Storia della letteratura italiana/Giovanni Pascoli

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Indice del libro

La poesia pascoliana si inserisce, con tratti originalissimi, nel panorama del decadentismo europeo e segna in maniera indelebile la poesia italiana. Affonda le radici in una visione pessimistica della vita, in cui si riflette il tramonto della fiducia, tipicamente positivistica, nella possibilità di raggiungere una conoscenza che sia in grado di spiegare compiutamente la realtà. Il mondo appare all'autore come un insieme misterioso e indecifrabile. Il poeta rappresenta la realtà con una pennellata impressionistica che coglie solo un determinato particolare del reale, non essendo possibile avere una concreta visione d'insieme. Coerente con la poetica decadente, Pascoli si presenta come un "veggente", mediatore di una conoscenza aurorale, in grado di spingere lo sguardo oltre il mondo sensibile. Nel saggio Il fanciullino afferma che il poeta fanciullino sa dare il nome alle cose, scoprendole nella loro freschezza originaria, in maniera immaginosa e alogica.

La vita[modifica]

Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli nasce a San Mauro di Romagna il 31 dicembre 1855, quarto dei dieci figli di Ruggiero e Caterina Vincenzi Allocatelli. Il padre è fattore nella tenuta La Torre di proprietà dei principi Torlonia, e la famiglia gode di una certa agiatezza economica. La tranquillità è però infranta da un evento drammatico che segnerà a vita il poeta: l'uccisione del padre mentre torna dal mercato di Cesena, il 10 agosto 1867. I responsabili non saranno mai identificati, e questo fatto genera nel giovane Pascoli un senso di ingiustizia. La famiglia conosce difficoltà economiche e deve trasferirsi dapprima a San Mauro, e poi a Rimini. Negli anni immediatamente successivi ci saranno altri lutti: nel 1868 muoiono la madre e la sorella Margherita, nel 1871 il fratello Luigi e nel 1876 l'altro fratello Giacomo.[1]

Intanto nel 1862 Giovanni era entrato, insieme ai fratelli, nel collegio degli Scolopi di Urbino, dove aveva ricevuto una rigida educazione classica. Nel 1871, a causa delle ristrettezze economiche, deve abbandonare il collegio, ma grazie all'intervento di uno zio può terminare gli studi a Firenze. Finito il liceo frequenta, grazie a una borsa di studio, la facoltà di lettere a Bologna, dove ha tra i suoi maestri Carducci, e negli anni universitari si avvicina al socialismo. Nel 1879 viene arrestato mentre partecipa a una manifestazione antigovernativa e deve trascorrere alcuni mesi in carcere. Segnato da questa esperienza, decide di abbandonare la militanza politica.[1]

Nel 1882 si laurea con una tesi su Alceo e intraprende la carriera universitaria, prima a Matera, poi a Massa e infine a Livorno, dove rimane fino al 1895. In questi anni chiama a vivere con sé le sorelle Ida e Maria, ricostituendo così quello che rimane del nucleo familiare distrutto. Questo "nido", che sarà centrale nella poetica pascoliana, è espressione della fragilità psicologica ed emotiva del poeta, che tra le pareti familiari cerca protezione dalle insidie del mondo esterno. Da questa condizione infantile scaturisce un attaccamento morboso nei confronti delle sorelle, a cui attribuisce una funzione materna. Il ricordo ossessivo dei morti inibisce ogni tentativo di relazionarsi con l'esterno, visto come un tradimento dei legami con il "nido". Qualsiasi rapporto con altre persone estranee al "nido" è bandito, tanto che nella sua vita Pascoli non avrà nessuna relazione amorosa. Il matrimonio di Ida nel 1895 sarà vissuto come un tradimento, che porterà il poeta a soffrire di crisi depressive.[2]

Nel 1895 Pascoli e la sorella Maria, rimasti soli, si trasferiscono nella campagna lucchese, a Castelvecchio di Barga. Qui il poeta conduce una vita appartata, lontana dalla città, a cui contrappone la serenità della campagna. Nello stesso periodo, Pascoli aveva ottenuto dapprima la cattedra di grammatica greca e latina a Bologna, e poi quella di letteratura latina a Messina. Nel 1905, infine, sostituisce Carducci come professore di letteratura italiana a Bologna.[2] Tra il 1891 e il 1911 raccoglie in vari volumi le poesie che aveva composto fino ad allora e negli ultimi anni della sua vita gareggia con il maestro Carducci e con D'Annunzio nel ruolo di "vate" della poesia civile. Accanto alla sua poesia chiusa nel limitato ambito domestico si affianca quindi la figura ufficiale del poeta cantore della patria, per la quale compone una serie di canti e l'orazione La grande proletaria si è mossa, pronunciata il 26 novembre 1911. La sua eccellente conoscenza del latino gli consente inoltre di vincere per dodici volte, dal 1892, la medaglia d'oro al concorso di la poesia latina di Amsterdam. Ammalatosi di cancro allo stomaco, Pascoli si trasferisce a Bologna per curarsi, dove muore il 6 aprile 1912.[3]

Le raccolte poetiche e le altre opere[modifica]

A partire dagli anni ottanta Pascoli ha pubblicato le sue poesie per lo più su riviste letterarie o in edizioni per sposalizi. Solo negli ultimi vent'anni della sua vita ha riunito i suoi componimenti in raccolte, raggruppandoli secondo criteri formali, stilistici e metrici. A ogni nuova edizione il poeta ha poi arricchito ciascuna raccolta di nuove poesie o rielaborazioni di testi più vecchi: in ciascun volume è dunque possibile trovare, uno accanto all'altro, componimenti che risalgono a epoche tra di loro molto lontane. I filologi hanno dunque incontrato vari problemi nel datare le singole poesie e nel ricostruire l'evoluzione della produzione pascoliana. D'altra parte, lo stesso poeta ha seguito un percorso non lineare, ma si è occupato contemporaneamente di temi e soluzioni formali tra di loro molto diversi. In generale, anche se è possibile ordinare cronologicamente i testi e riconoscere le variazioni apportate a un componimento, nella produzione di Pascoli non c'è mai stata una svolta radicale, tale da permettere di suddividere la sua esperienza poetica in fasi.[4]

Myricae[modifica]

Fiori di tamerice, la pianta da cui Pascoli trae il nome per la sua prima raccolta

La prima raccolta pubblicata da Pascoli è Myricae (1891). Compare in un'edizione fuori commercio e inizialmente comprende ventidue poesie dedicate alle nozze di due amici. Nelle edizioni successive la raccolta si è ampliata, e ha raggiunto la sua struttura definitiva a partire dalla quarta, nel 1897. Il titolo è una citazione dalla Bucolica IV, dove Virgilio afferma di volere innalzare il tono poetico, in quanto «non omnes arbusta iuvant, humilesque myricae» («non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici»).[4] Pascoli invece pone al centro della sua poesia le piccole cose, di cui le tamerici sono un simbolo. Si tratta per lo più di testi molto brevi, nei quali il poeta si sofferma su alcuni particolari che vengono caricati di mistero e suggestioni, e che sembrano rimandare a una realtà altra. La sintassi è frantumata e viene fatto un uso analogico del linguaggio; Pascoli ricorre a onomatopee e il suono delle parole assume a sua volta un valore simbolico. Riaffiora spesso il tema della morte e per la prima volta si affaccia il nodo centrale della poesia pascoliana, la necessità di riannodare i legami spezzati con la propria famiglia in seguito all'evento luttuoso della morte del padre.[5][6]

I Poemetti[modifica]

I Poemetti vengono pubblicati una prima volta nel 1897 e poi ripubblicati nel 1900. Nella loro struttura definitiva sono però divisi in due volumi intitolati Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909). I componimenti sono più ampi rispetto a quelli di Myricae e hanno un taglio narrativo. Nelle due raccolte viene infatti descritta la vita di una famiglia rurale di Barga, della quale vengono ritratti alcuni momenti quotidiani. La narrazione si articola in diversi cicli, che corrispondono alle fasi dei lavori nei campi. Rispetto alle poesie del volume precedente, caratterizzate da versi brevi, vengono qui utilizzate le terzine dantesche raggruppate in sezioni. Diversamente dai veristi, la vita contadina è vista da Pascoli in modo idealizzato ed è presentata come portatrice di valori autentici di bontà e generosità, in contrapposizione con la negatività della società contemporanea. Chiusa nel piccolo mondo degli affetti familiari e regolata dallo scorrere delle stagioni, la vita rurale appare al poeta più rassicurante rispetto all'incombere della realtà storica. Pascoli tralascia gli aspetti più duri della vita agreste, e traspone i suoi ideali nel passato e in un mondo che sta scomparendo. Oltre a questo ciclo georgico, le due raccolte contengono anche poesie che trattano temi più torbidi o oscuri, come per esempio Il vischio o la Digitale purpurea.[5]

Canti di Castelvecchio[modifica]

Come affermato dallo stesso autore nell'introduzione alla raccolta, i Canti di Castelvecchio (1903) si propongono come una continuazione della precedente Myricae. Anche qui si ritrovano immagini della vita di campagna e si ritorna alla forma lirica, con poesie più brevi ordinate secondo uno schema che richiama il succedersi delle stagioni. Ancora una volta la vita contadina è vista come un sicuro riparo dalla negatività del mondo moderno, e torna più volte il ricordo dei morti, che si uniscono al poeta per via dei mai dissolti legami familiari. Nel tentativo di ricostruire un ulteriore legame con il nido, sono poi presenti rimandi tra il paesaggio della natia Romagna e quello di Castelvecchio, dove Pascoli si era nel frattempo trasferito. Il sesso viene osservato con il turbamento tipico di un fanciullo, che guarda a questo aspetto della vita degli adulti con un misto di repulsione e di fascinazione. La morte è invece descritta talvolta come un rifugio talvolta come un ritorno al grembo materno.[7]

Poemi conviviali[modifica]

Nei Poemi conviviali (1904) sono raccolti testi apparsi in precedenza, a partire dal 1895, sulla rivista Il Convito diretta da Adolfo De Bosis, la stessa su cui D'Annunzio avrebbe pubblicato Le vergini delle rocce. Queste poesie sono dedicate a personaggi e temi ricavati dal mito e dalla storia antica. Si tratta però di una ricostruzione storica in cui il poeta fa sfoggio di erudizione e narra aneddoti e particolari poco noti o marginali. Viene inoltre utilizzato un linguaggio ricercato ed estetizzante, in linea con l'orientamento seguito dalla rivista su cui i componimenti sono stati pubblicati. Tuttavia anche qui riemergono elementi tipici della poetica pascoliana, e così il mondo classico non è un luogo di eterna e stabile perfezione come volevano i classicisti, ma è attraversato da tensioni e angosce tipicamente moderne.[7]

Le altre raccolte[modifica]

Nelle ultime raccolte Pascoli ha ormai assunto la funzione di "poeta ufficiale" della patria, che con i suoi componimenti ne elogia la grandezza e propaganda i valori civili e morali della nazione. Gli spunti per questo tipo di produzione provengono generalmente dall'attualità. Tutte le sue poesie di tipo civile saranno riunite nel 1906 nella raccolta Odi ed inni, che verrà progressivamente ampliata fino al 1913.[8] Accanto a questa c'è anche una produzione di carattere storico, che riprende temi dalla storia medievale, rinascimentale e risorgimentale. Agli anni dell'insegnamento a Bologna risalgono i Poemi italici (1911-1914) e le Canzoni di re Enzio (1908-1909). A questa poesia di tipo storico sono riconducibili anche i Poemi del Risorgimento (1913).[6]

I Carmina[modifica]

Oltre alla produzione in italiano di cui si è parlato, bisogna ricordare anche i Carmina in latino, che comprendono trenta poemetti e settantuno poesie più brevi, testi che per la maggior parte sono stati scritti per il concorso di poesia latina di Amsterdam. La raccolta di questi componimenti è stata pubblicata postuma nel 1915, e Pascoli non ha mai avuto modo di organizzarli in maniera organica. I temi riprendono aspetti marginali della vita romana, e per lo più hanno per protagonisti personaggi umili che si riscattano grazie alla loro bontà. Il latino di Pascoli non è una semplice riproposizione di modelli classici, ma piuttosto è una lingua rivissuta, affine all'italiano da lui utilizzato nelle altre poesie.[9] Per lui il latino è la lingua assoluta, pura perché non contaminata dalle deformazioni del presente. Allo stesso tempo, è anche un modo per tornare all'età prenatale, a una sorta di infanzia dell'umanità.[6]

Prose[modifica]

Nella sua veste di professore universitario, Pascoli si è dedicato anche all'attività di critico e saggista. La sua poetica viene esposta in maniera organica nel saggio Il fanciullino, pubblicato sul Marzocco nel 1897. Ha scritto poi saggi letterari su Leopardi e Manzoni, e tre volumi dedicati all'analisi critica delle opere di Dante: Minerva oscura (1898), Sotto il velame (1900), La mirabile visione (1908). Nonostante le ambizioni dell'autore, questi ultimi incontreranno scarso interesse tra i critici letterari dell'epoca. Nel suo approccio ai testi classici, Pascoli tende a considerarli proiezioni della sua sensibilità: ne sono esempi gli interventi critici su Leopardi, che considera un «divino fanciullo».[10]

Il poeta ha lavorato anche a libri scolastici, tra cui alcune antologie di letteratura italiana e latina. In generale la prosa pascoliana, lontana dallo stile erudito diffuso all'epoca, ha un tono più pacato e colloquiale. Nei discorsi ufficiali ricorre invece a un tono più sostenuto e a una certa enfasi retorica. Tra questi ricordiamo La grande proletaria si è mossa.[11]

Il profilo letterario: la "rivoluzione poetica" di Pascoli[modifica]

La formazione letteraria[modifica]

Un momento cruciale nella formazione letteraria di Pascoli risale ai nove anni trascorsi a Bologna come studente alla facoltà di lettere (1873-1882), dove è allievo di Carducci, che si accorge subito delle qualità del giovane. Nella cerchia ristretta dell'ambiente creatosi attorno al poeta, Pascoli vive gli anni più movimentati della sua vita. Protetto dal rapporto tra maestro e allievo, Pascoli non ha bisogno di alzare barriere nei confronti della realtà, limitandosi a seguire gli indirizzi e i modelli del suo corso di studi: i classici, la filologia, la letteratura italiana. Nel 1875 perde la borsa di studio e con essa il suo unico mezzo di sostentamento. La frustrazione e i disagi materiali lo spingono verso il movimento socialista in quella che sarà una delle poche, brevi parentesi politiche della sua vita. Nel 1879 è arrestato e assolto dopo tre mesi di carcere. Il senso di ingiustizia e la delusione lo riportano dal maestro Carducci e completa gli studi con una tesi sul poeta greco Alceo.

A margine degli studi veri e propri, comunque, conduce una vasta esplorazione del mondo letterario e scientifico straniero. Scopre l'avanguardia simbolista attraverso riviste francesi specializzate, come la Revue des deux Mondes. Legge inoltre i testi scientifico-naturalistici di Jules Michelet, Jean-Henri Fabre e Maurice Maeterlinck. Tali testi utilizzano la descrizione naturalistica - la vita degli insetti soprattutto, per quell'attrazione per il microcosmo così caratteristica del Romanticismo decadente di fine Ottocento - in chiave poetica; l'osservazione era aggiornata sulle più recenti acquisizioni scientifiche dovute al perfezionamento del microscopio e della sperimentazione di laboratorio, ma poi veniva filtrata letterariamente attraverso uno stile lirico in cui dominava il senso della meraviglia e della fantasia. Era un atteggiamento positivista "romanticheggiante" che tendeva a vedere nella natura l'aspetto pre-cosciente del mondo umano.

Coerente con questi interessi, c'è anche quello per la cosiddetta "filosofia dell'inconscio" del tedesco Karl Robert Eduard von Hartmann, l'opera che aprì quella linea di interpretazione della psicologia in senso anti-meccanicistico che sfociò nella psicanalisi freudiana. È evidente in queste letture - come in quella successiva dell'opera dell'inglese James Sully sulla "psicologia dei bambini" - un'attrazione di Pascoli verso il "mondo piccolo" dei fenomeni naturali e psicologicamente elementari che tanto fortemente caratterizzò tutta la sua poesia. E non solo la sua. Per tutto l'Ottocento la cultura europea aveva coltivato un particolare culto per il mondo dell'infanzia, dapprima, in un senso pedagogico e culturale più generico, poi, verso la fine del secolo, con un più accentuato intendimento psicologico. I romantici, sulla scia di Giambattista Vico e di Jean-Jacques Rousseau, avevano paragonato l'infanzia allo stato primordiale "di natura" dell'umanità, inteso come una sorta di età dell'oro.

Verso gli anni ottanta si cominciò invece ad analizzare in modo più realistico e scientifico la psicologia dell'infanzia, portando l'attenzione sul bambino come individuo in sé, caratterizzato da una propria realtà di riferimento. La letteratura per l'infanzia aveva prodotto in meno di un secolo una quantità considerevole di libri che costituirono la vera letteratura di massa fino alla fine dell'Ottocento. Parliamo dei libri per i bambini, come le innumerevoli raccolte di fiabe dei fratelli Grimm (1822), di Hans Christian Andersen (1872), di John Ruskin (1851), di Oscar Wilde (1888), di Maurice Maeterlinck (1909); o come il capolavoro di Lewis Carroll, Alice nel Paese delle Meraviglie (1865). Oppure i libri di avventura adatti anche all'infanzia, come i romanzi di Jules Verne, Rudyard Kipling, Mark Twain, Emilio Salgari, Jack London. O libri sull'infanzia, dall'intento moralistico e educativo, come Senza famiglia di Hector Malot (1878), Il piccolo Lord di Frances Hodgson Burnett (1886), Piccole donne di Louisa May Alcott (1869) e i celeberrimi Cuore di De Amicis (1886) e Pinocchio di Collodi (1887).

Tutto questo ci serve a ricondurre, naturalmente, la teoria pascoliana della poesia come intuizione pura e ingenua, espressa nella poetica del Fanciullino, ai riflessi di un vasto ambiente culturale europeo che era assolutamente maturo per accogliere la sua proposta. In questo senso non si può parlare di una vera novità, quanto piuttosto della sensibilità con cui egli seppe cogliere un gusto diffuso e un interesse già educato, traducendoli in quella grande poesia che all'Italia mancava dall'epoca di Leopardi. Per quanto riguarda il linguaggio, Pascoli ricerca una sorta di musicalità evocativa, accentuando l'elemento sonoro del verso, secondo il modello dei poeti maledetti Paul Verlaine e Stéphane Mallarmé.

La poesia come "nido" che protegge dal mondo[modifica]

Per Pascoli la poesia ha natura irrazionale e con essa si può giungere alla verità di tutte le cose; il poeta deve essere un poeta-fanciullo che arriva a questa verità mediante l'irrazionalità e l'intuizione. Rifiuta quindi la ragione e, di conseguenza, rifiuta il positivismo (che era l'esaltazione della ragione stessa e del progresso), approdando, come si è detto, al decadentismo. La poesia diventa così analogica, cioè senza apparente connessione tra due o più realtà che vengono rappresentate; ma, appunto, solo apparentemente: in realtà c'è una connessione (a volte anche un po' forzata) tra i concetti ed il poeta spesso e volentieri è costretto a "voli vertiginosi" per mettere "in comunicazione" questi concetti. La poesia irrazionale o analogica è una poesia di svelamento o di scoperta e non di invenzione. I motivi principali di questa poesia devono essere "umili cose": cose della vita quotidiana, cose modeste o familiari. A questo si unisce il ricordo ossessivo dei suoi morti, le cui presenze aleggiano continuamente nel "nido", riproponendo il passato di lutti e di dolori, inibendo al poeta ogni rapporto con la realtà esterna, ogni vita di relazione, che viene sentita come un tradimento nei confronti dei legami oscuri, viscerali del "nido".

Il duomo, al cui suono della campana si fa riferimento ne L'ora di Barga

Nella vita dei letterati italiani degli ultimi due secoli ricorre pressoché costantemente la contrapposizione problematica tra mondo cittadino e mondo agreste, intesi come portatori di valori opposti: mentre la campagna appare sempre più come il "paradiso perduto" dei valori morali e culturali, la città diviene simbolo di una condizione umana maledetta e snaturata, vittima della degradazione morale causata da un ideale di progresso puramente materiale. Questa contrapposizione può essere interpretata sia alla luce dell'arretratezza economica e culturale di gran parte dell'Italia rispetto all'evoluzione industriale delle grandi nazioni europee, sia come conseguenza della divisione politica e della mancanza di una grande metropoli unificante come erano Parigi per la Francia e Londra per l'Inghilterra. I "luoghi" poetici della "terra", del "borgo", dell'"umile popolo" che ricorrono fino agli anni del primo dopoguerra non fanno che ripetere il sogno di una piccola patria lontana, che l'ideale unitario vagheggiato o realizzato non spegne mai del tutto.

Decisivo nella continuazione di questa tradizione fu proprio Pascoli, anche se i suoi motivi non furono quelli tipicamente ideologici degli altri scrittori, ma nacquero da radici più intimistiche e soggettive. Nel 1899 scrisse al pittore De Witt: «C'è del gran dolore e del gran mistero nel mondo; ma nella vita semplice e familiare e nella contemplazione della natura, specialmente in campagna, c'è gran consolazione, la quale pure non basta a liberarci dall'immutabile destino».[12]

In questa contrapposizione tra l'esteriorità della vita sociale (e cittadina) e l'interiorità dell'esistenza familiare (e agreste) si racchiude l'idea dominante - accanto a quella della morte - della poesia pascoliana. Dalla casa di Castelvecchio, dolcemente protetta dai boschi della Media Valle del Serchio, Pascoli non "uscì" più (psicologicamente parlando) fino alla morte. Pur continuando in un intenso lavoro di pubblicazioni poetiche e saggistiche, e accettando nel 1905 di succedere a Carducci sulla cattedra dell'università di Bologna, egli ci ha lasciato del mondo una visione univocamente ristretta attorno ad un "centro", rappresentato dal mistero della natura e dal rapporto tra amore e morte.

Fu come se, sopraffatto da un'angoscia impossibile a dominarsi, il poeta avesse trovato nello strumento intellettuale del componimento poetico l'unico mezzo per costringere le paure ed i fantasmi dell'esistenza in un recinto ben delimitato, al di fuori del quale egli potesse continuare una vita di normali relazioni umane. A questo "recinto" poetico egli lavorò con straordinario impegno creativo. La ricercatezza quasi sofisticata, e artificiosa nella sua eleganza, delle strutture metriche scelte da Pascoli - mescolanza di novenari, quinari e quaternari nello stesso componimento, e così via - è stata interpretata come un paziente e attento lavoro di organizzazione razionale della forma poetica attorno a contenuti psicologici informi e incontrollabili che premevano dall'inconscio. Insomma, esattamente il contrario di quanto i simbolisti francesi e le altre avanguardie artistiche del primo Novecento proclamavano nei confronti della spontaneità espressiva.

Anche se l'ultima fase della produzione pascoliana è ricca di tematiche socio-politiche (Odi e inni del 1906, comprendenti gli inni Ad Antonio Fratti, Al re Umberto, Al Duca degli Abruzzi e ai suoi compagni nonché l'ode, aggiunta nella terza edizione, Chavez; Poemi italici del 1911; Poemi del Risorgimento, postumi; nonché il celebre discorso La grande Proletaria si è mossa, tenuto nel 1911 in occasione di una manifestazione a favore dei feriti della guerra di Libia), non c'è dubbio che la sua opera più significativa è rappresentata dai volumi poetici che comprendono le raccolte di Myricae e dei Canti di Castelvecchio (1903), nei quali il poeta trae spunto dall'ambiente a lui familiare come la Ferrovia Lucca-Aulla ("In viaggio"), nonché parte dei Poemetti. Il "mondo" di Pascoli è tutto lì: la natura come luogo dell'anima dal quale contemplare la morte come ricordo dei lutti privati.

« Troppa questa morte? Ma la vita, senza il pensiero della morte, senza, cioè, religione, senza quello che ci distingue dalle bestie, è un delirio, o intermittente o continuo, o stolido o tragico. D'altra parte queste poesie sono nate quasi tutte in campagna; e non c'è visione che più campeggi o sul bianco della gran nave o sul verde delle selve o sul biondo del grano, che quella dei trasporti o delle comunioni che passano: e non c'è suono che più si distingua sul fragor dei fiumi e dei ruscelli, su lo stormir delle piante, sul canto delle cicale e degli uccelli, che quello delle Avemarie. Crescano e fioriscano intorno all'antica tomba della mia giovane madre queste myricae (diciamo cesti o stipe) autunnali. »
(Dalla prefazione di Pascoli ai Canti di Castelvecchio)

Il fanciullino[modifica]

Uno dei tratti salienti per i quali Pascoli è passato alla storia della letteratura è la cosiddetta poetica del fanciullino, da lui stesso così bene esplicitata nello scritto omonimo apparso sulla rivista Il Marzocco nel 1897. In tale scritto, Pascoli, influenzato dal manuale di psicologia infantile di James Sully e da La filosofia dell'inconscio di Eduard von Hartmann, dà una definizione assolutamente compiuta - almeno secondo il suo punto di vista - della poesia (dichiarazione poetica).

Si tratta di un testo di 20 capitoli, in cui si svolge il dialogo fra il poeta e la sua anima di fanciullino, simbolo:

  • dei margini di purezza e candore, che sopravvivono nell'uomo adulto;
  • della poesia e delle potenzialità latenti di scrittura poetica nel fondo dell'animo umano.

Caratteristiche del fanciullino:

  • "Rimane piccolo anche quando noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce ed egli fa sentire il suo tinnulo squillo come di campanella".
  • "Piange e ride senza un perché di cose, che sfuggono ai nostri sensi ed alla nostra ragione".
  • "Guarda tutte le cose con stupore e con meraviglia, non coglie i rapporti logici di causa - effetto, ma intuisce".
  • "Scopre nelle cose le relazioni più ingegnose".
  • "Riempie ogni oggetto della propria immaginazione e dei propri ricordi (soggettivazione), trasformandolo in simbolo".
Una rondine. Gli uccelli e la natura, con precisione del lessico zoologico e botanico ma anche con semplicità, sono stati spesso cantati da Giovanni Pascoli

Il poeta allora mantiene una razionalità di fondo, organizzatrice della metrica poetica, ma:

  • possiede una sensibilità speciale, che gli consente di caricare di significati ulteriori e misteriosi anche gli oggetti più comuni;
  • comunica verità latenti agli uomini: è "Adamo", che mette nome a tutto ciò che vede e sente (secondo il proprio personale modo di sentire, che tuttavia ha portata universale);
  • deve saper combinare il talento della fanciullezza (saper vedere), con quello della vecchiaia (saper dire);
  • percepisce l'essenza delle cose e non la loro apparenza fenomenica.

La poesia, quindi, è tale solo quando riesce a parlare con la voce del fanciullo ed è vista come la perenne capacità di stupirsi tipica del mondo infantile, in una disposizione irrazionale che permane nell'uomo anche quando questi si è ormai allontanato, almeno cronologicamente, dall'infanzia propriamente intesa. È una realtà ontologica. Ha scarso rilievo per Pascoli la dimensione storica (egli trova suoi interlocutori in Omero, Virgilio, come se non vi fossero secoli e secoli di mezzo): la poesia vive fuori dal tempo ed esiste in quanto tale. Nel fare poesia una realtà ontologica (il poeta-microcosmo) si interroga su un'altra realtà ontologica (il mondo-macrocosmo); ma per essere poeta è necessario confondersi con la realtà circostante senza che il proprio punto di vista personale e preciso interferisca: il poeta si impone la rinuncia a parlare di se stesso, tranne in poche poesie, in cui esplicitamente parla della sua vicenda personale.

È vero che la vicenda autobiografica dell'autore caratterizza la sua poesia, ma con connotazioni di portata universale: ad esempio la morte del padre viene percepita come l'esempio principe della descrizione dell'universo, di conseguenza gli elementi autenticamente autobiografici sono scarsi, in quanto raffigura il male del mondo in generale. Tuttavia, nel passo XI de "Il fanciullino", Pascoli dichiara che un vero poeta è, più che altro, il suo sentimento e la sua visione che cerca di trasmettere agli altri. Per cui il poeta Pascoli rifiuta:

  • il classicismo, che si qualifica per la centralità ed unicità del punto di vista del poeta, che narra la sua opera ed esprime le proprie sensazioni.
  • il Romanticismo, dove il poeta fa di sé stesso, dei suoi sentimenti e della sua vita, poesia.

La poesia, così definita, è naturalmente buona ed è occasione di consolazione per l'uomo ed il poeta. Pascoli fu anche commentatore e critico dell'opera di Dante e diresse inoltre la collana editoriale "Biblioteca dei Popoli". Il limite della poesia del Pascoli è costituito dall'ostentata pateticità e dall'eccessiva ricerca dell'effetto commovente. D'altro canto, il merito maggiore attribuibile al Pascoli fu quello di essere riuscito nell'impresa di far uscire la poesia italiana dall'eccessiva aulicità e retoricità non solo di Carducci e di Leopardi, ma anche del suo contemporaneo D'Annunzio. In altre parole, fu in grado di creare finalmente un legame diretto con la poesia d'Oltralpe e di respiro europeo. La lingua pascoliana è profondamente innovativa: essa perde il proprio tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con brevi frasi, musicali e suggestive.

La poesia cosmica[modifica]

L'ammasso aperto delle Pleiadi (M45), nella costellazione del Toro. Pascoli lo cita col nome dialettale di "Chioccetta" ne Il gelsomino notturno. La visione dello spazio buio e stellato è uno dei temi ricorrenti nella sua poesia

Fanno parte di questa produzione pascoliana liriche come Il bolide (Canti di Castelvecchio) e La vertigine (Nuovi Poemetti). Il poeta scrive nei versi conclusivi de Il bolide: «E la terra sentii nell'Universo. / Sentii, fremendo, ch'è del cielo anch'ella. / E mi vidi quaggiù piccolo e sperso / errare, tra le stelle, in una stella». Si tratta di componimenti permeati di spiritualismo e di panteismo (La Vertigine). La Terra è errante nel vuoto, non più qualcosa di certo; lo spazio aperto è la vera dimora dell'uomo rapito come da un vento cosmico. Scrive il critico Giovanni Getto:

« È questo il modo nuovo, autenticamente pascoliano, di avvertire la realtà cosmica: al geocentrismo praticamente ancora operante nell'emozione fantastica, nonostante la chiara nozione copernicana sul piano intellettuale, del Leopardi, il Pascoli sostituisce una visione eliocentrica o addirittura galassiocentrica: o meglio ancora, una visione in cui non si dà più un centro di sorta, ma soltanto sussistono voragini misteriose di spazio, di buio e di fuoco. Di qui quel sentimento di smarrita solitudine che nessuno ancora prima del Pascoli aveva saputo consegnare alla poesia.[13][14] »

La lingua pascoliana[modifica]

Pascoli disintegra la forma tradizionale del linguaggio poetico: con lui la poesia italiana perde il suo tradizionale supporto logico, procede per simboli ed immagini, con frasi brevi, musicali e suggestive. Il linguaggio è fonosimbolico con un frequente uso di onomatopee, metafore, sinestesie, allitterazioni, anafore, vocaboli delle lingue speciali (gerghi). La disintegrazione della forma tradizionale comporta «il concepire per immagini isolate (il frammentismo), il periodo di frasi brevi e a sobbalzi (senza indicazione di passaggi intermedi, di modi di sutura), pacatamente musicali e suggestive; la parola circondata di silenzio».[15] Pascoli ha rotto la frontiera tra grammaticalità e evocatività della lingua. E non solo ha infranto la frontiera tra pregrammaticalità e semanticità, ma ha anche annullato «il confine tra melodicità ed icasticità, cioè tra fluido corrente, continuità del discorso, e immagini isolate autosufficienti. In una parola egli ha rotto la frontiera fra determinato e indeterminato».[16]

Note[modifica]

  1. 1,0 1,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 109.
  2. 2,0 2,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 110.
  3. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 111.
  4. 4,0 4,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 115.
  5. 5,0 5,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 116.
  6. 6,0 6,1 6,2 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 849.
  7. 7,0 7,1 Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 117.
  8. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 848-849.
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 117-118.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 854.
  11. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, D'Annunzio e Pascoli, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 118.
  12. Maria Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, Milano, Mondadori, 1961, p. 616 n.2
  13. Giovanni Getto, Giovanni Pascoli poeta astrale, in Studi per il centenario della nascita di G. Pascoli, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1962.
  14. Fondazione Giovanni Pascoli - Nuovi poemetti, su fondazionepascoli.it.
  15. Alfredo Schiaffini, G. Pascoli disintegratore della forma poetica tradizionale, in Omaggio a Pascoli, Milano, Mondadori, 1955, pp. 240-245.
  16. Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Studi pascoliani, Faenza, Lega, 1958, pp. 30 e sgg.

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