Ebraicità del Cristo incarnato/Flavio Giuseppe
Primo caso studio: Flavio Giuseppe
[modifica | modifica sorgente]Antichità giudaiche 11.302–345
[modifica | modifica sorgente]Ho diverse ragioni per scegliere un estratto da Antichità 11.302–45 dello storico ebreo Flavio Giuseppe come primo caso studio sulle percezioni ebraiche del Sommo sacerdote. In primo luogo, come molte delle figure che esploro nel corso di questo studio, vedi Filone e l'autore giovanneo, Flavio Giuseppe scrisse le sue opere verso la fine del I secolo e.v.[1] Come egli veda il Sommo sacerdote quale forma personificata di Dio sulla terra può quindi essere confrontato in modo costruttivo con queste altre interpretazioni ebraiche del I secolo riguardo alla corporeità divina.
In secondo luogo, gli scritti di Flavio Giuseppe rivelano che egli ammirava e criticava la tradizione sacerdotale di Israele.[2] Da un lato, Flavio stesso era di discendenza sacerdotale. La sua identità di sacerdote sembra aver informato il suo approccio a molte questioni (cfr. Guerra 3; Vita 1–2).[3] Inoltre, egli scrive sui vari Sommi sacerdoti che governavano in Giudea durante tutto il Secondo Tempio più di qualsiasi altra fonte ebraica esistente, e spesso raffigurava quei Sommi sacerdoti in una luce positiva.[4] D'altra parte, nato e cresciuto a Gerusalemme, conosceva bene i veri Sommi sacerdoti a Gerusalemme durante il periodo romano e poteva essere critico nei confronti delle loro indiscrezioni.[5]
La mia terza ragione è che anche il rapporto di Flavio Giuseppe con Roma era piuttosto complicato. Inizialmente combatté contro i romani in qualità di comandante delle forze ebraiche in Galilea come parte della rivolta ebraica negli anni che portarono alla distruzione del Tempio nel 70 e.v. Ma nel 67 e.v., quando l'allora generale – e in seguito imperatore del mondo romano – Vespasiano entrò e conquistò la regione della Galilea, Giuseppe disertò a Roma e divenne un cittadino romano e un caro amico della famiglia imperiale romana, tra cui amico intimo dell'imperatore Vespasiano stesso. Poiché queste azioni allontanarono Flavio Giuseppe da molti dei suoi correligionari giudei, il sostentamento di Flavio Giuseppe divenne dipendente dalle buone grazie dell'imperatore romano e della dinastia dei Flavi in particolare, coinvolgendolo in tal modo nei loro affari.
Alla luce di questi dettagli, trovo intrigante che Flavio Giuseppe abbia scelto di trasmettere una storia in cui presenta il Sommo sacerdote ebreo come una sfida all'apparente divinità dell'imperatore, suggerendo invece che il Sommo sacerdote ebreo fosse la vera forma di Dio "incarnata".[6] Ma è proprio quello che fa. Questa osservazione colpisce per due motivi principali. In primo luogo, quando Flavio Giuseppe compose questo resoconto, i romani avevano già decimato il potere effettivo del Sommo sacerdozio distruggendo il Secondo Tempio nel 70 e.v. Il tempismo di Flavio Giuseppe è quindi notevole in quanto, anche in un momento storico in cui il Sommo sacerdote non poteva più funzionare nella sua precedente posizione autorevole come capo sacerdotale e capo civico su Israele,[7] egli presenta comunque il Sommo sacerdote in una luce elevata. In secondo luogo, al momento della composizione di questa narrazione, i patroni Flavi di Giuseppe non solo esercitavano il controllo sull'impero romano, ma si presentavano anche come dei. Ai suoi tempi, per esempio, il primo benefattore di Flavio Giuseppe, Vespasiano, veniva raffigurato in una luce soprannaturale (Svetonio, Vesp. 4–5; Cassio Dione, Storia Romana 66.1). Simili affermazioni furono fatte riguardo al figlio di Vespasiano, Tito, e al fratello minore di questo, Domiziano, sotto il quale Flavio Giuseppe trascorse gran parte della sua vita lavorativa. Come uno che disertò a favore dei romani quando i tempi si fecero duri, Giuseppe non poteva criticare apertamente questi uomini. Tuttavia, contrastando attentamente le figure di Alessandro Magno e Jaddua, potè creare una sottile polemica contro di loro. Giocando su temi comuni dal più ampio ambiente religioso, Flavio Giuseppe suggerì che il suo Dio era l'unico vero Dio e che solo il Sommo sacerdote lo incarnava appropriatamente.[8]
In previsione di questa inversione di ruolo, Flavio Giuseppe introduce due personaggi principali – il Sommo sacerdote ebraico, Jaddua, e Alessandro Magno – appena uscito da un'altra vittoria militare e in procinto di entrare nella terra di Israele dove Jaddua risiede e presiede.
Qui Flavio Giuseppe raffigura una scena improbabile tra due personaggi che, almeno secondo gli standard dei suoi tempi, non avrebbero potuto essere più diametralmente opposti l'uno all'altro. Da una parte c'è Alessandro Magno, il potente macedone, che, grazie alle sue brillanti manovre militari, il suo acuto intelletto e saggia diplomazia, era riuscito non solo a conquistare vaste regioni geografiche che si estendevano dall'Europa all'Asia, ma anche a controllare intere popolazioni autoctone. Di conseguenza, egli era diventato una vera leggenda. In effetti, da questo momento nella storia, molti avevano iniziato a considerarlo ben più di un semplice essere umano, un uomo che, in un certo senso, era diventato una forma di Dio incarnato in terra. Dall'altra, c'è Jaddua, un oscuro Sommo sacerdote della regione provinciale di Yehud che, a parte la sua menzione da parte di Giuseppe, appare solo due volte nella documentazione biblica ({passo biblico2|Neemia|12:11;12:22}}, rispettivamente).[10] Sebbene le monete risalenti al Periodo Persiano confermino la sua esistenza, non si sa nient'altro di importante su di lui.[11] Come altri sommi sacerdoti che operarono durante quel periodo, probabilmente aveva un'autorità limitata. Ma certamente nessuno, e meno che mai i suoi simili giudei, lo avrebbero considerato divino. Con questa suggestiva giustapposizione in atto, Flavio Giuseppe crea un'inversione di ruolo sottile, ma brillante, tra i due.
Ci sono due modi principali in cui Flavio Giuseppe crea questa inversione di ruoli tra Alessandro e Jaddua riguardo a chi era la vera forma incarnata di Dio in terra: in primo luogo, con le sottese connotazioni militari associate agli abiti del Sommo sacerdote; e in secondo luogo, per quanto riguarda la questione della proskýnesis (gr. προσκύνησις, da προσκυνέω, ovvero "portar la mano alla bocca inviando riverente bacio"). Entrambe le questioni sorgono in Antichità 11.331-334, ma le affronterò a turno.
L'abbigliamento del Sommo sacerdote svolge un ruolo di primo piano nella descrizione da parte di Flavio Giuseppe dell'incontro tra Alessandro Magno e il Sommo sacerdote Jaddua.[13] In particolare, Giuseppe descrive come una volta che Alessandro vede Jaddua "coi vestiti che indossa ora", riconosce che è il Sommo sacerdote Jaddua che "avrebbe guidato il [suo] esercito e consegnato [a lui] l'impero dei persiani" (Ant. 11.334). Ciò è significativo perché poche righe prima di questo brano, Flavio Giuseppe racconta come "Dio parlò a [Jaddua] nel sonno" e lo istruì dicendogli che, quando sarebbe uscito per incontrare Alessandro Magno, sia lui che i sacerdoti avrebbero dovuto indossare "le vesti prescritte dalla legge (ταῖς νομίνοις στολαῖς)", e se lo avessero fatto, non "avrebbero subito alcun danno, poiché Dio li stava proteggendo" (Ant. 11.328). Pertando, già qui, al passo 11.328, Flavio Giuseppe indica il modo in cui l'abbigliamento del Sommo sacerdote venga sanzionato divinamente. Indossandolo, Alessandro riconosce che la persona che è in definitiva responsabile del suo successo militare non è altro che il Sommo sacerdote, Jaddua stesso (cfr. Ant. 11.334).
Flavio Giuseppe pone le basi per questo capovolgimento di ruoli tra i suoi due personaggi principali, intrecciando l'intera storia (cfr. Ant. 11.302–45) con frequenti riferimenti alla campagna militare di Alessandro Magno. Ad esempio, segna in modo specifico le manovre militari di Alessandro con la frase κατὰ τοῦτον δὴ καιρὸν (rispettivamente Ant. 11.304 e 313) che, come ha sostenuto Daniel Schwartz, suggerisce che ci fosse una storia preesistente sulla conquista militare di Alessandro all'interno della quale Giuseppe intenzionalmente scrisse l'incontro Alessandro-Jaddua.[14] Il momento preciso in cui Flavio Giuseppe inserisce l'incontro Alessandro-Jaddua nella storia preesistente di Alessandro è inoltre degno di nota: Giuseppe posiziona il loro incontro alla cuspide di Alessandro che sconfigge Dario e i persiani per il controllo di tutta l'Asia Minore. Riferisce, ad esempio, come Alessandro attraversi l'Ellesponto, uno stretto passaggio tra il Mar Egeo e il Mar di Marmara, che separa il territorio del padre di Alessandro, Filippo, in Europa dalla sfera di influenza di Dario in Asia (Ant. 11.305 e 313, rispettivamente). Quindi, egli traccia i movimenti di Alessandro attorno alle province occidentali dell'Asia Minore, mentreinsieme al suo esercito marciano verso sud e intorno alle coste orientali del Mediterraneo alla volta di Dario e dei persiani, in previsione della loro prossima battaglia (Ant. 11.305 e 313, rispettivamente). A causa della moltitudine delle forze persiane, il presupposto è che Dario e il suo esercito sconfiggeranno Alessandro e i macedoni. "Poiché", come dice Flavio Giuseppe, "non solo egli stesso [cioè Dario], ma tutti quelli che erano in Asia, erano convinti che i macedoni non sarebbero nemmeno venuti a patti coi persiani a causa del loro gran numero" (Ant. 11.315). Ma invece di un Dario vittorioso come previsto (προσεδόκων), alla fine è Alessandro che sconfigge Dario (Ant. 11.316).
Questo esito inaspettato tra Alessandro e Dario rivela il primo grande momento di ironia letteraria incorporato nella storia, prefigurando l'inversione drammatica dei ruoli tra Alessandro e Jaddua che si verifica in seguito — Giuseppe introduce l'episodio Alessandro-Jaddua, e Alessandro, energizzato dalla sua sconfitta di Dario, manda una lettera a Jaddua, il Sommo sacerdote degli ebrei, chiedendo che gli invii l'omaggio che aveva precedentemente inviato a Dario. Quando Jaddua rifiuta, Alessandro si arrabbia, minacciando di marciare contro di lui in modo da poter "insegnare a tutti gli uomini quali sono le persone a cui si deve prestare giuramento" (Ant. 11.318). Il presupposto qui è che Alessandro sconfiggerà Jaddua e quelli che stanno a Gerusalemme, come ha fatto nelle città vicine di Damasco, Tiro, Gaza e Sidone (Ant. 11.317, 320). Ma l'ironia intrinseca, incorporata nella narrazione, sottolinea un punto critico: alla fine sarà l'oscuro Sommo sacerdote, Jaddua, e non il famoso Alessandro Magno, ad essere elogiato per il successo di quest'ultimo in battaglia.
La connessione tra l'abbigliamento che il Sommo sacerdote, Jaddua, indossa e il suo acume militare segna un aspetto chiave di come Flavio Giuseppe sottilmente ma efficacemente inverte i ruoli tra lui e Alessandro. Dai periodi pre-monarchici a quelli post-esilici, gli antichi scrittori israeliti e poi quelli ebrei perpetuarono l'idea di un sacerdozio militante. Alcuni hanno presentato gli abiti del Sommo sacerdote, in particolare "efod e fascia", come segno del suo ruolo di "manifestazione" umana del "divino guerriero Yahweh" di Israele (Esodo 29:5-21; cfr. Lev. 8:1-9, Salmi 110:4-7).[15] Altri predissero come la progenie di Levi "morirà in guerre visibili e invisibili" per conto dei loro correligionari ebrei (T. Reu. 6.12). Altri anticiparono un "sacerdote guerriero, che era stato intronato nel Santo dei Santi e nominato Sommo sacerdote" (cfr. Assum. Mos. 10:1-3).[16] Altri ancora presentarono la figura di Melchisedec come un prete regale militante che si erge al posto di Dio ed emette il giudizio di Dio (11Q13). Ciò illumina quanto profondamente fosse incorporato il legame tra guerra e sacerdozio all'interno della tradizione ebraica. Anche Flavio Giuseppe sottolinea una connessione tra l'abbigliamento del Sommo sacerdote e la vittoria che Dio concede in battaglia (vedi sotto).[17] Descrive, ad esempio, non solo come le gemme sulla corazza del Sommo sacerdote indichino la presenza di Dio quando il Sommo sacerdote offre i suoi sacrifici (Ant. 3.214-18; cfr. Es. 28:2; Sir. 45.7; Aris. 1.98; e Test. Lev. 8.5 e 8.11), ma collega anche lo splendore di queste gemme con il successo del Sommo sacerdote in battaglia:
Lo splendore di queste pietre evoca lo splendore di Dio stesso, indicando la presenza di Dio in battaglia.[18] Le vesti militanti del Sommo sacerdote rendono materiale e tangibile il Dio supremo di Israele, fornendo un locus specifico per la manifestazione o materializzazione di Dio in terra.
Con questo contesto in mente, non dovrebbe sorprendere il fatto che l'abbigliamento del Sommo sacerdote svolgesse un ruolo di primo piano nella descrizione da parte di Flavio Giuseppe dell'incontro Alessandro-Jaddua. In particolare, Jaddua e i sacerdoti si vestono "nelle vesti prescritte dalla legge (ταῖς νομίμοις στολαῖς)" (Ant. 11.327).[19] Nel fare ciò, la presenza di Dio è con loro e non subiscono danni. Ma per di più, l'abbigliamento del Sommo sacerdote è il modo in cui Alessandro riconosce Jaddua. Perché Alessandro era sul punto di marciare contro Gerusalemme e di distruggerla completamente per dare una lezione a Jaddua, ma quando Alessandro vede "la moltitudine in abiti bianchi, i sacerdoti in testa vestiti di lino e il Sommo sacerdote nella sua tunica (στολῇ) blu-giacinto e oro,", cambia radicalmente le sue intenzioni (Ant. 11.331). Invece di umiliare Jaddua, si umilia Alessandro adorando Jaddua.
Collegando la vittoria militare di Alessandro con l'abbigliamento del Sommo sacerdote in questo modo, Flavio Giuseppe inverte efficacemente i ruoli tra i suoi due personaggi principali. In particolare, Giuseppe fa in modo che sia Jaddua e non Alessandro a essere il responsabile finale della vittoria militare di Alessandro sul re persiano Dario. Come spiega Flavio Giuseppe, quando gliviene chiesto dal suo generale, Parmenio, perché Alessandro si umili davanti a Jaddua e non viceversa, Alessandro racconta di aver fatto un sogno e di aver visto Jaddua in esso
Con questa affermazione, Giuseppe asserisce in modo provocatorio che Alessandro non ottenne la sua vittoria decisiva su Dario e sui persiani di propria iniziativa, ma che il risultato della battaglia dipese nientemeno che da Jaddua stesso. Di conseguenza, senza Jaddua, Alessandro non sarebbe mai stato percepito come una forma di Dio incarnato, o una forma di Dio in terra.
Le connotazioni militari associate all'abbigliamento del Sommo sacerdote sono significative perché per molti, in tutto il mondo greco-romano, furono le conquiste militari di Alessandro Magno che lo fecero vedere come qualcosa di più di un semplice essere umano, come qualcuno più vicino a Dio, o addirittura un dio.[20] Cioè, i suoi successi militari portarono al culto di Alessandro,[21] che a sua volta lo fece percepire come una forma incarnata di Dio sulla terra. Quindi, collegando le vittorie militari di Alessandro con l'abbigliamento del Sommo sacerdote, Giuseppe inverte i ruoli dei suoi due personaggi principali: è Jaddua, e non Alessandro, che è in definitiva responsabile della vittoria militare di Alessandro sul re persiano Dario. In breve, qui Flavio Giuseppe afferma che senza Jaddua, Alessandro non avrebbe mai conquistato l'Asia. Di conseguenza, senza Jaddua, Alessandro non sarebbe mai stato percepito come una forma di Dio incarnato, o una forma di Dio materializzata in terra. Questa affermazione è provocatoria in sé e per sé. Ma con la sua seconda inversione di ruolo tra questi due personaggi, Flavio Giuseppe compie un ulteriore passo avanti.
Il secondo modo in cui Flavio Giuseppe crea questa inversione di ruoli tra Alessandro e Jaddua, riguardo a chi è veramente una forma di Dio incarnata sulla terra, è legato al problema della proskynesis o adorazione. Per capire meglio come questa parola si manifesti nella narrazione, faccio riferimento al seguente brano:
Ben quattro volte, in questo breve estratto, emerge la parola proskynesis o un derivato della parola proskynesis. Quindi, cosa significa questa parola e perché è così significativa per la narrativa di Flavio Giuseppe? In alcune parti del mondo antico, offrire proskynesis a un altro era un atto di adorazione, indicando che il destinatario era divino. Quindi, quando Giuseppe presenta Alessandro che offre proskynesis al Sommo sacerdote ebreo, e non viceversa come ci si aspetterebbe, suggerisce ai suoi lettori che è il Sommo sacerdote ebreo, e non Alessandro, che alla fine è la forma di Dio incarnata in terra.
Tuttavia il problema della prosyknesis non era semplicemente un problema teorico che Flavio Giuseppe introdusse nella narrazione; era qualcosa che aveva una vera credenza nella storia — almeno dove Alessandro era coinvolto. Dai resoconti dei suoi antichi biografi, è chiaro che durante la vita di Alessandro ci fu un dibattito attivo sul fatto che egli dovesse essere considerato un dio (Arriano IV 10, 5; Curzio VIII 5).[23] Sua madre Olimpia, per esempio, fece circolare un voci elaborate in cui affermava che Alessandro era il figlio di un dio. Un fulmine e un serpente l'avevano impregnata, ella sosteneva, invece di Filippo come altri avevano ipotizzato (Plutarco, Alex. 2.6). Se Alessandro si fosse inizialmente visto in questi termini è incerto, ma la conferma delle sue origini divine sembra essere arrivata a lui più tardi nella vita quando fece una visita a Siwah nel deserto egiziano. Qui, tramite la rivelazione di uno dei profeti di Amon, la divinità gli suggerì di essere suo padre (Plutarco, Alex. 27,3–6). Inoltre, un oracolo divino di una profetessa della Ionia diede ad Alessandro ulteriori motivi per accettare le sue connessioni divine. Dal momento che Amon e Zeus sono stati a lungo collegati, ciò che la testimonianza storica chiarisce è che ad un certo punto Alessandro iniziò a definirsi figlio di Zeus. Inoltre, cercò attivamente di indurre gli altri a pensare a lui come una forma di Dio incarnato.
Le domande sulla divinizzazione di Alessandro, tuttavia, sembrano essere arrivate al culmine ad Atene negli anni 324–3 p.e.v. in un feroce dibattito filosofico sulla questione della proskynesis.[24] La questione principale riguardava i precedenti tentativi di Alessandro di introdurre la proskynesis — un'usanza della corte persiana, che come ha osservato Fletcher-Louis, implicava una "piena genuflessione", o almeno "un inchino più che minimo e l'inviare un riverente bacio" — anche nella corte greca.[25] La difficoltà era che l'atto comportava connotazioni diverse all'interno di questi due contesti culturali.[26] Per i persiani, il re esigeva la proskynesis da tutti i suoi sudditi, ma l'atto non trasmetteva implicazioni di divinità. In contrasto, i greci riservavano la proskynesis al culto divino e, come tale, doveva essere diretta solo agli dei.[27] Di conseguenza, quando Alessandro introdusse la pratica persiana della proskynesis nel contesto greco, le sue intenzioni sembra avessero superato la semplice unificazione di usanze di corte divergenti. Piuttosto, stava facendo un'affermazione esplicita sulla sua divinità e stava chiedendo ai suoi sudditi greci e macedoni di adorarlo come se fosse un dio.
Poiché la richiesta di proskynesis da parte di Alessandro scatenò gran parte della controversia e successivamente l'accettazione della sua deificazione, ha senso quindi che Flavio Giuseppe avesse reso la proskynesis una questione centrale nella sua descrizione dell'incontro Alessandro-Jaddua. Come la descrive Giuseppe, quando Alessandro vide Jaddua, vestito con il suo abbigliamento da Sommo sacerdote, adornato nella "veste blu-giacinto e oro" e "indossando in testa la mitra con la targa d'oro su cui era scritto il Nome di Dio", si avvicinò e fece proskynesis (προσεκύνησεν) davanti a lui (Ant. 11.331). L'atto era così contrario a ogni aspettativa che Giuseppe aveva bisogno di chiarire il punto. Flavio Giuseppe non solo suggerisce che i re di Siria sono così allarmati da questa azione da supporre che la mente di Alessandro sia diventata squilibrata (Ant. 11.332), ma Giuseppe aggiunge una nota in cui Parmenio, generale di Alessandro, chiede una spiegazione di ciò che egli ha fatto. In particolare, Flavio Giuseppe fa chiedere a Parmenio perché, quando tutti gli altri uomini fanno proskynesis davanti ad Alessandro, Alessandro fa proskynesis (προσεκύνησεν) davanti al Sommo sacerdote degli ebrei (Ant. 11.333). Nella domanda è implicito il presupposto che se altri fanno proskynesis davanti ad Alessandro perché i suoi atti militari hanno giustificato la sua venerazione come un dio, allora anche il Sommo sacerdote degli ebrei deve esser visto come divino. Perché altrimenti Alexander lo adorerebbe?
In questa versione della storia (ce ne sono molte altre), Alessandro non adora il Sommo sacerdote ebreo Jaddua per se; piuttosto, si prostra davanti al Nome (τὸ ὄνομα) di Dio (Ant. 11.331).[28] Per Alessandro, è il Nome di Dio, inciso sulla mitra d'oro in testa al Sommo sacerdote, che rende Jaddua degno di adorazione, non l'uomo in sé e per sé. Per rendere questo punto più enfatico, quando uno degli uomini di Alessandro gli chiede perché è caduto prostrato davanti al Sommo sacerdote, egli chiarisce rapidamente affermando: "Non adorai lui, ma il Dio che lo ha onorato con il Sommo sacerdozio." (Ant. 11.333). A prima vista, questo dettaglio sembra contraddire la mia argomentazione: cioè che il Sommo sacerdote è degno di adorazione perché incarna la presenza di Dio sulla terra per il popolo. Ma un esame più attento della questione rivela che la storia è più complicata.
In tutto il mondo greco-romano, molte persone si inchinarono o venerarono immagini di Dio,[29] perché credevano che questi idoli fossero le forme visive o incarnate di una divinità in terra.[30] Gli ebrei non avevano idoli. O almeno non dovevano (cfr. Es. 20: 2–3; Deut. 5: 6–8). Questo perché il loro Sommo sacerdote funzionava da icona o idolo.[31] In altre parole, il Sommo sacerdote diventò, in forma corporea, il Dio di Israele sulla terra. A causa di questa stretta connessione tra il Sommo sacerdote e Dio stesso, la "divinità" del Sommo sacerdote era vista come un'estensione della "divinità" di Dio.[32] Di conseguenza, il Sommo sacerdote poteva essere il destinatario della proskynesis, o adorazione, che un ebreo in genere riserva solo al sommo Dio d'Israele (cfr. Capitolo II). In questo modo, il Sommo sacerdote ebreo divenne la forma visibile e incarnata del Dio d'Israele in terra e nel suo ruolo di Sommo sacerdote – come colui che offriva sacrifici espiatori a Dio per conto del popolo – anche lui, come l'anima ispirato divinamente di Filone (cfr. Capitolo III), era il modo in cui le persone si collegavano al Dio di Israele.
Inserita in questo contesto, la narrazione di Flavio Giuseppe può essere vista per quello che è: una polemica intenzionale contro il diffuso presupposto greco-romano che l'imperatore potesse essere divino. In particolare, invertendo i ruoli tra Alessandro e Jaddua, Giuseppe suggerisce che è il Sommo sacerdote ebreo, e non Alessandro, che funziona come una forma di Dio personificato, o Dio visibile, sulla terra. Sebbene tutti nel mondo greco-romano avrebbero ricordato Alessandro per il suo genio militare, Giuseppe invece rappresenta Jaddua come colui che guida l'esercito di Alessandro alla vittoria. Inoltre, sebbene i suoi antichi biografi rivelassero che Alessandro richiedeva la proskynesis da tutti i suoi sudditi, Flavio Giuseppe presenta Jaddua come colui che è adorato da Alessandro, non viceversa. Quindi, l'ironia della storia di Josephus viene rivelata: sebbene Alessandro Magno sostenesse di essere divino, mediante una sottile rielaborazione di temi comuni dal più ampio ambiente religioso, Flavio Giuseppe suggerisce invece che è il Sommo sacerdote ebreo che occupa tale posizione. L'imperatore non è una forma incarnata di Dio sulla terra; è il rappresentante della religione sbagliata e del dio sbagliato. È invece il Sommo sacerdote ebreo che svolge questa funzione, e adorando lui le persone vengono a conoscere il vero Dio Unico di Israele.
Così anche Flavio Giuseppe, come ho sottolineato rispetto a Filone nel Capitolo III, offre un'altra prospettiva sui modi complessi in cui gli antichi ebrei comprendevano che Dio potesse essere incarnato sulla terra. Sebbene non sia la stessa articolazione del Vangelo di Giovanni, che discuterò nel Capitolo VI, Flavio Giuseppe – alla pari del Vangelo di Giovanni – rivela un modo in cui gli antichi ebrei capirono che Dio poteva assumere una forma corporea. Inoltre, sebbene non uguale all'anima di ispirazione divina proposta da Filone, il Sommo sacerdote di Giuseppe svolge un ruolo soteriologico significativo come strumento, o agente, mediante il quale gli umani possono riconnettersi con Dio. Nel caso di Flavio Giuseppe, tuttavia, il nesso dell'incarnazione di Dio nel mondo non è in figure particolarmente giuste/carismatiche – come Mosè o Gesù – ma addirittura nella figura del Sommo sacerdote ebreo stesso. In ciò che segue mi rivolgo a un altro autore ebreo di questo periodo che presenta il Sommo sacerdote come parte della divinità di Dio, sebbene attraverso un percorso molto diverso.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Biografie cristologiche. |
- ↑ Per ulteriori informazioni sulla biografia di Flavio Giuseppe ed il suo impatto, si vedano: Honora Howell Chapman e Zuleika Rodgers, curr. A Companion to Josephus (Chichester: John Wiley & Sons, 2016); Seth Schwartz, Josephus and Judean Politics (Leiden: Brill, 1990); Tessa Rajak, Josephus: The Historian and His Society (Londra: Duckworth, 1983); Shaye J. D. Cohen, Josephus in Galilee and Rome: His Life and Development as a Historian (Leiden: Brill, 1979).
- ↑ James S. McLaren, "Josephus and the Priesthood", in A Companion to Josephus, curr. Honora Howell Chapman e Zuleika Rodgers (Chichester: John Wiley & Sons, 2016), 273–281.
- ↑ Si vedano McLaren, "Josephus and the Priesthood", 273–75; Clemens Thoma, "The High Priesthood in the Judgment of Josephus", in Josephus, the Bible, and History, curr. Louis H. Feldman e Gohei Hata (Detroit: Wayne State University Press), 196–215, partic. 196.
- ↑ Cfr. McLaren, "Josephus and the Priesthood", 275–276.
- ↑ In Ant. 3.214–217, per esempio, dopo aver collegato la presenza di Dio coi paramenti del Sommo sacerdote, Flavio Giuseppe spiega che lo splendore delle gemme incastonate nelle vesti del Sommo sacerdote aveva smesso di brillare durante il suo tempo perché Dio era scontento di lui.
- ↑ Crispin Fletcher-Louis impiega un linguaggio simile quando descrive il Sommo sacerdote ebreo in questa narrazione come "la forma visibile e incarnata del dio di Israele" e "l'incarnazione del Nome divino". [cfr. Crispin Fletcher-Louis, "Alexander the Great’s Worship of the High Priest", in Early Jewish and Christian Monotheism, curr. Loren T. Stuckenbruck e Wendy E.S. North (Londran: T & T Clark, 2004), 72–103, partic. 88.]
- ↑ Per informazioni su come la preminenza del Sommo sacerdote aumentò dal tempo della dinastia davidica fino al Periodo Asmoneo, cfr. Boccaccini, Roots of Rabbinic Judaism, 43–72; Brutti, Development of the High Priesthood, part. 302–305 (sebbene Brutti consideri l'aumentata partecipazione del Sommo sacerdote nelle aree civiche la ragione del declino del sacerdozio); Seeman, Rome & Judea in Transition; Babota, Institution of the Hasmonean High Priesthood. In particolare, come ha notato James VanderKam, al tempo degli Asmonei, "le funzioni di Sommo sacerdote e capo di stato erano indubbiamente unificate in una sola persona", (cfr. VanderKam, From Joshua to Caiaphas, x). Per dettagli di come il potere effettivo e l'autorità del Sommo sacerdote iniziarono già ad essere diminuite durante l'epoca romana, quando Erode il Grande iniziò a smantellare il potere del sacerdozio di Israele controllando il processo d'elezione del Sommo sacerdote, cosicché egli (piuttosto che loro) poteva dominare il complesso del Tempio e il relativo sacerdozio, cfr. Rocca, Herod’s Judea.
- ↑ Di nuovo, da notare il linguaggio simile, presente in Flechter-Louis, "Alexander the Great", partic. 88–89.
- ↑ Dò qui una traduzione leggermente diversa dal testo riportato supra, per far meglio risaltare il corrispondente greco. Questo stralcio dalle Antichità 11.326, di Flavio Giuseppe, deriva da un filo narrativo più ampio che si estende da Ant. 11.302-45, che ho riportato integralmente all'inizio capitolo. In principio, questo pezzo sembra un miscuglio di trame indipendenti, ognuna disconnessa dalle altre. Innanzitutto, ne emerge una narrativa samaritana, incentrata su Manasse, Sanballat e le loro interazioni con il re persiano Dario e il leader macedone Alessandro Magno (11.302–3, 306-12, 315, 321-25). In secondo luogo, emerge un resoconto ebraico, che si concentra sulle interazioni tra il Sommo sacerdote Jaddua e Alessandro (11.317-19, 326-39). Terzo, appare un breve resoconto, che narra delle lotte tra Dario e Alessandro, quest'ultimo alla ricerca del dominio del mondo (11.304–5, 313-14, 316, 320).
A causa di queste complessità, una corrente principale di studi su questa trama è stata limitata alle questioni critiche delle fonti. Adolf Büchler, per esempio, suggerì che la storia di Giuseppe era composta da tre filoni indipendenti: una storia samaritana, una storia ebraica e un resoconto storico dei movimenti militari degli eserciti, persiano e macedone. Cfr. Adolf Büchler "La relation de Josèphe concernant Alexandre le grand", Revue des études juives 36 (1898): 1–26. Per un breve riassunto delle citazioni dall'argomentazione di Büchler, cfr. Ralph Marcus, trad. Jewish Antiquities, by Josephus. Ed. rived. Loeb Classical Library (Cambridge: Harvard University Press, 1951), 512–32, partic. 530-32. Un leggero emendamento alla tesi di Büchler sostiene che la storia originariamente riguardava due, non tre narrazioni indipendenti, la prima incentrata sulle "controversie tra ebrei e samaritani" e la seconda sulla "visita di Alessandro a Gerusalemme". Cfr. Tcherikover, Hellenistic Civilization, 42–44, citazioni da 43-44.
Un'altra linea popolare di indagine è che gli studiosi neghino qualsiasi storicità alla narrazione. Si veda Tcherikover, Hellenistic Civilization, 44–45; Erich S. Gruen, Heritage and Hellenism: The Reinvention of Jewish Tradition, Hellenistic Culture and Society 30 (Berkeley: University of California Press, 1998), 189–202, part. 189, 194, 244–245; Martin Hengel, Jews, Greeks, and Barbarians: Aspects of the Hellenization of Judaism in the Pre-Christian Period, trad. (EN) J. Bowden (Philadelphia: Fortress Press, 1980), 6–7; Bickerman, Jews in the Greek Age, 4–5. Due obiezioni spesso notate sono: primo, che nessuno storico greco-romano che descrisse la vita di Alessandro, riporta che egli visitò gli ebrei o i samaritani in quel periodo (Tcherikover, Hellenistic Civilization, 41–42; Bickerman, Jews in the Greek Age, 6). E in secondo luogo: sarebbe stato difficile per Alessandro visitare Gerusalemme tra l'assedio di Tiro e Sidone e questa campagna contro l'Egitto, poiché gli storici greco-romani riportano che egli intraprese questo viaggio nel 332 p.e.v. in una sola settimana. Cfr. A. D. Momigliano, "Flavius Josephus and Alexander’s Visit to Jerusalem", Athenaeum 57 (1979): 442–448; Tcherikover, Hellenistic Civilization, 45. Da notare che anche Richard Stoneman, "Jewish Traditions on Alexander the Great", Studia Philonica Annual 6 (1994): 37–53, non crede che la narrazione rifletta un evento storico reale quando afferma che "non c'è ragione per supporre che Alessandro abbia mai visitato di persona la Giudea" (39). L'immagine risultante per molti di questi studiosi è che la narrativa di Flavio Giuseppe è una fabbricazione letteraria. Il suo scopo potrebbe essere stato quello di "lusingare l'autostima ebraica" (cfr. Bickerman, Jews in the Greek Age, 5) o di parlare di Alessandro e degli ebrei "in termini elogiativi", ma alla fine il suo valore è per lo "studente di letteratura " e non per "lo storico" (cfr. Tcherikover, Hellenistic Civilization, 45).
Più recentemente, tuttavia, gli studiosi hanno utilizzato nuovi approcci metodologici alla storia. Shaye Cohen, ad esempio, ha combinato un approccio di religioni comparate con una vasta analisi letteraria per dimostrare come Giuseppe prende in prestito due tropi comuni dalla letteratura religiosa greco-romana. Cfr. Shaye Cohen "Alexander the Great and Jaddua the High Priest According to Josephus", in The Significance of Yavneh and other essays in Jewish Hellenism (Tübingen: Mohr Siebeck, 2010), 162-186. Allo stesso modo, Crispin Fletcher-Louis colloca la sua analisi letteraria all'interno di dibattiti più ampi sull'adorazione di Gesù. Si veda Crispin Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 71-102. Dal momento che considero che la mia ricerca possa beneficiare e dialogare con le loro scoperte, discuto il loro lavoro più a lungo sopra. A loro merito, entrambi dimostrano come la narrativa di Flavio Giuseppe illumini i forti legami che si stavano verificando tra l'ebraismo e il più vasto mondo greco-romano dell'epoca. Ma la mia analisi porta la loro logica un passo avanti. Trovo che Giuseppe non prenda semplicemente in prestito dai tropi letterari dal mondo greco-romano o scriva una polemica contro di loro. Piuttosto, il fatto stesso che egli presenti il Sommo sacerdote ebreo adorato da Alessandro Magno dimostra quanto profondamente fosse radicata la sua ideologia nel più vasto mondo greco-romano. - ↑ VanderKam, From Joshua to Caiphas, 63−85, partic. 63−64. Entrambi i passi suggeriscono che Jaddua fosse l'ultimo Sommo sacerdote della sua linea genealogica, e l'ultimo passo implica che egli regnò durante il Periodo Persiano.
- ↑ Per una datazione di questa moneta verso "la prima metà del quarto secolo p.e.v.", cioè nel periodo di Jaddua I, si veda A. Spaer "Jaddua the High Priest?" Israel Numismatic Journal 9 (1986−87): 1−3, part. 3. Per una datazione più complessa di queste monete, si veda Meshorer, A Treasury of Jewish Coins, 36.
- ↑ Anche qui fornisco una traduzione leggermente diversa e letterale, per far meglio risaltare il corrispondente greco.
- ↑ Per ulteriori informazioni sul significato e l'importanza dei paramenti del Sommo sacerdote in questa narrazione, si veda Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 86–87.
- ↑ Come asserisce Daniel Schwartz, questa frase "è un marcatore letterario usato da Flavio Giuseppe per uno scopo specifico. Se il passaggio in questione o la ripresa basata sulla fonte principale immediatamente dopo vengono introdotti dalle parole ‘in questo momento’, è probabile che sia stato copiato da una fonte ausiliaria". Cfr. "Κατὰ δὲ τοῦτον τὸν καιρὸν: Josephus’ Source on Agrippa II", JQR 72 (1982): 241−68.
- ↑ Si veda Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 87.
- ↑ Margaret Barker, "The High Priest and the Worship of Jesus", in Jewish Roots of Christological Monotheism, curr. Carey C. Newman, James R. Davila, e Gladys S. Lewis (Leiden: Brill, 1999), 93–111, part. 101.
- ↑ Fletcher-Louis ha inoltre notato come "un brano di Giuseppe (Ant. 3.154-6) indichi che la sua fascia era indossata per evocare l'immagine del Leviatano ucciso che giace al lato del conquistatore. I melograni e campane d'oro agli orli delle sue vesti evocano il tuono e i fulmini del guerriero divino (Guerre 5.231; Ant. 3.184)". Si veda "Alexander the Great", 87.
- ↑ Come ha osservato Thoma: "Agli occhi di Giuseppe, i paramenti e l'ufficio del Sommo sacerdote stabilivano un certo tipo di focus terreno cristallino riguardo ad un Dio inottenibile, ma disponibile ad aiutare". Cfr. Thoma, "High Priesthood in the Judgment of Josephus", 198.
- ↑ Questo potrebbe essere un riferimento proprio a Esodo 28-29 (cfr. Lev. 8) in cui Dio per la prima volta fornisce al fratello di Mosè, Aronne, istruzioni specifiche in merito ai paramenti del Sommo sacerdote. Per altre descrizioni delle vesti del Sommo sacerdote, si vedano Sir. 45:7–12; Let. Aris. 1.96–99; T. Lev. 8.3–13; Wis. 18:24; Filone, Mos. 2.117–26.
- ↑ Si veda E. Badian, "Alexander the Great between two thrones and Heaven: variations on an old theme", in Subject and Ruler: The Cult of the Ruling Power in Classical Antiquity. Papers Presented at a Conference Held in the University of Alberta on April 13–15, 1994, To Celebrate the 65th Anniversary of Duncan Fishwick, cur. Alastair Small (Ann Arbor: Thomson-Shore, 1996), 11–26.
- ↑ Badian, "Alexander the Great", 24.
- ↑ Cfr. nota 12.
- ↑ Si veda E. Badian, "The Deification of Alexander the Great", 28.
- ↑ Si veda Badian, "Deification of Alexander the Great", 27–71, partic. 30–31, 54–59.
- ↑ Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 84.
- ↑ Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 84–86.
- ↑ Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 84.
- ↑ Resoconti paralleli la recensione giudaizzante di Pseudo-Callistene, Romanzo di Alessandro (ii.24), b. Yoma 69a par. Scholion a Megillath Ta‘anith cap. 9 per il 21 di Tislev, Josippon 10.3–51, e Samaritan Chronicle II samaritana (Folio 129B–130B). Queste versioni parallele rivelano che la storia fece molta impressioni nell'antichità.Studi accademici su questi altri resoconti includono, int. al.: Tcherikover, Hellenistic Civilization, 46–49; Stoneman, "Jewish Traditions on Alexander the Great", 41–45; Fletcher-Louis, 74–79; Neis, Sense of Sight.
- ↑ Da notare anche, per esempio, che nel suo commento all'incontro Alessandro-Jaddua, Elias Bickerman attira l'attenzione sul modo in cui altre storie parallele coinvolgono una persona che vede l'idolo o l'icona di una divinità greco-romana più o meno allo stesso modo di come il Sommo sacerdote ebreo nella narrativa di Flavio Giuseppe sembra funzionare da icona o idolo del Dio di Israele. Come osserva Bickerman: "Questa storia ridicola giudaizza racconti greci di natura simile. Fu detto, ad esempio, che intorno al 400 p.e.v. il re celtico Catumundus assediò Marsiglia. Nel sonno vide una dea che gli ordinava di terminare l'assedio; obbedì, fece pace con la città e riconobbe nell'idolo di Atena, che vide a Marsiglia, la donna della sua visione". Cfr. Bickerman, Jews in the Greek Age, 5.
- ↑ Vedi Cohen, "Alexander the Great", 162–186. In questo articolo, Cohen chiarisce ulteriormente come il Sommo sacerdote ebreo potesse funzionare come la forma visibile della divinità israeliana, mappando i tropi greco-romani di avvento ed epifania sulla storia di Flavio Giuseppe riguardo all'incontro di Alessandro con Jaddua (Ant. 11.302–45). Secondo Cohen, ad esempio, come i tipici tropi attesi in una narrazione dell'avvento greco-romano, così Giuseppe, nel descrivere Alessandro che si avvicina alla città, raffigura Dio che parla direttamente a Jaddua, dicendogli di adornare la città con ghirlande, di far vestire le persone in abiti bianchi, e di avere i sacerdoti e se stesso vestiti con i paramenti speciali prescritti dalla Torah (cfr. 11.327). Tuttavia, la differenza chiave tra l'avvento tipico e quello descritto da Giuseppe è ciò che portano le persone. In altre città greco-romane, i cittadini "avrebbero portato varie insegne, in particolare le statue degli dei della città" (Cohen, "Alexander", 166). Ma agli ebrei – a causa dei loro comandamenti nella Torah – non è permesso fare un idolo o un'immagine del loro Dio. Di conseguenza, il Sommo sacerdote, Jaddua, svolge questo ruolo. Invece di essere guidato da una coterie di idoli, Jaddua guida i suoi ebrei ad accogliere Alessandro. È per questo motivo che Flavio Giuseppe può affermare che l'avvento ebraico ha un carattere sacro, ma diverso da quello delle altre nazioni (cfr. 11.329). Qui è dove entra in gioco il secondo genere di letteratura, l'epifania. In un'epifania, sostiene Cohen, c'è spesso "una manifestazione visibile di una divinità nascosta, sia nella forma di un'apparizione personale, sia mediante qualche atto di potenza con la quale viene resa nota la sua presenza" (Cohen,"Alexander", 169). Quando appare la divinità, questa cambia la traiettoria dell'incontro. L'"aggressore", in questo caso Alessandro, "riconosce esplicitamente il potere del dio", perché egli incontra la manifestazione visibile della divinità nascosta nella persona del Sommo sacerdote ebreo (Cohen, "Alexander", 171). Quindi, attingendo ai temi greco-romani sia dell'avvento che dell'epifania, Flavio Giuseppe suggerisce che il Sommo sacerdote ebreo funziona come manifestazione, o immagine, di Dio in mezzo a loro.
- ↑ In effetti, come dice giustamente Fletcher-Louis: "Il Sommo sacerdote di I è il giusto destinatario dell'adorazione perché egli è per il Dio unico di Israele quello chel'idolo pagano o statua è per il loro dio." Cfr. Fletcher-Louis, "Alexander the Great", 80.
- ↑ Per la capacità di entità minori (incluse quelle create) di condividere la divinità del Dio supremo d'Israele, cfr. Litwa, "Deification of Moses", 5–8; idem, We are Being Transformed, 106-109, come anche la mia discussione al Capitolo II.