Ebraicità del Cristo incarnato/Struttura
Struttura analitica dello studio
[modifica | modifica sorgente]Riconoscendo che nessuna idea emerge in modo isolato e che tutte le nuove intuizioni sono solo nuove configurazioni di interpretazioni passate, il mio progetto riunisce le precedenti conclusioni di tre principali tendenze della ricerca in un modo nuovo e innovativo. Sebbene il lavoro pionieristico di studiosi come Segal, Dunn e Boccaccini stabilisse la crescita parallela dell'ebraismo e del cristianesimo come religioni derivative e rivali, emergendo dallo stesso grembo dell'ebraismo del Secondo Tempio in seguito alla distruzione del Tempio ebraico nel 70 e.v.,[1] il lavoro più recente di studiosi come Daniel Boyarin, John Gager, Judith Lieu, Israel Yuval, Annette Reed e Adiel Schremer ha sfumato questa prospettiva in modo significativo.[2] Come sottolineato da Reed, questi studiosi hanno evitato "la semplicità sociologica e metodologica dell'idea di una singola e precoce separazione" e invece hanno dimostrato che "gli sforzi ebraici e cristiani di autodefinizione sono rimasti intimamente interconnessi, carichi di ambivalenza e sorprendentemente fluidi, molto dopo la cosiddetta ‘Separazione delle Vie’".[3] Di conseguenza, gli studiosi ora riconoscono la notevole complessità e l'innegabile fluidità all'interno di questa tradizione religiosa condivisa, che non si separò formalmente nelle religioni di ebraismo e cristianesimo fino almeno al IV secolo e.v., se non molto più tardi. Pertanto, il mio lavoro mette queste intuizioni in conversazione con la più recente ricerca ebraica, che ha recuperato un senso del corpo di Dio all'interno dell'antica Israele e della prima tradizione rabbinica. In particolare, se si può vedere la formula incarnazionale di Giovanni 1:14 come semplicemente una delle molte varietà di modi in cui gli ebrei del Secondo Tempio, di cui i primi seguaci di Gesù erano solo un sottogruppo, stavano articolando un'ideologia di "incarnazione divina", ciò che inizierà a emergere è sia un quadro storico delle varie teologie della "personificazione divina" operative durante il primo secolo dell'era volgare, sia una comprensione di come queste nozioni si svilupparono nei successivi movimenti cristiani e rabbinici.
Questo mio studio affronta l'argomento in tre parti principali. Nella prima parte, che comprende anche il secondo capitolo, ricontestualizzo un termine chiave – vale a dire, la nozione di antico monoteismo ebraico – rispetto alla mia più ampia indagine sull'incarnazione divina nel periodo del Secondo Tempio. Tale ricontestualizzazione mi permette di passar oltre dibattiti che hanno ostacolato i progressi in questo campo, in particolare la questione di come i primi cristiani, che erano essi stessi monoteisti ebrei, avrebbero potuto credere in un Gesù che era anche divino. Questo spostamento non avrebbe comportato un passo verso il diteismo? La mia ricerca in questo capitolo complica e alla fine smantella questa ipotesi da due prospettive principali: prima prospettiva — sfido l'adeguatezza del termine "monoteismo" per descrivere la credenza ebraica in questo periodo, dimostrando che il "monoteismo" e il suo aggettivo derivato, "monoteista", non esistevano nell'antichità. Fu solo nel bel mezzo dei dibattiti filosofici del diciassettesimo secolo che Henry Moore coniò il termine per la prima volta. Imporlo all'immaginazione ideologica degli ebrei che vivono nel I secolo e.v. è anacronistico e non incapsula completamente la complessità delle antiche credenze ebraiche su Dio. Seconda prospettiva — suggerisco che usare i descrittori di un Dio supremo increato da cui provenga tutta l'altra realtà sia un modo migliore di concepire Dio nel periodo del Secondo Tempio, perché questo è il linguaggio che gli ebrei antichi impiegavano effettivamente nel descrivere Dio. Sostengo che, sebbene il monoteismo ebraico non esistesse di per sé, poiché gli ebrei antichi concepivano l'unicità della divinità in un modo complesso e gerarchico, essi capivano che c'era una chiara separazione tra l'uno Dio increato e tutte le altre realtà.
Stabilire questa nuova descrizione di Dio come l'unica entità increata da cui emerge tutta l'altra realtà pone le basi per il mio lavoro nei capitoli successivi dello studio. Mi permette di dimostrare come la versione del Vangelo di Giovanni sull'incarnazione divina sia in continuità con, ma distinta da, altre espressioni ebraiche del primo secolo di questo fenomeno. Da un lato, ci sono molti esempi di umani particolarmente giusti, come Mosè (cfr. Capitolo III) e persino il Sommo sacerdote ebreo (cfr. Capitolo IV), che, sebbene creato, incarnano il divino sulla terra o vengono divinizzate a causa della loro azioni giuste. Ma queste figure non diventano mai completamente sinonimo del Dio supremo increato di Israele. Sebbene considerate divine, poiché partecipano all'alta divinità di Dio increato, una parte di loro rimane sempre radicata nella creazione che Dio ha fatto. D'altra parte, ci sono diversi esempi di attributi di Dio – come la sapienza di Dio (Capitolo V) e la parola di Dio (Capitolo VI) – che sebbene tipicamente compresi sotto la più ampia rubrica dell'unicità di Dio, diventano personificati e attivi nella creazione. Quindi, anche in questo modo, anche queste figure rappresentano i modi in cui il divino si incarna nel mondo (e spesso in umani specifici). La versione dell'incarnazione divina del Vangelo di Giovanni si trova pertanto in continuità con queste altre descrizioni ebraiche del primo secolo riguardo all'incarnazione divina perché in essa vediamo il logos (che è considerato divino, sebbene non sinonimo della suprema divinità increata di Israele) che entra nell'umanità creata. Tuttavia, il Vangelo di Giovanni è anche distintivo in quanto questa estensione del Dio supremo increato (cioè il logos) entra in un particolare individuo creato (cioè Gesù) e questa particolarità ha un significato supremo per gli sviluppi cristologici successivi. A quel tempo, tuttavia, era semplicemente uno dei tanti modi in cui gli ebrei del I secolo immaginavano che il divino divenisse materializzato sulla terra.
Avendo stabilito questa struttura, la seconda parte del mio studio (Capitoli III & IV) fornisce un'analisi approfondita di due modi in cui la letteratura ebraica del Secondo Tempio presenta esseri umani particolarmente giusti, che, sebbene creati, incarnano il divino sulla terra. Il mio terzo capitolo esamina le descrizioni di Filone di Alessandria su come Dio abbia instillato una scintilla divina nelle anime degli umani, in modo che gli umani creati possano tornare a Dio. Esaminando un passaggio di Genesi 2:7, che descrive Dio che infonde il respiro della vita nelle narici di Adamo, dimostro che Filone lo interpreta nel senso che l'anima dell'uomo terreno – in contrasto con il suo corpo – procede direttamente dal Dio increato, impartito nella mente umana attraverso un afflato diretto da parte di Dio stesso. Quindi, Filone vede le anime dell'umanità, sebbene ospitate nei corpi umani creati, come non-create alla pari di Dio stesso. Tuttavia, per Filone questa forma di incarnazione divina è solo una sistemazione temporanea. Il suo scopo è di aiutare gli umani, attraverso le loro riflessioni filosofiche, a rimuoversi dalle loro restrizioni corporee create, risalendo così verso Dio. Nella parte successiva del capitolo, esaminerò le descrizioni effettive di Filone sulle ascese mistiche, con particolare enfasi sulla sua rappresentazione di Mosè. Noto le somiglianze tra l'anima umana divinamente materializzata proposta da Filone e il Gesù incarnato del cristianesimo, poiché entrambi diventano immanenti nel mondo creato per diventare gli strumenti o gli agenti con cui gli umani possono essere salvati da questo mondo per partecipare invece a quello divino.
Il mio quarto capitolo analizza un'altra figura umana creata, vale a dire il Sommo sacerdote ebreo, che anche molti testi ebraici descrivono o come incarnazione del divino sulla terra o presente in una forma elevata e divinizzata. Per dimostrare questa affermazione, utilizzo tre esempi di casi studio che risalgono agli inizi dell'era volgare: da Flavio Giuseppe, dai Manoscritti del Mar Morto (11QMelch) e da Filone di Alessandria. Metto poi a confronto il modo in cui questi testi ebraici presentavano il Sommo sacerdote con come la cultura greco-romana venerava gli imperatori come divini, al fine di discutere su come e perché molti ebrei di questo periodo iniziarono a pensare al Sommo sacerdote come se fosse Dio stesso. Cioè, dimostrerò perché molti ebrei o iniziarono a concepire il Sommo sacerdote come presenza visibile di Dio sulla terra, o come partecipare alla divinità del Dio supremo. Con tutte queste prove a disposizione, rivelo allora come, a metà del I secolo e.v., Filone può affermare che il Sommo sacerdote ebreo "non è più un uomo (ἄνθρωπος οὐκ ἔσται)", non essendo né creato come umano né increato come Dio, ma una sorta di intermediario tra Dio e l'umanità. Quindi il testo raffigura il Sommo sacerdote come il ponte perfetto tra i due reami (Somn. 2.189; cfr. Somn. 2.231).
La terza e ultima parte del mio studio (capitoli cinque e sei) indaga su come le figure di "sapienza (חכמה / σοφία)" (Capitolo V) e "parola (λόγος)" (Capitolo VI), sono state talvolta concepite come estensioni dell'unicità del Dio supremo increato di Israele, e quindi anche loro stesse divine, ma altre volte personificate e alla fine incarnate nel mondo creato. Concentrandomi sulla figura della sapienza nel Capitolo V, esploro le implicazioni di una figura femminile che incarna la presenza di una divinità maschile nel mondo, ritornando così ai temi introdotti per la prima volta nel Capitolo II sul monoteismo ebraico. Dimostro come si sia svolto un dibattito attivo in tutta la più ampia tradizione ebraica se la sapienza fosse un'estensione della divinità del Dio supremo di Israele o creata come la prima delle opere di Dio. Chiaramente, gli antichi avevano una comprensione di Dio come Creatore e discutevano attivamente di ciò che poteva o non poteva essere concepito come parte di quel Dio Creatore.
Nel Capitolo VI, esamino la figura del logos di Dio. Filone di Alessandria e il Vangelo di Giovanni sono i miei esempi primari. Rispetto al primo, sostengo che il logos di Filone illumina la misura radicale in cui certi testi ebraici del I secolo potrebbero accogliere una biforcazione nella loro concezione di Dio, con un Dio trascendente e un Dio incarnato (o almeno un figura immanente intermedia divina), entrambi simultaneamente inclusi nella più ampia rubrica dell’unicità di Dio. Pertanto, sebbene le descrizioni del logos di Filone non siano esattamente le stesse della dottrina dell'Incarnazione sviluppata nel cristianesimo, forniscono un esempio lampante di una figura divina intermedia, proprio come il Gesù incarnato del cristianesimo successivo, che colma il divario tra il Dio increato e gli umani creati, diventando immanente nel mondo creato, e quindi giocando un ruolo soteriologico significativo.
Rispetto a quest'ultimo, presento due argomenti principali. Primo, ritengo che la descrizione del Vangelo di Giovanni sulla parola divina fatta carne fosse abbastanza simile a queste altre forme di incarnazione divina. Poiché in Giovanni abbiamo anche un attributo di Dio (cioè il logos) e non il Dio supremo increato, che si incarna pienamente in un particolare essere umano. Secondo, mostro come, quando il Vangelo di Giovanni viene letto alla luce della duplice allegorizzazione del logos di Filone, appare una nuova comprensione della forma dell'incarnazione di Dio presente nel Vangelo. Dato che nel Vangelo Gesù non incarna solo la presenza di Dio nel mondo nel momento in cui viene identificato come il "logos divino fatto carne" (cfr. Giovanni 1:14); egli incarna Dio in tutto il Vangelo tramite le parole, o logoi, che egli pronuncia. In effetti, è solo alla fine del Vangelo, dove Gesù è pienamente identificato con il Dio supremo di Israele (cfr. Giovanni 20:28). In questo modo, il capitolo affronta una domanda di vecchia data che ha irritato gli studiosi giovannei in merito alla relazione tra il prologo del Vangelo di Giovanni, che introduce il concetto di logos, e il resto del Vangelo, in cui il concetto di logos è apparentemente assente. Sostengo che non è assente, ma che lo scrittore del Vangelo allude sottilmente ad esso in tutto il Vangelo, sottolineando il significato delle parole di Gesù (cioè i logoi). Gesù è quindi colui che incarna Dio nel mondo – non solo attraverso la sua identificazione con e come logos – ma anche e in modo più significativo attraverso le parole (cioè i logoi) che pronuncia. Inoltre, dimostro che prestando attenzione a ciò che Gesù dice in tutto il Vangelo, i lettori giungono a una migliore comprensione del modo in cui Gesù e Dio Padre condividono l'identità divina, ma sono distinti l'uno dall'altro. In particolare, mostro come in tutto il Vangelo Gesù non è presentato solo come Dio, lo IO SONO (ἐγω είμι), ma anche come Dio, colui che parla (ὁ λάλῶν). Attraverso le sue parole, Gesù rende l'ineffabile e inconoscibile Dio Padre (cioè la divinità suprema increata di Israele) sia udito che conosciuto.
Nel fare queste affermazioni, situo il Vangelo di Giovanni – e la sua descrizione di Gesù come la parola divina fatta carne (ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο) – in un particolare momento della storia ebraica. Sebbene gli studiosi abbiano a lungo indicato Giovanni 1:14 come il punto in cui la storia cristiana si è differenziata dalla sua ebraicità, io sostengo che il versetto rappresenta solo uno dei tanti modi in cui gli ebrei agli inizi dell'era volgare capirono che Dio poteva assumere forma corporea. Questo capitolo dimostra come, sebbene sia distintivo, l'articolazione del Vangelo di Giovanni sull'incarnazione divina è comunque ebraica. Perché, sebbene in seguito avrebbe avuto un impatto significativo sullo sviluppo della dottrina cristiana dell'incarnazione, durante il suo periodo storico, il Vangelo faceva ancora pienamente parte dell'ampia varietà di modi che gli ebrei di fine I secolo concepivano come Dio potesse materializzarsi nel mondo. In questo modo, la descrizione di Giovanni sull'incarnazione divina, come altre forme all'interno del primo e del secondo secolo dell'era volgare, stava cercando di affrontare una specifica questione soteriologica, vale a dire come gli umani, sebbene creati e separati da Dio, potessero essere salvati connettendosi o riconnettendosi con il Dio Creatore supremo increato.
La mia ricerca dimostra che il concetto di incarnazione di Dio non era antitetico all'ebraismo, come ipotizzavano gli studiosi del passato, ma piuttosto parte integrante della tradizione. Concentrandomi su un momento particolare della storia ebraica, il mio lavoro resiste alla lettura anacronistica delle prove comuni agli specialisti neotestamentari. In tal modo trova un punto di comunanza tra tradizioni ebraiche e cristiane e apre un potenziale punto di contatto per il dialogo ebraico-cristiano d'oggi.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Biografie cristologiche. |
- ↑ Segal, Rebecca’s Children; Dunn, Partings of the Ways; Gabriele Boccaccini, Middle Judaism: Jewish Thought 300 B.C.E. to 200 C.E. (Minneapolis: Fortress Press, 1991).
- ↑ Si veda Judith Lieu, "‘The Parting of the Ways’" 101–19; Boyarin, Dying for God, 1–21; idem, Borderlines, 17–33; idem, "Rethinking Jewish Christianity", 7–36; Reed e Becker, "Introduction", 1–33; Schremer, Brothers Estranged, 3–24.
- ↑ Reed, "Jewish Christianity", 225. Allo stesso modo Schremer sfida il modello semplicistico quando scrive: "L'ipotesi che la distruzione del Secondo Tempio segni una rottura nella storia ebraica sottoscrive, in un senso profondo, un'affermazione teologica cristiana, e non è così semplice come sembra a volte" (cfr. Schremer, Brothers Estranged, 5). Inoltre, Schremer sostiene che questa percezione accademica degli sviluppi paralleli tra un cristianesimo pienamente formato e un ebraismo pienamente formato ha portato diversi studiosi a leggere polemiche anticristiane in scritti rabbinici quando gli attacchi sono invece rivolti al potere imperiale romano.