Ebraicità del Cristo incarnato/Paradigma ultimo

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"Beatificazione di Mosè", incisione di Bernhard Plockhorst, 1908

Mosè come paradigma ultimo di Filone[modifica]

"Philo Judeus" Filone di Alessandria, 1493
"Philo Judeus" Filone di Alessandria, 1493

Se Abramo, Isacco e Giacobbe stabiliscono il legame tra l'incarnazione di Dio nelle anime umane e la deificazione umana, Mosè funziona come il paradigma ultimo di Filone.[1] In effetti, le sue descrizioni di Mosè spesso si leggono come agiografia.[2] Tuttavia rappresentano anche una persona per la quale la scintilla della divinità, attraverso l'aspirazione diretta dello spirito di Dio, può essere vista più chiaramente delle altre. Questo perché Mosè coltiva, mediante il suo impegno con la filosofia, una mente particolarmente simile al divino (Mos. 1.27). Ad esempio, le osservazioni di Filone in Mos. 1.27 dimostrano che

« abbastanza ragionevolmente, quindi, tutti coloro che trascorsero del tempo con lui [cioè Mosè] e tutti gli altri rimasero stupiti, meravigliati come da un nuovo spettacolo, ed esaminarono quale tipo di mente (νοῦς) era quella che dimorava nel suo corpo (σώματι)... se fosse una mente umana o un intelletto divino (πότερον ἀνθρώπειος ἢ θεῖος), o miscelati da entrambi (ἢ μικτὸς ἐξ ἀμφοῖν); poiché egli non aveva nulla di simile ai molti, ma era passato oltre tutti loro ed si era elevato a un'altezza maggiore. »
(Mos. 1.27)

Inizialmente, Filone presenta Mosè come l'uomo santo perfetto; qui indica una nuova direzione più radicale. Sebbene Filone non stabilisca esplicitamente una connessione con la sua esegesi di Gen. 2:7, in cui presenta l'anima o la mente umana come il luogo in cui Dio si stabilisce sulla terra, a vantaggio della nostra razza (Opif. 135b), né crea un riferimento specifico all'approfondimento della filosofia da parte di Mosè, egli collega chiaramente entrambi i concetti alle sue descrizioni di Mosè.[3] Rispetto al primo, Filone spiega come, a causa della mente di Mosè, che altri si interrogano se sia di natura umana o divina, Mosè sia in grado di andare oltre tutti gli altri e di riuscire ad "elevarsi a un'altezza maggiore" (Mos. 1.27). La scintilla del divino – anzi, quella parte dell'essenza di Dio precedentemente instillata in lui – è più evidente in Mosè rispetto agli altri umani. In questo caso, Filone presenta spesso Mosè che supera tutti i suoi pari in termini di acume intellettuale. Cresciuto dalla nobiltà egiziana, per esempio, Filone lo presenta come uno che ha ricevuto un'istruzione avanzata, acquisendo competenza in aritmetica, geometria, musica e persino letteratura (Mos. 1,4-24). Ma per di più, Filone raffigura Mosè come un saggio ideale,[4] che non solo studiava saggezza e conoscenza con insaziabile persistenza (Plant. 23–27), ma che cercava dappertutto per vedere [Dio] in modo chiaro e semplice (Mut. 8 –10; Post. 13),[5] attributi che senza dubbio si associavano a una persona che aveva una vasta istruzione filosofica. Filone presenta quindi Mosè – come il Socrate di Platone – quale filosofo ideale, "un essere che", sebbene non identico al dio supremo, "poiché appare a prima vista come un uomo ordinario, è tuttavia superiore agli uomini. È un daimōn, o un misto di divinità e umanità", perché il suo impegno con la filosofia ha cambiato proprio il modo in cui vive.[6] Mettendo insieme queste testimonianze, si può vedere come Filone presenti Mosè a riconnettersi con l'aspetto divino in lui, permettendogli così di trascendere la razza umana mediante le qualità uniche e divine della sua mente.

In Mos. 1.158, tramite un chiaro gioco su temi della Torah mosaica e della tradizione filosofica greca, Filone suggerisce come Mosè, più di tutti gli altri e attraverso le sue ascese mistiche, si avvicini alla divinità più alta di Israele, condividendo persino il nome divino.

« Cosa allora? [Mosè] non ha forse goduto di una più grande amicizia con il Padre e il Creatore dell'universo, essendo ritenuto degno dello stesso titolo? Poiché fu nominato dio (θεός) e re (βασιλεύς) di tutta la nazione, e si dice che fosse entrato nell'oscurità dov'era Dio; vale a dire, nell'essenza informe, invisibile e incorporea, il paradigma di tutte le cose esistenti, dove vide cose invisibili alla natura mortale. In verità, avendo messo in relazione sia se stesso che la sua vita, li pose davanti a noi, come un quadro ben fatto, un'opera bella e simile al divino, un paradigma (παράδειγμα) per coloro che sono disposti a emularlo. »
(Mos. 1.158)

Due temi interconnessi in questo stralcio rafforzano la condizione di Mosè. Innanzitutto, Filone presenta Mosè, attraverso un mistico viaggio di ascesa, che raggiunge il luogo stesso delle tenebre dove dimora Dio. In secondo luogo, attraverso una sottile mossa esegetica, Filone interpreta Esodo 7:1, un passo che afferma che Mosè deve essere come un dio per il Faraone ("θεὸν Φαραώ"), nel senso che Mosè non era solo simile a Dio ma che era degno anche della denominazione θεός (cfr. Leg. 1.40; Migr. 84; Somn. 2.189). La combinazione di queste due influenze crea un effetto drammatico. Attraverso di loro, Filone afferma che Mosè non fu solo un essere umano esemplare ma, a causa della sua unica comunione con Dio, fu degno di condividere anche il nome θεός. Mosè, tuttavia, non riceve il nome θεός mentre rimane con Dio; piuttosto, lo acquisisce solo dopo essere tornato sulla terra. Questa osservazione reifica ulteriormente il legame tra le descrizioni di Filone dell'ascesa a Dio di esseri umani partivolari e la materializzazione di Dio in essi. Senza l'ascesa senza precedenti di Mosè verso la stessa "oscurità in cui era Dio" (Mos. 1.158), Mosè non poteva funzionare come forma incarnata di θεός per la nazione di Israele: solo dopo aver ottenuto questo successo poteva diventare l'ideale παράδειγμα anche per quelli dopo di lui che vogliono avvicinarsi al divino.

Filone dà il nome θεός a Mosè in Mos. 1.158, ma alla fine vede la divinità più alta di Israele come superiore a qualsiasi titolo che gli umani possano dare. Rispetto ai nomi che Filone propone per Dio, alcuni studiosi hanno notato la propensione di Filone a descrivere Dio in termini di ciò che Dio non è, piuttosto che in termini di ciò che Dio è.[7] Inoltre, basandosi sulla sua esegesi di Esodo 3:14-15 (Mos. 1.74–76; Mut. 11–24), dove Dio si riferisce a se stesso come ἐγώ είμι ὁ ὤν, altri hanno suggerito che Filone introduce una gerarchia rispetto ai nomi di Dio, con τὸ ὄν in cima e nomi come κύριος e θεός come minori.[8] Ma è meglio dire che Filone vede tutti i nomi come rappresentazioni imperfette di quella alta divinità stessa. Come spiega Filone, tutti i nomi – a differenza della più alta divinità di Israele – fanno parte dell'ordine creato (Mut. 14). Esistono come simboli concreti di principi più astratti. Tuttavia non sono, come la più alta divinità di Israele, loro stessi increati. Di conseguenza, sebbene Filone presenti Dio che offre agli umani diversi nomi coi quali possano venire a conoscerLo (Mut. 11–12, 18–24), considera questi nomi semplici concessioni: forniscono agli uomini un mezzo per parlare di Dio, ma non sono sinonimo del Sé peculiare di Dio (Mut. 14). Sia che Filone parli o meno della sua suprema divinità trascendente come θεός, κύριος, μονάδην, o τὸ ὄν, non importa: tutti i nomi indicano semplicemente la divinità più alta di Israele, il solo Uno increato.

Date queste complessità sulla comprensione del linguaggio da parte di Filone, chiaramente egli può usare il nome θεός per riferirsi alla divinità più alta senza assegnare a quella parola l'ineffabile divinità dell'entità che nomina.[9] Sebbene gli umani – anche quelli degni di nota come Mosè – possano tentare, di Dio alla fine si può solo sapere che Egli esiste.[10] Qualsiasi rappresentazione concreta di Dio, sia attraverso un nome o una visione, è solo uno strumento che la più alta divinità ha dato agli umani per immaginare e parlare di Lui. Dio è in definitiva al di là di ogni comprensione umana (cfr. Post. 15–16; 168–69). Quindi, anche se Filone presenta Mosè che raggiunge il punto senza precedenti di partecipare al nome divino θεός (Mos. 1.158, Sacr. 9), e sebbene Mosè funzioni anche come la forma manifesta di θεός per i suoi correligionari israeliti sulla terra (Mos. 1.158, Sacr. 9), come i patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe prima di lui, Mosè non raggiunge mai la piena sinonimia con l'Altissimo Dio di Israele.

In Sacr. 8-10 (cfr. QE 2.40), un brano sugli eventi che circondano la morte di Mosè, Filone descrive ulteriormente come gli effetti delle ascese mistiche di Mosè gli consentano di intraprendere il processo di apoteosi.

« Ci sono alcuni che Dio ha preparato, dopo aver[li] condotti in alto – per volare oltre tutte le razze – e aver[li] sistemati vicino a Sé. Come Egli dice a Mosè: "Tu invece resta qui con me (στῆθι μετ᾽ ἐμοῦ)" (Deuteronomio 5:31). Pertanto, quando costui (cioè Mosè) sta per morire, non viene aggiunto, essendo eclissato, proprio come gli uomini precedenti, né viene creato spazio per lui per "addizione", né per "sottrazione", ma... [Dio] lo designò come un dio (θεὸν), dichiarando tutte le cose relative al corpo e al suo regolatore, la mente, soggette e schiave [a lui]. "Vedi, io ti ho stabilito (δίδωμι γάρ σε)", dice, "come Dio per il faraone (θεὸν Φαραώ)" (Esodo 7:1). Ma Dio non si sostiene per sottrazione o addizione, essendo completo e del tutto uguale a se stesso. Per il qual motivo [si dice]: "Nessuno fino ad oggi ha mai saputo dove sia la sua tomba (cioè di Mosè) (τὴν ταφὴν λέγεται μηδὲ εἷς εἰδέναι τούτου)" (Deuteronomio 34:6) poiché chi potrebbe essere in grado di osservare la migrazione di un anima perfetta verso il Dio vivente (πρὸς τὸν ὄντα)? Né suppongo che l'anima stessa, in attesa di ciò, fosse a conoscenza del proprio miglioramento, in quanto stava diventando divina (ἐπιθειάζουσαν). »
(Sacr. 8-10)

Per gettare le basi della sua argomentazione, nel mezzo di questo stralcio Filone mette insieme alcuni passaggi chiave della Torah mosaica. Citando Deuteronomio 5:31, dove Dio dice a Mosè: "Tu invece resta qui con me", Filone suggerisce che Mosè fu superiore agli altri umani grazie alla sua vicinanza al divino. Citando Esodo 7:1, "Vedi, io ti ho stabilito (δίδωμι γάρ σε) come Dio per il faraone (θεὸν Φαραώ)", Filone sottolinea la sorprendente somiglianza tra Dio e Mosè, poiché i due condividono persino la stessa divina denominazione. Nell'esporre Deuteronomio 34:6, in cui si afferma che "nessuno fino ad oggi ha mai saputo dove sia la sua tomba", Filone suggerisce la preminenza di Mosè tra gli umani, poiché lui – come Enoch e Elia prima di lui – non muore, ma piuttosto è portato via in cielo.

Eppure i passi di Sacr. 8–10 forniscono la vera logica di Filone riguardo al motivo per cui Mosè è in grado di "volare oltre tutte le razze", cosicché la sua anima possa diventare più pienamente divinizzata (ἐπιθειάζουσαν) (Sacr. 8–10). Sebbene in questo particolare brano, Filone non fornisca tutti i dettagli di come si verifichi questo processo, si può fare un'inferenza dai suggerimenti qui e dal suo corpus più ampio che Mosè, tramite la sua pratica della filosofia,[11] è stato in grado di riconnettersi con quella scintilla del divino in lui. Di conseguenza, egli ha intrapreso varie ascese mistiche che gli hanno permesso di lasciarsi alle spalle il mondo fisico e materiale, e di entrare quindi completamente in quello immateriale. Queste ascese culminano nell'ultima che si verifica, come descritto in questo passaggio, alla sua presunta morte. Filone presenta Mosè non morente ma che lascia il suo corpo materiale in modo che la sua anima divinamente ispirata possa semplicemente migrare o ascendere di nuovo a Dio. Una volta che raggiunge l'apogeo di questa ascesa, la sua anima diventa pienamente "divina (ἐπιθειάζουσαν)" (Sacr. 10). Questo processo di divinizzazione di Mosè, tuttavia, non altera l'identità di Dio. Come osserva Filone, poiché Dio è "completo e del tutto uguale a se stesso" (Sacr. 8; cfr. Leg. 2.1; Sacr. 92), Dio non può subire alcuna "sottrazione o addizione" (Sacr. 8). Quindi, quando l'anima di Mosè viene ricollegata a Dio, non è attraverso "addizione" o "sottrazione", ma piuttosto perché la parola di Dio gli consente di connettersi con la scintilla della divinità che Dio aveva precedentemente infuso nella sua anima (Sacr. 8). Per Filone, è solo l'anima di Mosè che viene divinizzata, non il suo corpo.

Se il concetto della sola anima di Mosè divinizzata e non il suo corpo rimane poco chiaro, il modo in cui Filone spiega un testo da Esodo 24, in cui Dio comanda a Mosè di salire a Lui da solo sulla montagna, rende la logica di Filone ancora più esplicita. Qui Filone afferma:

« Perché Egli dice: "Mosè avanzerà solo verso il Signore, ma gli altri non si avvicineranno e il popolo non salirà con lui"? O più eccellente e degna ordinanza di Dio, che solo la mente profetica dovrebbe avvicinarsi a Dio e che quelli al secondo posto debbano salire, facendo un percorso verso il cielo, mentre quelli al terzo posto e i caratteri turbolenti del popolo non debbano né salire su né andare avanti con loro, ma coloro che sono degni di vedere debbano essere testimoni del sentiero benedetto in alto. Ma quel "Mosè avanzerà solo" è detto in modo molto naturale. Perché quando la mente profetica si ispira divinamente e si ricolma di Dio, diventa come la monade, non essendo affatto mescolata a nessuna di quelle cose associate alla dualità. Ma si dice che colui che è risolto nella natura dell'unità si avvicini a Dio in una sorta di relazione familiare, per aver rinunciato e lasciato indietro tutte le cose mortali, è trasformato nel divino, in modo che tali uomini diventano simili a Dio e veramente divini. »
(QE 2.29 [Marcus, LCL])

Man mano che l'anima (cioè la mente) di Mosè diventa sempre più ispirata e ricolma di Dio, risvegliando in tal modo quell'aspetto della divinità già presente in lui, i coinvolgimenti terreni che lo avevano trattenuto lentamente rilasciano la presa su di lui fino al punto in cui Mosè riesce finalmente a lasciar dietro di sé ogni residuo della sua precedente esistenza corporea. Piuttosto che volare verso l'alto solo per una breve distanza come la maggior parte degli uomini, l'anima di Mosè ascende "non nell'aria o nell'etere o nel cielo (che è) più in alto di tutti”, ma verso un luogo che è "oltre il mondo", dove non c'è nient'altro "che Dio", affinché la sua "anima santa sia divinizzata" (QE 2.40 [Marcus, LCL]). Non più una dualità di corpo e anima, Mosè diventa, come Dio stesso, un'unità, una monade, un'entità singolare composta semplicemente da pura mente o razionalità. Lasciando alle spalle la sua esistenza mortale e corporea, Mosè viene invece trasformato in divino (QE 2.29; cfr. QE 2.27; 2.40).

Filone non ha un concetto del corpo di Dio di per sé. Affinché Mosè diventi divino, egli – come il Dio di Filone – deve diventare un'idea incorporea, un'entità senza un corpo. L'impianto dello spirito o dell'afflato di Dio nell'umanità alla creazione del mondo è solo una sistemazione temporanea, un mezzo attraverso il quale gli umani possono riconnettersi con la scintilla del divino al loro interno. Poiché le anime degli umani procedono direttamente da Dio, come cose generate o non-create, esse non sono separate da Dio ma costituiscono una parte dell'essenza divina sin dal loro inizio. Il processo con cui l'anima di Mosè viene divinizzata gli consente semplicemente di riconnettersi con l'essenza divina che era sempre stata latentemente presente in lui. La visione soteriologica di Filone collega indissolubilmente la deificazione di Mosè con la sua esegesi di [[Passo biblico2|Genesi|2:7}}. La manifestazione di Dio, tramite l'anima umana, è ciò che alla fine consente la sua salvezza.

Note[modifica]

Per approfondire, vedi Biografie cristologiche.
  1. 249 Gli studi passati sono stati divisi sulla questione se Filone parli di una vera divinizzazione di Mosè o meno. Da un lato, diversi studiosi suggeriscono che Filone ritrae Mosè come pienamente divino. Cfr. Goodenough, By Light, Light, 199–234; Wayne Meeks, The Prophet-King: Moses Traditions and the Johannine Christology (Leiden: Brill, 1967), 354–71; Martha Himmelfarb, Ascent to Heaven in Jewish and Christian Apocalypses (Oxford: Oxford University Press, 1993), 49; Peder Borgen, "Moses, Jesus, and the Roman Emperor. Observations in Philo’s Writings and the Revelation of John", Novum Testamentum 38.2 (1996), 145–159, part. 154; Crispin Fletcher-Louis, Luke-Acts: Angels, Christology and Soteriology (Tübingen: Mohr Siebeck, 1997), part. 173; idem, "4Q374: A Discourse on the Sinai Tradition: The Deification of Moses and Early Christology", Dead Sea Discoveries 3 (1996): 236–52, part. 242–43; Gieschen, Angelomorphic Christology, 165; Conway, "Gender and Divine Relativity", 191.
    Dall'altro, diversi altri sono scettici riguardo a questa affermazione e vogliono sfumare il ritratto di Mosè fatto da Filone, asserendo che la sua descrizione di Mosè come θεός fosse più figurativa, metaforica, o un derivato della sua esegesi. Cfr. Carl Holladay, Theios Aner in Hellenistic Judaism: A Critique of the Use of This Category in New Testament Christology (Missoula: Scholars Press, 1977), 108–63; Runia, "God and Man in Philo of Alexandria", 48–75; Hurtado, One God, One Lord, 59–63; Louis Feldman, Philo’s Portrayal of Moses in the Context of Ancient Judaism (Notre Dame: University of Notre Dame Press, 2007), part. 342 dove cita Legat. 118 per negare la deificazione di Mosè; Dunn, Did the First Christians Worship Jesus?; Richard Bauckham, "Moses as ‘God’ in Philo of Alexandria: a Precedent for Christology?" in The Spirit and Christ in the New Testament and Christian Theology, cur. I. Howard Marshall, Volker Rabens, e Cornelis Bennema (Grand Rapids: Eerdmans, 2012), 246–65.
    Studi recenti di M. David Litwa offrono una terza alternativa tra queste due citate, suggerendo che, poiché Filone riconosceva differenti livelli di divinità, Mosè può venire deificato nel pensiero di Filone partecipando alla "divinità mediata" di Dio, ma Mosè non si fonde mai pienamente con la divinità suprema di Filone.
  2. Come esempio, Filone rappresenta Mosè quale uomo "più grande e più perfetto" che si mai vissuto (Mos. 1.1), nato da genitori ebrei che erano "tra i più eccellenti tra i loro contemporanei" (Mos. 1.7). Presenta Mosè come paradigma di leadership, che governava "non solo irreprensibilmente, ma anche in una maniera estremamente lodevole" (Mos. 2.1). Inoltre, come praticante di astinenza ed abnegazione, Mosè è il re ideale (Spec. 4.176; Rewards 53–55), legislatore (Mos. 2.8–64), sacerdote (Mos. 2.66–186; Praem. 56; Sacr. 130 e Her. 182) e profeta (Mos. 2.187–291). Infatti, egli è pesino amico di Dio (Mos. 1.156, 158; Sacr. 130; Ebr. 94; Migr. 45; Her. 21; Somn. 1.193). Questi brillanti riconoscimenti descrivono Mosè in una luce positiva, ma rappresentano solo gli inizi della sua agiografia da parte di Filone.
  3. Litwa fa un'osservazione simile quando asserisce che "Mosè era uno di queste anime successive "prestate" (χρήσας) alla terra (Sacr. 9) per attuare un compito specifico: modellare l'ascesa in ritorno alla divinità. Incarnato in tal modo, l'anima filosofica di Mosè rinunciò ai piaceri e desideri corporali". Cfr. Litwa, "Deification of Moses", 10.
  4. Esempi includono: Leg. 2.87, 93; 3.45, 131, 141, 144, 147; Det. 162; Post. 18; Gig. 47; Ebr. 1, 100; Sobr. 20; Conf. 30; Migr. 113, 201; Fug. 165; Mut. 19; Som. 2.229; Mos. 2.67; Spec. 4.143; Prob. 29, 68.
  5. Per il ruolo di "sforzo umano", "cooperazione" e "agenzia umana" nell'ascesa di una persona alla ricerca di Dio, cfr. Mackie, "Seeing God in Philo of Alexandria", 152–58, qui citato a 152 e 153. Per i vari metodi usati, si veda Hadot, What is Ancient Philosophy? 158–69.
  6. Hadot, What is Ancient Philosophy?, 49.
  7. Descrittori come innominabile (ἀκατονομάστου), inesprimibile (ἀρρήτου) e incomprensibile (ἀκαταλήπτου) appaiono spesso (Somn. 1.67; Mut. 11–15). Cfr. Schenck, A Brief Guide to Philo, 56–57; Runia, "God and Man in Philo of Alexandria", 55–56; Cox, "Travelling the Royal Road", 177–78; idem, By The Same Word, 94–95; Winston, "Philo’s Conception of the Divine Nature", 23.
  8. Si veda Litwa, "Deification of Moses", 6. In merito a questo punto, sono d'accordo con Litwa che Filone concepisca Dio in maniera gerarchica, composto da differenti livelli di divinità. Per articolazioni simili, si vedano Winston, "Philo’s Conception of the Divine Nature", 21–23; Runia, "Beginnings of the End", 281–312, part. 289–99; Cox, By the Same Word, 94–99.
    Quello che contesto è il suggerimento che il nome che Filone dà alla divinità suprema, ὁ ὤν o τὸ ὄν (basato sulla sua esegesi di Esodo 3:14-15; cfr. Mos. 1.74–76; Mut. 11–24) sia sinonimo dell'entità ineffabile che cerca di nominare.
    Il nome τὸ ὄν, spesso tradotto come l'Esistente, svolge una funzione didattica, insegnando agli Israeliti la natura di Dio: Dio è semplicemente Colui che è, Colui al quale appartiene tutta l'esistenza. Tuttavia, poiché Filone vede tutti i nomi come parte dell'ordine creato, anche quando impiega questa denominazione per lui non è sinonima della più alta divinità di Israele: quella suprema, increata, ineffabile, incorporea e trascendente.
  9. Sebbene passi scritturali come Genesi 32 descrivano Giacobbe che lotta con Dio, anche vedendo Dio faccia a faccia, e testi come Esodo 3 presentino Mosè che incontra il Signore direttamente nel roveto ardente, tramite le sue sofisticate manovre ermeneutiche, Filone interpreta questi passaggi in modo diverso. Per Filone, visioni come quelle di Giacobbe in Genesi 32 e nomi, come quelli dati a Mosè in Esodo 3, puntano in direzione di Dio. Ma la divinità più alta di Israele è in definitiva maggiore di qualsiasi sua rappresentazione concreta.
  10. Non c'è accordo tra gli studiosi se Filone pensi che una visio Dei sia possibile. Da un lato, nonostante le inconsistenze, Scott. D. Mackie ha asserito che la visione della divinità suprema di Filone sia possibile, almeno in teoria. Si veda Scott D. Mackie, "Seeing God in Philo of Alexandria: The Logos, the Powers, or the Existent One?" Studia Philonica Annual 21 (2009): 25–47. Dall'altro, la precedente ricerca di David Winston propone che questa visione si estenda solo al Logos. Cfr. David Winston, Logos and Mystical Theology in Philo of Alexandria (Cincinnati: Hebrew Union College Press, 1985), 54–55.
  11. Sulla nozione che la filosofia antica sia non solo il discorso, ma anche un modo di vivere, informato da pratiche specifiche, si veda Hadot, What is Ancient Philosophy?, 23, 29, 55, 172–73, 220.