge come un pazzo, il piede errante e vuoto".[81]

In queste Elegie, il riferimento a Dio è insieme discreto ed evidente, poiché nonostante il dolore, l'autore adora con pensieri e parole devoti un Dio "arcanamente giusto",[82] la potenza e la volontà di Dio che amano separare le due metà di un tutto.[83] Non c'è un solo riferimento che sia esplicitamente ebraico in questi versetti; un cristiano avrebbe potuto facilmente scrivere le dichiarazioni di intensa religiosità dell'ebreo fiorentino, anche se, a quel tempo, la religiosità non confessionale si esprimeva soprattutto in forma deistica.

Sono i riferimenti sociali della sua poesia che fanno di Fiorentino un autore esplicitamente ebreo. La donna amata in questa Elegia non è un'amante giovane e bella a cui l'autore è legato da una passione struggente, ma una moglie che muore all'età di quarantacinque anni. Testimoni del dolore dell'autore sono i suoi figli: riuniti intorno al tavolo da pranzo, riportano alla realtà il padre – che cerca sognante nei loro modi qualcosa della moglie defunta – e alla sua responsabilità. Teatro e testimone della sua straziante solitudine è il letto nuziale; una "pietà inquietante" spinge il poeta a riscoprire quello che ormai è "un campo privo d'amore".[84]

Si può notare che questi sono gli elementi di una poesia borghese, in cui non c'è nulla di tipicamente ebraico. Tuttavia, sono proprio questi elementi che tradiscono una scelta obbligata, dipendente dalla situazione sociale e dalla tradizione culturale degli ebrei italiani. Come gli ebrei di altri paesi, gli ebrei italiani vedevano nella famiglia il nucleo iniziale – e fondamentale – della società, senza possibili deviazioni. La comunità ebraica, va notato, era una micro-società, fondata sulla religione, che ammetteva un legame, anche solo sentimentale, tra uomo e donna solo nei limiti del matrimonio.

Solo la letteratura comica della Spagna medievale e quella di Immanuel Romano (ca. 1261-ca.1328) alludevano all'amore extraconiugale, di solito sotto forma di avventure erotiche. Le storie di passioni amorose sono, quindi, quasi del tutto assenti nel corpus letterario ebraico, e non esistono muse ispiratrici per questo genere. D'altra parte, non si può trovare nella storia della cultura ebraica – ancora, a parte la Spagna medievale e il breve periodo in cui scrisse Immanuel Romano – un ambito artistico autonomo. Gli ebrei non avevano circoli, accademie, correnti e club letterari, né mecenati.[85] Inoltre, l'artista, in quanto tale, non aveva una propria legittimità: per scrivere poesie doveva prima dimostrare di essere stato impegnato nello studio del Talmud e del diritto religioso. La letteratura era un hobby, non una professione, ed era consentita solo se erano stati adempiuti i doveri religiosi.

L'assenza di un'autonomia culturale e artistica nella sfera socio-religiosa, fondata sulla famiglia e sulla comunità, porta alla sovrapposizione delle due sfere: l'arte si esprime in termini religiosi, non artistici. L'ispirazione dietro i versi poetici potrebbe quindi essere una moglie; il dramma e gli eventi che sono oggetto della poesia sarebbero quelli della vita familiare o comunitaria, come un matrimonio o la morte di un eminente rabbino o della moglie stessa.

Essere ispirati a scrivere poesie dalla morte della propria moglie è una circostanza estremamente rara, quasi inesistente, nella storia della letteratura italiana.[86] Salomone Fiorentino, invece, ha un illustre precedente nella storia della letteratura ebraica italiana, il poeta e filosofo Mosheh da Rieti, che abbiamo già citato. L'elegia di Mosheh, composta alla morte della moglie e sopra citata, è un testo intessuto, come era consuetudine, di riferimenti biblici e talmudici, ma scritto in metrica originale e, soprattutto, che esprime una forte e sincera emozione. Questa poesia, proprio come quella di Fiorentino, presenta diverse fasi del processo della perdita di una persona cara: l'annuncio della morte, il dolore di chi resta e la lunga elaborazione del lutto. È presente anche una visione celeste di sua moglie, che contiene riferimenti non danteschi ma cabalistici.

La moglie di Fiorentino morì all'età di quarantacinque anni e il marito ritenne necessario giustificare la composizione di una poesia in memoria di una moglie matura.[87] Nel caso di Rieti, sua moglie aveva in realtà settanta anni. Questo, tuttavia, non fece diminuire l'intensità delle emozioni del marito sopravvissuto. In questa elegia quattrocentesca, anche la moglie è descritta in un contesto familiare, come saggia educatrice dei suoi figli. Anche qui il dramma della folle e inutile ricerca del coniuge defunto da parte del vedovo, è domestico. È la propria casa che lo ammonisce: "La cerco, agitato, come un pazzo, per tutta la casa, dicendo tra me: ‘Sorella mia,[88] forse ti troverò, mi sono abituato alla tua immagine in questo posto, da più di cinquant'anni’. Ma al calar della notte, una pietra urla dal muro: ‘Cosa cerchi? Le forze superiori hanno vinto, l'hanno rinchiusa in una bara, distesa.’"[89]

Come accennato in precedenza, la moglie di Salomone Fiorentino appare davanti al marito in una visione notturna. Nella sua visita annuncia una verità consolante: la vita terrena non è quella vera, e quindi il lutto per la morte di una persona cara è ingiustificabile:

« Vita è quella che il Tempo non misura
Quella che in faccia ha il sempre, e a tergo il mai
Mentre scorre beata, e và secura. »
(Elegie, 22)

In questa vita senza tempo, le anime immortali di marito e moglie si riuniranno nella felicità.

In una quarta elegia, intitolata "La rimembranza", il poeta torna all'errore, dovuto ai sensi, nel considerare ingiuria un favore divino. Invece di soffrire per la morte di sua moglie, avrebbe dovuto essere felice del passaggio della sua anima alla vita eterna. La quinta e la sesta elegia sono interamente dedicate a una riflessione sul Tempo e l'Eternità.

Moses Mendelssohn

Il tema dell'immortalità dell'anima è presente in altri scritti di Fiorentino: una lunga composizione intitolata "La spiritualità e l'immortalità dell'anima"[90] e un intervento in polemica sull'argomento con diversi rabbini italiani.[91] In nessuno di questi testi l'autore fa riferimento alle fonti della tradizione ebraica – biblica o rabbinica – come autorevoli. Gli argomenti sono sempre razionali o religiosi, ma mai confessionali. Il razionalismo settecentesco non correva più parallelamente alla religione rivelata, come era avvenuto nella teologia medievale, ma era completamente disinteressato alla rivelazione come fonte di verità, anche quando assumeva evidentemente un tono religioso. Il Fedone di Mendelssohn è il miglior esempio di un'opera sull'immortalità dell'anima, fondata su argomenti razionali e permeata di spirito religioso. All'epoca, l'impostazione ateniese del dialogo impedisce ovviamente (e volutamente) qualsiasi ricorso ai testi e alle tradizioni delle religioni europee, del cristianesimo e dell'ebraismo.

Uno di questi testi di Fiorentino ha, in realtà, un esplicito contenuto religioso. Per scrivere su un argomento nobile come l'immortalità dell'anima, il poeta evoca Dio in un modo che ricorda la concezione di Maimonide: "Di ogni causa Causa prima / esser necessario e infinito" (p. 7). Criticando diverse concezioni materialiste, il poeta insiste sull'idea che "oltre la tomba / si può trovar la vita". Uno degli argomenti più significativi utilizzati per sostenere questa idea si basa sull'affermazione che in natura nulla si distrugge, ma tutto si trasforma; la vita e la morte non sono così disgiunte come appaiono ai sensi, ma esistono in realtà in un rapporto di continuità. Se questo è vero per la materia, perché non dovrebbe esserlo anche per l'anima?[92]

Ciò che accade all'anima dopo la morte, tuttavia, rimane un mistero, come anche il suo legame con il corpo; l'unica cosa che si può affermare è la sua immortalità. Altrettanto misteriose sono tutte le vie del Signore: qui si richiama alla mente il Dio "arcanamente giusto" della prima elegia. Un secolo e mezzo dopo Sara Copio, Fiorentino insiste su questo aspetto della divinità: le sue leggi e i suoi disegni sono "arcani" e incomprensibili alla limitata conoscenza dell'uomo. Questo, però, può essere confermato riguardo a Dio con certezza: che è assolutamente giusto e infinitamente buono. Un Dio buono e giusto, avvolto tuttavia nel mistero come sua essenza (che non impedisce di renderlo possibile soggetto di un fervente culto), un'anima immortale: queste sembrano le nozioni religiose che gli ebrei italiani portano con sé quando, spogliati di riferimenti espliciti all'ebraismo ma indubbiamente nutriti dalle sue concezioni, si rivolgono a un pubblico non ebraico.[93]

Idee moderne in ebraico biblico: Samuel Romanelli[modifica]

Massa’ ba-’Arab (Viaggi in Terra Araba, 1792) di Samuel Romanelli[94]
David Friedländer

Il linguaggio religioso degli ebrei italiani, dalla fine del Settecento in poi, probabilmente non avrebbe differito a seconda che le parole pronunciate fossero rivolte a membri della comunità o ad altri. Il poeta, traduttore e "antropologo" mantovano Samuel (Shemuel) Romanelli (1757-1814), intellettuale in senso moderno, è un esempio eloquente di questo orientamento. Pubblicò a Berlino nel 1792 un poema ebraico di trenta sestine, intitolato Ruaḥ nakhon (Uno Spirito Giusto), dedicato a un protagonista della Haskalah berlinese, David Friedländer.[95]

In questa composizione Romanelli esaminò il tema filosofico-religioso dell'immortalità dell'anima o, più precisamente, dell'esistenza di un'entità chiamata anima che trascende la materia. Lo fece in un sofisticato ebraico biblico – così accuratamente studiato che si sentì in dovere di chiarire i propri versi con annotazioni – con evidenti riferimenti alla tradizione ebraica. La sua forma di argomentazione, tuttavia, non ha nulla di confessionale. Come Fiorentino, Romanelli non presenta testi biblici o affermazioni rabbiniche quali fonti di autorità; la sua argomentazione si basa sulla logica e sull'osservazione. Questo metodo non riesce però ad arrivare a risultati esatti e certi. Se i nemici sono proprio i Materialisti, i quali sostengono che anima e pensiero sono un tutt'uno, e sono strettamente legati al corpo, la risposta dell'autore, oltre a indicare che visualizza una visione ammirata dell'Universo in cui tutti gli elementi sono collegati tra loro in bella armonia, non può andare oltre l'annuncio del mistero:

« Ma cos'è questo legame e cos'è l'anima?
E la materia, che cos'è? Chi potrebbe dire,
chi saprebbe tutto e potrebbe spiegarlo?
...
Tutto ha una forza (una mano invisibile
vi opera con la sua legge) che lo mantiene:
questa è la sua anima, la sua vita, senza la quale ci sarebbe il caos. »
(Masa‘ ba‘rav, 165.)

Ogni essere, quindi, ha un'anima, e l'Universo è descritto come una gerarchia di esseri dotati di forze, cioè di anime sempre più nobili che a poco a poco salgono nella gerarchia. Questo è a quanto può arrivare la conoscenza umana; chi è spinto dall'arroganza ad esplorare oltre questi limiti rischia di esserne intellettualmente colpito, afferma Romanelli, in un'idea che ricorda un altro poeta mantovano del secolo precedente, Ya‘aqov Francès.[96]

Una volta affermata, senza averla spiegata, l'esistenza dell'anima, Romanelli si chiede se essa sia davvero immortale. Anche qui l'autore non è in grado di fornire vere dimostrazioni, a parte notare che nel solo chiedersi se hanno un'anima, gli uomini si distinguono dagli animali. La sua tesi si riduce a una versione della famosa scommessa di Pascal:

« Cosa perdi, se credi? Cosa non perdi,
se non ci credi? Non potresti, tuttavia, capire,
anche se dai il massimo. »
(Masa‘ ba‘rav, 168[97])

Religiosità ebraica: un patrimonio trascurato[modifica]

Paradossalmente, la religiosità di Romanelli, pur espressa in ebraico, non è direttamente ispirata a fonti ebraiche, mentre quella di Fiorentino lo è. Il poeta toscano, che scriveva esclusivamente in italiano, era senza dubbio un uomo religioso. Mentre il suo fervore religioso andava oltre i confini di una religione, era tuttavia fondato sull'ebraismo. Lo scambio di sonetti tra la poetessa Corilla Olimpica, che presiedeva un'accademia letteraria, e Fiorentino, che vi era appena stato ammesso, è rivelatore. Olimpica è sorpresa dalla personalità del poeta:

« Fu propizia la sorte al desir mio,
Che pur mi dié di rimirarti alfine,
E ne’ tuoi carmi, ravvisar che un Dio
Grazie t’ispira ignote, e pellegrine.
...
Or se attonita in te fisso il pensiero;
Che fora mai, se per la stessa via
Meco venissi a rintracciare il vero? »
(Poesie di Salomone Fiorentino (Pisa, 1803), 17)

Il Dio che qui viene descritto avrebbe potuto benissimo essere Apollo, che permise a Fiorentino di comporre nuove forme poetiche. È possibile, tuttavia, leggere "Grazie t’ispira ignote, e pellegrine" come riferito a una poesia sorprendentemente familiare e inaspettata, poesia scritta da un ebreo che si esprime in italiano con la sua fede fondata nell'ebraismo. È una cultura "strana" che tuttavia è perfettamente compresa da un cristiano.

La risposta di Fiorentino rivela quanto fosse importante l'elemento religioso nel suo lavoro. Invece di ringraziare o addirittura lusingare la sua illustre corrispondente, elabora le ultime righe del sonetto di Olimpica, in cui lei vede la possibilità di comprendere la verità. Nel sonetto che ha composto in risposta al suo, parla di un solo argomento: come gli atti di Dio sembrano insondabili per gli umani. Conclude descrivendo i limiti della poesia che, sebbene possa avere un certo splendore, non è tuttavia in grado di penetrare i segreti del divino:

« Arcane, impenetrabili, profonde
Son le vie di chi diè l'essere al niente,
E a sua giustizia, a sua bontà risponde
Quanto oprò, quanto vuol, quanto acconsente
...
Segui tra i carmi pur gli estri vivaci;
Ma il vel che cela tante sorti e tante
Vedi che in fronte ha scritto: Adora e taci»

Quella che abbiamo qui è un'immagine dell'ebreo molto diversa da quella a cui siamo abituati nella letteratura cristiana: l'ebreo come cieco e ostinato, che rifiuta di vedere la luce; l'infelice ebreo che porta il fardello imposto da Dio legislatore. Possiamo quindi ben apprezzare come la poetessa Olimpica sia rimasta sorpresa dal fatto di poter ricevere l'istruzione religiosa da un ebreo.

L'altro intervento di Fiorentino sul tema dell'immortalità si colloca – non in poesia ma in prosa filosofico-scientifica – nel contesto di uno scambio di opinioni tra rabbini dell'Italia centrale sul tema della risurrezione. Il dibattito, come nota David Malkiel, si svolge in un contesto scientifico nonostante gli interventi facciano riferimento a concetti religiosi (in questo caso cabalistici).[98] Il suo punto di partenza fu il libro del teologo inglese Thomas Burnet (ca. 1635 —1717) De statu mortuorum et resurgentium, pubblicato nel 1723. Le opere di Burnet furono caratterizzate da un tentativo di conciliare la scienza moderna post-cristiana con la Bibbia; è notevole il fatto che alcuni rappresentanti dell'ebraismo ortodosso in Italia si riferissero liberamente a questi temi e testi, originari del mondo protestante.

Infine, è importante notare che una persona profondamente religiosa come Salomone Fiorentino, che partecipò attivamente alla vita della comunità ebraica,[99] scrisse un poema in lode di Galileo Galilei in un momento in cui la Chiesa condannava le sue teorie.[100] Lo stesso Fiorentino criticò categoricamente il fanatismo religioso, senza delinearne l'origine e le caratteristiche.

« Il Fanatismo dalla negra cresta
Forbisce il ferro con quella che indossa
Di religione insanguinata vesta »
(Elegia VI, "L'Eternità"[101])

Fede intensa, mentalità decisamente aperta al progresso scientifico e alla tolleranza religiosa e culturale: tali sono le caratteristiche che questi uomini e donne di cultura ebraica hanno portato con sé come contributi all'Italia del XIX secolo, negli anni appena prima che le porte dei ghetti fossero aperte.

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Spinoza scomunicato, di Samuel Hirszenberg (1907)

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie maimonidea e Serie misticismo ebraico.
  1. Una delle migliori analisi su questo argomento è ancora Giovanni Di Napoli, L’immortalità dell’anima nel Rinascimento (Torino: Societa Editrice Internazionale, 1963).
  2. Il paladino della posizione ortodossa cristiana fu Tommaso d'Aquino, che decise a favore della permanenza dell'intelletto individuale dopo la morte in De unitate intellectus contra Averroistas (scrfitto nel 1270; trad. ingl. On the Unity of Intellect against Averroists, trad. Beatrice H. Zedler [Milwaukee: Marquette University Press, 1968]). Le polemiche ebbero poca eco tra gli ebrei, anche se Maimonide sembra avesse una posizione "averroistica", cioè argomentata per la realtà di un intelletto unico; cfr. Alexander Altmann, "Maimonides on the Intellect and the Scope of Metaphysics", nel suo Von der Mittelalterichen zur modernen Aufklärung (Tübingen: Mohr, 1987), spec. 87-90. Un'eccezione degna di nota a questa mancanza di interesse per tale questione è Tagmuley ha-nefesh di Hillel ben Shemuel da Verona (ca.1220—ca.1295), in cui il primo capitolo dell'opera di Tommaso è tradotto in ebraico. Si veda Yosef B. Sermoneta, cur., Sefer Tagmuley ha-nefesh (Gerusalemme, 1981), 100-145. La prima parte del libro tratta di questioni teoriche, la seconda di questioni pratiche, come il destino dell'anima secondo i suoi meriti e le sue colpe.
  3. Paul Richard Blum, "The Immortality of the Soul", in The Cambridge Companion to Renaissance Philosophy, cur. James Hankins (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 211-233.
  4. Guida I: 74, trad. Shlomo Pines (Chicago: University of Chicago Press, 1963), 220-221: "Un filosofo moderno sostiene che la creazione del mondo nel tempo è stabilita da ciò che dicono i filosofi circa l'esistenza permanente delle anime. Dice: se il mondo è eterno, il numero degli uomini morti in un passato illimitato è infinito. Ci sarebbe quindi un numero infinito di anime esistenti simultaneamente. Ora, questa è una cosa di cui è stato indubbiamente dimostrato che è falsa, voglio dire l'esistenza simultanea di un numero infinito di cose numerabili. Questa è una cosa meravigliosa, perché rende chiaro qualcosa di nascosto da qualcosa di ancora più nascosto".
  5. Guida III:27.
  6. Ibid. III:51.
  7. Maimonide, Commentario alla Mishnah, introduzione a Sanhedrin X (Pereq ḥeleq) (trad ebr. Yosef Qafiḥ in Mishnah ‘im perush Rabbenu Mosheh ben Maimon (Gerusalemme: Mossad Harav Kook, 1968), 195-209; Mishneh Torah, Hilkhoth teshuvah, 8; Epistola sulla Risurrezione dei Morti, in Iggeroth Ha-Rambam, cur. Yitzḥaq Shelat (Gerusalemme, 1995), 319-376. Cfr. Herbert A. Davidson, Moses Maimonides: The Man and Hits Works (Oxford: Oxford University Press, 2005), 241-243; 377.
  8. Sha‘ar ha-gemul in Kitvey ha-Ramban, cur. Ḥayyim Dov Shavel (Gerusalemme,1964), 309.
  9. Sha‘ar ha-gemul, 264-311.
  10. Seymour Feldman ha tradotto questa sezione in (EN): cfr. Gersonides, The Wars of the Lord, Part One: The Immortality of the Soul (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1984).
  11. The Wars of the Lord, 213.
  12. Ḥasdai Crescas, Or Adonai, cur. Shlomo Fisher (Gerusalemme: Sifre Ramot, 1990), Maamar 2, Kelal 6, pereq 1, p. 239.
  13. Ibid., Maamar 3, ḥelek 1, kelal 2, pereq 1, pp. 318-323.
  14. Il cosiddetto filosofo presocratico Empedocle (490-430 p.e.v.) teorizzava che la vita e la morte fossero il risultato della tensione tra Amore e Odio (Lotta), che agiscono sui quattro elementi fondamentali, legandoli e separandoli.
  15. Ibid., 244. Crescas è estremamente riservato sulla nozione di trasmigrazione delle anime (gilgul; vedi infra), affermata dalla tradizione ma non dalla religione. Quanto alla natura fisica o spirituale, o entrambe, in Gan ‘eden (Paradiso) e in Gehinnom (Inferno), valuta tutte le possibilità, su basi tradizionali e razionali.
  16. Sefer ha-‘Iqqarym (I ediz. Soncino, 1485); edizione critica e trad. (EN) di Isaac Husik (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1946).
  17. Su Albo, cfr. Sina Rauschenbach, Josef Albo (um 1380-1444): jüdische Philosophie und christliche Kontroverstheologie in der frühen Neuzeit (Leiden: Brill, 2002). Si veda una sintesi delle varie posizioni in materia, nell'introduzione di Mosè Maimonide, Immortalità e Risurrezione, cur. Giuseppe Laras (Brescia: Morcelliana, 2006).
  18. A questo periodo "cabalistico" appartiene Tofteh ’arukh (L'Inferno Figurato, Venezia, 1715-1744) dell'importante cabalista Moses Zacuto (ca.1625-1697), un lungo poema sui dolori infernali che il peccatore soffrirà, basato su fonti midrashiche e cabalistiche. Si veda la nuova edizione curata da Dvora Bregman con un'introduzione in Deḥaq 2 (aprile 2010): 333-376. Inoltre, va notata l'importante opera di Aharon Bereḥiyah da Modena, Ma’avar Yabboq (Il passaggio del fiume Yabboq, Mantova, 1626), una raccolta di riti e preghiere per i malati e i defunti, che sintetizza le credenze cabalistiche riguardanti la il passaggio dalla vita alla morte.
  19. Alessandro Guetta, “Ya‘ar ha-Levanon, ou la quête de la connaissance perdue. Un texte en prose rimée de Moshe de Rieti".
  20. L'unica edizione stampata è quella di Ya‘aqov Goldenthal, Il Dante ebreo, ossia Il Picciol Santuario (Vienna, 1851). Una presentazione di questo poema e la sua metrica, il testo ebraico, vocalizzato con una traduzione inglese e note per i primi due capitoli si può trovare in Prooftexts 23, nr. 1 (2003):1-93.
  21. F. 22b.
  22. A. Guetta, "Lev levavy ha-neehav: ha-qinah shel Mosheh-mi-Rieti ‘al petirath ishto (Critical Edition and Notes of the Unedited Elegy of Mosheh da Rieti on the Death of his Wife, with an introduction of the author and his work)", in Te‘udah 19, Studies in Hebrew Literature of the Middle Age and the Renaissance in Honor of Professor Yona David, curr. Tova Rosen e Avner Holzmann (2002):309-327.
  23. Un rapporto simile tra una ferma convinzione nell'immortalità dell'anima e, d'altra parte, semplici supposizioni sui particolari dell'aldilà, come la possibilità di incontro tra le anime, si ritrova nel primo e nel terzo dialogo del Phädon oder über die Unsterblichkeit der Seele, 1767 - (Testo in Gutenberg) di Moses Mendelssohn, primo e terzo dialogo (5-9, 39-128). Nel suo Fedone, Platone aveva affermato con certezza l'immortalità dell'anima: quanto alle specificità della sua sorte nell'aldilà, racconta una "favola" (113-114c), e conclude con le seguenti parole: "Non intendo affermare che la descrizione che ho dato dell'anima e dei suoi palazzi sia esattamente vera — un uomo di buon senso non dovrebbe dirlo. Ma io asserisco che, in quanto l'anima si mostra immortale, egli può azzardarsi a pensare, non impropriamente o indegnamente, che qualcosa del genere sia vero" (si veda anche la trad. di B. Jovett, <classics.mit.edu/Plato/phaedo.html>).
  24. Il Dante ebreo, f. 102v.
  25. A. Guetta, "The Crisis of Medieval Knowledge in the Work of the Fifteenth-Century Poet and Philosopher Moses da Rieti", in Renewing the Past, Reconfiguring Jewish Culture: From al-Andalus to the Haskalah, curr. Ross Brann e Adam Sutcliffe (Philadelphia: University of Pennsylvania Press, 2004) 59-68.
  26. Yoḥanan Alemanno, Sha‘ar ha-ḥesheq (Livorno, 1790).
  27. Giorgio Inglese, L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento (Firenze: La Nuova Italia, 2000).
  28. All'inizio del Settecento si assiste ad una esitante vicinanza tra Cabala e filosofia; non si tratta, tuttavia, di una filosofia aristotelica o platonica, ma piuttosto di un razionalismo post-cartesiano. Vedi Capitolo 9.
  29. Cfr. Robert Bonfil, cur., Selected Chapters from Sefer Meor ‘Einayim (Gerusalemme: Bialik Institute, 1991), 30 (He).
  30. Cfr. Dan Pagis, Change and Tradition in the Secular Poetry: Spain and Italy (Gerusalemme: Keter, 1976), esp. 283-285; Michela Andreatta, Poesia religiosa ebraica di età barocca (Padova: Gordini, 2007).
  31. Cfr. l'opera classica di Benzion Netanyahu, Don Isaac Abravanel: Statesman and Philosopher (Philadelphia: Jewish Publication Society, 1953).
  32. L'idea della trasmigrazione delle anime è esaminata nel suo Commentary to Deuteronomy 25, 5-6, Gerusalemme, 1999; l'idea della reincarnazione all'inizio dei cicli cosmici è in Mif‘aloth Elohim (Le Azioni di Dio, Venezia, 1592). Sul concetto dell'anima in Abravanel, confrontato con quello del suo contemporaneo Marsilio Ficino, si veda l'esaustiva analisi di Brian Ogren, "Circularity, The Soul-Vehicle and the Renaissance Rebirth of Reincarnation: Marsilio Ficino and the Possibility of Transmigration", Accademia. Revue de la société Marsile Ficin VI (2004): 63-94. L'autore dell'articolo si sofferma particolarmente sul rapporto tra pensiero filosofico e pensiero teologico in Ficino e in Abravanel. Mentre il primo, per giustificare la teoria platonica e neoplatonica della trasmigrazione da un punto di vista cristiano, la considera una metafora, il secondo accetta senza problemi l'insegnamento cabalistico, che vede come origini di analoghe concezioni filosofiche: Platone era un allievo di Geremia. L'articolo è stato ampliato nel libro Renaissance and Rebirth: Reincarnation in Early Modern Kabbalah (Leiden: Brill, 2009). In questo libro, B. Ogren osserva che i cabalisti italiani Eliyah ben Ḥayyim da Genazzano e Yoḥanan Alemanno (XV secolo) credevano nella metempsicosi.
  33. Ogren, "Circularity", cit. 90.
  34. Sui rispettivi atteggiamenti degli ebrei italiani e spagnoli riguardo alla Cabala, si veda Moshe Idel, Particularism and Universalism in Kabbalah, in Essential Papers on Jewish Culture in Renaissance and Baroque Italy, cur. David B. Ruderman (New York: New York University Press, 1992), 324-344.
  35. Leone Modena compose un libro nel 1636 contro la credenza del gilgul, Sefer Ben David, ancora in forma di manoscritto. Talya Fishman (Shaking the Pillars of Exile [Stanford: Stanford University Press, 1997], 204) presume che il rabbino veneziano partecipasse con questa opera alla controversia tra Saul Levi Mortera e Isaac Aboab de Fonseca sul destino dell'anima.
  36. Il giudizio è comunemente accettato tra gli storici della filosofia ebraica. Tra i più recenti si veda Mauro Zonta, La filosofia ebraica medievale. Storia e testi (Bari: Editori Laterza, 2002), 210. Ma si veda anche la posizione di ‘Ovadiyah Sforno nel suo Or ‘ammym (Luce dei popoli, Bologna, 1537) e in Commentario ai Salmi (Venezia, 1586). Entrambi i testi sono stati curati e pubblicati da Zeev Gottlieb: Kitvey Rabby ‘Ovadiyah Sforno (Gerusalemme, 1987). Il primo libro ha un capitolo sull'immortalità dell'anima (in questo caso sinonimo di intelletto), dove la discussione è fatta su base dialettica, aristotelica, con un gran numero di citazioni da Aristotele, Averroè, Platone e Al-Ghazali. Oltre ad alcune citazioni bibliche che mostrano, secondo Sforno, che l'anima intellettiva è immortale, è notevole l'accento posto sul libero arbitrio come "dono di Dio". Nel secondo libro l'esegesi di Salmi 1 è completamente filosofica e focalizzata sull'immortalità dell'anima intellettiva. Uno studio approfondito sull'opera di questo importante studioso italiano è ancora un desideratum. In materia si veda R. Bonfil, "Torath ha-nefesh we-ha-kedushah be-mishnath R. ‘Ovadiyah Sforno (The Doctrine of the Soul and of the Sanctity in the Teaching of R. Ovadiyah Sforno)", Eshel Beer Sheva‘ 1 (1976).
  37. La sintesi più recente di Del Medigo è presentata da Seymour Feldman, in The Cambridge Companion to Medieval Jewish Philosophy, curr. Daniel H. Frank e Oliver Leaman (Cambridge: Cambridge University Press, 2003), 416-420.
  38. Kalman P. Bland, "Elijah Del Medigo, Unicity of Intellect, and Immortality of Soul", American Academy for Jewish Research LXI (1995): 1-22.
  39. Cfr. Colette Sirat, La philosophie juive médiévale en Pays de Chrétienté (Parigi: Presses du CNRS, 1988), 227.
  40. Jacob Joshua Ross, cur., Sefer Behinat hadat of Elijah Del-Medigo (Tel-Aviv: Chaim Rosenberg School of Jewish Studies, 1984), 78.
  41. Ibid., 84.
  42. Ibid., 81.
  43. Ibid.
  44. Su Y. Moscato si veda Adam Shear, The Kuzari and the Shaping of Jewish Identity (Cambridge: Cambridge University Press, 2008), 135-169; Judah Moscato, Sermons, curr. Gianfranco Miletto e Giuseppe Veltri, due volumi pubblicati finora (Leiden: Brill, 2011).
  45. Nefutzoth Yehudah, f. 49v.
  46. Ibid., f. 52v.
  47. Ibid., f. 52r.
  48. F. 50v.
  49. F. 51v.
  50. Un discorso più "tecnico" e tradizionale sulla remunerazione dell'anima dopo la morte si può riscontrare nel sermone 41, ff. 193r-195r.
  51. Oltre alla traduzioni italiane del capitolo di Miqdash me‘at di Rieti, un'opera interessante è L’angelica tromba (Ferrara, 1589), di Yoḥanan Yehudah ben Shelomo Alatrini, che contiene la traduzione italiana in terza rima (la metrica della Divina Commedia di Dantes) del piyyut Barekhy nafshy di R. Baḥiyah b. Joseph. Si veda A. Guetta, "Le Traduzioni liturgiche italiane cinque-seicentesche come esempio di ‘poesia spirituale ebraica’", in Archivio Italiano per la Storia della Pietà 25 (2012):11-33.
  52. Discorso intorno a l’humana miseria, Introduzione.
  53. F. 12v.
  54. Il materiale bibliografico su Sara Copio Sullam è ora alquanto abbondante. I contributori più esaustivi sono Umberto Fortis, La "bella ebrea". Sara Copio Sullam poetessa nel ghetto di Venezia del ‘600 (Torino: Umberto Fortis, 2003), con sonetti di Sara, e Don Harran, trad. e curd., Sarra Copia Sullam: Jewish Poet and Intellectual in Seventeenth-Century Venice (Chicago: University of Chicago Press, 2009). La con troversia tra Bonifacio e Copio Sullam viene analizzato acutamente nel contesto della filosofia e teologia dell'epoca, da Giuseppe Veltri, in Renaissance Philosophy in Jewish Garb (Leiden: Brill, 2009), 226-248.
  55. Manifesto di Sarra Copia Sulam Hebrea. Nel quale è da lei riprovata e detestata l’opinione negante l’immortalità dell’anima, falsamente attribuitale dal Sig. Baldassare Bonifacio (Venezia, 1621).
  56. Ansaldo Cebà, Lettere di Ansaldo Cebà scritte a Copio e dedicate a Marc’Antonio Doria (Genova, 1623).
  57. Cfr. la traduzione di Qol sakhal (Voce di un Folle), forse scritto da Leone Modena, e specialmente il capitolo sull'immortalità dell'anima, in Talya Fishman, Shaking the Pillars of Exile, 90-92. Per la versione (He), si veda Isacco Reggio, Examen Traditionis. Duo inedita et poene incognita Leonis Mutinensis Opuscula Complectens (Gorizia, 1852), 13-15. L'autore di Qol sakhal sosteneva — probabilmente citando un passo da Le Guerre del Signore: Libro I di Gersonide, L’Immortalità dell'Anima — che non ci sono dimostrazioni decisive dell'immortalità dell'anima, e ancor di meno prove scritturali. Ciononostante, "l'analisi si inclina fortemente — sebbene non ci obblighi — a credere che l'anima abbia esistenza dopo la morte del corpo" (cfr. Shaking the Pillars of Exile, 91). Questa analisi si basava sulla superiorità dell'Uomo — come essere intellettuale — rispetto agli animali. Se il suo intelletto fosse mortale, l'Uomo, che prevede la morte fisica, sarebbe più infelice degli animali, e quindi inferiore a loro. Negli stessi anni e nella stessa città Paolo Sarpi, consulente religioso ufficiale della Repubblica di Venezia, negava l'idea di superiorità umana basata sull'intelletto, e sosteneva che l'immortalità dell'anima non fosse che una proiezione umana. Cfr. Vittorio Frajese, "Maimonide, il desiderio di immortalità e l’immagine de Dio. Problemi di interpretazione dell'insegnamento esoterico di Sarpi", in Ripensando Paolo Sarpi (Venezia: Ateneo Veneto, 2006), 153-181. Questa idea, insieme ad altre concezioni simili che varcano i confini dell'ateismo, era contenuta nei cosiddetti "scritti esoterici" di Sarpi, ovviamente inediti durante la vita del loro autore. Cf.r Paolo Sarpi, Pensieri naturali, metafisici e matematici, curr. L. Cozzi e L. Sosio (Milano: Ricciardi, 1995).
  58. Dell’immortalità dell’anima. Discorso di Baldassare Bonifacio (Venezia, 1621). Consultabile online sul sito della Herzog-August-Bibliothek in Wolfenbüttel, <http://diglib.hab.de/drucke/83-12-quod-3/start.htm>.
  59. Ibid.
  60. Si veda Corinna da Fonseca-Wollheim, "Acque di Parnaso, acque di Battesimo: fede e fama nell’opera di Sara Copio Sullam", in Le donne delle minoranze. Le ebree e le protestanti d’Italia, curr. Claire E. Honess e Verina R. Jones (Torino: Claudiana, 1999), 159-170.
  61. In U. Fortis, La bella ebrea, p. 115
  62. La questione dell'immortalità dell'anima è anche uno degli interessi principali del rabbino veneziano, poeta e filosofo con orientamenti razionalisti, Yehoshua Yosef Levi (ca.1655-ca.1704). Si veda Joshua Joseph Levi, A Cup of Consolation and Other Elegies. Edited from early printings and manuscripts, with an introduction and notes by Ariel Rathaus (Gerusalemme, Ben-Zvi Institute, 2013).
  63. Yosef Kaplan usa la parola "karaita" nel riferirsi ai testi di alcune scomuniche pronunciate ad Amsterdam. Cfr. Y. Kaplan, An Alternative Path to Modernity: The Sephardi Diaspora in Western Europe (Leiden: Brill, 2000).
  64. Uriel da Costa, Examination of Pharisaic Traditions. Exame das tradições phariseas. Supplemented by Semuel da Silva’s “Treatise on the Immortality of the Soul. Tratado da immortalidade da alma”, trad., note e introduzione di H. P. Salomon e I. S. D. Sassoon (Leiden: Brill, 1993).
  65. Moses Raphael d’Aguilar, Reposta a certas propostas contra a tradição, ancora in manoscritto. Cfr. An Alternative Path to Modernity, 245. Scrisse anche un Tratado da immortalidad da alma, su cui si veda M. de Jong, "O ‘Tratado da Immortalidade da Alma’ de Moses Rephael de Aguilar", Biblos 10 (1934): 488-499. Cfr. Sina Rauschenbach, "Mediating Jewish Knowledge: Menasseh ben Israel and the Christian Respublica Litteraria", Jewish Quarterly Review vol. 102 n. 4 (autunno 2012), 561-588.
  66. Isaac Cardoso, Las excelencias de los hebreos (Amsterdam, 1679). Su Cardoso cfr. Yosef H. Yerushalmi, From Spanish Court to Italian Ghetto: Isaac Cardoso: A Study in Seventeenth-Century Marranism and Jewish Apologetics (Seattle: University of Washington Press, 1981).
  67. De resurrectione mortuorum libri III (Amsterdam, 1636).
  68. James W. Nelson Novoa, "Las Opiniones sacadas de los más auténticos y antigos philósofos que sobre la alma escrivieron y sus definiciones, de Daniel Arón Afia", Sefarad 68-1 (2008): 89-103.
  69. Su questo autore si veda Moisés Orfali, Isaac Aboab da Fonseca: Jewish Leadership in the New World (Eastbourne, UK: Sussex Academic Press, 2012).
  70. Cfr. Marc Saperstein, "Saul Levi Morteira’s Treatise on the Immortality of the Soul", Studia Rosenthaliana 25, nr. 2 (1991): 131-148.
  71. Nishmath ḥayyim. Kolel derushym ‘al ‘iniyan ha-neshamah (Anima vivente. Con alcuni discorsi sull'Anima) (Amsterdam, 1651 o 1652).
  72. Un'importante controversia, legata al tema dell'immortalità dell'anima, ebbe luogo ad Amsterdam tra due rabbini: Saul Levi Mortera e Isaac Aboab de Fonseca. Il primo sosteneva l'eternità della pena per i grandi peccati, come l'apostasia, che includeva i numerosi ex conversos presenti in città. Il secondo, attraverso la teoria cabalistica del gilgul, affermava che anche un'anima peccatrice poteva finire per essere completamente purificata. Cfr. Alexander Altmann, "Eternality of Punishment: A Theological Controversy Within the Amsterdam Rabbinate in the Thirties of the Seventeenth Century", Proceedings of the American Academy for Jewish Research (1972): 1-88.
  73. Steven Nadler, Spinoza’s Heresy: Immortality and the Jewish Mind (Oxford: Oxford University Press, 2002).
  74. Cito dall'articolo di Sina Rauschenbach “Über die Auferstehung der Toten: Uriel da Costa, Menasse ben Israel und die christliche Respublica litteraria", in Kritische Religionsphilosophie; eine Gedenkschrift für Friedrich Niewöhner, curr. Wilhelm Schmidt-Biggemann e Georges Tamer (Berlino: De Gruyter, 2010). Lo stesso Menasheh spiegò che la negazione della resurrezione implicava la negazione della religione in quanto tale, e la negazione della religione implicava la negazione della legge e quindi la negazione di qualsiasi società umana ordinata. Ebrei e cristiani dovevano allearsi per difendere la nozione, "perché tutti noi adoriamo un solo Dio, ci sottomettiamo ai Suoi comandamenti e ci aspettiamo una vita migliore dopo le difficoltà di questa vita sulla terra. Quindi, il nostro sforzo mira nientemeno che a far sì che tutti alla fine arrivino a comprendere che, nell'affrontare quella risurrezione assolutamente necessaria, dobbiamo trovare una posizione comune contro i sadducei, che stanno distruggendo anime e stati in modo anormale." (M. Ben Israel, De resurrectione mortuorum libri III, Amsterdam 1636, Epistola dedicatoria.)
  75. Nel 1799 Fiorentino fu testimone di violenza antiebraica da parte dei gruppi reazionari "Viva Maria!", e trovò rifugio a Firenza, a quel tempo occupata dai francesi. Qui ricevette il supporto del comandante del corpo di spedizione napoleonico, il generale Sextius Alexandre de Miollis. Cfr. Gabriella Milan, voce "Fiorentino, Salomone", in Dizionario biografico degli italiani (Roma: Instituto dell’ Enciclopedia Italiana, 1997), vol. 48, 160-162. Nel 1805 compose il breve poema "La giornata di Austerlitz" (pubblicato a Livorno nel 1840) e tradotto "Il Tempio di Gnido" da Montesquieu (in Poesie di Salomone Fiorentino, vol. 2 [Firenze, 1826], 52-114), un poema in cui il sentimento è esaltato a scapito della sensualità. Per il contesto storico di Fiorentino, si vedano anche Gli Ebrei a Monte San Savino (Comune di Monte San Savino, 1994), con bibliografia; Encyclopaedia Judaica, 2007, sub voce; e, per la storia letteraria, Giuseppe Nicoletti, "Le ‘Elegie’ di Salomone Fiorentino: a source of the Pisan-Recanati canti?", in Una giornata leopardiana in ricordo di Walter Binni, cur. M. Martelli (Roma: Bulzoni 2000), 123-130.
  76. Poesie di Salomone Fiorentino (Pisa, 1803).
  77. Elegie di Salomone Fiorentino in morte di Laura sua moglie (Arezzo, 1789).
  78. Ibid., 24.
  79. Ibid., 20.
  80. Ibid. È evidente che richiama qui il famoso versetto del Petrarca "Erano i capei d’oro a l’aura sparsi" (Canzoniere, sonnetto XC).
  81. Ibid., 19. Da confrontare col sonetto XXXV del Canzoniere di Petrarca: "Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti."
  82. Ibid., 22.
  83. Ibid., 19.
  84. Ibid., 15.
  85. Sono eccezioni le accademie scientifiche letterarie, create dagli ex-conversos delle comunità sefardite, come quelle di Amsterdam e Livorno. Queste accademie si ispiravano al modello spagnolo e le loro attività e produzioni sono essenzialmente spagnole. Per Livorno, si veda Lucia Frattarelli Fischer, Vivere fuori dal ghetto. Ebrei a Pisa e Livorno (secoli XVI-XVIII) (Torino: Zamorani, 2008), 167.
  86. Una rimarchevole eccezione è il caso dell'umanista Giovanni Pontano (1426-1503), autore della raccolta di poesie liriche De amore coniugali. Su questa opera, si veda Liliana Monti Sabia, "Un canzoniere per una moglie", in Poesia umanistica latina, curr. Giuseppe Catanzaro e Francesco Santucci (Assisi: Accademia Properziana del Subasio, Centro studi poesia latina in distici elegiaci, 1999).
  87. Elegie, 3: "Che un Marito pianga la propria Moglie rapita da morte nel fiore degli anni è certamente facil cosa a truovarsi; ma che un Marito pianga una Consorte quasi novilustre, e colle lacrime del più acerbo dolore, non è facil pruova della moderna coniugale sensibilità."
  88. Riferimento a Cantico dei cantici 4:9: "O mia sorella, O sposa mia!"
  89. Mosheh da Rieti, Lev levavy ha-neehav.
  90. In Poesie di Salomone Fiorentino, vol. 2 (Firenze, 1826), 7-52.
  91. Cfr. David Malkiel, "The Rimini Papers: A Resurrection Controversy in Eighteenth-Century Italy", The Journal of Jewish Thought and Philosophy 11, nr. 2 (2002):89-115.
  92. L'argomentazione richiama il lungo sviluppo simile del Phädon di Mendelssohn.
  93. Nel 1924, Emanuele Benamozegh tenne una lezione intitolata "Dietro il sipario della vita, ovvero della immortalità dell’anima umana" (Livorno, 1924). Emanuele era il figlio del noto rabbino, filosofo e cabalista Elia Benamozegh, autore prolifico che scrisse un testo che deduceva l'immortalità dell'anima da implicite allusioni bibliche. Si veda Elia Benamozegh, L’immortalità dell’anima. La luce di Dio nelle viscere dell’uomo, cur. Marco Morselli (Roma: Edizioni La Parola, 2008). Il figlio, pur insistendo sulla presenza di quella credenza all'interno dell'ebraismo tradizionale, credeva anche che l'immortalità dell'anima fosse una verità universale.
  94. Pagine sfogliabili in PDF su Commons.
  95. In Shemuel Romanelli, Masa‘ ba-a‘rav, cur. J. Ḥ. Schirmann (Jerusalem, 1968), 158-169. Masa‘ ba-‘arav, l'opera più famosa di Romanelli è la cronaca di un lungo soggiorno dell'autore in Marocco. È stata tradotta da Norman e Yedida Stillman, Travail in an Arab Land (Tuscaloosa, AL: University of Alabama Press, 1989). Su Romanelli, si veda J. Ḥ. Schirmann, Romanelli, ha-meshorer we-ha-noded (Romanelli, the Poet and the Traveller, Gerusalemme, 1969) e Asher Salah, cur., Samuele Romanelli, Visioni d’Oriente. Itinerari di un ebreo italiano nel Marocco del Settecento (Firenze: Giuntina, 2006).
  96. Francés, tuttavia, ammoniva alla prudenza nella polemica con le affermazioni dei cabalisti, che affermavano di conoscere i segreti dell'universo e il mondo divino. Si veda di seguito, Cap. 9 "Cabala e razionalismo".
  97. È interessante notare che Romanelli si riferisce, nelle note, al libro di Menasheh Ben Israel, De la Resurreción de los muertos (Amsterdam, 1636).
  98. "The Rimini Papers", 104.
  99. Fiorentino insegnò alla scuola ebraica della comunità di Livorno e diede una traduzione italiana della forma di preghiera. Alcune di queste traduzioni furono pubblicate insieme alle sue poesie in Poesie (Firenze, 1826), e sono splendidi esempi di lirica religiosa.
  100. "In lode di Galileo Galilei", in Poesie, 143-147.
  101. Cfr. Poesie di Salomone Fiorentino (Pisa, 1803)