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Storia della letteratura italiana/Gabriele D'Annunzio

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Storia della letteratura italiana

La letteratura italiana tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento è segnata dalla figura di Gabriele D'Annunzio. Autore versatile e creativo, attento alle novità letterarie provenienti dall'Europa, ha scritto novelle, romanzi, liriche, tragedie, opere autobiografiche. Tra le sue opere più importanti si può annoverare la sua stessa esistenza, improntata sui principi estetici del «vivere inimitabile» e del «fare della propria vita un'opera d'arte». D'Annunzio è stato uno dei massimi autori del decadentismo italiano ed europeo. Il romanzo Il Piacere ruota attorno alla figura dell'esteta, di cui lascia intravedere le contraddizioni e la crisi, mentre negli anni novanta il poeta riprende da Nietzsche la figura del superuomo, riadattandola alla sua sensibilità. Nei primi due decenni del Novecento si impegna maggiormente in politica: nel 1915 si schiera attivamente per l'interventismo, quindi partecipa come poeta-soldato alla prima guerra mondiale. Nell'immediato dopoguerra guida l'occupazione della città libera di Fiume, rivendicandola come territorio italiano. Trascorrerà gli ultimi anni nella villa del Vittoriale a Gardone, circondato dal lusso.

La formazione e le prime opere

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Gabriele D'Annunzio nel 1916

Il futuro poeta nasce a Pescara il 12 marzo 1863, figlio di Francesco Paolo e Luisa de Benedictis. Il vero cognome del padre era però Rapagnetta: proveniente da una modesta famiglia abruzzese, era stato adottato da un facoltoso zio marchigiano, Antonio D'Annunzio, di cui aveva preso il cognome. La madre Luisa, invece, era di famiglia agiata. Prima di Gabriele la coppia aveva avuto due figlie, Anna (1859) ed Elvira (1861); negli anni successivi nasceranno anche Ernestina (1865) e Antonio (1867). Francesco Paolo vive della rendita proveniente dai possedimenti della moglie e da quelli ereditati dallo zio, senza preoccuparsi di come spende il denaro.[1]

All'età di undici anni Gabriele viene iscritto al collegio Cicognini di Prato. Qui entra in contatto con i giovani dell'alta borghesia italiana. Si rivela particolarmente dotato negli studi, ma è anche protagonista di casi di indisciplina. Nel 1879, appena sedicenne, esordisce come poeta con l'ode All'Augusto Sovrano d'Italia Umberto I di Savoia, pubblicata a spese del padre in occasione del compleanno del re. Nel dicembre dello stesso anno pubblica la prima raccolta di poesie, Primo Vere. I componimenti, ispirati alle Odi barbare di Carducci, pongono il giovanissimo poeta all'attenzione della critica letteraria dell'epoca. Minore fortuna avrà la successiva In memoriam, uscita nel 1880. Sempre in quell'anno vede le stampe una nuova edizione di Primo Vere, risultato di un impegnativo lavoro di revisione e ampliamento, con l'aggiunta di nuove poesie. In questa occasione escogita il primo degli espedienti pubblicitari che faranno la fortuna del suo personaggio: scrive ai giornali per comunicare la propria morte a causa di una caduta da cavallo, per poi smentire la notizia e annunciare l'uscita della nuova edizione.[2]

Il collegio Cicognini di Prato, dove D'Annunzio studiò tra il 1874 e il 1880

Negli ultimi anni di liceo si innamora di Elda Zucconi, figlia di un docente del collegio, a cui dedica alcuni versi chiamandola "Lalla". Ottenuta la licenza al Cicognini, si iscrive nel 1881 alla facoltà di lettere di Roma. Trascura però le lezioni universitarie per frequentare le redazioni delle riviste letterarie, con l'intento di affermarsi come poeta. Pubblica interventi e novelle sul «Capitan Fracassa», sulla «Cronaca Bizantina» e sul «Fanfulla della Domenica».[3] Nel maggio 1882 esce per i tipi dell'editore Sommaruga, già proprietario della «Cronaca Bizantina», la raccolta Canto novo, che rispetto ai lavori precedenti presenta un maggiore vitalismo e riscuote un buon successo. Sempre per Sommaruga pubblica Terra vergine, una raccolta di novelle di ambientazione abruzzese. Il modello è Vita dei campi di Verga, a cui però si aggiungono elementi che saranno tipici della sua produzione successiva: gli istinti dei personaggi sono ridotti al solo impulso sessuale, e nel loro atteggiamento si mescolano passione e superstizione.[4]

Successi e vita pubblica

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D'Annunzio è ormai un intellettuale affermato, grande frequentatore dei salotti mondani di Roma. Negli stessi anni si apre alle esperienze del decadentismo europeo, scopre il movimento parnassiano e le opere di Charles Baudelaire. Si dedica così alla sperimentazione, anche allo scopo di venire incontro ai gusti della borghesia italiana del tempo. Intanto però si innamora della duchessina Maria Hardouin di Gallese, ma la relazione tra i due sfocerà in uno scandalo. Ostacolato dai genitori della ragazza, decide di rapirla (il poeta battezzerà questo gesto il «peccato di maggio»). I due saranno ritrovati a Firenze dalla forza pubblica, e nel 1883 D'Annunzio dovrà sposare la duchessina, all'epoca già incinta.[5]

Intanto nel 1884 pubblica, sempre presso Sommaruga, Intermezzo di rime, che segna il passaggio dall'iniziale modello carducciano a uno stile ispirato al parnassianesimo e a Baudelaire. Arrivano però anche le difficoltà economiche. Il poeta, diventato padre di Mario, fatica a mantenere la famiglia ed è costretto a trasferirsi in Abruzzo. I familiari non possono aiutarlo: il padre ha dilapidato tutti i beni, mentre il suocero non gli perdona lo scandalo per il rapimento della figlia. Nell'estate del 1884 si consuma anche la rottura con Sommaruga, dopo la pubblicazione del Libro delle vergini con una copertina non approvata dall'autore. Quest'ultima opera segna una nuova evoluzione nella prosa narrativa dannunziana, ora più vicina al naturalismo francese di Zola. Nel novembre del 1884, su interessamento della suocera, ottiene infine il ruolo di redattore stabile sul quotidiano «La Tribuna». Nei quattro anni successivi scrive articoli di cronaca mondana sulla società aristocratica e intellettuale di Roma.[6]

Torna così ad avere una vita disordinata, coltiva varie relazioni amorose e prosegue l'attività letteraria. Pubblica prose e versi su varie riviste, che verranno raccolte rispettivamente nel San Pantaleone (1886) e nell'Isaotta Guttadàuro ed altre poesie (1886). Nelle novelle del San Pantaleone è riconoscibile un terzo modello dopo Verga e Zola: Guy de Maupassant. Nelle poesie invece si fanno sentire gli echi del movimento parnassiano e preraffaellita, ma anche di Verlaine e Lorrain. I problemi economici diventano però più pressanti, soprattutto dopo la nascita del secondogenito Gabriellino (1886). Il poeta ipotizza persino di tornare in Abruzzo, ma alla fine rimarrà a Roma. Qui nel 1887 conosce Elvira Natalia Fraternali, coniugata Leoni, che diventerà la sua amante e sarà ribattezzata "Barbara". La relazione dà un nuovo impulso all'attività letteraria di D'Annunzio.[7]

Il più importante risultato di questi anni è il suo primo romanzo: Il Piacere. Terminato nel gennaio 1889 e pubblicato da Treves nel successivo maggio, mostra come l'autore abbia assimilato i temi dell'estetismo toccati da Huysmans in À rebours. Attraverso la vicenda di Andrea Sperelli viene inoltre analizzata la crisi dei valori nell'Italia umbertina. Negli anni successivi D'Annunzio pubblicherà i romanzi Giovanni Episcopo (1892) e L'innocente (1892). Sommerso dai debiti, si trasferisce a Napoli per seguire la pubblicazione di quest'ultima opera. Qui conosce la principessa siciliana Maria Gravina Cruyllas di Ramacca, moglie del conte di Anguissola e madre di quattro figli. Per lei, che nel frattempo è rimasta incinta, troncherà la relazione con Barbara Leoni. La situazione tuttavia precipita: denunciati per adulterio da parte del marito della Gravina, i due amanti vengono condannati ma evitano la prigione grazie a un'amnistia. Il poeta affronta così un periodo di difficoltà economiche piuttosto duro, durante il quale collabora con varie riviste.[8]

Eleonora Duse nel 1896. L'attrice è considerata una delle massime interpreti del teatro italiano tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

Nel 1893 pubblica il Poema paradisiaco, i cui versi si caratterizzano per i toni più intimi. L'anno successivo, dopo una complessa gestazione, viene dato alle stampe Il trionfo della morte. Intanto la sua fama si diffonde in Francia, mentre dal punto di vista teorico approfondisce il pensiero di Friedrich Nietzsche e il suo superomismo. Da questo nuovo entusiasmo per il filosofo tedesco nascerà il romanzo Le vergini delle rocce (1895).[9] Il 1895 è però anche l'anno dell'incontro con l'attrice Eleonora Duse, che sarà ricordata come la più celebre delle sue amanti. Tra i due si intreccia una relazione fatta di attrazione, di amore, ma anche di interesse culturale e artistico.[10] Nel 1897, poi, si dedica alla politica e viene eletto deputato per la destra conservatrice. L'anno successivo si trasferisce a Firenze, nella residenza "La Capponcina", per essere più vicino alla Duse.[11]

Nel 1900 la pubblicazione del romanzo Il fuoco è accompagnata da una polemica di carattere morale. Desta in particolare scalpore il personaggio della Foscarina, in cui D'Annunzio ritrae senza pietà la Duse. Il titolo fa riferimento alla forza creativa e distruttrice, e rappresenta il compimento della fase superomistica aperta con Le vergini delle rocce. Sempre nel 1900, abbandona i banchi della destra in parlamento per passare alla sinistra. Ripresentatosi alle elezioni, sostenuto questa volta dai socialisti, non viene rieletto.[12] Nel 1903 pubblica la sua prima tragedia in versi, Francesca da Rimini, che alla fine dell'anno verrà portata in scena dalla Duse. Nell'estate comporrà anche La figlia di Jorio. Sono gli anni, inoltre, in cui lavora alle Laudi, e in particolare alle raccolte Elettra, Alcyone e Maia.[13]

A partire dal 1904 D'Annunzio conosce un periodo di inerzia artistica. Chiude la relazione con la Duse e ne inizia una con Alessandra di Rudinì Carlotti, figlia dell'ex presidente del Consiglio Antonio Starabba di Rudinì, da lui ribattezzata "Nike". La lascerà però nel 1906, anno in cui la donna si ritirerà in convento. Pubblica le tragedie La fiaccola nel moggio (1905) e La nave (1907), oltre alla biografia Vita di Cola di Rienzo (1906).[14] Nel 1908 compone Solus ad solam (pubblicato solo nel 1939), testimonianza della disastrosa relazione con Giuseppina Mancini, chiamata dal poeta "Giusini" o "Amaranta".[15] Tra il dicembre 1908 e il febbraio 1909 compone la tragedia Fedra, mentre intrattiene una nuova relazione con Natalia de Goloubeff, ribattezzata "Donatella". Segue quindi il suo ultimo romanzo, Forse che sì forse che no, nato dalla sua passione per gli aeroplani.[16]

La prima guerra mondiale e gli ultimi anni

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Negli anni dieci le difficoltà economiche e i debiti inducono D'Annunzio a fuggire a Parigi con Donatella, per scappare ai creditori. Il soggiorno francese durerà cinque anni.[17] L'esilio finisce allo scoppio della prima guerra mondiale. Il poeta si era lasciato coinvolgere dalla partecipazione della Francia al conflitto, tanto da richiedere e ottenere il permesso di visitare alcuni campi di battaglia. Una volta tornato in patria, si schiera per l'interventismo, opponendosi alla neutralità scelta dal governo. Il 5 maggio 1915, chiamato a inaugurare il monumento ai Mille eretto a Quarto, pronuncia l'Orazione per la sagra dei Mille. Dal 12 maggio gira quindi il paese tenendo discorsi in favore dell'ingresso in guerra (il «maggio radioso»).[18] Quando poi l'Italia entra nella Grande Guerra, decide di arruolarsi, benché abbia ormai cinquantadue anni. Partecipa così a diverse azioni di guerra a bordo del suo aeroplano. Tuttavia quando non è impegnato al fronte, trascorre il tempo a Venezia, tra amici e varie amanti. Il 16 gennaio 1916, durante un atterraggio di fortuna mentre è in volo verso Zara, batte la tempia destra contro la mitragliatrice del velivolo. Il trauma lo porta a perdere l'uso dell'occhio destro, e per salvare almeno quello sinistro è costretto a passare tre mesi a letto nella più completa oscurità. In questo periodo di isolamento, in cui è assistito dalla figlia Renata, compone la Licenza, la Leda senza cigno e, soprattutto, il Notturno (pubblicato nel 1921).[19]

Nel settembre 1916, nonostante il parere contrario dei medici, D'Annunzio torna alle armi. Le sue imprese più celebri sono però degli ultimi mesi di guerra: la «beffa di Buccari» (10-11 febbraio 1918), che porta al siluramento di un piroscafo austriaco, e il volo su Vienna (8 agosto 1918), durante il quale lascia cadere volantini con proclami anti-germanici sulla città. Dopo la fine del conflitto il poeta diventa uno dei principali sostenitori della «vittoria mutilata». Intraprende intense polemiche, nelle quali sostiene il diritto dell'Italia a controllare entrambe le sponde dell'Adriatico. In particolare i suoi interventi trovano spazio sulle pagine del Popolo d'Italia, il giornale diretto da Benito Mussolini. Alla fine, nel settembre 1919, comanda un battaglione di reduci e occupa la città libera di Fiume, oggetto di dispute diplomatiche. Il poeta instaura così la Reggenza del Carnaro, ma nei mesi successivi rimane progressivamente isolato. Nel dicembre 1920 è infine costretto ad abbandonare l'impresa, dopo che il governo italiano ha ordinato un'azione militare per fermare l'occupazione (il «Natale di sangue»).[20]

Nel 1922 l'avvento al potere del fascismo segna l'ultima fase della vita del poeta. Da un lato viene esaltato dal regime come "Vate", tanto da essere insignito del titolo di principe di Monteventoso (1924). Dall'altro, però, è guardato con sospetto da Mussolini, che ne teme il prestigio e la popolarità. D'Annunzio riesce a farsi assicurare il mantenimento a vita, e ottiene dallo stato la villa Cargnacco a Gardone, sul lago di Garda, che trasforma nel Vittoriale degli Italiani. Da ultimo, si garantisce una cospicua rendita con la costituzione dell'Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele D'Annunzio.[21] D'Annunzio trascorrerà nel Vittoriale gli ultimi anni della sua vita, tra lussi sfrenati. Ormai stanco e provato nel fisico, si spegne improvvisamente il 1° marzo 1938.[22]

Come si è visto, l'esperienza poetica di D'Annunzio si apre seguendo il solco tracciato dalle Odi barbare (1877) di Carducci. La sua prima raccolta, Primo vere (1879), è sostanzialmente un esercizio di apprendistato, che però mostra già le incredibili capacità del giovane poeta. Più interessante è la successiva Canto novo (1882), in cui riprende da Carducci, oltre alle soluzioni metriche, anche il senso pagano del rapporto con una natura forte e vitale. Vengono quindi descritti paesaggi marini e silvestri, con un linguaggio prezioso e classicistico. Questi temi sono però portati alle estreme conseguenze, e fanno presagire gli sviluppi della futura fase superomistica. A questo vitalismo, attraversato da vibrazioni erotiche, si accompagna inoltre il fascino per la morte, che si esprime in visioni notturne e momenti di stanchezza.[23] La struttura dell'opera sarà poi stravolta con la seconda edizione (1896), che comprenderà solo ventritré canti e risentirà dell'evoluzione culturale compiuta da D'Annunzio. Alla luce della filosofia nietzschiana, il vitalismo assumerà un atteggiamento sacrale e si ricollegherà ai riti pagani della natura.[24]

Nella prosa D'Annunzio segue invece il modello verghiano. Le novelle raccolte in Terra vergine (1882) risentono infatti dell'influenza verista di Vita dei campi (1877). Come nelle opere veriste, anche D'Annunzio ambienta le sue novelle nella sua terra d'origine, l'Abruzzo. È però estraneo all'analisi condotta da Verga sulle dinamiche della vita sociale e della «lotta per la sopravvivenza», così come al canone dell'impersonalità. L'Abruzzo di Terra vergine viene piuttosto osservato da una prospettiva estetizzante: è un luogo idillico, in cui cresce una natura rigogliosa e i personaggi sono mossi da istinti e passioni primordiali. Nello stile, questo compiacimento per la sensualità e la ferinità trova corrispondenza nelle intromissioni della soggettività dell'autore nelle vicende narrate. Il medesimo interesse per un mondo magico segnato da superstizione e violenza si ritrova nelle successive raccolte: Il libro delle vergini (1884) e San Pantaleone (1886), che saranno riunite, con tagli e rimaneggiamenti, nel volume delle Novelle della Pescara (1902).[23]

D'Annunzio mentre legge, ritratto dal fotografo Mario Nunes Vais

Benché per certi aspetti agli inizi la narrativa di D'Annunzio sia influenzata dal modello verista, è tuttavia evidente che l'ispirazione più profonda dello scrittore risente del gusto per l'irrazionale tipica del decadentismo. Questo è particolarmente evidente nei versi composti negli anni ottanta. Con questi si inaugura la fase estetizzante della produzione dannunziana, riassunta dalla massima secondo cui «il Verso è tutto». Intermezzo di rime (1884) è la raccolta che segna il passaggio dal vitalismo pagano di Canto novo verso una poesia influenzata dai modelli francesi e inglesi. Vengono così affrontati i temi del vizio e della stanchezza che sopraggiunge dalla sazietà della carne. Isaotta Guttadàuro (1896) è un esercizio di stile che si propone di recuperare le forme metriche quattrocentesche. La Chimera, invece, torna sul tema della sensualità perversa. In generale, l'arte assurge a valore supremo e la vita stessa sfugge alla valutazione di bene e male per rispondere unicamente al criterio del bello, trasformandosi a sua volta in opera d'arte.[23]

La poesia non nasce da esperienze vissute, ma da altra letteratura: i versi dannunziani sono quindi ricchi di riferimenti alla tradizione letteraria italiana e agli autori del decadentismo europeo contemporaneo. D'altra parte, il personaggio dell'esteta scelto da D'Annunzio è una reazione alle trasformazioni in corso nell'Italia di fine Ottocento. L'avanzata del capitalismo aveva portato a una perdita di importanza per il ruolo dell'artista: a questo l'intellettuale risponde isolandosi dalla meschinità del mondo moderno e ritirandosi in una realtà fatta di sola arte e bellezza. Tuttavia il giovane D'Annunzio non si rassegna a vivere in questo mondo rarefatto, ma ambisce a conquistare fama e ricchezza. Per questo motivo vuole che i suoi libri abbiano successo e si fa pubblicità sfruttando il suo personaggio, che vive tra relazioni amorose, scandali, duelli e beni di lusso. Nasce così una nuova immagine dell'intellettuale. Pur sfruttando le dinamiche tipiche del capitalismo, l'artista si isola dalla società borghese e si riappropria di una condizione di privilegio che era propria dei poeti delle età precedenti.[25]

Per approfondire su Wikipedia, vedi la voce Il piacere (romanzo).
Piazza di Spagna e la Trinità dei Monti alla fine del XIX secolo, dove è ambientata buona parte del Piacere

Alla condizione dell'esteta D'Annunzio dedica il suo primo romanzo, Il Piacere, pubblicato nel 1889. In esso viene riversata l'esperienza umana e mondana dell'autore, che si identifica con il protagonista, Andrea Sperelli. Al poeta era chiaro come quella dell'estetismo fosse una posizione fragile e destinata a entrare in crisi. L'esteta non può infatti opporsi all'avanzata della società borghese, e la sua solitudine finisce per diventare sterilità. Anche il culto della bellezza, alla fine, si risolve in una menzogna.[25]

Trama

Andrea Sperelli è un giovane aristocratico, proveniente da una famiglia di artisti. Il romanzo si apre ripercorrendo la storia d'amore tra Andrea e Elena Muti, una donna sensuale che incarna l'erotismo lussurioso. La rottura della relazione porta Andrea ad attraversare un periodo di crisi, durante il quale frequenta altre donne. Incapricciatosi di Ippolita Albonico, viene sfidato a duello dall'amante di lei, Giannetto Rutolo. Nonostante la sua superiorità con la spada, Andrea viene gravemente ferito e rischia la vita. Durante la convalescenza viene accudito dalla cugina Francesca, in casa della quale conosce Maria Ferres, una donna molto religiosa e pura. La loro amicizia diventa sempre più intensa, e Andrea vede in lei una possibilità di redenzione. Alla fine si dichiara alla donna, che dopo vari tentennamenti corrisponde al suo amore. Ristabilitosi, Andrea torna a Roma e riprende la sua vita precedente. Qui però incontra nuovamente Elena, ora sposata con lord Heathfield. Nell'animo di Andrea si intrecciano quindi l'amore per Maria e quello risvegliatosi per Elena. Travagliato dalla gelosia, Andrea tenta di riallacciare i rapporti con Elena, ma viene respinto. Viene poi a sapere che il marito di Maria è caduto in disgrazia. La donna lo raggiunge per dirgli addio, ma durante la loro ultima notte Andrea inconsciamente invoca il nome di Elena, smascherando la sua doppiezza e inducendo Maria a fuggire. Il libro si chiude con l'asta dei beni confiscati al marito di Maria, a cui partecipa anche Andrea. Nella scena finale, l'esteta sale mestamente le scale, dietro ai facchini che trasportano l'armadio da lui appena acquistato.

Andrea ha una volontà debole. Su di lui il principio secondo cui bisogna fare della propria vita un'opera d'arte ha effetti distruttivi, perché lo rende sterile e lo svuota di ogni capacità creativa. La crisi è ben visibile anche dal rapporto ambiguo che instaura con le due donne: da una parte la donna fatale, dall'altra la donna angelo donatrice di salvezza. Tuttavia, lo stesso Andrea si accorge che il desiderio di riscatto che lo spinge tra le braccia di Maria non è che una menzogna. In realtà si tratta di un sottile gioco di perversione, e Maria non è altro che una sostituta di Elena. Non per questo, però, si può dire che Il Piacere rappresenti il distacco di D'Annunzio dalla figura dell'esteta. Al contrario, il poeta rimane affascinato dal personaggio di Andrea, il quale, raffinato, amorale e camaleontico, costruisce la propria vita sull'artificio.[25]

Dal punto di vista stilistico, Il Piacere presenta alcuni elementi di novità. L'impianto risente ancora della lezione verista. Tuttavia è riscontrabile anche l'influenza delle nuove tendenze che stavano prendendo piede in Francia, e in particolare il genere del romanzo psicologico, il cui capofila è Paul Bourget. Più che alla vicenda e al suo intreccio, D'Annunzio presta quindi attenzione all'interiorità dei personaggi, analizzandone i processi. Da questo punto di vista, il modello da cui ha tratto spunto è Un delitto d'amore di Bourget, pubblicato nel 1886. All'analisi psicologica si accompagna però un altro elemento: la costruzione, al di sotto dei fatti narrati, di una complessa rete di allusioni simboliche.[26]

La crisi dell'estetismo e la "fase della bontà"

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La consapevolezza dei limiti dell'estetismo non porta a un immediato cambio di rotta. D'Annunzio, stanco dei piaceri sensuali e degli artifici, tenta nuove sperimentazioni. Questa fase, stando alle intenzioni dell'autore, viene definita "della bontà". Affascinato dalla narrativa russa, allora di moda, scrive il Giovanni Episcopo (1892), che risente della lettura di Dostoevskij. L'influenza di Tolstoj si riconosce invece nell'Innocente (1892), in cui esprime un desiderio di rigenerazione, di ricostruzione delle relazioni coniugali e di ritorno al contatto con la campagna. Di ispirazione dostoevskiana è però la ricostruzione degli istinti omicidi del protagonista, raccontati in prima persona.[27]

A questa fase risale anche il Poema paradisiaco (1893). Qui, accanto al desiderio di tornare all'infanzia e alle cose semplici, sono presenti elementi più ambigui, provenienti dalla coeva letteratura francese.[27] I toni si fanno più delicati e smorzati, e il testo è dominato da una malinconia inquieta. Il ritorno a una sfera familiare risveglia nel poeta affetti più intimi e più buoni. Prevale in generale un ritmo lento, con largo uso di endecasillabi. Dalla lezione dei simbolisti, D'Annunzio impara a riconoscere le segrete analogie tra le cose, alla ricerca di verità più profonde. Apparendo sazio dei piaceri che provengono dai sensi, D'Annunzio ripiega sull'interiorità, alla ricerca della propria primordiale innocenza.[28]

Il superomismo

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Nietzsche ritratto da Hans Olde nel 1899

Quella della bontà è solo una fase provvisoria: l'estetismo e le sue contraddizioni saranno superati nei primi anni novanta con la lettura di Nietzsche. Del pensiero del filosofo tedesco D'Annunzio coglie solo in alcuni suoi aspetti, che inserisce in un proprio sistema di concezioni. Vengono in particolare ripresi:[27]

  • il rifiuto del conformismo borghese e, di conseguenza, del principio secondo cui tutte le persone sono uguali;
  • il rifiuto della tradizione cristiana e dei principi etici a essa collegati, come la pietà e l'altruismo;
  • l'elemento dionisiaco, visto come esaltazione del vitalismo, libero dai vincoli della morale;
  • la «volontà di potenza»;
  • il mito del «superuomo».

Tutti questi aspetti sono esaltati in chiave anti-borghese e reazionaria. Lo stato borghese, con la sua democrazia e il suo parlamentarismo, corrode la bellezza e il gusto per l'azione eroica, gettando il paese nella mediocrità. Di contro a tutto questo, D'Annunzio prospetta l'instaurazione di una nuova aristocrazia, elevatasi grazie al culto del bello, che riesca a dominare le masse inferiori. In questo modo, la stirpe latina tornerà alla sua gloria: il «superuomo» è interpretato come colui che ha il diritto di essere al di sopra della morale comune e di guidare l'Italia e la sua stirpe verso una nuova era di potenza e dominio imperiale.[27]

Il superuomo dannunziano non nega la figura dell'esteta, ma semmai la ingloba, dandole una nuova funzione. Nel processo di elevazione della stirpe latina il culto del bello ha un ruolo fondamentale: non si tratta più di rifiutare la realtà, ma piuttosto di usare l'arte come strumento per dominare la realtà.[27] Poesia e azione quindi si fondono. Il superomismo è una risposta al declassamento dell'intellettuale, ma in questo caso all'arte viene assegnato un ruolo politico e l'artista si propone come "Vate", guida per l'intero stato. Il poeta si impegna affinché possa salire al potere una nuova élite, raffinata e violenta allo stesso tempo, che schiacci la società borghese e la sua mediocrità. Peraltro va fatto notare che, sebbene ferocemente anti-borghese, la figura del superuomo si accorda con le tendenze in atto all'epoca, e in particolare con le politiche imperialiste e colonialiste portate avanti da molti stati.[29]

Il trionfo della morte

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La transizione verso il superomismo inizia con il quarto romanzo di D'Annunzio, Il trionfo della morte (1894). L'opera ha una gestazione complessa. Iniziato nello stesso anno in cui è stato pubblicato Il Piacere, è comparso a puntate sulla Tribuna a partire dal 1890, con il titolo L'Invincibile. La pubblicazione viene però interrotta, e il romanzo sarà completato solo più tardi e con un nuovo titolo. A posteriori, viene poi ascritto al ciclo dei Romanzi della rosa, insieme al Piacere e all'Innocente.[29]

Trama

Il protagonista Giorgio Aurispa è un esteta come Andrea Sperelli, roso da una malattia interiore che ne incrina la volontà e la creatività. È quindi alla ricerca di qualcosa che dia un senso alla vita e gli ridoni l'equilibrio. La crisi è però acuita dal ritorno nella casa familiare: qui viene trascinato nelle dispute e nelle nevrosi dei parenti, e torna a vivere il conflitto con il padre. I difficili rapporti con il genitore, uomo dal carattere forte ma di istinti abietti, lo porta a riconoscersi in un'altra figura paterna, lo zio Demetrio, più simile a lui e morto suicida. Nella sua ricerca Giorgio si ritira con l'amante Ippolita Sanzio in un villaggio abruzzese, con l'intento di ricostruire l'origine dalla sua stirpe. Tuttavia il mondo primitivo che si trova davanti, segnato da superstizioni e costumi arcaici, lo disgusta e lo respinge. Trova una risposta solo nel «dionisiaco» nietzscheano, nell'immergersi nella vita nella sua pienezza. Giorgio però scopre di non essere ancora pronto per farlo. Si rivolge quindi verso Ippolita e sente di essere consumato dalla lussuria. Prevalgono così le forze negative, che lo portano a gettarsi da un dirupo insieme alla donna «nemica».

La malattia di Giorgio si riassume in una contrapposizione tra la volontà di vita e il fascino per la corruzione e la morte. Rispetto ad Andrea Sperelli, il protagonista del Trionfo della morte ha perso la capacità di conquista ed è vittima di immagini che su di lui hanno un effetto inibente. I suoi turbamenti psicologici vengono analizzati con cura dal narratore, che ne mette in luce sia gli aspetti fisiologici sia le tare ereditarie.[30]

D'Annunzio è consapevole dei progressi fatti, ma è ancora alla ricerca di un ruolo per l'intellettuale, che non può cadere nel vittimismo e deve sottrarsi al peso della sconfitta. Il suicidio di Giorgio è come un sacrificio rituale, grazie al quale D'Annunzio si libera dalle problematiche negative che aveva fino ad allora affrontato. Ucciso questo suo alter ego, il poeta può ora incamminarsi sulla strada del superuomo.[29]

Le vergini delle rocce

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Con Le vergini delle rocce (1895) avviene una vera e propria svolta ideologica. Il protagonista Claudio Cantelmo non è più un personaggio debole e tormentato, ma un uomo forte e sicuro di sé. Il romanzo inoltre espone compiutamente le nuove teorie aristocratiche e imperialistiche adottate da D'Annunzio,[31] ed è pervaso dal disgusto per tutto ciò che è mediocre, volgare e borghese.

Trama

Disgustato dallo stato borghese e dal liberalismo che caratterizzano la politica italiana, Claudio Cantelmo vuole generare un «superuomo» che porti a compimento l'«ideal stirpe latina» e, come re di Roma, guidi il paese verso il suo destino imperiale. A questo scopo va alla ricerca di una donna degna, con la quale procreare questo figlio eccezionale. La scelta ricade su una delle tre figlie del principe Montaga, appartenente a una nobile famiglia dell'aristocrazia borbonica ormai decaduta, che vive isolata in un'antica villa cadente. Delle tre, Cantelmo sceglie Anatolia, che dimostra di avere la volontà di una regina. La fanciulla però non può seguire l'eroe: deve infatti rimanere in famiglia per badare alla madre demente, all'anziano padre, ai fratelli più deboli. Alla fine Cantelmo subisce il fascino di Violante, immagine della donna fatale.

Cantelmo, nonostante la sicurezza di cui fa mostra, è anch'egli roso da incertezze e perplessità. È consapevole delle difficoltà che si pongono alla sua impresa, che infatti viene posta in un futuro remoto. Nel mentre, il protagonista sposta le sue intenzioni verso la letteratura e la composizione di un'opera d'arte perfetta. La morte e la decadenza, inoltre, non vengono eliminate dall'orizzonte di D'Annunzio, ma vengono ribaltate e diventano una spinta al vitalismo. L'eroe del romanzo ha raggiunto una tale pienezza vitalistica che ormai non deve più temere le forze oscure della sua interiorità, ma le deve sfruttare per affermarsi. La stessa decisione di cercare la propria moglie in un luogo desolato, i cui abitanti sono segnati dalla malattia e dalla follia, mostra l'attrazione di Cantelmo verso la corruzione e la putredine. L'eroe pensa di trarre vigore da questo inferno, e invece ne rimane imprigionato.[32]

Le vergini delle rocce avrebbe dovuto essere il primo di una nuova trilogia dei Romanzi del giglio, e nei due libri successivi Claudio Cantelmo avrebbe dovuto raggiungere gli obiettivi che si era posto. È tuttavia significativo che questi ultimi non siano mai stati scritti. Come nel Trionfo della morte, alla fine l'eroe dannunziano ricade ancora una volta nella sconfitta, subisce il fascino della morte e della corruzione, ed è incapace di tradurre in azione le proprie aspirazioni.[32]

Il fuoco e Forse che sì forse che no

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D'Annunzio insieme al pilota Natale Palli sul suo aereo nel 1918. La passione di D'Annunzio per l'aviazione è strettamente collegata alla sua ideologia del superuomo.

Il tema del superuomo ritorna anche nel successivo romanzo, Il fuoco (1900). Il nome del protagonista, Stelio Effrena, è altamente evocativo, poiché rimanda alle stelle e a una vitalità senza freni. Il suo scopo è quello di creare un'opera d'arte totale, che possa forgiare il carattere nazionale della stirpe latina, così come Wagner aveva fatto con il popolo tedesco. L'opera che vagheggia deve quindi essere fusione di gesto, parola e musica, attraverso le quali vuole dare vita a un nuovo teatro. Tuttavia a limitare l'azione del protagonista interviene anche qui una donna fatale, Foscarina Perdita, il cui nome allude all'oscurità e alla perdizione. Grande attrice di teatro che ha ormai raggiunto la maturità e il decadimento, la donna incarna ancora una volta l'attrazione verso la sensualità e la morte. Il senso di decadenza è dato anche dall'ambientazione del romanzo, una Venezia raffinata e decadente. Foscarina alla fine lascerà libero Stelio, smettendo di soffocarlo con il suo amore nevrotico. Tuttavia il protagonista non riuscirà a realizzare il suo progetto. Peraltro, anche Il fuoco doveva essere l'inizio di un ciclo, quello del Melograno, che però l'autore non ha mai proseguito.[33][34]

Prima che D'Annunzio pubblichi un nuovo romanzo passa circa un decennio, durante il quale si dedica al teatro e alle Laudi. Questa pausa sarà interrotta da Forse che sì forse che no (1910), il suo ultimo romanzo. Qui però interviene una novità: il protagonista riversa i suoi impulsi eroici e superomistici nell'aviazione. D'Annunzio si propone come cantore di uno dei simboli della modernità, la macchina, e qui in particolare dell'aeroplano. Ma ancora una volta alle aspirazioni di Paolo Tarsis si oppone una donna nevrotica e perversa, Isabella Inghirami. Assalito dal senso di decadenza, l'eroe cerca la morte in un'impresa impossibile, ma quando la situazione sembra ormai disperata viene spinto dal suo vitalismo e riesce a compiere una grande impresa.[35]

Frontespizio della raccolta Merope. Canzoni delle gesta d'oltremare

Per diffondere la parola del Vate e l'ideologia del superuomo, D'Annunzio progetta complesse architetture letterarie. Immagina quindi cicli di romanzi che però, come si è visto, non porta a conclusione. Nel caso della poesia, invece, pensa a una summa lirica che celebri tutto il reale: sono le Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi, che dovevano articolarsi in sette volumi.[36] In realtà anche questo progetto rimarrà incompiuto. Nel 1903 vengono pubblicati i primi tre libri: Maia, Elettra e Alcyone. A questi si aggiunge nel 1912 Merope, che raccoglie le Canzoni delle gesta d'oltremare, in cui canta l'invasione della Libia. Il quinto libro, Asterope, uscirà postumo nel 1949 e comprenderà i Canti della guerra latina, dedicati alla prima guerra mondiale. Gli ultimi due volumi, invece, saranno solo annunciati ma mai composti.[37]

Il primo libro, Maia, è un lungo poema che ha per sottotitolo Laus vitae. D'Annunzio abbandona gli schemi della metrica classica e di quella barbara di Carducci, e sceglie di utilizzare il verso libero. Vari tipi di versi si susseguono senza un ordine preciso, e anche le rime, seppur ricorrenti, non hanno uno schema fisso. Il poema si presenta come un carme ispirato, profetico. Lo scopo del poeta è di dare vita a un'opera d'arte totale, panica (dal greco pan, "tutto"), che comprenda tutte le forme di vita. L'opera è quindi pervasa dal vitalismo e dall'elemento dionisiaco. Lo stile tuttavia è caratterizzato da toni enfatici e declamatori, che risultano ridondanti.[37]

Il poema narra di un viaggio in Grecia che D'Annunzio ha compiuto nel 1895. La narrazione è però trasfigurata dal mito. Il protagonista si presenta come un nuovo Ulisse, che si spinge verso nuove esperienze, disposto a tutto pur di raggiungere il suo scopo. Lo stesso viaggio si trasforma così in un'immersione nel passato mitico della Grecia, che inizia il poeta alla bellezza e al vivere sublime. A questo si oppone l'orrore delle città moderne, che tuttavia brulicano di nuove forze vitali. Il mito greco interviene quindi a trasfigurare e modellare il presente, lo libera dal suo squallore e dalla mediocrità. D'Annunzio arriva quindi a esaltare alcuni elementi tipici della modernità: il capitale, le macchine, i capitani d'industria, la finanza. L'artista distaccato e aristocratico ora elogia persino le masse operaie, considerate come un immenso serbatoio di energie che possono essere utilizzate dal superuomo. Si delinea così un nuovo ruolo per l'intellettuale nella società borghese. Nel mondo moderno D'Annunzio trova una bellezza segreta, nascosta, che si propone di cantare. Ecco quindi che vengono esaltate la grandezza dell'industria e del capitalismo, delle macchine, delle enormi masse che popolano le metropoli.[37]

Tuttavia, anche qui non mancano elementi negativi. Dal poema traspare infatti un sentimento di paura per una società industriale che vuole mettere l'artista ai margini. Le macchine e gli altri aspetti della modernità possono essere affrontati dalla poesia solo dopo essere stati esorcizzati. Il poeta deve quindi sovrapporli con immagini note e rassicuranti, come quelle provenienti dal mito e dalla storia classica. D'Annunzio tuttavia non si chiude o si emargina sotto il peso della società moderna, ma piuttosto cerca in essa nuove possibilità e nuovi spazi per vagheggiare sogni di onnipotenza. In questo modo, però, assume il ruolo pubblico di propagatore di posizioni reazionarie, e la sua arte diventa tronfia, retorica e pesante.[38]

Elettra, il secondo libro delle Laudi, riprende la struttura ideologica di Maia. Anche qui infatti vengono contrapposti un passato mitico e un futuro di gloria a un presente meschino e corrotto. La raccolta è però dedicata all'oratoria e alla propaganda politica. Una parte consistente è occupata dalle liriche delle Città del silenzio, dedicate ad antiche città italiane che, seppur messe ai margini dalla modernità, conservano la loro bellezza. In Elettra il Medioevo e il Rinascimento svolgono lo stesso ruolo che in Maia aveva la Grecia classica. Viene inoltre celebrata la romanità, il cui eroismo è ricollegato al Risorgimento. D'Annunzio si propone quindi come Vate per la futura gloria imperiale italiana.[39]

I toni profetici e politici dei primi due libri lasciano spazio in Alcyone alla lirica e alla fusione panica tra uomo e natura. Come già in Canto novo, la raccolta si propone come un ideale diario di una vacanza, pervasa da un atteggiamento di evasione e contemplazione. L'estate è la stagione più propizia per l'appagamento sensuale, e il poeta si getta in un'intima fusione con la vita del Tutto. Il suo io si identifica quindi con le presenze che incontra, siano animali, vegetali o minerali, e da questa identificazione esce trasfigurato e potenziato.[39][40]

Per quanto riguarda lo stile, vengono abbandonati i toni enfatici e retorici in favore di una poesia musicale. La parola si dissolve in una melodia e viene creato un complesso sistema di analogie, con immagini che si rispondono e si rimandano tra di loro. Per questo motivo, Alcyone è stata la raccolta poetica più apprezzata dai critici, oltre che quella che ha avuto, insieme all'opera di Pascoli, la maggiore influenza sulla poesia novecentesca. L'esperienza panica si ricollega ancora una volta al tema del superuomo: solo quest'ultimo è in grado, per la sua sensibilità eccezionale, di godere appieno del contatto con la natura, fino ad attingere a una vita superiore. Solo la parola musicale del Vate, con la sua musicalità, può cogliere l'armonia segreta della natura e rivelare l'essenza delle cose. Anche in Alcyone vengono poi esaltati la violenza dionisiaca e la futura gloria imperiale latina.[41]

Frontespizio de La figlia di Iorio, 1914

Nel 1896 D'Annunzio approda al teatro. A quell'anno risale la composizione del suo primo dramma, La città morta, che sarà pubblicato e messo in scena solo nel 1898. La scelta del teatro è strettamente collegata con l'ideologia superomistica (non si dimentichi che proprio a questa arte si dedica Stelio Effrena nel Fuoco). Attraverso i drammi è possibile raggiungere un pubblico più ampio, ed è quindi lo strumento più adatto per formare le coscienze della stirpe latina, destinata alla gloria imperiale. D'altra parte, ha avuto un ruolo anche l'influenza esercitata sul poeta da Eleonora Duse, che è considerata una delle più grandi attrici ad avere calcato le scene a cavallo tra i due secoli.[36]

Il teatro dannunziano rifiuta le forme del teatro moderno borghese. Mentre quest'ultimo metteva in scena momenti quotidiani, spesso tratti dalla vita privata, D'Annunzio punta piuttosto a un teatro di poesia. La realtà deve essere sublimata e trasfigurata, in modo da rievocare lo spirito tragico degli antichi. I protagonisti dei drammi sono dunque personaggi eccezionali, che compiono azioni fuori dall'ordinario e provano passioni e sofferenze non comuni. La struttura stessa dell'opera si deve reggere su complesse reti simboliche. Talvolta l'argomento proviene dal mito (Fedra, 1909) oppure dalla storia (Francesca da Rimini, 1901; Parisina, 1912; Sogno di un tramonto d'autunno, 1898; La nave, 1907); in ogni caso, nella rappresentazione del passato è sempre presente un gusto per l'esotico e per il raffinato. Il linguaggio è ricercato e aulico, le tragedie sono scritte in versi e utilizzano parole rare e preziose. Ci sono poi drammi ambientati nel presente, come per esempio La città morta, La gloria (1897), La Gioconda (1898), Più che amore (1906). Anche in questi casi, però, D'Annunzio è sempre impegnato a ricercare toni poetici, lontani dal teatro borghese.[36]

La tematica superomistica, come già ricordato, ricorre in tutte queste opere. Tuttavia anche nelle opere teatrali, come nei romanzi, la tensione all'azione eroica viene fermata da forze negative, che erodono la volontà e la capacità creativa del protagonista. L'eroe si scontra con una donna "nemica", oppure finisce per arenarsi di fronte alla mediocrità borghese: svuotato di ogni energia, è quindi destinato alla sconfitta.[36]

Un discorso a parte merita La figlia di Jorio (1904), che lo stesso D'Annunzio definisce "tragedia pastorale". L'opera è ambientata in Abruzzo, in una terra che viene descritta come arcaica, primitiva e dominata da magia e superstizione. L'autore insiste sui riti e utilizza un linguaggio che cerca di riprodurre le forme della parlata popolare. Non c'è però una finalità documentaria, ma solo compiacimento per ciò che è barbarico. Un gusto tipicamente decadente, che vede nei contadini e nelle campagne il luogo per eccellenza dell'irrazionale. In questo senso, La figlia di Jorio può essere ricollegata con le novelle giovanili di D'Annunzio, ambientate di prevalenza nella terra natia.[36]

Sempre in Abruzzo è ambientata La fiaccola sotto il moggio (1905), che racconta una storia di delitti e vendette la cui protagonista, Gigliola, ricalca il modello delle eroine delle tragedie greche.[42]

Il Notturno e le ultime opere

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D'Annunzio nel 1922

Negli anni dieci D'Annunzio abbandona le complesse strutture romanzesche: la Leda senza cigno (1913), un'opera narrativa scritta in quegli anni, è infatti più vicina al genere della novella. All'inizio del Novecento, in tutta Europa il grande romanzo ottocentesco entrava in crisi e venivano avanzate nuove proposte. In Italia si sperimenta invece un nuovo di tipo di prosa lirica, che si caratterizza per la sua frammentarietà e per il taglio autobiografico e memoriale. Anche D'Annunzio, da quel momento in poi, scrive prose riconducibili a questo genere. Ne sono esempi la Contemplazione della morte (1912), la Licenza della Leda senza cigno (1913), Le faville del maglio (1924-1928), il Libro segreto (1935). Il poeta ripiega su se stesso per esplorare le proprie ossessioni e paure, a cominciare da quella della morte, che non viene più descritta attraverso immagini evocative, ma è affrontata direttamente. Affiorano così ricordi di infanzia, confessioni, sensazioni. Sono temi nuovi rispetto al D'Annunzio vitalistico e "solare" della produzione precedente, e nuova è anche la struttura di queste opere. La prosa procede infatti per frammenti, si muove tra passato e presente attraverso una libera associazione di idee, ricordi, sensazioni casuali. La memoria di fatti accaduti si mescola inoltre alla fantasia e all'allucinazione.[43]

Di queste opere, il Notturno (1916) è considerato il più rappresentativo dell'ultima fase della produzione dannunziana (che viene detta appunto «notturna», contrapposta a quella «solare» precedente). Il testo è stato composto nel 1916, durante la convalescenza da un incidente di volo durante un'azione bellica. Il poeta aveva subito il distacco della retina, e nella speranza di recuperare la vista era stato costretto a rimanere tre mesi nella completa oscurità. La momentanea cecità costringe D'Annunzio a ripiegare sugli altri sensi e a guardare nella propria interiorità. Accudito dalla figlia Renata, annota su sottili strisce di carta impressioni, ricordi, immagini. Tutto il materiale viene poi rivisto e risistemato, ma l'edizione finale mantiene il carattere provvisorio e frammentario della libera associazione di idee. Anche lo stile muta rispetto al passato, con frasi brevi e spesso in forma nominale (senza verbo).[44]

  1. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, p. LXXI.
  2. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. LXXI-LXXIII.
  3. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, p. LXXIII.
  4. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, p. LXXIV.
  5. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, p. LXXV.
  6. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. LXXVI-LXXVIII.
  7. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. LXXIX-LXXXII.
  8. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. LXXXII-LXXXVIII.
  9. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. XCI-XCIV.
  10. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. XCV-.
  11. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. XCVIII.
  12. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. C-CI.
  13. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CII-CVI.
  14. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CVI-CVIII.
  15. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CIX-CX.
  16. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CX-CXI.
  17. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXIII.
  18. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXX.
  19. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXX-CXXII.
  20. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXXII-CXXVII.
  21. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXXII-CXXVII.
  22. Egea Roncoroni, Cronologia in Gabriele d'Annunzio, Il Piacere, a cura di Federico Roncoroni, Milano, Mondadori, 1995, pp. CXXXIV.
  23. 23,0 23,1 23,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 3.
  24. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 832.
  25. 25,0 25,1 25,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 4.
  26. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 4-5.
  27. 27,0 27,1 27,2 27,3 27,4 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 5.
  28. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 833.
  29. 29,0 29,1 29,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 6.
  30. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 836.
  31. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 6-7.
  32. 32,0 32,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 7.
  33. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 7-8.
  34. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 838.
  35. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 8.
  36. 36,0 36,1 36,2 36,3 36,4 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 9.
  37. 37,0 37,1 37,2 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 10.
  38. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 10-11.
  39. 39,0 39,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 11.
  40. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 841.
  41. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 11-12.
  42. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 840.
  43. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 12-13.
  44. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 13.

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