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Storia intellettuale degli ebrei italiani/Spazio allegorico

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Indice del libro
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Fig. 1Tempio di Salomone, incisione di Jacob Judah Leon, 1665
Il Tabernacolo nel deserto (illustrazione dalla Bibbia Holman (1890)
Modello del Tabernacolo trasportabile, ricostruito nel Parco Timna di Israele
Tabernacolo nel deserto (Tenda Mishkan)
Modello dell'area del Tabernacolo in forma di tenda[1]
Il Tabernacolo, incisione del 1683
Tabernacolo con copertura, incisione di Jean-Baptiste Liébaux (XVII sec.)
Erezione del Tabernacolo e preparazione degli arredi, in Esodo 40:17-19 (illustrazione da Figures de la Bible, 1728)
Rappresentazione tridimensionale moderna del Sancta Santorum
Schema dell'"ipotesi documentale" o "teoria delle quattro fonti" della Tōrāh.
'J': tradizione jahvista
'E': tradizione Elohista
'D': tradizione Deuteronomista
'P': tradizione Codice Sacerdotale
'R': "Redattore" che ha compilato le fonti
* include la maggior parte del Levitico
† include la maggior parte del Deuteronomio
‡ "Deuteronomic History (Storia deuteronomica)": Giosuè, Giudici, Samuele 1&2, Re 1&2

Spazio allegorico e spazio geometrico: Rappresentazioni del Tempio di Gerusalemme nelle opere di autori ebrei italiani

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Le riserve espresse nella Bibbia e rafforzate nella letteratura normativa ebraica sulla rappresentazione divina hanno limitato in modo significativo la produzione di immagini nel mondo ebraico.[2] In pratica, questa posizione è stata corroborata dal comportamento religioso e dalle produzioni intellettuali ebraiche fino alla cosiddetta epoca "moderna": sia a livello popolare che accademico, le immagini non erano uno strumento di conoscenza per gli ebrei, e le allegorie visive in particolare non avevano alcun posto nell'ebraismo, nonostante fossero un mezzo espressivo privilegiato in altre culture. Sebbene la cultura ebraica avesse sicuramente delle allegorie, queste assumevano la forma di testi scritti, piuttosto che di immagini. Inoltre, a questa importante limitazione si aggiungeva una seconda restrizione: anche a livello esclusivamente letterario, le allegorie raramente si basavano sulla rappresentazione umana.

Fu il Tempio di Gerusalemme a diventare un catalizzatore della rappresentazione allegorica, avendo sempre avuto un ruolo centrale sia nel pensiero ebraico che nell'immaginario ebraico. Per questo motivo, i cambiamenti subiti dalla sua rappresentazione nel corso del tempo consentono di seguire l'evoluzione delle percezioni e delle rappresentazioni ebraiche dello spazio.

Al Tempio di Gerusalemme – o meglio "Templi" di Gerusalemme – si deve aggiungere il Tabernacolo, che fu eretto nel deserto sotto la guida divina e prefigurava il Tempio. Il primo Tempio fu eretto dal re Salomone e distrutto dal re babilonese Nabucodonosor nel 587 p.e.v.; il secondo fu costruito da Zorobavel al suo ritorno dall'esilio e in gran parte rimodellato da Erode, prima di essere abbattuto dai Romani nel 70 e.v. Da questa data in poi, fino all'età moderna, gli ebrei non hanno mai cessato di considerare la distruzione del Tempio il segno più saliente e angosciante della loro perduta autonomia nazionale e disaffezione da Dio; infatti, molti pensatori ebrei hanno sostenuto che la soggezione fisica del popolo d'Israele e il suo rapporto imperfetto con Dio li ha portati al declino intellettuale e alla confusione. C'era anche l'idea di un Terzo Tempio, che il profeta Ezechiele aveva visto in una visione dettagliata e che avrebbe dovuto ripristinare l'ebraismo a Gerusalemme, riportare il popolo d'Israele alla prosperità e riaccendere il suo rapporto privilegiato con Dio.

Attorno al Tempio si cristallizzavano una profonda disillusione e la speranza di un futuro ripristino, poiché il bisogno di rappresentazione intellettuale ebraico si concentrava sui volumi, gli spazi, gli edifici, i cortili, le fortificazioni, gli arredi e i riti di quella struttura architettonica, reale o immaginaria.

Un'indagine sull'evoluzione delle rappresentazioni del Tempio nell'intera cultura ebraica sarebbe un progetto troppo ambizioso, che esula dagli scopi del presente Capitolo. Più modestamente, desideriamo soffermarci su una specifica area geografica definita da una certa coerenza interna e continuità storica: l’Italia. Tuttavia, prima di affrontare autori significativi del periodo medievale e moderno, dobbiamo spendere qualche parola sul fondatore del metodo allegorico nella cultura ebraica medievale, Maimonide.

Maimonide e allegorie

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Le allegorie hanno un ruolo centrale nella Guida dei perplessi di Maimonide, composta intorno al 1190 ed è l'opera più celebre e influente nella storia del pensiero ebraico. Nella sua introduzione, l'autore afferma chiaramente che il suo testo è destinato esclusivamente agli ebrei che credono nella verità della Torah e hanno dimestichezza con il pensiero filosofico. In particolare, si rivolge agli ebrei perplessi per lo scarto tra i registri concettuali delle narrazioni in cui Dio assume caratteristiche umane (parla, è visibile, ha sentimenti, ecc.) mentre interviene nel mondo, da un lato, e delle speculazioni astratte su un Dio trascendente e incorporeo, dall'altro. Con molta cautela Maimonide propone una soluzione radicale, sostenendo che esiste una corrispondenza perfetta tra la Torah e il pensiero filosofico, nonostante i loro linguaggi differenti. Egli paragona la Torah a una mela d'oro avvolta in una maglia d'argento: mentre la stragrande maggioranza dei lettori percepirà solo la maglia – il significato immediato o letterale della Torah – i lettori esperti (cioè i filosofi) saranno in grado di discernere l'oro – il significato figurativo – che giace sotto quella superficie. Per Maimonide, la Torah nel suo insieme (e in particolare le storie della Creazione e la descrizione del Carro, cioè la visione celeste dei profeti Ezechiele e Isaia) è un mashal (משל) – un'allegoria – che deve essere decifrato per afferrare il testo del nimshal (נמשל) filosofico – il suo significato nascosto. Così, tutti gli antropomorfismi del racconto biblico perdono il loro significato immediato, puntando invece a un discorso filosofico su Dio.

In realtà, il pensiero di Maimonide è più complesso. Non solo la Torah nel suo insieme è un'allegoria, ma le allegorie costituiscono anche un metodo di interpretazione. Per Maimonide, ideare allegorie per evocare contenuti metafisici è come fare una corda legando pezzi di spago l'uno all'altro finché non è abbastanza lungo da attingere dalle profondità della Torah. In altre parole, per Maimonide i buoni interpreti sono allegoristi, come esemplificato dai profeti e dai maestri del Talmud, che usavano le allegorie quando volevano evocare realtà metafisiche al di fuori della portata dell'intelletto comune e del linguaggio quotidiano.[3]

La Guida dei Perplessi è un trattato filosofico-religioso che presenta ai suoi lettori un percorso verso l'autentico culto divino, dove la conoscenza intellettuale conduce al desiderio appassionato: si conclude su una magnifica allegoria dei diversi atteggiamenti umani verso la verità e Dio. Il mashal prescelto da Maimonide è una città con al centro un palazzo reale: le persone vagano fuori dalle mura della città, o vi entrano ma sbagliano strada, mentre altre ancora si fermano nell'androne del palazzo; solo pochi raggiungono la stanza del re e stanno davanti a lui:

« Dico allora: il sovrano è nel suo palazzo, e tutti i suoi sudditi sono in parte all'interno della città e in parte fuori della città. Di quelli che sono nella città, alcuni hanno voltato le spalle all'abitazione del sovrano, la loro faccia girata verso un'altra direzione. Altri cercano di raggiungere l'abitazione del sovrano, si volgono verso di essa e desiderano entrarvi e stare davanti a lui, ma finora non hanno ancora visto il muro dell'abitazione. »
(Guida dei perplessi III:51[4])

Le immagini che Maimonide aveva in mente erano probabilmente di Gerusalemme e del Tempio, con i loro diversi gradi di santità, dal Monte del Tempio (הַר הַבַּיִת), al vestibolo, ai cortili interni, al Santuario (detto heykhal, "palazzo"), alla "dimora del monarca", il Qodesh ha-qodashym (קֹדֶשׁ הַקֳּדָשִׁים) o Sancta sanctorum, dove erano conservate le Tavole dell'Alleanza (לוחות הברית Luchot HaBrit) e dove la Presenza divina era più intensa.

I Santuari Allegorici di Mosheh da Rieti

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Incoraggiati da questo prestigioso precedente, gli autori ebrei posero il Tempio di Gerusalemme al centro della loro creazione di allegorie: in ebraico, la creazione di allegorie è chiamata memashel meshalym ed è una qualità attribuita ai profeti. Come i loro omologhi cristiani dello stesso periodo (cfr. Bonaventura da Bagnoregio, nel suo Itinerarium mentis ad Deum), fecero della città di Gerusalemme un'allegoria della perfezione e della beatitudine, segnando il punto di arrivo dei fedeli al termine del loro viaggio di iniziazione. Uno di loro, Mosheh ben Yitzḥaq da Rieti (1388–1460), ammiratore incondizionato di Maimonide, legò tutte le sue produzioni intellettuali all'immagine del Tempio.[5]

Medico, filosofo e poeta, Mosheh da Rieti è noto soprattutto per il suo Miqdash me‘at (מקדש מעט "Piccolo Santuario"), un poema in ebraico di 4800 versi inteso a costituire la "risposta ebraica" alla Divina Commedia di Dante Alighieri.[6] Modellato sul Tempio di Gerusalemme, il poema di Moshe da Rieti è costituito da tre parti: un vestibolo, un palazzo e il Sancta sanctorum. A ciascuno di questi tre spazi corrisponde un livello di conoscenza sacra, tanto maggiore quanto più ci si avvicina al centro del Santuario. Ma il Tempio non si limita a fornire una cornice esterna per un'enciclopedia della conoscenza, rappresenta anche il Paradiso, meta finale del viaggio iniziatico del poeta, sia Santuario celeste che Yeshivah shel ma‘lah (scuola celeste), dove le anime dei santi praticano dispute intellettuali, come farebbero in una scuola talmudica, sotto la guida della Presenza divina. Rieti conferisce ulteriori significati al Santuario: non solo rappresenta allegoricamente il Paradiso, ma illustra anche un'emanazione divina. Suggerisce una lunga preghiera in cui il poeta supplica il Tempio di perdonare i suoi peccati, compreso il brano seguente:

« Tempio dei supplicanti, O suprema aspirazione,
A cui ci rivolgiamo per la misericordia e il perdono,
La vita sgorga dalla tua fonte benedetta.[7] »

Non stupisce che il fedele rivolga una preghiera al Tempio, se consideriamo che qui non si tratta del Tempio storico ma di un'emanazione divina (probabilmente Ḥokhmah, "Sapienza") che gli permette di accedere alla divinità, la cui essenza è al di là della sua portata.

Il Miqdash Me‘at di Mosheh da Rieti è interamente allegorico. Le sue allegorie possono essere esplicite, come nel capitolo "La Città di Dio", in cui ogni casa rappresenta un libro biblico (da cui la successiva identificazione del Tempio o Città Sacra e le scritture[8]), oppure lasciate al lettore da interpretare, come avviene ad esempio con il mashal in cui alcune fanciulle attingono acqua dal mare fuori della Città di Dio ("acqua pura, purezza dall'alto") per riversarla nella "Casa del Padre".[9]

In questa opera poetica, la rappresentazione spaziale non cerca di mostrare una realtà tangibile; fornisce invece un trampolino di lancio per riflessioni di natura concettuale, una rappresentazione visiva che consente all'autore di evocare considerazioni astratte altrimenti impossibili da afferrare.

In un altro testo ebraico, più breve e difficile, Ya‘ar ha-Levanon ("La Foresta del Libano"), Rieti considera il Tempio in una luce più tradizionale, come un'allegoria dei diversi mondi: il mondo sublunare, le sfere celesti e gli intelletti separati. La parte finale di questo lavoro consiste in una serie di risposte alla domanda Ubi sunt? (liberamente tradotto come "che ne è stato del Tempio e dei suoi oggetti?"):

« Dove sono i Cherubini? Dove sono l'Arca e le Tavole che furono lasciate lì affinché potessimo ricordare che la Torah è il mistero stesso dell'essere e sta alla radice della vita di ogni anima? [...] L'Arca rappresenta la parte del mondo che è costituita da un corpo sostenuto dalla forma intellettuale che lo circonda [...] i Cherubini sono lì per mostrare che tutti gli esseri di questo mondo sono intelletti separati, veri e propri.[10] »

Il poeta non è interessato al Tempio materiale; la posta in gioco qui, per lui, è l'accesso a un altro livello di realtà indicato dall'edificio, i suoi accessori e i suoi riti.

Il terzo dei testi di Rieti che prenderemo in esame, Filosofia naturale e fatti de Dio è stato scritto in italiano – più precisamente, in un dialetto dell'Italia centrale – ma trascritto in caratteri ebraici. Destinato agli studenti, quest'opera sulla fisica e sulla metafisica include alcune notevoli allegorie, la più elaborata delle quali è incentrata sul Tempio. Associando una risposta ricevuta in sogno a una domanda che lo perseguita – esiste una gerarchia tra i vari libri biblici? – Rieti concepisce l'immagine grandiosa e complessa di un palazzo all'interno del quale le corrispondenze tra il mashal (la figura, l'allegoria ) e il nimshal (il significato figurato) abbondano:[11]

« E ho visto un magnifico edificio nella parte più alta del mondo. Era la cosa più sacra e straordinaria che avessi mai visto, e mi sembrava che i cieli non la circondassero affatto. Le sue pareti erano di argento fine, ed era ricoperta di forme d'oro puro che brillavano così chiaramente e luminose che a prima vista sembravano esattamente come le stelle; a uno sguardo più attento, però, si vedeva che, pur essendo una miriade, costituivano tutte variazioni su ventisette figure. Il suo tetto era fatto dello stesso materiale e sostenuto da quarantotto meravigliose colonne con la stessa filigrana. Una di loro stava al centro mentre le altre la circondavano. La colonna centrale brillava come un sole e quelle intorno erano come stelle. E ne vidi altre sette che si mescolavano a loro e avevano la lucentezza del chiaro di luna. In tutto ne ho contate cinquantacinque.
All'interno del tempio vidi quattro piccole nuvole di finissimo cristallo, intrecciate in una copertura completamente eterea. Indicavano cinque recinti all'interno del tempio. Mi sembrava impossibile che contemplare così tanta radiosità e maestà combinate non turbasse l'occhio e lo spirito dello spettatore.
Fuori, vidi che c'erano sessanta piccole stanze sparse intorno al tempio e collegate ad esso, ognuna con un ingresso separato che conduceva all'interno. Tutte somigliavano al tempio nei loro ornamenti, a parte quelli che non si mostravano mai; ma erano alti come un uomo.
Ancora e ancora, contai seicentotredici finestre intorno al tempio. Ma nulla di ciò che avevo mai visto eguagliava la luminosità di queste splendide figure, unite all'atmosfera serena del tempio; e nessun balas o rubino terrestre, come nessun rubino su Venere o su Giove nei cieli, ha mai avuto un colore simile. C'era un magnifico ingresso sul lato orientale.
E tutt'intorno a questo pendeva una nuvola molto preziosa e sottile, che era essa stessa circondata da un'altra terribile e pesante nuvola, che gettava tutt'intorno un'oscurità impenetrabile e mortale.
All'interno, il tempio sembrava quasi completamente pieno degli uccellini più belli che avessi mai visto. Svolazzavano instancabilmente da un'estremità all'altra del tempio. Continuavano a cantare versetti di grande delicatezza e dolcezza, più gioiosi e giubilanti di quanto qualsiasi voce umana potesse esprimere. Ogni tanto si appollaiavano da qualche parte, divertendosi ad ascoltarsi, e a volte mi sembrava che stessero contemplando qualcosa di più nobile e più alto di loro.
[...] Osserva da vicino tutta questa splendida figura, perché forse non hai mai visto nulla di simile; descrive il Paradiso nei termini della Sacra Scrittura, cioè Torath Mosheh, la Torah di Mosè, nella ferma convinzione che l'una corrisponda all'altra.[12] »

In questa immagine si esplicita l'intrinseca corrispondenza ("unità intrinseca", nelle parole di Rieti) tra il Tempio, la Scrittura e il Paradiso.

Dopo aver raffigurato questa visione, l'autore presenta l'"intenzione" (cioè il significato) di ogni suo dettaglio, prima di concludere con una definizione generale di rappresentazione allegorica: più immagini la mente crea (per adornare la memoria), più piacere l'anima sperimenta, come una donna che è tanto più bella e adulata per essere rivestita di veli belli e seducenti che sono stati finemente pieghettati. La psiche umana è vista come uno spazio vuoto da arredare ("per ornare la memoria"), e le immagini allegoriche sono sia strumenti mnemonici sia fattori di piacere (che, si potrebbe aggiungere, è estetico: "l'anima prova il piacere").[13]

Il Tempio come Enciclopedia: Abramo Portaleone

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Mosheh da Rieti fu molto popolare tra gli ebrei italiani fino all'inizio del XVII secolo. Da quel momento in poi la sua memoria fu completamente dimenticata, probabilmente perché i cambiamenti culturali avevano fatto apparire superate le sue opere superate.

È proprio in questo periodo che il Tempio di Gerusalemme smise di evocare allegoricamente un'altra dimensione e iniziò ad essere studiato fine a se stesso. Proprio come Galileo respinse l'idea che ci fosse una differenza tra la fisica delle regioni sovra-lunari e sub-lunari, le due versioni del Tempio divennero una, e gli intellettuali ebrei iniziarono a concentrarsi sullo stabilire la sua realtà storica e architettonica. Baruch Spinoza adottò un approccio simile all'esegesi biblica, denunciando vigorosamente le interpretazioni allegoriche e il loro principale sostenitore ebraico, Maimonide. Il filosofo olandese insistette invece sul principio della sola scriptura, secondo cui i testi sono sufficienti a se stessi e non alludono ad altri mondi di significato.

Tra gli ebrei italiani, il tentativo più ambizioso di descrivere la realtà concreta del Tempio di Gerusalemme e dei suoi riti venne da un autore mantovano che era anche medico, e di cui abbiamo analizzato le opere nel Capitolo precedente: Abramo Portaleone (1542-1612). In realtà, il suo progetto era, come discusso, l'esito di un processo intellettuale più complesso, radicato in un imperativo religioso che imponeva che tutti i testi ebraici, per quanto profani e di qualsiasi disciplina, dovessero avere una sorta di giustificazione religiosa. L'ampio corpus di opere dotte che Portaleone produsse (lette e citate più spesso dai cristiani che dagli ebrei) ebbe origine dal desiderio di espiare i peccati della sua giovinezza, durante la quale aveva mostrato un eccessivo interesse per discipline profane come la filosofia e la scienza . Venticinque anni dopo aver prodotto un trattato filosofico e scientifico decisamente moderno in latino che sosteneva il metodo sperimentale, il brillante medico si pentì, ricorrendo alla retorica della Controriforma cattolica, pur aderendo alle coordinate culturali ebraiche, nel suo nuovo testo ebraico Shiltey ha -Gibborym, di cui abbiamo già brevemente discusso, e che assolutamente e indiscutibilmente deferiva agli anziani, i maestri del Talmud.

Tentando di espiare il peccato di "secolarizzazione" dando ai suoi figli la possibilità di studiare gli scritti ebraici sul sacrificio, Portaleone produce un'antologia di testi biblici e rabbinici da leggere in diversi giorni della settimana. Insiste però sul fatto che l'esercizio sarà più produttivo se i lettori potranno immaginarsi nel (Secondo) Tempio di Gerusalemme, per meglio identificarsi con i credenti che hanno preso parte ai riti; da qui la necessità di riprodurre l'architettura e i riti del Santuario "come erano":

« Quando i Figli d'Israele saranno tutti tornati a Dio, potranno pregare in ogni parte della loro Terra e nel Tempio che hanno costruito, volgendosi verso il Muro Occidentale [...] e si immagineranno all'interno del Santuario quando pregheranno. »
(Shiltey ha-Gibborym, Introduzione.)

Di conseguenza, Portaleone dà un resoconto ricco e dettagliato del Tempio, basando le sue descrizioni su fonti sia ebraiche che non ebraiche. La prima parte del suo volume è dedicata a questa descrizione, e costituisce una sorta di preparazione all'antologia che ne costituisce la seconda parte.

Un'esigenza religiosa quasi mistica presiede alla sua opera di ricostruzione storica: il lettore deve poter immaginare se stesso in piedi nel Tempio. L'acuta consapevolezza di Portaleone del divario temporale che deve superare dà vita a una ricerca scientifica. Cessando di essere un significante allegorico, il Tempio acquista una dimensione fisica, che può essere raffigurata nell'immaginazione.

È interessante notare che, mentre Portaleone si allontanò dalle allegorie, il suo contemporaneo cristiano Filippo d'Aquino (Philippe d’Aquin), un ebreo convertito, continuò a considerare il Tabernacolo come un'allegoria dei tre mondi (divino, celeste e terreno);[14] allo stesso modo, per il gesuita Juan Bautista Villalpando, il Tempio di Gerusalemme era un modello per la perfetta armonia tra le diverse dimensioni dell'essere umano e dell'universo.[15] Ciò sembra suggerire che, quando si trattava di rappresentazioni del Tempio, gli ebrei – in particolare i membri della comunità ebraica italiana, che era probabilmente la comunità ebraica in Europa più aperta al mondo non ebraico – erano in alcuni casi più "moderni ” rispetto ai cristiani.[16]

Come nella poesia di Rieti, il Tempio diventa la pietra angolare di un'enciclopedia del sapere contemporaneo. Così un racconto degli accompagnamenti musicali per i sacrifici porta il dotto Portaleone a comporre un trattato di musica polifonica; una discussione sulle offerte di incenso diventa pretesto per riflessioni botaniche; un'allusione al sale spruzzato sulle vittime porta a una disquisizione sulla chimica, e così via. Il Tempio diventa una sorta di "teatro della memoria",[17] ma non ha connotazioni mistiche: queste divagazioni enciclopediche hanno un quadro ben definito, e sono associate a descrizioni architettoniche estremamente precise, suggerendo che l'empirista scientifico è rimasto immutato dalla sua "conversione". Portaleone accompagna i suoi lettori attraverso i cortili del Santuario e li fa assistere ai suoi riti. Le sue descrizioni si basano su testi rabbinici canonici e, cosa abbastanza notevole, su numerose fonti non ebraiche. Il suo Shiltey ha-Gibborym è quindi un'opera nata da un imperativo espiatorio che offre ai suoi lettori ebrei una sinossi della conoscenza contemporanea e consente loro di evocare un'immagine tridimensionale del Tempio di Gerusalemme nella propria mente evocando visivamente le sue diverse sezioni, il suoi oggetti rituali, e la vita che si svolgeva all'interno delle sue mura sacre.

Naturalmente, Portaleone non fu né il primo né il più importante autore ebreo a dare un resoconto dettagliato del Tempio: esiste una lunga tradizione di tali descrizioni, da Hilkhoth Beyth ha-beḥyrah ("Le Leggi della Casa d'Elezione"), un trattato incorporato nel codice maimonideo Mishneh Torah ai commentari che Maimonide e lo studioso italiano del XVI secolo Obadiah di Bertinoro scrissero su un trattato della Mishnah intitolato Middoth ("Misure"), e ad altre opere successive. Tuttavia, più di ogni altro autore, Portaleone enfatizzò la visualità delle sue descrizioni. A volte può sembrare che le illustrazioni siano tutto ciò che manca al suo libro; infatti, quando il cristiano Blasio Ugolini – che pubblicò trentaquattro volumi in folio sui riti e costumi degli ebrei tra il 1744 e il 1769 – tradusse poi in latino alcuni capitoli di Shiltey ha-Gibborym, aggiunse delle illustrazioni.[18] (Cfr. fig. 1 supra)

Modelli in scala del Tempio

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Fig. 2Altare dell'Incenso, Tempio di Gerusalemme
Fig. 3Arca dell'Alleanza nel Tempio di Gerusalemme, con altri oggetti sacri

Fu fuori dall'Italia che la rappresentazione del Tempio avrebbe subito un altro importante cambiamento diversi decenni dopo, molto probabilmente nel 1641, quando Jacob Judah Leon (1603-1675), un rabbino olandese che sarebbe diventato noto come "Templo",[19] portò l'evocazione virtuale del Tempio di Portaleone un ulteriore passo avanti, producendo un modello tridimensionale. Questo modello in scala venne esposto al pubblico in diverse città, tra cui Amsterdam e Londra, conferendo un grado di celebrità al suo autore. Jacob Judah dedicò al Tempio anche un libro illustrato, Retrato del templo de Selomo (1642). Destinato a spiegare il suo modello in scala, il libro fu tradotto in diverse lingue e vendette migliaia di copie. (Cfr. figg. 2 e 3)

I progetti di Jacob Judah furono stimolati dai rappresentanti dei Collegianti, un gruppo religioso olandese con tendenze millenarie, a cui Spinoza si associò dopo la sua scomunica dalla comunità ebraica. Potrebbe forse esserci una connessione tra la corrente di pensiero millenaria e le rappresentazioni tridimensionali del Tempio? L'attenta indagine dello storico Richard Popkin su tale questione suggerisce che i Millenari erano interessati a rappresentazioni realistiche del Tempio perché si stavano preparando all'avvento dell'era messianica, quando gli ebrei sarebbero tornati nella loro Terra e il Tempio sarebbe stato ricostruito.[20] Se questo è vero, una motivazione religiosa è alla base della sostituzione dell'allegoria da parte di Jacob Judah e Portaleone con uno spazio tridimensionale che è sufficiente a se stesso e non allude ad un'altra sfera della realtà. In altre parole, la sovrapposizione "moderna" all'interno di un unico spazio delle dimensioni umana e celeste, la cui separazione aveva a lungo legittimato un'allegoria, potrebbe aver avuto radici religiose. Non dimentichiamo che questo cambiamento di rappresentazione si è concentrato sul Tempio, oggetto privilegiato dell'immaginario ebraico.

Sebbene abbiamo lasciato l'Italia quando ci siamo rivolti a Jacob Judah Templo, una fonte manoscritta suggerisce che già nel 1570 un altro ebreo italiano avesse costruito un modello in scala del Tempio per suo uso personale: il drammaturgo Leone de’ Sommi, che era, come Portaleone, di Mantova.[21]

Tra il Seicento e il Settecento, nelle opere degli autori ebrei italiani proliferarono rappresentazioni realistiche del Santuario, che talvolta le utilizzavano per scopi didattici, con o senza il ricorso a modelli in scala.

Nel 1696, Mosheh ben Gershom Ḥefetz (Gentili) pubblicò Ḥanukath ha-bayith ("L'Inaugurazione della Casa") a Venezia. Quest'opera straordinariamente colta e accurata si basa esclusivamente su fonti ebraiche:[22] sono una ventina, dalla Mishnah agli autori seicenteschi (Maimonide è l'autore più citato). È interessante notare che Ḥefetz cita raramente Portaleone, probabilmente perché quest'ultimo si riferiva così tanto a fonti non ebraiche: i contributi "esterni" non erano visti di buon occhio in quel periodo. Sebbene l'argomento del suo libro segua la logica dei commentari talmudici, tuttavia ricorre occasionalmente a dimostrazioni geometriche o fisiche (soprattutto esperimenti ottici), alcune delle quali enfatizzano il carattere tridimensionale delle descrizioni. Un accurato disegno tridimensionale illustra il testo.

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Illustrazione antica del Tempio di Salomone, con fiamme dall'altare dei sacrifici (veduta aerea)

Nonostante il suo approccio strettamente talmudico, Ḥanukhath ha-bayith era per molti versi semplicemente un'opera di erudizione priva di qualsiasi impatto giudiziario: un'opera antiquaria di indagine storica basata solo su fonti ebraiche. L'autore sottolinea questo aspetto del suo libro quando spiega di averlo scritto nello spirito di "Darosh we-qabbel sakhar" ("Studia e ottieni una ricompensa"), una formula talmudica che afferma il valore intrinseco dell'erudizione, anche in l'assenza di qualsiasi implicazione giuridica.[23] Significativamente, Azariyah de’ Rossi, che probabilmente avviò questa tendenza antiquaria nel mondo ebraico e ne fu il rappresentante più prestigioso, cita la stessa formula per giustificare le proprie indagini storiche e filologiche.[24]

A sua volta, Ma‘aseh Ḥoshev ("Un'Opera di Pensierosità", pubblicato a Venezia nel 1716) del cabalista Immanuel ben Abraham Ḥay Ricchi non si concentra tanto sul Tempio quanto sul Tabernacolo. Come il libro di Ḥefetz, questo testo si basa esclusivamente su fonti ebraiche, talmudiche e medievali, incluso un riferimento allo Zohar. In altre parole, si rivolge a lettori ebrei che conoscono bene i concetti e la metodologia tradizionali della propria cultura religiosa. Uno dei maggiori esponenti della Cabala lurianica, Ricchi non mostrò alcun interesse per la più ampia cultura del mondo non ebraico nelle sue opere, sottolineando invece il rapporto speciale di Israele con la divinità. Eppure spiega nell'introduzione a Ma‘aseh Ḥoshev che il suo libro è basato su un piccolo modello in scala di cartone del Tabernacolo che ha realizzato per i suoi giovani studenti. Ciò suggerisce che anche in un'opera letteraria incentrata esclusivamente sul patrimonio religioso ebraico, che a prima vista sembrava indifferente a ricostruzioni realistiche, l'autore si sia sentito in dovere di intraprendere ricerche storiche sul Tempio (o Tabernacolo) e rappresentarlo in tre dimensioni.

Cabala e rappresentazioni bidimensionali del Tempio

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Mosheh Ḥayyim Luzzatto (detto il Ramḥal) - affresco ad Acri, Israele

Sebbene la trasformazione della percezione spaziale rivelata dall'evoluzione delle rappresentazioni del Tempio abbia seguito un percorso storico lineare, ciò non ha impedito il risorgere di un antico universo intellettuale e religioso in un testo intitolato Mishkeney ‘elyon ("I Tabernacoli dell'Altissimo ”), del cabalista e poeta padovano Mosheh Ḥayyim Luzzatto (1707-1746).[25] Oggetto di questo libro non è tanto il Tempio storico quanto il Tempio che il profeta Ezechiele immaginava nei capitoli 40-47 del suo libro omonimo: quello che viene chiamato il Terzo Tempio, il più perfetto, che scenderà dal cielo, preannunciando la redenzione finale. Questo Tempio corrisponde al mondo delle emanazioni divine, le sefirot, secondo il principio cabalistico che postula l'esistenza di corrispondenze tra il mondo inferiore e quello superiore: la sua struttura fisica è una replica perfetta del mondo superiore, e ciascuna delle sue parti allude a un aspetto particolare del mondo delle emanazioni divine. Le sue porte, ad esempio, sono aperture nei muri create dall'energia concentrata dell'influsso divino per sostenere gli esseri inferiori, mentre le loro proporzioni – descritte con dovizia di particolari da Ezechiele e discusse da Luzzatto – hanno un significato ben preciso, perché indicano i nomi di Dio e i loro valori numerici. Il mondo delle luci divine è gerarchico: ciascuna delle sue varie parti deve sostenere con la sua energia una diversa categoria di esseri: le anime di Israele, le diverse classi di angeli e le altre creature.

In questo testo, un'immagine bidimensionale sostituisce l'illusione di profondità offerta dalla rappresentazione tridimensionale: siamo lontani dalla percezione dello spazio che ha fatto immaginare e descrivere ad altri scrittori volumi tridimensionali prima di ricrearli in modelli in scala. Il lettore, infatti, ha l'impressione che Luzzatto abbia concepito la mappa del Tempio – che corrisponde al mondo delle sefirot – solo in termini di due coordinate privilegiate: sopra/sotto, destra/sinistra. In effetti, l'autore dichiara che la sua descrizione del Tempio cerca di seguire il movimento discendente delle emanazioni divine, mentre scendono dai regni superiori a quelli inferiori. Il moderno editore del testo ha giustamente aggiunto una mappa bidimensionale che rappresenta l'insieme di edifici e spazi che compongono questo Tempio ideale nel racconto del cabalista.

Il cabalista concepisce così un'immagine bidimensionale, come nelle allegorie; tuttavia, non è un'allegoria. Mentre nelle allegorie un piano di realtà ne evoca un altro sulla base delle loro somiglianze esterne, le immagini cabalistiche pretendono di aderire alla realtà, nella misura in cui la mente umana può concepire la realtà del mondo divino. Pertanto, secondo il grande cabalista del XIII secolo Yosef Gikatilla, ogni volta che il testo biblico menziona "la mano di Dio", ciò non si riferisce né al significato letterale della parola "mano" né a qualche significato allegorico: evoca invece le somiglianze intrinseche ("un segno analogo") che legano l'entità divina e la mano fisica.[26] Nel testo di Luzzatto c'è una corrispondenza tra ogni dettaglio, per quanto piccolo, dell'immagine del Terzo Tempio e i mondi delle luci divine, che ci permette di visualizzare dispiegando "segni analoghi" e allo stesso tempo prolungando visivamente queste dimensioni divine nel mondo sensibile. Secondo Luzzatto, la redenzione consiste nel passare dal livello di somiglianza che esiste tra i Templi superiore e inferiore all'uniformità, poiché il Santuario celeste si estende fino alla terra, diventando tutt'uno con il Santuario terrestre:

« I due Santuari, superiore e inferiore, sono inclinati l'uno verso l'altro [...]. Un giorno, i due Santuari non solo saranno uguali, ma il Santuario superiore si estenderà fino in fondo. I rabbini dissero che il Terzo Tempio è opera di Dio, perché l'edificio celeste non si sposterà, ma si estenderà fino in fondo, a quel punto sarà eretta una struttura fisica intorno ad esso, per questo mondo. Le due strutture dovranno poi fondersi in una e non dovranno mai essere separate.[27] »

Luzzatto difficilmente potrebbe essere descritto come uno scrittore minore che faceva parte di una tendenza marginale; al contrario, il suo lavoro è stato molto influente, in passato in Europa e ora in Israele. Inoltre, il suo approccio sistematico alla Cabala – che ricorda la nuova scolastica cattolica – è stato adottato da altri importanti autori ebrei italiani. La prevalenza nelle sue opere di caratteristiche che potrebbero essere definite medievali – in particolare l'immagine di un mondo gerarchico bidimensionale – ci mette in guardia contro resoconti radicalmente lineari e progressisti della storia intellettuale, e della storia intellettuale ebraica in particolare: in effetti, non sarebbe sostenibile affermare che questa storia si è evoluta in modo diretto e lineare dalla rappresentazione allegorica a quella realistica.

Il fatto che la diffusa popolarità di cui godeva la Cabala nelle comunità ebraiche in epoca moderna coesistesse con la diffusione di una nuova visione del mondo fondata sul razionalismo scientifico, rappresenta un enigma per gli storici. In ogni caso, la focalizzazione sul Tempio, oggetto privilegiato della rappresentazione ebraica, sia essa allegorica, realistica o simbolica, ci ha aiutato a tracciare alcuni importanti cambiamenti nella rappresentazione spaziale. Questa è una solida testimonianza, crediamo, dei processi più generali.

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Il Terzo Tempio di Ezechiele, in proiezione tridimensionale moderna
Per approfondire, vedi Serie maimonidea e Serie misticismo ebraico.
  1. Articolo s.v. "Tabernacle", su Jewish Encyclopedia.
  2. Sulla nozione di "immagine" nella tradizione ebraica, si vedano J. Gutmann, cur., No Graven Images: Studies in Art and the Hebrew Bible (New York: Ktav, 1971); R. Prigent, Le judaïsme et l’image (Tübingen: Mohr, 1990); K. P. Bland, The Artless Jew: Medieval and Modern Affirmations and Denials of the Visual (Princeton: Princeton University Press, 2000); V. B. Mann, Jewish Texts on the Visual Arts (Cambridge: Cambridge University Press, 2000).
  3. Maimonide, Guida dei perplessi, Introduzione.
  4. Traduco dalla versione (EN) di Shlomo Pines (Chicago: University of Chicago Press, 1974), vol. II, 618-619.
  5. Rieti è una città a nord-ovest di Roma. Su Mosheh ben Yitzḥaq, si veda A. Guetta "Mosheh da Rieti (XIVe—XVe s.), philosophe, scientifique et poète", Revue des Etudes Juives 158, numeri 3-4 (luglio-dicembre 1999):577-586; A. Guetta, "Renaissance et culture juive: le cas de Moshe ben Yitzhaq de Rieti", Tzafon 48 (2004-2005):43-57; D. Bregman, The Golden Way: The Hebrew Sonnet during the Renaissance and the Baroque (Tempe, AZ:ACMRS, 2006).
  6. Questo poema fu pubblicato in J. Goldenthal, Il Dante Ebreo ossia il Picciol Sanctuario (ebraico, con introduzione in italiano, Vienna, 1865). Per una presentazione dell'opera, con una traduzione in (EN) e versione annotata dei primi due capitoli, si veda D. Bergman, A. Guetta e R. P. Scheindlin, curr., Prooftexts 23, no. 1 (2003), numero speciale di Medieval Jewish Literature.
  7. Questo capitolo ebbe un notevole successo tra gli ebrei italiani, tra i qualigodette di un successo più duraturo dell'intero poema; fu estratto dal suo contesto e tradotto in versi italiani (trascritti in caratteri ebraici o latini) da quattro diversi scrittori tra la fine del Cinquecento e l'inizio del Seicento. Vari studiosi ebrei italiani, tra cui Azariyah de’ Rossi, trascrissero anche la versione ebraica originale, considerandola evidentemente esemplificativa della scuola italiana di poesia ebraica. Si veda Capitolo 6, "Le opere di Lazzaro da Viterbo".
  8. Goldenthal, seconda parte, cap. 3, pp. 51a-52b.
  9. Ibid., cap. 4, p. 53b.
  10. A. Guetta, "Ya‘ar ha-Levanon ou la quête de la connaissance perdue. Un texte en prose rimée de Moshe de Rieti", Revue des études juives 164 (2005):67-129 (edizione critica di un testo inedito con introduzione, traduz. francese e note).
  11. Moshe da Rieti, Filosofia naturale e fatti de Dio, cur. Irene Hijmans-Tromp (Leiden: Brill, 1989).
  12. Il testo originale si trova ibid., 409-415. Per una traduzione più estesa, si veda A. Guetta, "Renaissance et culture juive."
  13. Su questo argomento, si vedano L. Bolzoni e P. Corsi, curr., La cultura della memoria (Bologna: Il Mulino, 1992); L. Bolzoni, La chambre de la mémoire: modèles littéraires et iconographiques à l’âge de l`imprimerie (Genève: Droz, 2005).
  14. Philippe d’Aquin, Discours des sacrifices de la loy mosaique (Parigi: Jean Laguehay, 1623), Parte I: "Explications literales, allégoriques et moralles du Tabernacle, que Dieu commanda à Moyse de faire."
  15. Hieronymi Pradi et Ioannis Baptistae Villalpandi e Societate Iesu, In Ezechielem explanationes et apparatus Urbis, ac temple Hyerosolymitani commentariis et imaginibus illustrates opus tribus tomis distinctum (Roma, 1596-1605).
  16. L'opera dell'ebraista François Vatable (morto 1542), che insegnava al Collège de France, constituisce una rimarchevole eccezione: Vatable illustrò la Bibbia pubblicata da Robert Estienne nel 1538-40 con immagini del Tempio tratte da fonti ebraiche che non lo allegorizzavano né lo simboleggiavano. Sulle rapprsentazioni del Tempio prevalentemente cristiane del XVII secolo, si vedano Helen Rosenau, Vision of the Temple: The Image of the Temple of Jerusalem in Judaism and Christianity (Londres: Oresko, 1979); Hendrik Bude & Andreas Nachama, curr., Die Reise nach Jerusalem (Berlino: Argon, 1996), particolarmente il capitolo intitolato "Der wiedererstandene Tempel: Architektonische Visionen."
  17. L'espressione si ispira al libro di G. Camillo, L`idea del theatro (1550, nuova edizione Palermo: Sellerio, 1991).
  18. B. Ugolini, Thesaurus antiquitatum vol. 9, col. CCI-CCII, CCIX-CCXX, CCLIII-CCLIX, CCICVII-CCXCVIII, CCCXI-CCCXII.
  19. Su questo autore, si vedano H. Rosenau, "Jacob Judah Leon Templo’s Contribution to Architectural Imagery", Journal of Jewish Studies 23, nr. 1 (1972):72-81; A. L. Shane, "Rabbi Jacob Judah Leon (Templo) of Amsterdam (1603-1675) and his Connections with England", Transactions of the Jewish Historical Society of England 25 (1977): 120-136; A. K. Offenberg, "Jacob Jehuda Leon (1602-1675) and his Model of the Temple", in Jewish-Christian Relations in the Seventeenth Century, cur. J. Van Den Berg & E. Van Der Wall (Dordrecht: Springer, 1988):95-115.
  20. R. H. Popkin, "Christian Jews and Jewish Christians in the 17th Century", in Jewish Christians and Christian Jews: From Renaissance to the Enlightenment, curr. R. H. Popkin & G. M. Weiner (Dordrecht: Springer, 1994), 57-72.
  21. Cfr. D. B. Ruderman, Kabbalah, Magic and Science: The Cultural Universe of a Sixteenth-Century Jewish Physician (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1988). Giuda Leone de’ Sommi (anche: Leone Sommo), che compose diversi drammi in italiano, come anche un trattato di teoria drammatica, scritto anch'esso in italiano, fu inoltre l'autore di quello che è considerata la prima opera drammatica scritta in ebraico, Tzaḥuth bediḥuta de-kiddushin (La Commedia delle Nozze), si veda R. Bonfil, "Lo spazio culturale degli ebrei d`Italia fra Rinascimento ed Età barocca", in Storia d’Italia, Annali 11: Gli ebrei in Italia, vol. 1, pp. 413-473, cur. C. Vivanti (Torino: Einaudi, 1996), particolarmente pp. 457-472. Un successivo autore mantovano di un libro con la descrizione del Tempio, fu lo studioso del XVII secolo Malkyiel Ashkenazy. Il libro fu pubblicato da Avraham Sofer, col titolo: Beur ‘al masekheth middoth le-ha-gaon Mosheh Caze. We-nilweh elayw sefer hanukath ha-bayit ‘al tzurath beyt ha-miqdash lehe-hakham rabby Malkyiel Ashkenazy mi-Mantovah, a Gerusalemme nel 1963.
  22. C'è un'eccezione (f. 14v): una citazione da uno "studioso contemporaneo", il cui nome non viene rivelato e che supporta la sua posizione.
  23. F. 17a. Si veda il Talmud Bavli, Sanhedrin 51b.
  24. Azariyah de’ Rossi, Meor ‘eynayim, sezione Imrey bynah, capitolo 29. Traduzione (EN) di Joanna Weinberg, The Light of the Eyes, 406.
  25. Mishkeney ‘elyon fu pubblicato per la prima volta da H. Friedlander in Ginzey Ramḥal (Bnei-Braq: 1984), 149-205. Su M. H. Luzzatto, si vedano in particolare S. Ginzburg, The Life and Works of Moses Hayyim Luzzatto (Philadelphia: Dropsie College for Hebrew and Cognate Learning, 1931); J. Hansel, Moïse Hayyim Luzzatto (1707-1746). Kabbale et philosophie (Parigi: Editions du Cerf, 2004); N. Danieli, L’epistolario di Moshe Hayyim Luzzatto (Firenze: Giuntina, 2006).
  26. Y. ben Abraham Gikatilla, Sha‘arey Orah ("Porte di Luce"), cur. Y. ben Shelomo (II edizione, Gerusalemme: 1989), vol. 1, p. 49. Su Cabala e rappresentazione, cfr. G. Busi, Qabbalah visiva (Torino: Einaudi, 2005).
  27. Friedlander, 157.