Israele – La scelta di un popolo/Capitolo 6

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Indice del libro
Rabbino con tallit, dipinto di Isidor Kaufmann (c.1900)

DUE VISIONI MEDIEVALI DELL'ELEZIONE[modifica]

Tempo ed eternità[modifica]

La dottrina dell'elezione di Israele, sia come originariamente presentata nella Scrittura che poi sviluppata dai rabbini, è filosoficamente convincente solo se si presume che designi una relazione temporale. La vera scelta implica la presenza all'elettore di due o più oggetti e che uno di essi venga eletto in un determinato momento distinto da qualsiasi altro momento. La libertà che la scelta presuppone (la scelta "non libera" è una contraddizione in termini) fa della scelta una questione pratica piuttosto che teorica. È la preoccupazione del reame della politica, intesa nell'ampio senso classico che denota il luogo dell'azione pubblica libera e intenzionale tra le persone. Non è la preoccupazione del reame della scienza in sé, che descrive il comportamento necessario delle entità.[1]

Pertanto, l'elezione è storica, cioè è un evento temporale umanamente ricordato, caratterizzato dalla libertà piuttosto che dalla necessità. E, anche se ho affermato altrove che ci sono limiti naturali che devono essere riconosciuti a priori affinché ci siano comunità in cui la storia dell'alleanza possa verificarsi e essere sostenuta, solo questi limiti rendono possibile quella storia; ma essa stessa non può essere ridotta a questi limiti come semplici istanze del diritto naturale perpetuo. Questi limiti naturali sono la conditio sine qua non della storia dell'alleanza, non la sua conditio per quam. La storia come arena della libera azione personale implica la novità in un modo che la natura non fa. Perché nella nostra costituzione della natura, vediamo il tempo come un continuum che si estende dal passato al presente al futuro: il reame della causalità. Ma nella nostra costituzione della storia, vediamo divari radicali tra presente, futuro e passato: il reame della libertà. La libertà può funzionare solo in quest'ultimo ordine temporale.[2] È solo questo tipo di ontologia — che vede il primato dell'attività storica divina per gli esseri umani seguito dalla loro attività pratica in risposta ad essa, e che vede la scienza (e anche la sua estensione alla metafisica) come terziaria ad entrambe — che può consentire di recuperare filosoficamente la fondamentale dottrina ebraica dell'elezione.

In questa ontologia, sia Dio che Israele sono temporalmente correlati. La differenza tra loro è che Israele, come ogni creatura, alla fine è inghiottito dalla morte come dissoluzione personale che il tempo gli comporta, mentre Dio non ne è inghiottito. Così il tempo di Israele come creatura è limitato (finito); il tempo di Dio creatore è illimitato (infinito). Dio come esistenza infinita (che non è affatto la stessa cosa dell'Essere Eterno) è coevo al tempo, mentre le creature finite sono trascese dal tempo. Per questo motivo, una nozione di immortalità umana (in opposizione alla dottrina della risurrezione dei morti) distrugge la differenza essenziale tra uomo e Dio e alla fine assorbe l'uomo in Dio.[3] Tuttavia, Dio trascende solo il tempo mortale e finito di tutte le creature; Egli non trascende il tempo stesso nel modo in cui trascende certamente lo spazio.

Perché il tempo in questo senso è durata: quella in cui si verifica una sequenza di eventi. Così tutta l'esistenza è temporale.[4] Anche la creazione stessa può essere considerata un evento nella vita di Dio — anche se ovviamente non nella vita dell'uomo, perché è l'esperienza preistorica di Dio.[5] Lo spazio, invece, è esterno in quanto può essere costituito come qualcosa di separato dal soggetto esperiente.[6] Quindi tutta l'esistenza non può essere confinata nello spazio.[7] Questo si manifesta con il pensiero, che quando è creativo non è localizzato ma localizzante.[8]

Inoltre, come ho già notato, il tempo illimitato di Dio non è la stessa cosa dell'"Essere Eterno", poiché tale idea è stata costituita dai filosofi dal tempo in cui la filosofia è sorta in Grecia.[9] Nell'ebraismo biblico-rabbinico, non fa senso parlare di eternità. Anche Dio non è eterno ma, piuttosto, "perenne". Un Dio "eterno", nel senso filosofico classico di Essere immutabile e quindi insensibile, ha poca o nessuna somiglianza con il Dio creatore che si associa ad Abramo, Isacco e Giacobbe e alla loro progenie, che, nell'indimenticabile caratterizzazione del mio compianto venerato maestro Abraham Joshua Heschel, è un "Dio del pathos".[10]

Tuttavia, c'è un filone della teologia rabbinica da cui sembra si possa dedurre il contrario, cioè sembra suggerire che l'elezione di Israele comporti l'idea dell'eternità. Anche se in primo luogo discuterò contro tale inferenza, in questo Capitolo poi mostrerò come l'idea greca di eternità abbia influenzato le teorie dell'elezione di Israele proposte da due dei più importanti teologi filosofici ebrei nel Medioevo: Yehuda Ha-Levi[11] e Mosè Maimonide. Sosterrò infine che le loro rispettive opinioni comportano seri problemi sia teologici che filosofici, specialmente per gli ebrei che tentano di recuperare l'antica dottrina in questo frangente della nostra storia.

Il defunto studioso rabbinico israeliano Ephraim Urbach acutamente individuò due diverse visioni rabbiniche dell'elezione di Israele. Il primo punto di vista lo chiamò "cosmico-eterno (nitsheet)" definendolo come uno che insegna che "l'elezione di Israele fu concepita insieme alla creazione del mondo", rendendolo così "qualcosa di assoluto (le-muhletet) e non contingente su qualsiasi clausola (be-tena’im) di sorta." Il secondo punto di vista lo chiamò "storico-relativo (yahaseet)" definendolo come quello che insegna che l'elezione è "collegata a stipulazioni e condizioni (u-ve-nesivot), e in cui il popolo svolge un ruolo attivo in cui è anche l'elettore (ha-boher)."[12] Questo secondo punto di vista, rispetto al primo indubbiamente costituisce un precedente molto più forte per la comprensione della visione rabbinica dell'elezione e delle sue conseguenze pratiche, come stata proposta nel Capitolo precedente. Ma che dire del primo punto? È uno da cui l'argomentazione teologica finora proposta in questo libro deve voltare le spalle? Oppure, è uno che non implica davvero un'ontologia dell'eternità come sembrano pensare alcuni studiosi?

Rappresentazione di Rabbi Akiva sull’Haggadah di Mantova (1568)

La visione cosmica-eterna dell'elezione di Israele è attribuita da Urbach all'insegnamento del saggio Rabbi Akiva del II secolo e.v. Egli vede il locus classicus di questo insegnamento nel famoso detto di R. Akiva: "Amato è Israele che sono chiamati figli di Dio ... Amato è Israele perché il vaso attraverso il quale è stato creato il mondo fu dato loro".[13] Ciò esprime il punto di vista, a sua volta coi precedenti nella prima teologia ebraica ellenistica, che sia Israele che la Torah sono entità primordiali.[14] Da questo tipo di affermazione, è facile dedurre, per chiunque abbia studiato filosofia classica, che Israele e la Torah sono essenzialmente eterne e non temporali in verità.

Questa inferenza, tuttavia, comporta seri problemi teologici e filosofici. Cosa fare con i numerosi passi della Torah, sia narrativi che legali, che sono chiaramente storici? E cosa fare con l'ovvia contraddizione tra eternità e libera scelta?[15] Praticamente tutte le narrazioni e comandamenti della Torah non presuppongono che ci sia una responsabilità umana? Ma può esistere responsabilità umana senza libera scelta, che, come abbiamo appena visto, presuppone essa stessa la temporalità?

Ciononostante, c'è una possibile soluzione a questi problemi, problemi che sono assai centrali per il recupero filosofico della dottrina dell'elezione, e questa soluzione può essere derivata dalla stessa tradizione rabbinica senza l'aggiunta di presupposti metafisici che sembrano incoerenti con la dottrina biblica-rabbinica.

La soluzione deriva dall'apprezzamento della nozione rabbinica di retroattività (bereira). In questa nozione, qualcosa che è stipulato in un certo momento dopo che è stato successivamente realizzato, è considerato tale in anticipo. In altre parole, è retroattivamente proiettato nel passato come se fosse sempre stato così.[16] Il locus classicus di questa nozione si trova in questo passaggio della Mishnah circa il modo in cui si può stipulare il domicilio limitato che si deve stabilire prima dello Shabbat per lo Shabbat che sta arrivando. "Si può stipulare (matneh) il suo domicilio sabbatico (eruvo) e dichiarare ... se un saggio è venuto a oriente, il mio domicilio sabbatico sia a oriente; se da occidente, che sia a occidente."[17] Poiché si può camminare solo all'interno dei recinti (= circoscrizioni) di una città e in un raggio circostante di duemila cubiti (tehum), e si può avere solo un vero domicilio, senza questa clausola si potrebbe non essere in grado di camminare abbastanza per andar a sentire un particolare saggio predicare lo Shabbat in arrivo.[18] Quindi, se uno stabilisce il suo possibile domicilio sia a duemila cubiti a est della città sia parimenti a duemila cubiti a ovest della città, può allora scegliere qual è il suo vero domicilio quando lo scopre proprio in quello stesso Shabbat dove il saggio che vuole udire sta in realtà predicando. Dopo aver fatto questa scoperta, è come se in origine avesse fatto da solo questa stipulazione desiderata, ed è come se non avesse mai fatto la stipulazione indesiderata. Chiaro? Che il lettore non si preoccupi... anche Rabbi Akiva sembra crucciato!... ma il ragionamento diventa chiaro rileggendo i riferimenti citati.

Inoltre, la stessa logica è applicata più teologicamente nel caso del matrimonio. Da un lato, è un insegnamento rabbinico coerente che i matrimoni sono "fatti in cielo", cioè, in un modo o nell'altro sono preordinati da Dio. Ma che dire della libera scelta degli stessi coniugi che è un prerequisito legale per un valido patto matrimoniale? E che dire di quei matrimoni che non durano ma finiscono con il divorzio? La spiegazione usuale di questo paradosso è che quando il matrimonio dura per le giuste ragioni, allora è come se fosse stato preordinato da sempre (le-mafre’a), anche prima che i coniugi stessi venissero al mondo.[19]

Il punto qui è che una volta che una decisione significativa è stata presa ed è stata sostenuta, è quasi impossibile concepire come sarebbe il mondo se la decisione non fosse stata presa in tal modo.[20] Quando si tratta dell'elezione di Israele da parte di Dio e il dono della Torah, che sono eventi di tale significato cosmico (soprattutto come abbiamo visto nel Capitolo 4), è comprensibile come R. Akiva e la sua scuola fossero inclini a usare un linguaggio di questo tipo. Infatti, nella continuazione della sua affermazione sul carattere primordiale di Israele e della Torah, R. Akiva fa l'enigmatica affermazione: "tutto è previsto (tsafui), ma la scelta (reskut) vien data".[21] L'interpretazione di questa affermazione potrebbe ben essere che, anche se tutto è stato pianificato da Dio in anticipo, nel senso che i suoi propositi sono davanti a Lui, tali propositi richiedono la scelta umana dell'alleato pattizio Israele che cooperi alla loro realizzazione. Solo dopo si può parlare di ciò che era previsto". E in questo senso, l'esegeta e teologo spagnolo del XV secolo R. Jacob ibn Habib notò — nel discutere la nozione della Torah come primordiale che sembra contraddire la dottrina della creatio ex nihilo — che questa nozione può essere interpretata nel senso che il dare della Torah (e l'elezione di Israele come sua correlata) riflette lo scopo (sibah takhliteet) la cui piena realizzazione Dio aveva già in mente originariamente quando creò il mondo.[22]

Se questa interpretazione è corretta (o, almeno, plausibile), allora le due visioni rabbiniche delineate da Urbach dopo tutto possono essere riconciliate. L'elezione di Israele è un evento storico, condizionato da fattori temporali, come abbiamo visto; tuttavia, senza l'enfasi del suo status primordiale, l'elezione potrebbe essere vista come un evento meramente locale, avente solo un significato delimitato. Invece, il suo pieno significato deve essere correlato al rapporto di Dio con la Sua intera creazione, con il mondo nel suo insieme. In quanto tale, deve essere connesso all'inizio stesso della creazione. E senza questa enfasi cosmica, la dimensione escatologica dell'alleanza, la redenzione finale, diventa poco più che un evento politico unidimensionale.

Tuttavia, è anche plausibile che l'insegnamento di R. Akiva e della sua scuola sull'elezione e la natura della Torah sia compatibile con l'idea filosofica dell'eternità, un'idea che divenne molto attraente per una varietà di teologi ebrei successivi che avevano studiato filosofia platonica e aristotelica. È il presupposto di questa compatibilità che sta alla base degli accordi generici tra Ha-Levi e Maimonide nell'ontologia che essi proponevano nelle rispettive costituzioni teologiche delle dottrine tradizionali dell'elezione e della Torah, nonostante le notevoli differenze nella loro specifica interpretazione di queste dottrine correlate.

Volontà e scelta in Ha-Levi[modifica]

Scultura di Yehuda Ha-Levi in Israele

Il primo teorico sionista Ahad Ha’Am (m. 1927) fu tipico di un certo numero di studiosi ebrei moderni quando notò di Yehuda Ha-Levi che "egli riconobbe il carattere e il valore della scelta di Israele (behirat yisra’el) e ne fece il fondamento del suo sistema (yesod le-sheetato)".[23] E il principale storico ebreo in tempi recenti, Salo Baron, fu altrettanto tipico quando di Ha-Levi notò "the serene allegiance to history and the long-range forces of destiny high above the ... forces of nature".[24] Se entrambe queste caratterizzazioni fossero vere, potremmo facilmente vedere Ha-Levi come un teologo rabbinico tradizionale, qualcuno che diede rinnovata espressione all'antica dottrina dell'elezione di Israele e qualcuno che anticipò lo storicismo moderno. Tuttavia, un esame più approfondito di ciò che lo stesso Ha-Levi affermò effettivamente in merito all'elezione di Israele ci porterà, credo, a vederlo come un pensatore più indipendente, per il quale né la storia (una parola che lui stesso in realtà non usò mai) né l'elezione di Israele – almeno per come siamo arrivati ​​a comprendere queste due idee oggi – sono fondamentali.[25] Ciò che fu fondamentale per Ha-Levi era un reame al di sopra di quello della natura ordinaria (cioè una soprannatura), un reame in cui il popolo di Israele nel suo rapporto con Dio è centrale.

La chiave per cogliere la visione autentica di Ha-Levi in merito al ruolo di Israele nell'ordine cosmico reale può essere vista in due brani ontologici strettamente connessi nel suo capolavoro teologico, il Kuzari (in ebraico: הכוזרי‎, Sēfer Ha-Kūzārī, "Libro del Cazaro"; in arabo: كتاب الخزري‎, al-Khazārī, "Il Cazaro"). Lì scrive:

« Dio, che Egli sia esaltato, vuole (rotseh'). Per tutto ciò che è proceduto da Lui, è possibile (efshar) che potrebbe essere l'opposto, o non esser proceduto affatto ... Questo concorda con l'opinione dei filosofi ... La volontà (ratson) di Dio è assolutamente prioritaria (qadmon) ed è coerente (u-mat’im) con la Sua sapienza. In quanto tale, non succede le nulla all'improvviso (mithadesh), né vi è alcun cambiamento in essa. »
(Kuzari, 5.18.[26])

Subito dopo, Ha-Levi distingue tra volontà, nel senso primordiale che ha descritto poco sopra, e scelta (behirah). Egli colloca questa definizione in un pieno contesto ontologico. "Le azioni sono divine (elohiyyim) o naturali (tiv’iyyim), accidentali (miqriyyim) o scelte (behiriyyim)". Si noti che i due estremi sono atti divini da un lato e atti scelti dall'altro. Gli atti divini sono quelli compiuti da nessun'altra causa (sibah) che "la volontà di Dio". Gli atti scelti, in netto contrasto, sono quelli la cui causa è "la volontà dell'uomo nel momento (sha’ah) in cui si trova nella situazione di scelta (be-matsav ha-behirah)". Ed è "all'interno di questo dominio (be-tehum zeh) che c'è una possibilità perpetua (tamid ha-efsharut)"[27]

Da questi brani ontologici appare del tutto chiaro che la scelta è temporale – storicamente situata – mentre la volontà primaria, che altro non è che la volontà divina, non lo è. Parlare della volontà di Dio, quindi, è parlare della coerente trascendenza di Dio del mondo. La volontà di Dio è primaria, nel senso che Dio stesso non è subordinato e nemmeno coeguale con nient'altro. Ma questa stessa trascendenza significa che il mondo ordinario della creazione è un mondo in cui Egli stesso non entra mai realmente, ma, come vedremo presto, è un mondo in cui permette e consente ad alcune delle Sue creature di trascendere almeno in parte. Di conseguenza, la differenza tra le possibilità davanti a Dio e le possibilità davanti all'uomo, per Ha-Levi, è che le possibilità davanti a Dio sono semplicemente logiche, mentre le possibilità davanti all'uomo sono realtà. Per questo la scelta umana comporta una reattività a posteriori, qualcosa che non può essere postulato dalla volontà di Dio, che è sempre primordiale: sempre causante ma mai operata. Il fatto che gli eventi temporali siano il risultato di questa volontà divina primordiale comporta il problema filosofico che risale alla costituzione platonica della natura primordiale dell'eternità: come emerge il tempo mutevole dall'eternità immutabile?[28] Inoltre, questa costituzione della volontà senza una scelta reale, e l'assenza di reattività che essa comporta, potrebbe ben spiegare la virtuale assenza di una teoria dell'alleanza nella teologia di Ha-Levi nel Kuzari.[29] Quindi si potrebbe dire che per Ha-Levi Dio volle l'esistenza di Israele preistoricamente, ma non che Dio in realtà scelse Israele dentro la storia.[30]

La scelta, quindi, è qualcosa che è umano, non divino. La domanda che ora deve essere affrontata è come questa scelta umana sia coinvolta nello status cosmico unico che Halevi assegna al popolo di Israele.

Va ricordato che il Kuzari è scritto come esposizione e argomentazione a favore de "la disprezzata religione", che era la condizione dell'ebraismo nel mondo di Judah Ha-Levi dell'XI secolo. In quest'opera, Ha-Levi difende l'ebraismo contro cinque diversi disprezzatori: (1) pagani, (2) filosofi, (3) cristiani, (4) musulmani e (5) letteralisti biblici ebrei (caraiti), che avevano rifiutato l'ebraismo rabbinico della maggioranza degli ebrei. Di gran lunga i più importanti disprezzatori contro cui difendere l'ebraismo e affermarne la superiorità, sono i filosofi.[31] Il paganesimo, di cui Ha-Levi sembra pensare che l'induismo sia la varietà più antica (e quindi la più formidabile), è liquidato di per se stesso non avendo alcun consenso riguardo alla documentazione scritta della rivelazione e quindi nessuna teologia coerente.[32] Cristianesimo e islam vengono rapidamente eliminati come semplici derivati ​​dell'ebraismo in quanto basano la veridicità delle loro rispettive rivelazioni sulle rivelazioni originali degli ebrei.[33] Quanto al caraiti, sono intrappolati nell'incoerenza di negare la tradizione ma di dover ammettere che la Scrittura stessa è intelligibile solo quando c'è una tradizione per interpretarla.[34]

Il Kuzari è un dialogo tra il re pagano della nazione noto come i Cazari e un rabbino. L'effetto di questo dialogo è di persuadere il re a convertirsi all'ebraismo, e successivamente a portare a convertirsi il resto del suo regno.[35] Questa, naturalmente, è una scelta umana fondamentale. La maggior parte del dialogo consiste nello spiegare al re i principi fondamentali dell'ebraismo a cui si è convertito. Questo di solito viene fatto rispondendo alle domande astute che il re pone su quegli aspetti dell'ebraismo che sembrano sconcertanti o addirittura irrazionali.

Ciò che porta il re alla ricerca che si conclude con la sua conversione all'ebraismo e l'integrazione nei suoi insegnamenti è un sogno inquietante che continua ad avere in cui gli viene detto da un angelo: "La tua intenzione è gradita (kavvanatekha retsuyah) a Dio, ma la tua l'azione (ma’asekha) non è gradevole".[36] Questo è preoccupante per il re perché soleva essere "molto zelante (zaheer m’od) nell'obbedire ai comandamenti (mitzvot) della religione cazara".[37] Pertanto, il suo compito è di correlare pensiero e azione in modo veramente soddisfacente. Poiché l'intenzione come pensiero diretto è in definitiva una questione filosofica, è logico che la prima persona che il re consulta nella sua ricerca sia un filosofo. Poiché sembrerebbe che un filosofo, che meglio comprende la vera finalità dell'intenzione, che è la conoscenza di Dio come l'assoluto, dovrebbe meglio insegnare al re come rendere la sua azione coerente con il pensiero. Ciò che viene qui affrontato è la classica questione filosofica della giusta relazione tra eccellenza pratica ed eccellenza teorica, cioè la connessione tra verità e bene. Ciò è particolarmente importante in quanto l'interrogante è un re, un uomo che ha responsabilità politica. In effetti, sembrerebbe che Ha-Levi avesse in mente l'ideale platonico del re-filosofo quando sviluppò questo personaggio nel suo dialogo.[38]

Tuttavia, la risposta del filosofo al re è molto deludente. Poiché limita la scelta umana intelligente a optare per la vita contemplativa, cioè "scegliere (li-vhor) sempre (tamid) (li-vkor) la verità".[39] Quanto alla vita activa, dice semplicemente: "Non ti preoccupare (al tahush) con che mezzi tu adori Dio".[40] Quanto alla moralità in sé, egli consiglia semplicemente "conduci te stesso, la tua famiglia e la tua terra con buone qualità (be-middot tovot)".[41] Stando così le cose, il filosofo non ha correlato pensiero e azione; ha, piuttosto, reso l'azione quasi arbitraria. Ma se va bene qualsiasi ragionevole linea di condotta, allora perché l'attuale linea di condotta pagana del re è inaccettabile? La sua intenzione – la sua ricerca filosofica – non è forse qualcosa che dovrebbe già rendere accettabile la sua azione?

Questa incapacità di correlare l'eccellenza pratica e quella teorica è un particolare difetto della filosofia aristotelica. Lo stesso Aristotele indicò semplicemente che coloro che sono veramente coinvolti nella vita contemplativa sono così lontani dalle preoccupazioni della vita umana ordinaria nella società da essere inutili politicamente.[42] Tuttavia, per Platone, c'è l'insistenza che in un modo o nell'altro i veri filosofi possono anche essere leader politici efficaci. Nei suoi momenti più ottimistici, Platone insiste sul fatto che l'efficacia politica dei filosofi non è solo malgrado la loro preoccupazione contemplativa, ma proprio per questa.[43] Tuttavia, sebbene Platone enfatizzi il carattere razionale della filosofia, deve ammettere che la realizzazione della visione della politica filosofica avverrà solo attraverso una "qualche ispirazione divina".[44] Solo il fattore divino, il tertium quid, per così dire, può assicurare che ci sarà una situazione umana in cui l'eccellenza pratica e l'eccellenza teorica saranno pienamente correlate. Ma, ahimè, Platone non fu mai in grado di vedere realizzata una tale correlazione.[45]

Con questo in mente, possiamo ora apprezzare il rifiuto da parte di Ha-Levi della filosofia per l'inadeguatezza nell'affronater la vita umana più piena con Dio e l'uomo. A questo proposito dice: "Considerando le azioni dei filosofi e considerando la loro conoscenza, considerando la loro ricerca della verità (dorsham et ha’emet) e considerando il loro sforzo personale (hishtadlutam) in questa materia, avrebbe dovuto essere il caso (min hara’ui) che la profezia divenisse manifesta e presente tra loro a causa del loro attaccamento alle cose spirituali (ha-deveqim be-ruhaniyyim)".[46] Ora, perché è un'autocontraddizione dei filosofi che non sono mai diventati profeti? È la profezia a cui tendono i loro sforzi? La risposta è no, se l'intento dei filosofi è quello di essere filosofi alla maniera di Aristotele, cioè filosofi che si occupano realmente solo della vita contemplativa. Ma se l'intento dei filosofi è quello di essere filosofi nello stampo di Platone, cioè coloro che si sforzano di unificare il teorico e il pratico, allora la risposta è sì. Perché, come Maimonide sottolineò meno di un secolo dopo, seguendo in gran parte l'arabo platonico Al-Farabi, il profeta è colui che combina in modo più completo l'eccellenza teorica e pratica ed è in grado di utilizzare questa combinazione integrale per governare al meglio.[47]

Lo stato soprannaturale di Israele[modifica]

Sefer ha-Kuzari, frontespizio della versione in ebraico (1594), in formato PDF sfogliabile, Biblioteca Nazionale di Israele

Anche se il vero e buon compimento della vita umana è la profetica combinazione di teoria e pratica, questa combinazione è più della sintesi di questi due elementi umani. La profezia è una realtà, non solo un catalizzatore, ed è una realtà che deve provenire da una fonte sovrumana ed essere operativa in un reame soprannaturale.[48] Nel costituire questo reame soprannaturale, Ha-Levi traccia una progressione dal livello della natura (intesa come minimo indispensabile della vita sulla terra) al livello dell'animato (inteso come quegli esseri viventi che possiedono la locomozione) al livello del razionale (ha’inyan ha’sikhli). È interessante notare che ciò che caratterizza il reame razionale non è la ragione teorica ma pratica.[49] Infine, c'è il livello della presenza divina (ha’inyan ha’elohi). Questo livello è la conoscenza del governo divino dell'universo, ed è una questione che può venire solo da Dio stesso.[50] È qualcosa che è dato ai profeti qua profeti, ma non qualcosa che i profeti come esseri umani potrebbero mai avere scoperto da sé o addirittura dedotto dai dati del mondo ordinario.

Il livello della presenza divina è qualcosa che è, quindi, separato da ogni altra cosa al mondo, anche il mondo che può essere appreso dai livelli più alti della ragione umana. In effetti, questo livello era lo stato originale degli esseri umani al momento della loro creazione. Così, citando le parole di Genesi 1:28, "Noi facciamo l'uomo a nostra immagine (be-tsalmenu) e a nostra somiglianza", Halevi affronta l'ovvia domanda su chi siano i "noi" a cui si riferisce la Scrittura nella creazione degli esseri umani. La sua risposta che il "noi" si riferisce a Dio e agli angeli ha precedenti rabbinici, ma il suo uso di quel precedente è più che una semplice ripetizione della tradizione.[51] È ricontestualizzato nell'edificio della propria teologia:

« Ciò significa: Io sono colui che ha reso la creazione gerarchica (she-higdarti et ha-yetsirah) e ho seguito la disposizione della sapienza dagli elementi primari ... a quegli esseri che possiedono sensi acuti, sensi e istinti meravigliosi. Ora non c'è un livello più alto di quello tranne il livello (madregah) che è vicino alla classe divina-angelica (ha-sug ha’elohi-ha-mal’akhi). Così Dio creò l'uomo nella forma (be-tsurat) dei Suoi angeli... al loro rango. »
(Kuzari, 4.3, p. 162.)

Tuttavia, anche se questo fu l'inizio della creazione umana, quando l'uomo ebbe il privilegio di una connessione diretta con Dio e la Sua volontà, la trasmissione di questa connessione con il divino non fu patrimonio di tutti i figli di Adamo. Ha-Levi fa notare che in ogni generazione successiva solo pochi privilegiati ricevettero la sapienza divina.[52] Tuttavia, quando i figli di Giacobbe si costituirono come popolo, la Presenza Divina (ha’inyan ha’elohi) divenne patrimonio di un intero gruppo, gruppo che fu costituito per conservarLa come realtà spirituale e politica, nel mondo ma non del mondo.[53]

Il punto importante da notare qui è che Ha-Levi non considera l'elezione stessa — cioè il punto della storia in cui Israele riceve la rivelazione da Dio — come l'origine del rapporto unico di Israele con Dio. La sua unicità non è puramente relazionale, come lo è per la Scrittura e i rabbini. Invece, la sua unicità è sostanziale. Cioè, Israele ha già un potenziale divino. Quello che fa l'evento della rivelazione è attualizzare quel potenziale rendendo tutto il popolo profeti (almeno per il momento sul Monte Sinai). A differenza della Scrittura e dei rabbini, Ha-Levi identifica l'elemento in Israele in virtù del quale fu scelto da Dio:

« E ti dirò la nobiltà di questo popolo ... Poiché Dio lo ha scelto (otam bahar) per essere un popolo e una nazione distinti (mi-bayn) da tutte le nazioni del mondo. E questo perché (ve-khi) la presenza divina dimorava (hal) nella moltitudine di loro così che tutti erano atti (r’uyyim) ad ascoltare la parola divina ... ma prima di loro [nella storia] la presenza divina si verificò solo in quegli individui ai quali questo speciale tesoro (segulah) era passato dal primo uomo. »
(Kuzari, 1.95, p. 31)

Quindi non è una mera possibilità che si realizza al Sinai. Perché quella possibilità non contiene la propria realizzazione; una possibilità, infatti, è dedotta retroattivamente solo dopo l'evento in cui si realizza. Ma nel caso di Israele, è il suo potenziale divino che si sta realizzando; ed è certamente un potenziale divino di cui è sempre stato consapevole. Una tale potenzialità può avere una sola attualizzazione, così come una tale attualizzazione può avere una sola potenzialità.59 L'evento del Sinai è il momento in cui Israele entra nella sua stessa unicità sostanziale. Inoltre, ciò significa che l'uso da parte di Ha-Levi del termine "scelta" (behirah) deve essere preso metaforicamente. Poiché, come abbiamo visto, una vera scelta comporta due o più opzioni reali davanti all'elettore. Ma se è così, quali altre opzioni aveva Dio, dal momento che la potenzialità divina di Israele fa già parte dell'ordine creato? Dato che, come abbiamo visto, le opzioni di Dio sono solo logiche e sono solo opzioni prima e non dopo la creazione. Pertanto, la "scelta" di Israele da parte di Dio non è tanto una scelta quanto un'inevitabilità della creazione, il culmine di ciò che è iniziato con la Sua volontà primordiale e assoluta al momento della creazione del mondo. Dopo quel tempo, però, non ci sono più possibilità, nemmeno per Dio, cioè se si segue coerentemente l'ontologia che Ha-Levi impiega nella sua teologia.[54]

Ciò a cui porta questa designazione della sostanziale unicità di Israele è che Ha-Levi deve ora costituire il popolo ebraico come una specie essenzialmente separata dal resto dell'umanità. Pertanto, quando il re chiede al saggio perché Dio non ha dato la Torah a tutta l'umanità, il saggio risponde che sarebbe come chiedere agli animali di avere il potere della parola.[55] In altre parole, a causa della specifica superiorità degli esseri umani sugli animali, ciò che è appropriato per le specie superiori è altrettanto inappropriato per le specie inferiori. Poi prosegue:

« Come ti ho detto, la presenza divina era con un individuo in ogni famiglia, che era quello con più potenziale (gar’in) tra i fratelli e che aveva il tesoro ancestrale (u-segulat ha’av) ... finché non vennero i figli di Giacobbe, tutti i quali erano una potenzialità e un tesoro, ed erano separati dal resto dei figli dell'uomo, avendo caratteristiche divine (be-tekhunot elohiyot) così che tutti loro furono fatti come se (k’ilu) fossero membri di un'altra specie (min aher), quella angelica (mal’akhi). »
(Kuzari, 1.103, p. 39. Cfr. ibid., 3.17)
Rabbi Aryeh Levy con suo nipote presso la tomba del Rashbi a Meron (2004)

Quindi non è un rapporto storico (la storia non è altro che la somma totale di tutti i rapporti personali che sono stati trasmessi) che contraddistingue Israele. È la sua attualizzazione come entità separata e distinta dal resto dell'umanità, che a sua volta può solo elevarsi al livello della ragione, cioè diventare filosofi. Israele può produrre più dei filosofi: può produrre profeti, perché è essenzialmente soprannaturale.

Dunque, sembra esserci un importante precedente rabbinico per questa conclusione teologica apparentemente radicale di Ha-Levi. È importante per noi esaminarlo ora per vedere quanto sia vicino alla costituzione teologica della natura di Israele formulata da Ha-Levi.

"Rabbi Simon ben Yohai dice che le tombe dei gentili non causano contaminazione in un recinto (einan metam’ain b’ohel) come afferma la Scrittura: ‘Voi, mie pecore, siete il gregge del mio pascolo, siete uomini (adam atem)’ (Ezechiele 34:31): voi siete chiamati uomini, ma i gentili non sono chiamati uomini".[56] Nel contesto del brano originale di Ezechiele, il significato di ciò potrebbe benissimo essere: anche se Israele ha un rapporto molto speciale con Dio, deve comunque riconoscere di essere sempre umano e mai divino. Adam nell'ebraico biblico il più delle volte è usato per ricordare agli esseri umani che nutrono illusioni della propria invulnerabilità, che sono sempre creature umili rispetto a Dio.[57] Nel caso di Israele, è per ricordargli che la sua elezione non lo rimuove dallo stato di creatura parte di tutta l'umanità. Ma nel contesto del passo rabbinico appena citato, adam è considerato un termine di elevata differenziazione. Israele, quindi, ha uno status sostanziale unico.

A questo punto, però, è bene ricordare che l'affermazione di R. Simon ben Yohai è fatta in chiave halakhica, non teologica. Di conseguenza, si dovrebbe anche ricordare il principio rabbinico dell'esegesi halakhica che postula: "Un principio generale (kelal) è limitato all'esempio specifico (perat) che caratterizza".[58] Nel caso in esame, ciò significa che la differenza sostanziale proposta da R. Simon ben Yohai si limita a certe questioni di purezza e impurità religiosa. L'affermazione può essere interpretata nel senso che le questioni relative alla purezza religiosa sono unicamente ebraiche e, pertanto, ebrei e gentili devono essere considerati essenzialmente diversi — almeno in questo contesto.[59] Ma anche se il punto di vista di R. Simon ha un significato più ampio, si deve ricordare che egli insegnava al culmine della persecuzione romana degli ebrei e dell'ebraismo, e che la sua visione generalmente negativa dei gentili è ben evidenziata.[60] Di conseguenza, la sua affermazione può essere in una certa misura storicamente qualificata.

Sembrerebbe, tuttavia, che Yehuda Ha-Levi teologicamente avesse un punto di vista abbastanza simile al punto di vista di R. Simon ben Yohai, cioè Israele è una specie separata e distinta dal resto dell'umanità.[61] Ma c'è un'aggiunta considerevole. Tale aggiunta è dovuta alla mediazione della filosofia nella teologia di Ha-Levi.

Si ricorderà che l'utilità della filosofia per i teologi è duplice: nell'area della ragione teorica, e nell'area della ragione pratica. Nell'area della ragione teorica, il servizio della filosofia alla teologia consiste nell'affermare in modo convincente Dio come l'assoluto e aiutarci a rimuovere qualsiasi antropomorfismo letterale dal nostro discorso religioso. Quando Ha-Levi tratta l'argomento di ciò che oggi chiamiamo "discorso di Dio", impiega prontamente la ragione filosofica qua metafisica.[62] Nell'area della ragione pratica, il servizio della filosofia alla teologia consiste nell'affermare in modo convincente una moralità del diritto naturale, che cioè, riconosce che ci sono alcune strutture politiche essenziali necessarie per una società degna di fedeltà (alleanza) umana integrale, e che queste strutture sono note alla ragione umana ordinaria (cioè nonprofetica, persino nonmetafisica).[63]

Ciò che fa la teologia, poiché si basa sulla rivelazione soprannaturale, è duplice. In primo luogo, aggiunge una dimensione completamente nuova e superiore sia alla vita contemplativa che alla vita activa. In secondo luogo, fornisce dettagli specifici sia su Dio che sulla moralità, che la ragione umana da sola, confinata com'è alle generalità, non può ottenere da sé.[64] Così la filosofia fornisce un piano per la teologia, per così dire. Indica il limite inferiore al di sotto del quale la teologia non può spingersi in modo convincente; ma non fornisce un tetto per la teologia, un limite superiore. Le altezze a cui può elevarsi la teologia sulle ali della rivelazione non sono trattenute da alcuna gravità filosofica.

Per questo motivo, Ha-Levi non può sostenere che gli ebrei possiedano una superiorità teorica o morale intrinseca sul resto dell'umanità.[65] La virtù sarà ricompensata da Dio quando viene dimostrata da qualsiasi essere umano.[66] L'unica cosa che può sostenere è che la profezia, il collegamento più immediato possibile tra il divino e l'umano, è unico per Israele. Sulla base di questa sostanziale differenziazione di Israele dal resto dell'umanità, egli sostiene anche che, come qualsiasi altra natura unica, Israele richiede condizioni ambientali speciali per realizzare il suo potenziale intrinseco, nel suo caso il potenziale della profezia. È così che assegna uno status speciale e sostanziale alla Terra d'Israele.[67] E, se la profezia è qualcosa che tutti gli ebrei cercano intrinsecamente, allora è logico che alla fine del dialogo in Kuzari, il saggio si congedi dal re dei Cazari e parta per la Terra d'Israele, l'unica terra per natura (cioè soprannatura) in cui i profeti possono profetizzare — una dipartita che lo stesso Ha-Levi avrebbe replicato personalmente alla fine della propria vita, morendo alle porte di Gerusalemme.[68]

C'è un altro fattore nella teologia dell'elezione di Ha-Levi che fa sembrare la separazione di Israele dalle altre nazioni una forma di misantropia. Tale fattore è il confronto che Ha-Levi fa – da bravo medico che era – tra la relazione di Israele con le nazioni e la relazione del cuore con il resto del corpo. Sostiene che proprio come il cuore sente più intensamente il dolore del resto del corpo, così Israele sopporta più intensamente i dolori del mondo.[69] Quindi la sua sofferenza in questo mondo non è solo la sua particolare sorte storica; ha un significato cosmico. (E ha anche l'effetto di purificarla dai membri spiritualmente meno adatti del popolo.[70]) Inoltre, Ha-Levi vede che la presenza di Israele tra le nazioni ha anche un effetto storico definitivo su di loro. La sua analogia biologica (il suo tipo preferito) è quella di un seme piantato in elementi estranei, che nella sua continua crescita trasforma in sé tali elementi estranei.[71] In questo processo, Halevi come Maimonide dopo di lui assegna uno speciale ruolo di mediazione alle due religioni "figlie" dell'ebraismo: cristianesimo e islam.[72]

Il Kuzari fu scritto non solo come difesa dell'ebraismo, ma anche come argomentazione a suo favore. Il punto letterario del dialogo tra il saggio ebreo e il re è convincere il re ad accettare l'ebraismo come l'unica soluzione sufficiente al suo dilemma umano di come vivere una vita coerente sia con Dio che con i suoi simili, e che il re possa crescere nel suo status ebraico appena acquisito. E, seguendo questa linea letteraria, la teologia del libro vede il culmine della storia nella totale conversione dell'umanità all'ebraismo. Ma se questo è davvero il caso, non è del tutto strano che anche Ha-Levi insista sul fatto che i convertiti, per quanto sinceri e perspicaci, non possono raggiungere essi stessi il livello della profezia, che è l'attrazione umana unica del popolo ebraico? Il meglio che possono ottenere, secondo Ha-Levi, è diventare saggi (hakhamim).[73]

La risposta a questo dilemma è, credo, collegata alle opinioni di Ha-Levi sulla scelta discussa sopra. Si ricorderà che Dio non "sceglie" realmente nel modo in cui lo fanno gli esseri umani. Gli esseri umani tuttavia scelgono. Nel suo dialogo, Ha-Levi fa dire al filosofo di "scegliere la verità".[74] Quanto alla pratica umana, questo stesso filosofo parla della desiderabilità dell'inventiva umana, che è un riconoscimento del ruolo più innovativo della ragione pratica e delle sue scelte di quanto non accada nella ragione teorica (un punto più ampiamente sviluppato più avanti nella storia della filosofia da Kant).[75]

Ora, è proprio il fatto che la scelta sia un atto così umano da far minimizzare ad Ha-Levi il suo legame con la presenza divina (ha’inyan ha’elohi) che contraddistingue Israele. Perché anche se, come abbiamo visto nel Capitolo precedente, i convertiti non si eleggono da soli come ebrei, ma sono eletti da un tribunale rabbinico che agisce, per così dire, in loco Dei, c'è ancora più scelta nel loro essere ebrei di quanto non avvenga con coloro che sono nati ebrei.83 Possono essere convertiti solo se prima scelgono di convertirsi. Quindi, se l'alleanza fosse essenzialmente una questione di volontà umana, allora sembrerebbe che i convertiti dovrebbero avere una condizione più elevata rispetto agli ebrei nativi. Tuttavia, l'alleanza è una questione di volontà divina e solo una di conferma umana di tale volontà precedente da parte di Dio.[76] Perciò, i convertiti sono visti come se fossero "nati di nuovo"; gli ebrei nativi, al contrario, non sono visti come se avessero scelto di essere ebrei, cioè come se fossero convertiti. Ecco perché, a quanto pare, la progenie dei convertiti, ma non i convertiti stessi, alla fine possono diventare profeti. Perché sono già diventati parte del corpo di Israele, mentre i loro genitori sono ancora solo innestati su di esso.[77] Questo dovrebbe sfatare l'idea che la teologia di Israele proposta da Ha-Levi abbia implicazioni "razziste", almeno nel senso moderno di quel termine negativo. Una teologia razzista non potrebbe affatto tollerare l'istituzione della conversione.[78]

Distintività relazionale o sostanziale[modifica]

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An Allegorical Wedding(da destra a sinistra), di Ephraim Moses Lilien (1906)

Abbiamo visto che Ha-Levi pone notevole enfasi sulla sostanziale particolarità del popolo ebraico. Ho anche separato il carattere distintivo sostanziale dal carattere distintivo relazionale, quest'ultimo essendo quello che ritengo l'autentico insegnamento biblico-rabbinico. Ma qual è la differenza tra i due? Questo è importante da determinare prima di concludere questa riflessione sulla teologia dell'elezione di Ha-Levi, mostrando i miei principali problemi teologici e filosofici al riguardo.

In una situazione di distintività relazionale, la distintività dei partecipanti alla relazione ha senso solo nel contesto della relazione stessa. L'esempio migliore è il matrimonio, che è un modello che svolge un ruolo regolare sia nell'insegnamento biblico che in quello rabbinico. In un matrimonio profondamente vissuto dai partecipanti, il marito e la moglie credono di essere stati scelti e di scegliere in modi unici, modi che hanno un significato al di là della mera esperienza di un uomo e di una donna. L'uno per l'altro, lui è l’uomo e lei la donna. Inoltre, in questa situazione profonda, il marito e la moglie si pongono l'un l'altro esigenze molto speciali, richieste che sarebbero del tutto irragionevoli se estese al di fuori della propria comunione. Ma nei loro rapporti con il mondo esterno, lui è solo un uomo e lei è solo una donna.[79]

Così è con il rapporto di alleanza tra Dio e il popolo ebraico. In questa comunione, quando i partecipanti vivono in mutua presenza, Dio è il Signore (YHWH) e il popolo ebraico è Israele, entrambi nomi propri unici. Ma in relazione al resto del mondo, Dio è la più alta potenza e autorità (elohim), la cui distinzione dalle altre potenze e autorità nel mondo è di grado, non di specie.[80] Quanto a Israele, in questa relazione è solo un popolo tra tanti. In altre parole, il carattere distintivo sia del Signore che di Israele non può essere stabilito da alcun criterio esterno. Non è qualcosa che possa essere dimostrato empiricamente a uno spettatore non coinvolto. Tertium non datur.

Tuttavia, Ha-Levi vuole sostenere che la particolarità di Israele è dimostrabile empiricamente. Individua quella particolarità nel fenomeno della profezia. Tuttavia, ha un problema empirico. Dove sono oggi i profeti ebrei? E, inoltre, gli ebrei sembrano essere più santi degli altri popoli?

Poiché la profezia ha cessato da tempo di manifestarsi in Israele, Ha-Levi deve basare le sue attuali affermazioni sull'ebraismo sulla tradizione dei profeti.[81] Quindi scrive:

« Nessuno in nessun luogo può avvicinarsi a Dio, sia Egli esaltato, se non per mezzo dei comandamenti di Dio, sia Egli esaltato. E non c'è accesso (mav’o) alla conoscenza dei comandamenti di Dio se non attraverso la profezia (be-derekh ha-nevu’ah), ma non per mezzo (at yedei) di ragione o opinione ... Quegli uomini che attraverso la tradizione (be-qabbalah) ci hanno consegnato questi comandamenti non erano individui solitari ma erano, piuttosto, una grande assemblea, tutti grandi saggi, che la ricevettero dai profeti. Ma in assenza di profezia (u-ve-he'ader ha-nevu’ah), l'hanno ricevuta da coloro che portano la Torah... Dai giorni di Mosè la tradizione non è mai cessata in Israele. »
(Kuzari, 3.53, pp. 139-140)

Se, però, in Israele non c'è più profezia immediata ma solo tradizione mediata, allora in che modo il popolo ebraico è diverso da qualsiasi altra comunità religiosa fondata sulla rivelazione, cioè in che modo è diverso dai cristiani e dai musulmani? Se tutto ciò che ci rimane sono le tradizioni della rivelazione profetica, allora il cristianesimo e l'islam non hanno forse tradizioni della rivelazione profetica coerenti quanto la tradizione degli ebrei? In altre parole, dov'è la dimostrabile superiorità dell'ebraismo su cristianesimo e islam? Anche l'argomentazione precedente che cristianesimo e islam basano le loro affermazioni su una precedente rivelazione ebraica non è molto conclusivo, in quanto sia il cristianesimo che l'islam affermano che le loro rispettive tradizioni sono più vicine all'essenza della profezia originale di quanto non lo sia la tradizione ebraica. Dal momento che gli ebrei fanno le stesse affermazioni per la propria tradizione, e tutto ciò che abbiamo sono tradizioni, non c'è quasi alcun modo per dimostrare quale tradizione sia vera o anche più vera delle altre. Solo una rivelazione immediata potrebbe risolvere questo problema, e come Ha-Levi ammette a proposito della sua epoca, citando la Scrittura stessa, "nessuna visione (hazon) è sorta" (1 Samuele 3:1).[82] Solo una religione pagana come l'induismo, senza un autorevole libro rivelato e quella che sembra (almeno a ebrei, cristiani e musulmani) una tradizione incoerente, risulta essere meno plausibile al confronto.[83] Pertanto, il Kuzari ha solo mostrato realmente che le religioni basate sulla rivelazione e sulla tradizione, essendo forme di sapienza divina, sono superiori alla filosofia, che è una forma di saggezza umana, nel mettere in relazione gli uomini con Dio (la preoccupazione teorica) e gli uomini tra loro (la preoccupazione pratica). Perché, a differenza delle religioni pagane, queste religioni di rivelazione e tradizione incorporano tutti i veri punti di forza della filosofia e poi li trascendono. Tuttavia, Ha-Levi non ha dimostrato la superiorità dell'ebraismo, che è dopo tutto l'intento originario della sua opera teologica. Ha solo dimostrato la superiorità religiosa della religione rivelata di per sé sulla filosofia metafisica.[84] (E in un'epoca come la nostra, in cui la maggior parte dei filosofi ha da tempo perso interesse per la "questione di Dio", le argomentazioni di Ha-Levi hanno un suono in gran parte antiquario.)

Infine, riguardo alla questione della palesemente maggiore santità degli ebrei, Ha-Levi sa bene che ciò non può essere dimostrato; in effetti, è dubbio che possa essere creduto anche da chiunque tranne che da uno sciovinista, cosa che egli certamente non era. Inoltre, poiché la profezia ha cessato da tempo di funzionare, Ha-Levi vede il peso della religione gravare su coloro che collettivamente possono essere definiti "i santi" (he-hasid). Sono quelli che sono appena al di sotto del livello dei profeti, quelli che il Talmud descrive come in grado di udire "l'eco celeste" (bat qol).[85] Non solo sono i veri capi di Israele, ma in realtà Ha-Levi dice su di loro che sono esemplificati

« ...dall'uomo (adam) che afferma (ha-modeh) queste cose con completa apprensione (hakarah gemurah), egli è il vero (amiti) israelita. Ed è giusto che aspiri ad unirsi (le-hitdabqut) alla presenza divina. Lui solo (rag) è unito ai figli d'Israele come distinto dal (mi-bein) il resto delle nazioni. »
(Kuzari, 3.17, pp. 113-114)

Tuttavia, il cristianesimo e l'islam non possono fare le stesse identiche affermazioni sui loro saggi e santi? E, a differenza dei filosofi, che secondo Halevi funzionano sempre come individui isolati, questi "santi" – siano essi ebrei, cristiani o musulmani rispettivamente – non formano comunità sacre, che fanno fisicamente parte del più ampio corpo religioso, ma a tutti gli effetti e scopi spiritualmente separati da esso?[86] Non è questo, dunque, il problema insormontabile del tentativo di Ha-Levi di conferire al popolo ebraico lo status di sostanza separata in senso ontologico?[87]

Indifferenza di Maimonide alla distintività[modifica]

Maimonide, raffigurato su un francobollo israeliano del 1953
Per approfondire, vedi Serie maimonidea.

Nonostante abbia fatto più di chiunque altro nella storia per rappresentare la legge e la teologia ebraiche, e nonostante sia stata la personalità postbiblica più venerata dal popolo ebraico, Maimonide non ha assegnato alcuno status ontologico speciale al popolo ebraico.[88] Per questo, egli non costituì teoricamente la dottrina dell'elezione di Israele, anche se la menzionava quando la sua rappresentazione della tradizione stessa lo richiedeva.[89] In altre parole, faceva parte della tradizione che egli aveva ricevuto, ma non faceva parte della tradizione che scelse di costituire teologicamente. In questa sezione, dobbiamo scoprire perché e come Maimonide giunse a porre così poca enfasi sulla dottrina dell'elezione. Perché nessuna discussione completa di qualsiasi dottrina ebraica può ignorare ciò che ha detto Maimonide — o anche ciò che non ha detto. Infine, cercherò di argomentare proprio perché la posizione di Maimonide è ancora meno difendibile oggi di quanto non lo fosse ai suoi tempi.

Nonostante il fatto che Maimonide e Ha-Levi siano generalmente visti come opposti su quasi tutte le questioni dell'ebraismo, entrambi accettarono la nozione platonica e aristotelica dell'eternità di Dio. Per questo entrambi possono attribuire la volontà a Dio, ma nessuno dei due è disposto ad attribuire a Dio la scelta perché, come abbiamo visto, la scelta presuppone non solo che Dio sia la causa del reame temporale, ma che Dio vi entri effettivamente, sia per realizzarlo che per esserne realizzato dall'interno.[90] Dopo questo accordo generico, il disaccordo specifico tra loro è che Ha-Levi vede il popolo di Israele come un'entità unica, dotata di tutte le eccellenze della natura umana più eccellenze che non possono provenire dalla natura umana. E poiché la Torah è ciò che viene loro data per il loro stesso bene, anch'essa condivide questo status unico nell'ordine cosmico creato da Dio. C'è una differenza di tipo tra Israele/Torah e il resto della creazione. Per Maimonide, la differenza tra la Torah e il popolo ebraico da un lato e il resto della creazione – in particolare l'umanità creata – dall'altro, è di grado, non di tipo.[91] Concentrandosi su questo disaccordo ontologico tra Maimonide e Ha-Levi per quanto riguarda la questione dell'elezione, possiamo vedere come il ruolo che ciascuno assegna alla scelta stessa determini in gran parte perché Israele ha uno status speciale per l'uno che non ha per l'altro.

Sia per Ha-Levi che per Maimonide, la scelta è qualcosa che caratterizza la condizione umana più di ogni altra cosa. Gli esseri umani, essendo persone intelligenti soggette alle esigenze del tempo, sono quindi tenuti a fare delle scelte.[92] Non c'è modo che possano sfuggire a tale fardello, almeno in questo mondo. Ma per Ha-Levi, come abbiamo visto, la condizione del popolo ebraico non è una questione di scelta proprio perché è qualcosa creato per loro da Dio. Gli ebrei, sia collettivamente che individualmente, non hanno più scelta di essere ebrei di quanto qualsiasi altra specie abbia una scelta di essere ciò per cui è stata creata. Avendo la libertà umana, tuttavia, l'unica scelta che gli ebrei hanno è pretendere di essere qualcosa che non sono, cioè agire (ma non essere) contrario al loro status creato. Ecco perché, come abbiamo anche visto, i convertiti non diventano pienamente parte di Israele nella loro stessa generazione solo perché la loro ebraicità (diversa dalla loro adozione dell'ebraismo) è ancora troppo una questione di loro volontà.

Tuttavia, la scelta umana gioca un ruolo più importante nella teologia di Maimonide perché l'inizio primario del rapporto tra Dio e l'uomo in questo mondo è più umano che divino. Questo emerge in un illuminante responsum di Maimonide.

Il Talmud discute la precisa formulazione della benedizione da recitare al mattino prima di iniziare lo studio della Torah, che a sua volta è considerata un'esigenza quotidiana. Vengono proposte tre formulazioni, la seconda delle quali loda Dio come Colui che "insegna (ha-melamed) la Torah al suo popolo Israele".[93] La conclusione del redattore finale del testo è che tutte e tre le formulazioni devono essere recitate. Ma Maimonide sostiene su basi puramente teologiche che questa seconda benedizione non va recitata "perché Dio non ce l'ha insegnata [la Torah], ma ci ha comandato di studiarla e insegnarla. Ciò deriva da una radice fondamentale della nostra religione (banui al iqqar dattenu), vale a dire, l'adempimento dei comandamenti è nelle nostre mani, che non è qualcosa imposto (be-hekhreh) su di noi da Dio né di farlo né di non farlo".[94]

Ora, sembra che Maimonide operi qui con una nozione di azione molto aristotelica.[95] Vale a dire, si devono vedere quattro principi all'opera in ogni azione umana intelligente. Questi quattro principi sono diventati noti come: (1) la causa materiale; (2) la causa efficiente; (3) la causa formale; e (4) la causa finale. Nel caso di un comandamento della Torah – specialmente se centrale come lo studio della Torah – l'azione da compiere può essere scomposta come segue: (1) la causa materiale è il contenuto del comandamento come ricevuto dalla tradizione; (2) la causa efficiente è la persona che sceglie di compiere questo specifico atto; (3) la causa formale è la relazione anticipata con Dio come originariamente data nella rivelazione profetica; (4) la causa finale (telos) è la relazione attualizzata con Dio.[96] Tenendo presente questo schema, possiamo ora vedere che la scelta di eseguire il comandamento – di compiere l'atto – è la scelta da parte dell'attore stesso di un mezzo per un fine anticipato. Il comandamento viene sia da Dio (min ha-shamayim) sia per amore di Dio (le-shem shamayim).[97] Ma l'atto stesso può essere compiuto solo per libera scelta della persona umana a cui e per il quale è affrontato. In altre parole, la scelta effettiva può essere solo umana e non divina. La causa efficiente, in contrasto con le altre tre cause, è sempre l'uomo e mai Dio. Ecco perché Maimonide insiste sul fatto che nulla nella Torah può essere visto in contraddizione con il primato della scelta per gli umani. Tutto ciò che sembra farlo deve essere spiegato in senso figurato, non letterale.[98]

Questa visione dell'azione umana è coerente con la visione generale della rivelazione da parte di Maimonide. Dunque, inizialmente, qualsiasi discussione sulla rivelazione deve sottolineare che si tratta essenzialmente di un evento. Succede in un momento preciso in un luogo preciso. La domanda è: per chi la rivelazione è un evento? Per molti teologi ebrei, la rivelazione è un evento sia nella vita di Dio che nella vita di Israele. È solo con questo concetto di rivelazione che si può costituire la rivelazione come fondamento di una relazione di alleanza tra Dio e il Suo popolo. Di conseguenza, c'è una storia nella loro relazione reciproca, e quella storia è qualcosa che entrambe le parti condividono insieme. Dio appare al popolo per eleggerlo, e da questo evento emerge la struttura e il contenuto dell'alleanza — la Torah. Ma per Maimonide questo non può essere il caso perché Dio non ha una vita nel senso di un continuum temporale. Pertanto, non ci sono eventi nella "vita" di Dio. La Torah, quindi, è essenzialmente un'espressione della verità eterna di Dio. È qualcosa che coloro che sono benedetti con l'esperienza profetica scoprono in un determinato momento in un determinato luogo. L'evento della rivelazione, in quanto distinto dal suo contenuto effettivo, è un'esperienza umana, non divina.[99]

Per questo motivo Maimonide, a differenza di Ha-Levi, non può limitare la profezia a Israele. La profezia è una possibilità della stessa natura umana.[100] È qualcosa che dovrebbe idealmente seguire dopo il pieno esercizio del raziocinio da parte degli umani, sebbene anche Maimonide debba ammettere che c'è un fattore di grazia implicato in questa visione finale della verità.[101] Tuttavia, ciò che è necessario (sebbene mai del tutto sufficiente) perché si verifichi questo stato elevato è il risultato di una serie di scelte razionali da parte di alcuni individui molto dotati. La profezia, per Maimonide, è chiaramente l'oggetto finale del desiderio razionale umano.[102] Tuttavia, sebbene la rivelazione profetica sia qualcosa che è, almeno in linea di principio, una propensione umana, egli è pur sempre un teologo ebreo impegnato nella superiorità dell'ebraismo sia alla filosofia in sé che alle altre due religioni della rivelazione: cristianesimo e islam.[103] Ma se tale superiorità è relativa piuttosto che assoluta (come lo è per Ha-Levi), allora, secondo Maimonide, con quale criterio la rivelazione ebraica deve essere preferita – cioè scelta – da persone razionali?

La risposta a questa domanda fondamentale emerge in questo testo centrale del suo capolavoro teologico, la Guida dei perplessi. Il testo riguarda la differenza essenziale tra una legge che può essere definita "divina" e una che può essere definita solo "umana".

« Se invece trovi (ke-she-timtsa) una Legge tutte le cui ordinanze sono dovute all'attenzione prestata, come è stato detto sopra, alla solidità delle circostanze relative al corpo e anche alla solidità della fede — una Legge che si sforza di inculcare opinioni corrette riguardo a Dio ... e che desidera (ve-hishtadel) rendere saggio l'uomo, dargli comprensione e risvegliare la sua attenzione, affinché conosca tutto ciò che esiste nella sua vera forma (al tekhunat ha’emet) — devi sapere che questa guida (ha-hanhagah) viene da Lui (me’itto) ... e che questa Legge è divina (elohit). »
(Guida dei perplessi, 2.40, pp. 38-384[104])

Ora, ogni legge tradizionale, in un modo o nell'altro, rivendica per sé un'origine divina. A questo proposito, la Torah ebraica non fa eccezione. Maimonide stesso codifica questa fondamentale affermazione ebraica nel settimo e nell'ottavo dei tredici dogmi che egli insiste siano indispensabili nell'ebraismo (il sesto dei quali è l'insistenza sulla realtà della profezia in sé).[105] Ma il fattore principale che costituisce una legge divina non è la sua fonte storica (quella che abbiamo visto funziona come causa materiale nella teoria dell'azione di Maimonide) ma il suo intento ultimo, la sua teleologia (quella che abbiamo visto anticipata come causa formale e attualizzata come causa finale).

Una legge divina, quindi, è la combinazione integrale di norme che inculcano l'eccellenza sia pratica che teorica. Solo quella combinazione può realizzare un'entità politica che sia veramente degna della natura umana razionale/sociale. Sottolineando questa possibile combinazione, Maimonide si è posto con Platone in opposizione ad Aristotele.[106] Perché, come abbiamo visto, Platone è convinto che la vita teorica, che riguarda essenzialmente Dio, e la vita pratica, che riguarda essenzialmente la società umana, possono essere uniti in una persona come in una comunità. Aristotele, d'altra parte, è altrettanto convinto che l'attenzione costante alla vita teorica sottrae all'arena della società umana. La persona teorica (il filosofo in sé) deve ancora rispettare la società come il luogo in cui la gente comune soddisfa i propri bisogni ordinari (e dove anche lei ha ancora alcuni di questi bisogni ordinari, per quanto minimi). Inoltre, deve apprezzare il fatto che senza prima avere l'eccellenza pratica, che controlla le passioni, è molto improbabile che la persona teorica sarebbe mai stata attratta dalla vita contemplativa e dalle sue preoccupazioni intellettuali in primo luogo. Tuttavia, nonostante questo rispetto e questo apprezzamento, la persona teorica non può essere veramente impegnata nella società.[107] Per cui, difficilmente potrebbe fungere da leader della società, che è il ruolo preciso che Platone assegna al filosofo e che Al-Farabi, Ha-Levi (mutatis mutandis) e Maimonide assegnano al profeta.

È in questo senso che Maimonide vede la superiorità dell'ebraismo. È superiore alla filosofia perché la filosofia non è in grado di combinare l'eccellenza pratica e teorica in nessuna società reale finora conosciuta. (Platone, va ricordato, fu un fallimento politico.) Ma la Torah è stata ed è la costituzione della vera e propria comunità degli ebrei, una comunità che aveva uno stato completo e che Maimonide sembra ritenere possa essere imminentemente ricostruito sotto circostanze politiche più favorevoli.[108] E l'ebraismo è superiore al cristianesimo e all'islam per i difetti teorici del primo e per i difetti pratici del secondo.[109] Il cristianesimo è teoricamente inferiore a causa della sua dottrina della Trinità, che compromette il puro monoteismo. E l'Islam è praticamente inferiore perché la sua legge non può essere all'altezza della Torah mosaica (quella Torah che i cristiani, al contrario, accettano come parola di Dio). Ma a causa delle affinità di queste due religioni "figlie" dell'ebraismo, i membri di entrambe sono candidati maturi alla conversione all'ebraismo. In effetti, come ho sostenuto altrove, Maimonide sembrava essere favorevole a una forma di proselitismo.[110]

Il primato della scelta umana[modifica]

Frontespizio della Guida dei perplessi di Maimonide
Frontespizio della Guida dei perplessi di Maimonide
 
Frontespizio miniato del Libro XII della Mishneh Torah di Maimonide. In fondo Mosè consegna le Tavole della Legge al popolo d'Israele
Frontespizio miniato del Libro XII della Mishneh Torah di Maimonide. In fondo Mosè consegna le Tavole della Legge al popolo d'Israele

A causa della loro associazione con la Torah, gli ebrei hanno una posizione umana privilegiata dal punto di vista di Maimonide. Ma questo è il loro unico privilegio.[111] È un privilegio che dipende quasi interamente dal fatto che facciano le scelte giuste. Per questo motivo si può apprezzare il ruolo preminente che Maimonide assegna al convertito, la persona il cui ebraismo (al contrario della sua ebraicità) è iniziato dalla sua scelta di diventare un candidato alla conversione.[112]

Questo primato può essere visto nella codificazione da parte di Maimonide della procedura talmudica per l'accoglienza dei convertiti.[113] Dopo aver ribadito la clausola del Talmud secondo cui il candidato alla conversione deve essere prima informato della precaria situazione politica degli ebrei (per scoraggiare coloro che potrebbero vedere la conversione come un qualche beneficio materiale), Maimonide percepisce che l'inizio dell'effettivo indottrinamento dell'aspirante convertito consiste nell'informarlo delle "radici fondamentali della religione (iqqrei ha-dat), vale a dire, l'unicità di Dio (yihud ha-shem) e la proibizione dell'idolatria."[114] Ora, non sembra esserci alcuna testimonianza manoscritta che suggerisca che Maimonide avesse una vera fonte letteraria per questa prescrizione, una che non appare nel testo del Talmud Babilonese come noi lo abbiamo oggi. Pertanto, è ragionevole presumere che sia il risultato della sua trasformazione teologica della Halakhah in questa importante situazione.[115] Inoltre, sembra contraddire la sua insistenza altrove che i primi due comandamenti del Decalogo, riguardanti l'accettazione della realtà di Dio (e con essa la Sua unicità) e la proibizione dell'idolatria, sono evidenti a qualsiasi persona razionale.[116] Se è così, allora perché li fa apparire qui come qualcosa di distintamente ebraico?

La trasformazione teologica della Halakhah da parte di Maimonide è evidente anche in un altro allontanamento dal testo del Talmud; di nuovo un'altra dipartita per la quale non sembra esserci alcuna prova manoscritta. Afferma che all'aspirante convertito deve essere detto: "sappi che il mondo a venire è riservato (tsafun) solo ai giusti e loro sono Israele".[117] Inoltre, questo sembra contraddire la designazione di Maimonide di il Mondo a venire come luogo in cui non solo i giusti d'Israele, ma anche quelli delle "nazioni del mondo" (hasidei ummot ha’olam) proveranno la loro beatitudine finale.[118] Comprendere il significato di queste due deviazioni dal testo tradizionale del Talmud ci aiuterà a capire meglio come le opinioni di Maimonide sul ruolo della volontà umana nel rapporto con Dio siano applicate nell'istituzione legale della conversione. Le risposte a queste domande ci aiutano a vedere quanto sia centrale la conversione volontaria nella costituzione teologica del popolo ebraico secondo Maimonide.

Quanto alla prima questione riguardante la fede nell'unicità di Dio e il divieto dell'idolatria, anche se questi sono atti che ci si può aspettare in linea di principio da tutti, sono atti che costituiscono il fondamento dell'intera Torah mosaica. È la Torah mosaica che dà espressione concreta a questi due principi. È la Torah mosaica che costruisce la società monoteistica più perfetta possibile in questo mondo.[119] Pertanto, anche se è possibile essere un monoteista gentile, è più che probabile che un gentile che vive in una società gentile sarà un monoteista nonostante la sua società, non grazie a questa. In altre parole, è molto più probabile che uno sia un monoteista coerente se vive in una società in cui il monoteismo permea ogni aspetto della vita comunitaria e individuale.

Per quanto riguarda la designazione del Mondo a venire solo per Israele, bisogna ricordare che questo viene detto a qualcuno che si sta convertendo all'ebraismo, qualcuno che è già un monoteista. Pertanto, non ha senso parlare a una persona del genere delle prospettive di salvezza ultraterrena per i monoteisti gentili. Se ciò fosse fatto, allora l'intera ragion d'essere della conversione all'ebraismo sarebbe così mitigata. In questa fase del suo sviluppo spirituale, l'aspirante convertito sta passando da una fase di monoteismo astratto e praticamente parziale a una fase di monoteismo concreto e praticamente completo. Per cui, è solo la scelta di essere inclusi in questa comunità e tradizione monoteistica completa che può essere affrontata. Ma qui come nel caso precedente, l'elemento della scelta è ciò che è centrale. In sostanza, al convertito viene detto dei fini per i quali si suppone che gli ebrei stessi si sforzino di realizzare. Si può quindi concludere che per Maimonide la volontà del convertito e la sua ultima intenzionalità sono i veri paradigmi del rapporto del popolo ebraico con Dio.[120]

L'approccio innovativo di Maimonide alla conversione può essere meglio compreso se lo confrontiamo con l'insegnamento rabbinico espresso nel testo talmudico che egli, in effetti, ha trasposto teologicamente. Perché in quel testo, dopo che il candidato alla conversione è stato informato della condizione precaria del popolo ebraico in questo mondo, la sua risposta ottimale è: "Io sono indegno" (eini ked’ai).[121] Ora, che razza di una risposta è quella? Sembrerebbe che il candidato debba accettare di essere indegno di essere scelto così come Israele è indegno di essere scelto. Infatti, la stessa frase compare in un midrash che parafrasa l'ammissione di Giacobbe di essere indegno della grazia di Dio: "Io sono troppo piccolo (qatonti) per essere degno di tutta la benevolenza che hai usata e di tutta la fedeltà che hai dimostrata al tuo servo" (Genesi 32:10).[122] In altre parole, nella versione rabbinica originaria, l'iniziazione alla conversione è divina, non umana. La scelta dell'essere umano è quella di rispondere alla chiamata di Dio, e ciò nonostante non vi sia motivo se si seguono i criteri immediati dell'interesse personale in questo mondo. Il convertito, come lo stesso Israele, deve accettare la verità che la piena riconciliazione del mondo con la realtà dell'alleanza deve venire dal futuro trascendente (olam ha-ba). Come dice il testo talmudico: "In questo momento Israele non è in grado di ricevere né la maggior parte della sua ricompensa né la maggior parte della sua punizione".[123]

Maimonide, ovviamente, codifica la frase talmudica relativa all'essere "indegni", ma la sua stessa enfasi è chiaramente sul fattore iniziatico della scelta umana basata sui criteri universali del monoteismo.[124] Ecco perché prescrive che l'istruzione nei comandamenti inizi con questioni di credenza razionale. Per lui la scelta in sostanza è umana, non divina. Per i rabbini, invece, subito dopo l'accettazione dell'elezione da parte del convertito, viene informato di quei comandamenti che sono spiccatamente ebraici perché, credo, sottolineano la verità che entrare a far parte di Israele è fine a se stesso, cioè, essere direttamente in alleanza con Dio.

La questione dell'apostasia[modifica]

Maimonide è stato considerato da gran parte dei posteri il pensatore più coerente nella storia dell'ebraismo. In effetti, in molti dei grandi centri di apprendimento rabbinico nell'Europa orientale, la propria abilità accademica veniva ampiamente dimostrata mostrando apparenti contraddizioni tra le affermazioni di Maimonide e apparenti contraddizioni tra le affermazioni di Maimonide e quelle degli stessi rabbini. Bisognava dimostrare che tutte queste contraddizioni sono solo apparenti e non reali, e che un'analisi incisiva può comprovare tale presupposto.[125] Ora, la coerenza non è difficile se si limita la propria attenzione a una piccola area di interesse. Ma poiché Maimonide aveva qualcosa da dire su ogni area dell'ebraismo, la sua coerenza non fu un risultato da poco.

Quella sorprendente qualità della coerenza, che può essere solo la virtù di un pensatore straordinariamente sistematico, è chiaramente evidente in Maimonide nel collegamento tra la visione della conversione e la sua visione dell'apostasia. Questi sono i due poli dell'identità ebraica: la via dell'ebraismo e la via d'uscita dall'ebraismo. In entrambe queste istituzioni, Maimonide postula il primato della volontà umana.

Dopo aver presentato i tredici dogmi che presume siano il sine qua non dell'ebraismo, Maimonide conclude come segue:

« Quando tutti questi fondamenti (ha-yesodot) sono perfettamente compresi e creduti da una persona, egli entra nella comunità (kelal) di Israele ... Anche se commettesse ogni possibile trasgressione, a causa della lussuria e dell'essere sopraffatto dall'inclinazione al male, egli sarà punito secondo la sua ribellione, ma ha una porzione [del Mondo a venire]; è uno dei peccatori d'Israele (mi-posh'ei yisra’el). Ma se un uomo dubita di qualcuno di questi fondamenti, egli lascia la comunità (yatsa min ha-kelal) perché ha negato il fondamentale (kafar b’iqqar) ... È necessario odiarlo e distruggerlo. »
(Commentario alla Mishnah: Sanhedrin, cap. 10, intro., pp. 144-145[126])

Come sottolinea lo studioso americano-israeliano Menachem Kellner nel suo studio sulle opinioni di Maimonide riguardo all'identità ebraica: "That Maimonides took this theological answer to the question: ‘Who is a Jew?’ seriously is evidenced by the fact that he attaches to the acceptance of his principles the halakhic rights that Jews may demand of their fellows."[127]

Il rifiuto di Maimonide di includere gli apostati, che negano volontariamente, nella stessa categoria dei peccatori ordinari, che peccano più per appetito che per volontà, è illuminante.[128] Dovremmo confrontare questo punto di vista con il punto di vista di Rashi e di altri halakhisti medievali, che è stato discusso nel Capitolo precedente. Poiché estendono la frase talmudica "anche se ha peccato, è sempre ebreo" (af-al-pi she-hata yisra’el hu) agli apostati. In altre parole, si rifiutano di riconoscere che qualsiasi ebreo può allontanarsi da Israele volontariamente — almeno in questo mondo. Il loro punto di vista, come abbiamo visto, sebbene non sia il significato letterale del brano talmudico che esso invoca, è comunque più vicino all'intero insegnamento rabbinico sull'identità ebraica di quello di Maimonide esemplificato dall'affermazione di cui sopra. Per Maimonide, ci si può allontanare da Israele anche in questo mondo e non solo nel Mondo a venire.

Tuttavia, va notato che anche Maimonide non può portare la sua visione di ciò che potremmo chiamare "ebraismo volitivo" alla sua piena conclusione logica. Perché se così fosse, dovrebbe ammettere che si può optare per un'altra religione piuttosto che per l'ebraismo ed essere effettivamente riconosciuto come un vero membro di quell’altra comunità religiosa, per quanto tale apostasia non possa essere fatta impunemente. Per quanto ne so, Maimonide non trasse mai questa conclusione. Si può vedere l'apostata solo come se facesse parte di un'altra comunità religiosa, ma anche quel riconoscimento è fictio juris, ed è limitato ad alcune aree in cui l'Halakhah assegna determinati diritti specifici agli ebrei dai loro correligionari ebrei.[129] Tale opzione di cambiare la propria comunità religiosa è una cosa che egli è disposto a concedere solo ai gentili.[130] ​​L'onere della tendenza schiacciante della tradizione ebraica che non consente agli ebrei alcuna via d'uscita dall'ebraismo è semplicemente troppo onnipresente per essere interpretata diversamente, anche da uno brillante come Maimonide.

I presupposti dietro l'evitamento da parte di Maimonide di costituire la dottrina dell'elezione di per sé sono ancora più problematici oggi di quanto non lo fossero ai suoi tempi. Sono problematici teologicamente, filosoficamente e politicamente. Teologicamente, come abbiamo già visto, sono problematici in quanto si discostano dalla tendenza di tutta la tradizione, sia dalla Scrittura che dagli insegnamenti dei rabbini. Filosoficamente, sono problematici perché Maimonide vede la validità dell'ebraismo in quanto è la migliore combinazione di eccellenza intellettuale e pratica, una combinazione che è gerarchica: prima theoria, poi praxis. Tuttavia, come ho sostenuto altrove, questa ipotesi si basa su una visione del rapporto gerarchico tra metafisica ed etica che presuppone essa stessa un'irrimediabile scienza naturale aristotelica.[131] L'eccellenza intellettuale (aretē) riguarda Dio, la cui esistenza è dimostrata da un fisica teleologica irrecuperabile. Senza questo fondamento, tuttavia, si perde la superiorità gerarchica della theoria sulla praxis, e con ciò si perde anche la loro combinazione di lavoro. Quindi, se si vuole ancora una giustificazione razionalistica dell'ebraismo nel mondo moderno, è meglio argomentata da Hermann Cohen che da chiunque altro proprio perché la sua visione di Dio non è fondata su una scienza naturale così irrecuperabile. Ma, come abbiamo già visto, la stessa filosofia e teologia di Cohen comportano difficoltà per noi oggi altrettanto problematiche di quelle di Maimonide.

L'ultimo e, credo, il problema più serio per la visione dell'elezione sostenuta da Maimonide è politico. Ai tempi di Maimonide, tutte le società erano basate sulla religione. L'idea che si possa vivere filosoficamente senza fedeltà a una religione storica era solo una vera opzione per individui solitari, e anche questi individui solitari avrebbero dovuto nascondere attentamente le loro convinzioni individuali per rimanere parte delle società in cui anche loro avrebbero dovuto vivere.[132] Tuttavia, al tempo di Spinoza e dell'ascesa degli stati laici, una tale doppia vita non era più l'unica opzione. Si poteva praticare l'eccellenza intellettuale della filosofia individualmente (e per Spinoza ciò implicava ancora una relazione con Dio) e l'eccellenza pratica socialmente, e nessuno dei due modi di vita richiede più fedeltà a una qualsiasi religione storica. Quindi la religione storica non è più la necessità politica che Maimonide pensava che fosse.

In questa realtà specificamente moderna di una vita politica secolare, Maimonide non ha davvero una giustificazione soddisfacente per il ruolo unico dell'ebraismo nel mondo. Cosa c'è adesso che sia ancora caratteristico dell'ebraismo e degli ebrei in questo mondo se rimaniamo con la teologia filosofica di Maimonide?

Nonostante la riverenza per lui che condivido praticamente con tutti gli altri ebrei tradizionali, non riesco a vedere come anche i suoi discepoli contemporanei più devoti possano trarre una risposta dalla sua teologia a questo problema moderno di primaria importanza. Gli ebrei ora hanno la reale possibilità di partecipare a società laiche anonime nella Diaspora, o di essere partecipanti alla propria società laica nello Stato di Israele. E sebbene si possa sostenere che una di queste due opzioni politiche è coerente con l'adesione alla religione ebraica storica, nessuna di esse (almeno nessuna finora) può effettivamente essere basata sulla religione ebraica storica. Nella migliore delle ipotesi, si può solo sostenere che un fondamento in una religione storica offre un approccio migliore alla questione della vita politica rispetto a un approccio puramente laico (e oggi un tale approccio laicista è inevitabilmente ateo, cosa che sicuramente non era il caso di Spinoza). Ma non si può sostenere che l'approccio religioso sia il miglior approccio ora disponibile, come Maimonide poteva ancora dire ai suoi tempi. Così, almeno allo stato attuale, i maimonidei non hanno una risposta soddisfacente agli spinozisti.[133] Ma, come abbiamo visto all'inizio, il recupero filosofico dell'ebraismo stesso, e specialmente della dottrina dell'elezione di Israele, richiede una tale risposta. Abbiamo così chiuso il cerchio. Il nostro ritorno alle fonti deve essere più radicale di un punto fermo nel Medioevo.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico.
  1. Alcuni dei punti di vista sulla temporalità qui espressi, in particolare l'affermazione della temporalità di Dio, sembrerebbero suggerire un'affinità con quei seguaci della filosofia di A. N. Whitehead noti come i "teologi del processo". Tuttavia, ci sono due grandi differenze tra loro e noi. In primo luogo, il rapporto dell'effettuare coscientemente e dell'essere effettuato si limita alla relazione storica tra Dio e l'uomo. Secondo, Dio non fa parte dell'ordine creativo della natura; è creator ex nihilo. Cfr. Whitehead, Process and Reality (New York, 1929), 219 segg.; 263.
  2. Cfr. Martin Heidegger, Being and Time, trad. (EN) J. Macquarrie e E. Robinson (New York & Evanston, 1962), 372 segg. per la nozione del tempo come estatico, cioè discontinuo e quindi, (almeno) sentito umanamente come il reame aperto della libertà, non come un reame chiuso di causalità. Cfr. anche Henri Bergson, Time and Free Will, trad. (EN) F. L. Pogson (New York, 1910), 222 segg. per la nozione di tempo come qualcosa di più di una coordinata dello spazio.
  3. Si veda l'Appendice 3; inoltre, Hizquni, Commentary on the Torah: Esodo 3:14
  4. Penso che Maimonide si trovi in ​​un dilemma teologico quando afferma la dottrina della creatio ex nihilo, insistendo contemporaneamente sul fatto che anche il tempo è "una cosa creata" (mi-khlal ha-nivra’im) in Guida dei perplessi, 2.13, nella trad. (EN) di S. Pines (Chicago, 1963; trad. (HE) di Samuel ibn Tibbon), 281. Qui segue la visione scientifica di Aristotele secondo cui "il tempo è conseguente al movimento" (ibid.) senza, tuttavia, seguire la conclusione metafisica di Aristotele dell'eternità del moto celeste, cioè "che esiste una certa materia che è eterna (qadmon) come è eterna la divinità; e che senza di essa Egli non esiste, né esiste senza di Lui" (ibid., 283; cfr. Fisica 251b10 segg.). Si differenzia da Aristotele perché la concezione di Aristotele correla Dio e la materia in modo tale da compromettere l'assoluta trascendenza di Dio: "Poiché lo scopo di ogni seguace della Legge di Mosè e di Abramo nostro Padre o di coloro che seguono la via di questi due, è credere che non ci sia nulla di eterno in alcun modo esistente simultaneamente (qadmon im Ha-Shem yitbarakh)" (ibid., 285). Ciononostante, se la creazione non è essa stessa un atto/evento temporale perché il tempo è totalmente correlato allo spazio e quindi esso stesso qualcosa di creato come lo è lo spazio, allora in che modo la trascendenza di Dio dalla sua creazione è qualcosa di più che una priorità logica (che di per sé non può essere considerata libera) piuttosto che una vera priorità (cfr. Guida, 2.30)? Cos'altro potrebbe essere, secondo Maimonide, il non essere né spaziale né temporale? Cfr. R. Isaac Abrabanel, Rosh Amanah, cap. 16, che intuisce il problema ma che, tuttavia, rifiuta di criticare direttamente Maimonide.
  5. Si noti Kant, Critique of Pure Reason, B50, trad. (EN) N. Kemp Smith (New York, 1929): "Time is nothing but the form of inner sense, that is, of the intuition of ourselves and of our inner state" (p. 77).
  6. Cfr. ibid., A27: "we can indeed say that space comprehends all things that appear to us as external, but not all things in themselves, by whatever subject they are intuited, or whether they are intuited or not" (p.72).
  7. Il detto rabbinico: "Egli è il luogo del suo mondo (meqom olamo), ma il mondo non è il suo luogo (meqomo)" (Bere’sheet Rabbah 68.9 rif. Genesi 28:11, cur. Theodor-Albeck, 777-778 e si veda la relativa nota) sta certamente usando il termine spaziale "luogo" come metafora. Si tratta essenzialmente di affermare la priorità assoluta di Dio sul mondo: il mondo ha bisogno di essere in relazione con Dio, ma Dio non ha bisogno di essere in relazione con il mondo. Pertanto, Dio localizza il suo mondo ogniqualvolta lo voglia o lo desideri, ma non si trova mai in quel mondo. Cfr. 1 Re 8:27-30; 2 Cronache 2:4-5.
  8. C'è un perenne dibattito filosofico sul fatto che il pensiero sia anteriore al linguaggio o il linguaggio al pensiero. Nel caso dell'uomo, la Scrittura insegna che il linguaggio è anteriore al pensiero. Gli esseri umani non raggiungono il livello del pensiero finché non vengono apostrafati in situ: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose (va-yannihehu) nel giardino di Eden ... Il Signore Dio comandò l'uomo dicendo (l’emor)" (Genesi 2:15-16 — cfr. in merito Targumim; inoltre, Genesi 3:9;22:1; Esodo 3:4; 1 Samuele 3:4; Isaia 6:5). I linguaggi "naturali" emergono da luoghi particolari e non li trascendono mai del tutto. Le lingue "artificiali" sono solo astrazioni dalle lingue naturali e non sono in alcun modo "trascendentali" (cfr. Ludwig Wittgenstein, Philosophical Investigations, 2a ed., 1.18, trad. (EN) G.E.M. Anscombe [New York, 1958], 8). Ma nel caso di Dio, al contrario, poiché la Scrittura insegna che Egli è prima dello spazio (quindi di ogni luogo), i suoi pensieri precedono le sue espressioni creative (cfr. Isaia 55:8) "Lodate il Signore dai cieli, lodatelo nell'alto dei cieli. Lodatelo, voi tutti, suoi angeli, lodatelo, voi tutte, sue schiere. Lodatelo, sole e luna, lodatelo, voi tutte, fulgide stelle. Lodatelo, cieli dei cieli, voi acque al di sopra dei cieli. Lodino tutti il nome del Signore, perché egli disse e furono creati. Li ha stabiliti per sempre (l’ad l’olam), ha posto una legge (hoq) che non passa" (Salmi 148:4-5; cfr. Salmi 33:9).
  9. Si veda l'Appendice 3 di seguito.
  10. Cfr. The Prophets (Philadelphia, 1962), 221 segg.
  11. La grafia di questo nome è spesso variata, a seconda dei sistemi linguistici adottati: Yehuda Ben Šmu’el Ha-Levi (יהודה בן שמואל הלוי), Yehuda Ha-Levi, Yehuda Halevi, Judah Halevi (יהודה הלוי), e in italiano Giuda Levita — mi scuso se nel testo a volte li alterno.
  12. Hazal (Gerusalemme, 1971), 468-469. Cfr. anche Solomon Schechter, Some Aspects of Rabbinic Theology (New York, 1936), 59-60.
  13. M. Avot 3.14. "Israele" è usato come plurale, ad includere appunto tutti i "figli di Dio".
  14. Cfr. Urbach, Hazal, 469, citando IV Esdra 6:56-59. Per la questione della preesistenza in generale e della Torah in particolare, si veda H. A. Wolfson, Philo (2 voll., Cambridge, Mass., 1947), 1:182 segg.; anche, Louis Ginzberg, The Legends of the Jews (7 voll., Philadelphia, 1909-1938), 6:30, n. 177.
  15. Per il problema teologico, cfr. Maimonide, Mishneh Torah: Teshuvah, 5.5. Cfr. R. Hayyim ibn Attar, Or Ha-Hayyim su Genesi 6:5.
  16. Cfr. Encyclopedia Talmudit (22 voll., Gerusalemme, 1946-1993), 4:217ff.
  17. M. Eruvin 3.5.
  18. Cfr. TB Eruvin 51a rif. Esodo 16:29.
  19. Cfr. per es., TB Sotah 2a; Bemidbar Rabbah 3.4. Per una comprensiva discussione di questo probema, si veda D. Novak, Law and Theology in Judaism (2 voll., New York, 1974, 1976), 1:7segg. Inoltre, si possono considerare i miracoli nello stesso senso retroattivo. Cfr. per es., M. Avot 5.6; TB Pesahim 54a.
  20. Questa logica ha somiglianze con la logica aristotelica dell'atto di potenza, cioè ciò che esiste realmente nel presente indica retroattivamente quale fosse la sua potenzialità nel passato (cfr. Fisica 201a15). Ma vedere la potenzialità nel presente è solo vedere una possibilità, e non prevede con certezza anche se si realizzerà in futuro (cfr. Metafisica 1050b10).
  21. M. Avot 3.15.
  22. Ein Ya’aqov (3 voll., New York, 1953), intro.
  23. "Shinui He’Arakhin" (1898), in Kol Kitvei Ahad Ha’Am, II ediz. (Gerusalemme, 1949), 157.
  24. "la serena fedeltà alla storia e alle forze del destino di lunga portata al di sopra delle... forze della natura", in "Yehudah Halevi: An Answer to an Historic Challenge", Jewish Social Studies (1941), 3:272.
  25. Anche se non posso essere d'accordo con il suo totale rifiuto del metodo filosofico per la comprensione dell'ebraismo, penso che il defunto Max Kadushin avesse ragione quando disse di Halevi: "Ha una concezione di Dio, quindi, abbastanza simile a quella dei filosofi ebrei medievali" (The Rabbinic Mind [New York, 1952], 282). Infatti, in una delle sue poesie, Halevi dice: "I Servi del tempo (zeman) sono i servi dei servi; il servo del Signore, solo lui è libero" ("Helqi Adonai", in Selected Religious Poems of Jehudah Halevi, a cura di H. Brody [Philadelphia, 1924], 121). Dio viene così contrapposto alla temporalità. Quasi ogni teologo razionalista di quel periodo avrebbe potuto dire la stessa cosa.
  26. Traduco dal testo (HE) di Y. Even-Shmuel (Tel Aviv, 1972), p. 220. Il Kuzari è suddiviso in cinque saggi (ma'amarim, "articoli") e assume la forma di dialogo tra il re dei Cazari, probabilmente pagano, ed un ebreo che era stato invitato a corte per istruirlo sui fondamenti dell'ebraismo. Scritto in lingua araba, il libro fu tradotto da numerosi studiosi (incluso Judah ben Saul ibn Tibbon, padre di Samuel che fu anche traduttore di Maimonide) in ebraico e altre lingue. Sebbene l'opera non sia considerata un resoconto storico della conversione dei Cazari all'ebraismo, studiosi come Douglas Morton Dunlop hanno ipotizzato che Yehuda possa aver avuto accesso ai documenti cazari sui quali poi basò la sua storia. Il suo contemporaneo Abraham ibn Daud narrò di aver incontrato studenti rabbinici cazari a Toledo (Spagna) a metà XII secolo.
  27. Ibid., 5.20, p. 222. Per gli usi di "volontà" nel pensiero di Ha-Levi, cfr. A. Nuriel, "The Divine Will in the Kuzari", Jerusalem Studies in Jewish Thought (1990), 9:19 segg.
  28. Cfr. Timeo 37E segg.
  29. Quando Ha-Levi parla di berit in Kuzari, 1.34, p. 70, non ne sviluppa le implicazioni di reale reciprocità tra Dio e l'uomo.
  30. Cfr. Y. Silman, "Ha-Ta’amim Ha-Shitatiyyim Le-Rayon Behirat Yisra’el Be-Sefer Ha-Kuzari," Sinai (1977), 80:260.
  31. Cfr. Leo Strauss, "The Law of Reason in the Kuzari", in Persecution and the Art of Writing (Glencoe, Ill., 1952), 103.
  32. Kuzari, 1.61.
  33. Ibid., 1.4, 9.
  34. Ibid., 3.35 segg.
  35. Ibid., 2.1.
  36. Ibid., intro., p. 1.
  37. Ibid.
  38. Cfr. Strauss, Persecution and the Art of Writing, 114.
  39. Kuzari, 1.2, p. 4.
  40. Ibid.
  41. Ibid.
  42. Etica Nicomachea 1177a25-30.
  43. Cfr. per es., Repubblica 473D; anche, D. Novak, Suicide and Morality (New York, 1975), 21 segg.
  44. Repubblica 499B.
  45. Per i tentativi di Maimonide di costituire una connessione più convincente tra eccellenza teorica ed eccellenza pratica/politica, si veda Guida dei perplessi, 3.54.
  46. Kuzari, 1.4, p. 5.
  47. Cfr. Guida dei perplessi, 2.36 segg.; 3.27; inoltre, Leo Strauss, "Quelques remarques sur la science politique de Maimonide et de Farabi", Revue des Etudes Juives (1936), 100:1-37.
  48. Cfr. Kuzari, 1.98; 2.50; 3.23; 4.3, 15.
  49. Ibid., 1.31 segg.
  50. Per discussioni di questo termine chiave (= amr ilahi in arabo) nella teologia di Ha-Levi, cfr. Julius Guttmann, Philosophies of Judaism, trad. (EN) D. W. Silverman (New York, 1964), 427, n. 151; I. Efros, Studies in Medieval Jewish Philosophy (New York and London, 1974), 14-145; H. A. Wolfson, Studies in the History of Philosophy and Religion, cur. I. Twersky e G. H. Williams (2 voll., Cambridge, Mass., 1977), 2:60; e, specialmente, Shlomo Pines, "Shi’ite Terms and Conceptions in Judah Halevi’s Kuzari", Jerusalem Studies in Arabic and Islam (1980), 2:165 segg.
  51. Cfr. TB Sanhedrin 38b; Rashi, Commentario alla Torah: Genesi 1:26; inoltre, Ginzberg, Legends of the Jews, 5:69-70, n. 12.
  52. Ibid., 1.103.
  53. Ibid., 1.25.
  54. Si veda l'Appendice 4.
  55. Kuzari, 1.102-103
  56. TB Yevamot 60b-61a. Cfr. ibid., 103a-b.
  57. Cfr. per es., 1 Samuele 15:29; 2 Samuele 24:14; Isaia 31:3; Ezechiele 28:2,9; Salmi 39:6-7; Giobbe 5:7; anche, Midrash Mishlei, 8, cur. Buber, 29b.
  58. Sifra: Va-yiqra, cur. Weiss, 2a.
  59. Va sottolineato che questo è solo il punto di vista di R. Simon (cfr. TB Baba Batra 58a, Tos., s.v. "metsayyen"). Inoltre, anche Maimonide, che accetta la sua conclusione halakhica (Mishneh Torah: Tum’at Met, 1.13), non la basa sul ragionamento di R. Simon riguardo ad adam. Inoltre, Rabbenu Tarn mette in discussione l'intera linea di ragionamento di R. Simon e si schiera con l'opinione opposta dei saggi (cfr. TB Yevamot 61a, Tos., s.v. "v'ein" e Nahmanide, Hiddushei Ha-Ramban su M. Ohalot 18.9, e su TB Baba Batra 58a). Si veda anche R. Israel Lipschütz, Tif’eret Yisra’el: M. Avot 3.14 (Bo’az); M. Guttmann, Das Judenthum und seine Umwelt (Berlino, 1927); D. Novak, The Image of the Non-Jew in Judaism (New York e Toronto, 1983), 265 segg. Cfr. T. Eruvin 5.19 e Saul Lieberman, Tosefta Kifshuta: Mo’ed (New York, 1962), 404-405.
  60. Cfr. TB Shabbat 33b.
  61. Nella Kabbalah, la particolarità ontologica di Israele è un tema importante; tuttavia, i cabalisti vanno anche oltre Ha-Levi. Per loro, Israele non è solo una specie creata separata, ma è in realtà parte della stessa divinità. Cfr. Zohar: Bere’sheet, 1:20b; Emor: 3:104b; R. Judah Loewe (Maharal), Gevurot Ha-Shem (Cracow, 1582), cap. 44; R. Hayyim ibn Attar, Or Ha-Hayyim: Genesi 1:27.
  62. Kuzari, 2.1 segg.
  63. Ibid., 2.48.
  64. Ibid., 1.24; 3.7. Cfr. R. Joseph Albo, Iqqarim, 1.8.
  65. Cfr. Guttmann, Philosophies of Judaism, 127.
  66. Kuzari, 1.111. Cfr. in merito R. Judah Moscato, Kol Yehudah, che vede una base talmudica in questa visione di Ha-Levi in TB Sanhedrin 105a rif. Salmi 9:18 (l'opinione di R.Joshua), e similmente alla visione di Maimonide, Mishneh Torah: Teshuvah, 3.5 (anche, Edut 11.10; Melakhim, 8.11).
  67. Kuzari, 1.95, 99. Cfr. ibid., 1.1.
  68. Ibid., 5.27-28.
  69. Ibid., 2.36 segg.
  70. Ibid., 2.44.
  71. Ibid., 4.23.
  72. Ibid. Cfr. Maimonide, Mishneh Torah: Melakhim, 11.4.
  73. Kuzari, 1.27, 115. È stato suggerito che ciò indichi che Ha-Levi non stesse indirizzando il suo libro a potenziali convertiti gentili all'ebraismo, ma agli ebrei spagnoli in modo che potessero ridedicarsi all'ebraismo. Cfr. M. S. Berger, "Toward a New Understanding of Judah Halevi's Kuzari", Journal of Religion (1992), 72:224 segg.
  74. Kuzari, 1.1.
  75. Ibid. Cfr. anche ibid., 2.49.
  76. Cfr. L. Bodoff, "Was Yehudah Halevi a Racist?," Judaism (1989), 38:177.
  77. Per la differenza tra convertiti e la progenie dei convertiti , cfr. D. Novak, "The Legal Question of the Investigation of Converts", Jewish Law Association Studies (1987), 3:181 segg. Per un dibattito rabbinico se i convertiti siano immediatamente integrabili in Israele o se occorrano diverse generazioni, cfr. TB Shabbat 146a (cfr. TB Sanhedrin 94a). Per le opinioni di Ha-Levi in materia, cfr. Bodoff, "Was Yehudah Halevi a Racist?," 180 segg.
  78. Anche nella Cabala, dove la base ontologica della particolarità ebraica è costituita più radicalmente che in Ha-Levi, la conversione deve essere costituita perché è parte integrante della tradizione halakhica. Tuttavia, come Ha-Levi, i cabalisti sottolineano la disuguaglianza tra convertiti ed ebrei nativi. Cfr. Zohar: Va-yiqra, 3:14a-b; anche, Shelah, 3:168a.
  79. Cfr. Franz Rosenzweig, "Divine and Human," trad. (EN) F. C. Golffing in N. N. Glatzer, Franz Rosenzweig, II ed. riv. (New York, 1961), 243.
  80. Cfr. Kuzari, 4.3, 15.
  81. Ibid., 3.24.
  82. Kuzari, 3.1, p. 98.
  83. Cfr. ibid., 1.61.
  84. Cfr. Strauss, Persecution and the Art of Writing, 140-141.
  85. Kuzari, 3.11. Cfr. per es., TB Eruvin 1315 rif. bat qol.
  86. Ibid., 3.1. Cfr. ibid., 4.3.
  87. Per la metafisica neoplatonica che sembra essere alla base del sostanzialismo di Ha-Levi, cfr. Guttmann, Philosophies of Judaism, 130.
  88. Cfr. Menachem Kellner, Maimonides on Judaism and the Jewish People (Albany, N.Y., 1991), 81 segg. Gran parte di questa sezione del wikilibro è stata influenzata dall'eccellente studio del Prof. Kellner e si basa inoltre sui miei precedenti studi maimonidei della Serie maimonidea. Maimonide è il personaggio a cui sono più affezionato sia spiritualmente che teologicamente, e lo venero come la migliore e più elevata rappresentazione dell'ebraismo religioso a sfondo filosofico. Per la designazione da parte di Maimonide di alcune virtù acquisite, non innate, del popolo ebraico, cfr. per es. Mishneh Torah: Teshuvah, 2.10; Mattnot Aniyyim, 10.2.
  89. Cfr. per es., Mishneh Torah: Tefillah, 7.10; 12.5; Shabbat, 29.2. Tutti questi esempi sono liturgici, cioè dove Maimonide ha semplicemente codificato alcune formulazioni talmudiche che devono essere mantenute intatte (cfr. TB Berakhot 40b e Mishneh Torah: Berakhot 1.5 e R. Joseph Karo, Kesef Mishneh).
  90. Cfr. Guida dei perplessi, 2.25; cfr. ibid., 3.26. L'uso da parte di Maimonide del termine "scelta" (behirah), a differenza del suo uso del termine "volontà" (ratson), deve essere considerato metaforico. Cfr. ibid., 2.48. Cfr. ibid., 3.17, dove la distinzione tra ratson e behirah viene mantenuto più attentamente.
  91. Quindi la Torah è la migliore, ma non necessariamente l'unica, "legge divina". Cfr. Guida dei perplessi, 2.35 segg.
  92. Cfr. Mishneh Torah: Teshuvah, 5.1 segg.
  93. TB Berakhot 11b.
  94. Teshuvot Ha-Rambam, cur. Blau, 2:331-333 (no. 182). Cfr. la nota di Blau a p. 333. Cfr. Mishneh Torah: Tefillah, 7.10.
  95. Cfr. Fisica 194b16 segg.; Metafisica 1044b1 segg.; Etica Nicomachea 112a20 segg.
  96. Cfr per es., Mishneh Torah: Shemittah Ve-Yovel, 13.13; Me’ilah, 8.8.
  97. Cfr. Guida, 2.35, 39; inoltre, Commentario alla Mishnah: Sanhedrin, cap. 10, intro., principio 8, trad. (EN) Y. Kafih (Gerusalemme, 1976), 143.
  98. Cfr. Mishneh Torah: Teshuvah, 6.1 segg.
  99. Il telos finale dei comandamenti della Torah è raggiungere il Mondo a venire, e Maimonide sottolinea che questo non è "il mondo che verrà nel tempo (she’ayno matsui attah)" ma, piuttosto, "ciò che è eterno (matsui ve’omed)", vale a dire, relativo a Dio in perpetua beatitudine (Mishneh Torah: Teshuvah, 8.8).
  100. Cfr. Mishneh Torah: Yesodei Ha-Torah, 7.1; Guida dei perplessi, 2.36; inoltre, Kellner, Maimonides on Judaism and the Jewish People, 26 segg.
  101. Mishneh Torah: Yesodei Ha-Torah, 7.5; Guida dei perplessi, 2.32.
  102. Guida dei perplessi, 2.32.
  103. Cfr. per es., ibid., 2.35.
  104. Testo (HE) di Samuel ibn Tibbon.
  105. Commentario alla Mishnah (פירוש המשניות Pirush Hamishnayot): Sanhedrin, cap. 10, intro., pp. 142-144. Testo esteso dei 13 principi:
    1. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il Creatore e la Guida di tutti gli esseri creati, e che Egli solo ha creato, crea e creerà tutte le cose.
    2. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è Uno; che non vi è unicità in alcun modo come la Sua, e che Egli solo è nostro Dio, lo è stato, lo è e lo sarà sempre.
    3. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è incorporeo; che non possiede alcuna proprietà materiale; che non esiste assolutamente alcuna somiglianza (fisica) a Lui.
    4. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il Primo e l'Ultimo.
    5. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, è il solo a cui è giusto pregare, e che non è giusto pregare ad altri che a Lui.
    6. Credo con fede assoluta che tutte le parole dei Profeti siano vere.
    7. Credo con fede assoluta che la Profezia di Mosè nostra Guida, la pace sia con lui, è vera; e che egli è stato il capo dei Profeti, sia di quelli che l'hanno preceduto, sia di quelli che l'hanno seguito.
    8. Credo con fede assoluta che tutta la Torah che ora possediamo, è la stessa che fu data a Mosè nostra Guida, la pace sia con lui.
    9. Credo con fede assoluta che questa Torah non sarà mai sostituita, e che non vi sarà alcuna altra Torah data dal Creatore, benedetto sia il Suo Nome
    10. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, conosca tutte le azioni e tutti i pensieri degli esseri umani, come è scritto:"Egli è colui che, solo, ha formato il cuore di loro tutti, che comprende tutte le opere loro." (Salmi 33:15).
    11. Credo con fede assoluta che il Creatore, sia benedetto il Suo Nome, ricompensa coloro che osservano i Suoi Comandamenti e punisce quelli che li trasgrediscono.
    12. Credo con fede assoluta nella venuta del Messia e, anche se dovesse tardare, pur tuttavia attendo ogni giorno la sua venuta.
    13. Credo con fede assoluta nella risurrezione dei morti all'ora che sarà volontà del Creatore, benedetto sia il Suo Nome e glorificata sia la Sua rimembranza nei secoli dei secoli.
  106. Cfr. S. Pines, "Translator's Introduction", Guide of the Perplexed, lxxxvi segg.
  107. Etica Nicomachea 1178b30 segg.
  108. Cfr. Mishneh Torah: Melakhim, 11.3 segg. Purtroppo tale imminenza è durata fino al 1948, con la creazione dello Stato di Israele.
  109. Cfr. D. Novak, "The Treatment of Islam and Muslims in the Legal Writings of Maimonides", in Studies in Islamic and Jewish Traditions, cur. W. Brinner e S. D. Ricks (Atlanta, 1986), 244 segg.
  110. Si vedano i relativi wikilibri nella Serie maimonidea.
  111. Cfr. Menachem Kellner, Maimonides on Judaism and the Jewish People, 81 segg.
  112. Cfr. ibid., 49 segg.
  113. TB Yevamot 47a-b.
  114. Mishneh Torah: Isurei Bi'ah, 14.2.
  115. Cfr. I . Twersky, Introduction to the Code of Maimonides (Mishneh Torah) (New Haven, Conn., 1980), 474-475.
  116. Guida dei perplessi, 2.33. Cfr. Mishneh Torah: Yesodei Ha-Torah, 8.1 segg.
  117. Mishneh Torah: Isurei Bi’ah, 14.4. Cfr. la nota di R. Zvi Hirsch Chajes (Maharats Chajes) su TB Yevamot 47a-b.
  118. Mishneh Torah: Teshuvah, 3.5; Edut, 11.10; Melakhim, 8.11.
  119. Cfr. Guida dei perplessi, 2.35.
  120. Ciò emerge in modo più sorprendente dall'accettazione da parte di Maimonide di un'opinione rabbinica (quella di R. Judah) secondo cui un convertito può recitare la formula liturgica "nostro Dio e Dio dei nostri padri" perché tutti gli ebrei sono ugualmente legati allo stesso Abramo, ed egli fu il primo convertito al monoteismo/ebraismo. Cfr. Mishneh Torah: Bikkurim, 4.3 rif. TG Bikkurim 1.4/643 (cfr. M. Bikkurim 1.4) e note di R. David ibn Abi Zimra, Radbaz e R. Judah Rozanis, Mishneh Le-Melekh. Cfr. anche, Teshuvot Ha-Rambam, 2:725-728 (no. 448); Twersky, The Code of Maimonides, 485 segg.
  121. TB Yevamot 47a.
  122. Bere’sheet Rabbah 76.5.
  123. TB Yevamot 47a-b.
  124. Mishneh Torah: Isurei Bi’ah, 14.1.
  125. Cfr. Twersky, The Code of Maimonides, 526 segg.
  126. Tradotta da Kellner, Maimonides on Judaism and the Jewish People, 5-60. Inoltre si veda Menachem Kellner, Dogma in Medieval Jewish Thought (Oxford, 1986), 21 segg.
  127. Maimonides on Judaism and the Jewish People, 60.
  128. Cfr. TB Avodah Zarah 26b; Hullin 5a; Mishneh Torah: Avodah Zarah, 10.1.
  129. Cfr. Mishneh Torah: Teshuvah, 3.14, dove ventiquattro tipi di peccatori (incluso gli apostati, ibid., 3.9) sono sempre considerati parte "di Israele" (me-yisra’el) e solo "come un gentile" (ke-goy - ibid., 3.12); inoltre, cfr. Shehitah, 4.14; Hovel U-Mazeeq, 7.6.
  130. Cfr. ibid., Melakhim, 8.7; 10.9.
  131. Nella storia della filosofia, ci sono stati tre grandi tentativi di costituire questa relazione gerarchica di theoria e praxis, cioè dove praxis è in definitiva per amore di theoria: quelli di Platone, Aristotele e Spinoza. La costituzione di Aristotele è la più convincente e allo stesso tempo la più vulnerabile perché, a differenza delle altre due, cerca di derivare la meta-fisica dalla fisica. Quindi la metafisica ha un punto di riferimento palesemente oggettivo. Nel caso di Platone e Spinoza, il problema con le rispettive costituzioni di questa relazione è che possono essere facilmente liquidate come proiezioni fantasiose e soggettive di una realtà immaginata sull'universo esterno. (Anche l'affermazione di Spinoza di ragionare more geometrico si basa su un'analogia con la matematica, non su qualcosa di scientificamente dimostrabile.)
  132. Cfr. Strauss, Persecution and the Art of Writing, intro.
  133. Ai nostri giorni, il compianto Leo Strauss, con la sua grande abilità filosofica, sostenne meglio di chiunque altro la plausibilità dell'opzione politica maimonidea. La sua argomentazione contro Spinoza e i suoi seguaci moderni era che le democrazie liberali, in cui riponevano tale speranza, non hanno la forza interiore per costituire una società virtuosa, né hanno la forza interiore per resistere alla trasformazione pubblica della filosofia in ideologia statalista. Strauss sembrava suggerire che una società basata su una legge rivelata potesse fornire una base migliore per l'eccellenza sia pratica (exoterica) che teorica (esoterica). A parte il fatto che non poteva suggerire come una tale società potesse mai essere recuperata nel mondo moderno, e a parte il fatto che non sviluppò un Gotteslehre (come fecero Maimonide e Spinoza) per costituire la vita contemplativa, i suoi argomenti sono nel migliore dei casi plausibili solo per il beneficio politico di una rivelazione, ma non per qualcosa di singolarmente ebreo. (Questo probabilmente spiega l'attrazione di Strauss per un certo numero di conservatori politici e culturali di oggi.) Si veda la sua nuova introduzione alla traduzione inglese di E. M. Sinclair del suo libro del 1925, Spinoza's Critique of Religion (New York, 1965), e il suo libro del 1935, Philosophy and Law, trad. (EN) F. Baumann (Filadelfia, 1987), spec. 5 segg. Una risposta ebraica a Spinoza e ai suoi seguaci moderni deve, quindi, derivare da un recupero filosofico di fonti ebraiche più elementari, in cui incontriamo il Dio singolare di Israele, piuttosto che dalla teologia filosofica di Maimonide.