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Storia della letteratura italiana/Oltre il verismo

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Storia della letteratura italiana

La maggioranza delle esperienze letterarie della seconda metà dell'Ottocento risentono dell'influenza del naturalismo, ma i risultati a cui i vari autori arriveranno saranno molto diversi e soprattutto molto lontani dal rigore del verismo siciliano di Verga e Capuana. In generale, si riconosce una forte partecipazione dell'autore ai fatti narrati, i quali si caricano di significati morali. Non mancano poi casi di scrittori che si soffermano a descrivere la realtà locale, prestando attenzione agli aspetti folkloristici oppure avendo propositi di critica sociale. Alla ricerca della realtà si accompagna una tensione verso l'ideale: alcuni autori dedicheranno opere a personaggi eccezionali oppure tratteggeranno un mondo nuovo e ideale, che viene opposto alla mediocrità del presente. In questo modo, diventano via via più forti le tendenze religiose o mistiche, che conosceranno la loro massima affermazione negli anni ottanta.[1]

I narratori meridionali

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Come si è visto, Verga e Capuana sono stati stimolati a sviluppare il verismo dalla situazione socio-culturale della Sicilia dell'epoca. Un discorso simile vale anche per altre zone del meridione, sebbene i risultati narrativi a cui si arriverà saranno lontani dal rigore del verismo. Tra questi autori si possono ricordare il calabrese Nicola Misasi (Cosenza, 4 maggio 1850 – Roma, 23 novembre 1923), l'abruzzese Domenico Ciampoli (Atessa, 23 agosto 1852 – Roma, 21 marzo 1929) e i napoletani Vittorio Imbriani (Napoli, 27 ottobre 1840 – Pomigliano d'Arco, 1º gennaio 1886), Federico Verdinois (Caserta, 2 luglio 1844 – Napoli, 11 aprile 1927) e Amilcare Laurìa (Napoli, 3 aprile 1854 – Napoli, 1932). Proprio Napoli, che con il Risorgimento aveva perso il ruolo di capitale del Regno delle Due Sicilie, sarà un centro di intensa attività letteraria, in particolare con scrittori come Matilde Serao e Salvatore di Giacomo.[2]

Matilde Serao

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Matilde Serao

Particolarmente attiva nel suo lavoro di scrittrice, anche per quanto riguarda la comunicazione diretta con il pubblico, Matilde Serao (Patrasso, 7 marzo 1856 – Napoli, 25 luglio 1927) recepisce l'influenza dei veristi siciliani e dimostra nelle sue opere grande impegno nell'analisi della realtà. Nata in Grecia da padre napoletano e madre greca, cresce a Napoli in condizioni di povertà, ricevendo lezioni di lingue dalla madre. Dopo il diploma di maestra elementare, si dedica all'attività letteraria e giornalistica, facendo carriera grazie al suo dinamismo e al suo ingegno. Trasferitasi a Roma nel 1882, collabora con varie testate e con il giornalista Edoardo Scarfoglio, che diventerà suo marito nel 1885. I due fondano nello stesso anno Il corriere di Roma e nel 1887 Il corriere di Napoli, che si trasformerà ne Il Mattino, giornale che esiste ancora oggi. Serao vi rimmarrà fino al 1903 quando, al culmine di una crisi coniugale, passerà al Giorno.[3]

Negli anni ottanta e novanta Serao si è occupata di problematiche sociali e culturali, attenta alle condizioni delle classi povere, ma anche alle dinamiche che caratterizzavano la vita degli ambienti intellettuali ed elenganti dell'epoca. Nella sua vasta produzione giornalistica e letteraria ha però sempre cercato di venire incontro alle inclinazione del pubblico piccolo borghese a cui si rivolgeva.[4] Proprio questo suo atteggiamento piccolo borghese è uno dei punti di forza della sua narrativa, nella quale rappresenta la realtà quotidiana di Napoli. I suoi personaggi sono in lotta con la società, e vengono seguiti in tutti gli aspetti della loro vita, dall'alimentazione al lavoro, dalle superstizioni alle occasioni in cui le diverse classi sociali si incontrano.[4][5] Tra le sue svariate opere si ricordano la novella La virtù di Checchina (1884) e nei romanzi La conquista di Roma (1885), Vita e avventure di Riccardo Joanna (1887), Il paese di Cuccagna (1891).

Salvatore Di Giacomo

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Salvatore Di Giacomo

Decisamente originale è l'esperienza letteraria di Salvatore Di Giacomo, che partendo dalla tradizione dialettale crea un intreccio di elementi popolari e piccolo borghesi. Nato a Napoli il 13 marzo 1860, Di Giacomo si interessa giovanissimo alla letteratura e si dedica presto al giornalismo. Ottiene subito grande successo con le sue poesie e le sue canzoni, successo che consolida negli anni successivi grazie all'attività di autore teatrale: si afferma così come la principale voce della cultura napoletana del periodo. Per questo motivo nel 1929 è nominato accademico d'Italia. Muore a Napoli il 4 aprile 1934.[6]

Le sue novelle di ambiente napoletano appaiono su giornali negli anni ottanta e novanta, e solo in seguito saranno riunite nei volumi Novelle napolitane (1914) e L'ignoto (1920). Ciascuna novella ha una dimensione scenica sulla quale gli affetti e i sentimenti si manifestano con toni accesi e vibranti, di cui anche l'autore partecipa in modo malinconico. Questo viene amplificato nelle opere teatrali in dialetto, alcune delle quali sono derivate da novelle, come nel caso di O' voto del 1888 (da Il voto), O' mese mariano del 1900 (da Senza vederlo, 1884), Assunta Spina del 1909 (dalla novella omonima del 1888). Notevole è anche la produzione di poesie dialettali, dominate da un senso di fascinazione per tutto ciò che è distante, una lontananza che è quindi carica di sentimento. Questo però non esclude descrizioni realistiche degli aspetti più miseri della vita plebea e delle passioni che animano gli abitanti degli angoli più degradati della città, il tutto rappresentato dall'autore con commozione e partecipazione. In vita pubblica varie raccolte: Sonetti (1884), 'O Fùnneco verde (1886), 'O munasterio (1887), Zi' munacella (1888), Canzoni napolitane (1891), A San Francisco (1895), Ariette e sunette (1988), Canzonette e ariette nove (1916).[6]

Di Giacomo evita atteggiamenti critici nei confronti della società, ma piuttosto subisce il fascino delle passioni che animano la vita della plebe cittadina. La sua poesia è inoltre fortemente segnata dal rapporto con la musica, secondo un'impostazione che si ispira al melodramma settecentesco e in particolare al linguaggio metastasiano. In questo modo dà origine a una nuova lingua per la poesia amorosa, limpida e piena di colore, che mescola aspetti di provenienza popolare a sofisticati elementi letterari e musicali.[7]

La narrativa in Toscana

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Un discorso a parte merita la narrativa che si sviluppa in Toscana, che è solo parzialmente avvicinabile alle tendenze veriste. Durante il breve periodo in cui è stata capitale d'Italia (1865-1870), Firenze è stata al centro del dibattito letterario sul "vero". D'altra parte in Toscana era già diffusa una certa attenzione per la vita rurale, e il movimento pittorico dei macchiaioli si proponeva la rappresentazione "vera" della realtà agricola. La narrativa che si sviluppa in questi anni si distacca dai luoghi comuni della letteratura rusticana, ma è priva del rigore tipico del verismo siciliano.[8]

Renato Fucini ritratto da Antonio Ciseri nel 1880 circa

In questo contesto, i risultati di maggiore rilievo si devono a Renato Fucini (Monterotondo Marittimo, 8 aprile 1843 – Empoli, 25 febbraio 1921), la cui esperienza è strettamente legata all'ambiente popolare maremmano. Esordisce nel 1872 con i Cento sonetti in vernacolo pisano, firmati con lo pseudonimo di Neri Tanfucio. A questi seguono Le veglie di Neri (1882), una raccolta di novelle e bozzetti che aprirà la strada ad altre opere simili: All'aria aperta (1897), Nella campagna toscana (1908). La vita nella campagna maremmana descritta da Fucini è violenta e accesa, e l'autore spesso ricorre alla deformazione caricaturale.[9]

A Mario Pratesi (Santa Fiora, 11 novembre 1842 – Firenze, 3 settembre 1921) si devono invece le novelle di In provincia (1883) e i romanzi L'eredità (1889) e Il mondo di Dolcetta (1895). Nelle sue opere c'è una maggiore partecipazione dell'autore con le sofferenze dei personaggi, segnati da soprusi, violenze e drammi psicologici.[9]

La narrativa nell'Italia settentrionale

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La narrativa che si sviluppa nel Nord Italia non ha la caratterizzazione locale che si riscontra invece nel resto del paese. Si muove piuttosto su un orizzonte nazionale, si fa portavoce dei valori «medi» su cui si basa lo Stato unitario e si propone di raccontare la società borghese e cittadina. Nelle vicende narrate non mancano tuttavia conflitti e tensioni. Milano è un punto di riferimento per gli intellettuali del periodo: capitale dell'editoria italiana, è stata il centro in cui si è sviluppata la Scapigliatura e ha avuto un ruolo determinante nella nascita del verismo. Cresce però anche un tipo di cultura orientata al consumo da parte di un pubblico borghese, per il quale vengono proposti modelli letterari a cui fare riferimento: a questo è collegabile la diffusione del romanzo d'appendice come genere popolare.[10]

Molti autori lombardi ebbero stretti rapporti con la Scapigliatura. Uno di questi è Camillo Boito (Roma, 30 ottobre 1836 – Milano, 28 giugno 1914), fratello maggiore di Arrigo, autore dei racconti contenuti in Storielle vane (1876) e Senso (1883). Vicino ad alcuni autori scapigliati è anche Luigi Gualdo (Milano, 9 febbraio 1844 – Parigi, 15 maggio 1898), che è stato in contatto con gli ambienti intellettuali parigini. È ricordato soprattutto per il romanzo Decadenza (1892), storia di un personaggio ambizioso che, dopo avere raggiunto una posizione sociale di rilievo, finisce per languire nel tedio e nella noia.[11]

Lo scrittore milanese che in questo periodo gode di maggiore successo è però Emilio De Marchi (Milano, 31 luglio 1851 – Milano, 6 febbraio 1901). Docente di lettere, proveniente da una famiglia piccolo borghese e autore di scritti pedagogici, De Marchi collega il modello manzoniano al naturalismo per dare vita a una letteratura edificante, dominata dal moralismo. Si propone quindi di criticare la corruzione, mettendo allo stesso tempo in risalto le virtù degli onesti che vengono schiacciati dalla società. Questo non esclude un atteggiamento conservatore che lo porta a sostenere il rispetto delle gerarchie sociali. Il successo arriva già con la prima opera, Il cappello del prete (1888), un tipico esempio di romanzo d'appendice. Dello stesso genere sono i seguenti Demetrio Pianelli (1889-1990), Arabella (1892-1893), Il redivivo (1895-1896), Giacomo l'idealista (1897), Col fuoco non si scherza (1900).[12]

Dell'ambiente piemontese meritano di essere ricordati Vittorio Bersezio (Peveragno, 22 marzo 1828 – Torino, 30 gennaio 1900), autore del romanzo La plebe (1869), e Edoardo Calandra (Torino, 11 settembre 1852 – Murello, 28 ottobre 1911), che arriva alla narrativa negli anni ottanta, dopo essere stato pittore e illustratore. A lui si deve una serie di romanzi e bozzetti ambienti nel Piemonte dei secoli passati; tra le opere si possono citare I Lancia di Faliceto (1886), La bufera (1898), La signora di Riondino (1890), La marchesa di Falconis (1905), Juliette (1909). Il genovese Remigio Zena (pseudonimo di Gaspare Invrena; Torino, 23 gennaio 1850 – Genova, 8 settembre 1917) è infine ricordato per il romanzo La bocca del lupo (1890), in cui segue la caduta di un gruppo di donne vittime della durezza della società.[13]

La letteratura dialettale del secondo Ottocento

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Cesare Pascarella

All'attenzione per la realtà popolare corrisponde una nuova curiosità da parte dei letterati per i dialetti, che iniziano a essere considerati come strumenti per rappresentare in modo realistico il mondo della provincia e della campagna italiana. Come si è visto in Verga, nella prosa narrativa vengono utilizzate strutture grammaticali e parole provenienti dal dialetto, soprattutto per risportare il parlato di personaggi popolari. L'uso del dialetto vero e proprio, invece, si ha nel teatro e nella poesia. Vengono quindi riprese tradizioni pregresse, come accade per esempio a Napoli, e nascono esperienze nuove. In particolare, si è soliti indicare nel 1872 l'inizio della nuova fase della poesia dialettale, anno in cui Fucini dà alle stampe i Cento sonetti in vernacolo pisano. La rifioritura della poesia in romanesco, invece, si deve alla riscoperta dei sonetti di Belli, e tra gli autori che utilizzeranno questo vernacolo si distingue Cesare Pascarella (Roma, 28 aprile 1858 – Roma, 8 maggio 1940). I risultati più alti, tuttavia, si devono alla poesia in napoletano di Salvatore Di Giacomo, che avrà ampio seguito. Sempre all'ambiente partenopeo si inscrive l'opera di Ferdinando Russo (Napoli, 25 novembre 1866 – Napoli, 30 gennaio 1927).[14]

Il teatro borghese

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Nella seconda metà dell'Ottocento si assiste alla diffusione in tutta Europa del teatro borghese, in seguito al successo delle opere di Alexandre Dumas figlio. Questo nuovo teatro propone modelli e valori conformistici, sebbene non manchino eccezionali esempi di teatro critico, come nel caso di Henrik Ibsen o Anton Čechov.

Alla metà del secolo, la formazione di una società moderna e nazionale favorisce anche in Italia la rinascita del teatro,[15] nel quale penetra l'esigenza di realismo che aveva caratterizzato la narrativa dell'epoca. La tragedia storica di ascendenza romantica viene sostituita da drammi che trattano vicende attuali di ambientazione borghese, così come borghesi sono anche i valori che vengono proposti. A questo si aggiunge un estremo mimetismo, che porta a un'attenzione per i particolari, per i drammi e le passioni che caratterizzano la vita borghese. I temi fondamentali sono quindi la famiglia e i soldi. L'adulterio è visto come banco di prova della vita coniugale, e ritorna in varie opere che ruotano attorno al triangolo marito-moglie-amante. Tutt'altro che secondari sono elementi come le difficoltà economiche, l'impoverimento e la lotta dei ceti subalterni per emergere. Riccorrente è poi il tema del debito e del disonore a esso connesso.[16]

In generale, come scrive Ferroni, «la drammaturgia italiana tra il 1860 e il 1910 presenta un panorama piuttosto fiacco, a parte poche eccezioni». La scena teatrale nazionale è segnata da grandi interpreti come Eleonora Duse e Ermete Zacconi, mentre le opere più importanti del periodo si devono a Giovanni Verga, Salvatore Di Giacomo e Gabriele D'Annunzio. Tra gli autori minori si possono ricordare drammaturghi che all'epoca ebbero molto successo, come Paolo Ferrari (Modena, 5 aprile 1822 – Milano, 9 marzo 1889), Paolo Giacometti (Novi Ligure, 19 marzo 1816 – Gazzuolo, 31 agosto 1882), Achille Torelli (Napoli, 5 maggio 1841 – Napoli, 31 gennaio 1922), Pietro Cossa (Roma, 25 gennaio 1830 – Livorno, 1881), Marco Praga (figlio dello scapigliato Emilio; Milano, 20 giugno 1862 – Varese, 31 gennaio 1929), Roberto Bracco (Napoli, 10 novembre 1861 – Sorrento, 20 aprile 1943), Giacinto Gallina (Venezia, 31 luglio 1852 – Venezia, 13 febbraio 1897), Carlo Bertolazzi (Rivolta d'Adda, 2 novembre 1870 – Milano, 2 giugno 1916).

Il protagonista del teatro borghese degli anni ottanta è però Giuseppe Giacosa, che per altro incoraggiò Verga a occuparsi alla trasposizione teatrale della Cavalleria rusticana. Giacosa rappresenta conflitti familiari tipicamente borghesi, con personaggi divisi tra l'ansia per la dissoluzione del presente e la speranza per una ricostruzione che avverrà nel futuro. Tra le sue opere si ricordano Tristi amori (1887), I diritti dell'anima (1894), Come le foglie (1900), Il più forte (1904).[17]

Il melodramma tra Ottocento e Novecento

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Giacomo Puccini

Non si può inoltre dimenticare la produzione librettistica, legata all'evoluzione del melodramma. Nella seconda metà dell'Ottocento si assiste alla diffusione anche in italiana del modello wagneriano, dopo la rappresentazione del Lohengrin al teatro stabile comunale di Bologna nel 1871. L'accoglienza di Wagner in Italia non è tuttavia unanime. In quegli anni il compositore Amilcare Ponchielli mette in scena opere più legate alla tradizione, che trovano l'appoggio dei detrattori del maestro tedesco. Tra queste si ricordano I promessi sposi (1872), tratti dal romanzo di Manzoni e riadattati da Emilio Praga, che ne cura il libretto. Un altro scapigliato, Arrigo Boito, firma con lo pseudonimo di Tobia Gorrio il testo de La Gioconda (1876).

I musicisti nati nella seconda metà del secolo, e in particolare quelli riuniti nella cosiddetta "Giovane scuola", si rivelano invece più propensi ad accogliere la lezione di Wagner. Tra questi c'è Umberto Giordano, che trae i suoi soggetti dai drammi di Di Giacomo e che ottiene il successo con la tragedia storica Andrea Chénier (1896). Ruggero Leoncavallo, allievo di Carducci a Bologna, raggiunge invece la fama con I pagliacci (1892), di cui scrive sia la musica sia il libretto.[18]

Poco alla volta vengono infatti abbandonati gli intrecci di ascendenza romantica, ambientati in un passato lontano. Al loro posto si affermano anche nel melodramma rappresentazioni in abiti più moderni. Uno dei primi esempi è proprio La Traviata (1856) di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave ispirato a sua volta al dramma La signora delle camelie di Dumas figlio. Molto importante per il teatro di fine Ottocento è la stagione del melodramma verista, in cui vengono rappresentate vicende di personaggi del popolo. In questo caso l'esempio più significativo è la Cavalleria rusticana (1890) musicata da Pietro Mascagni su libretto di Targioni Tozzetti, tratta dall'omonimo racconto di Verga pubblicato in Vita dei campi.[19]

Il compositore più importante tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento è però Giacomo Puccini. Formatosi studiando Wagner e la Scapigliatura, ottiene la fama dopo la rappresentazione della Manon Lascaut (1893). Il suo è un metodo compositivo estremamente complesso, che costringe i suoi librettisti, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, a varie modifiche in corso d'opera. Illica viene incaricato di stendere una prima versione in prosa, che poi Giacosa dovrà trasporre in versi. Ogni opera conosce tuttavia vari rimaneggiamenti. Nascono così capolavori pucciniani come La Boheme (1896), la Tosca (1900) e la Madama Butterfly (1904). Per La rondine (1917) e Il trittico (1918) si avvale invece della collaborazione di Giuseppe Adami, che insieme a Renato Simoni scrive anche il testo della Turandot.[20]

  1. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 807.
  2. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 811.
  3. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 811-812.
  4. 4,0 4,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 812.
  5. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 748.
  6. 6,0 6,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 813.
  7. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 813-814.
  8. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 810-811.
  9. 9,0 9,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 811.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 816.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 816-817.
  12. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 817.
  13. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 818.
  14. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 814-815.
  15. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 751.
  16. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, in Moduli di stori della letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 106.
  17. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 824-825.
  18. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 240-241.
  19. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, La Scapigliatura, il Verismo, il Decadentismo, in Moduli di stori della letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 107.
  20. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 241-242.