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Storia della filosofia/Aristotele

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Storia della filosofia

Discepolo di Platone, Aristotele è considerato uno dei filosofi più innovativi, prolifici e influenti del mondo antico occidentale per la vastità dei suoi campi di conoscenza; fu stimato per secoli come l'emblema dell'uomo sapiente e come precursore di scoperte.

Resti delle mura di Stagira

Aristotele nacque nel 384/3 a.C. a Stagira, l'attuale Stavro, città macedone nella penisola Calcidica, situata sulla costa nord-orientale della Grecia, a circa 55 chilometri a est dell'odierna Salonicco.[1]

Si dice che il padre, Nicomaco, sia vissuto presso Aminta, re dei Macedoni, prestandogli i servigi di medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale del Regno di Macedonia, Pella. Fu probabilmente per l'attività di assistenza al lavoro del padre che Aristotele fu avviato alla conoscenza della fisica e della biologia, aiutandolo nelle dissezioni anatomiche.[2]

Secondo gli studiosi la biografia di Aristotele può essere suddivisa in tre periodi.[3]
Il primo periodo ebbe inizio quando, rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi dal tutore Prosseno ad Atarneo, cittadina dell'Asia Minore nella regione della Misia situata nel nord-ovest dell'attuale Turchia, di fronte all'isola di Lesbo. Prosseno, verso il 367 a.C., lo mandò ad Atene per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa vent'anni prima, dove rimarrà fino alla morte del suo maestro. Aristotele non fu dunque mai un cittadino di Atene, ma un meteco.

Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è a Siracusa da un anno, su invito di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica, per passare tre anni dopo alla dialettica.

A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette molto influenzare il giovane studente che, molti anni dopo, nell'Etica Nicomachea scriverà che i ragionamenti di Eudosso «avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: appariva di un'insolita temperanza, sembrando ragionare, nell'identificare il bene col piacere, non perché amante del piacere, ma perché pensava che la cosa stesse veramente così».

Aristotele precettore di Alessandro Magno

Il secondo periodo ha inizio quando nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia, più per motivi economici che per meriti riconosciuti, viene chiamato Speusippo, nipote del grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi più degno di costui, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente alla guida dell'Accademia, per ritornare ad Atarneo, dove aveva trascorso l'adolescenza, invitato da Ermia, allora tiranno della città. Ermia era stato già da lui conosciuto ai tempi dell'Accademia, ed era poi riuscito con un rovesciamento politico a diventare successore di Eubulo, signore di Atarneo, e ad impossessarsi di Asso. Nella corte di Ermia Aristotele ritrova altri due ex allievi di Platone, Erasto e Coristo. Nello stesso anno tutti e quattro si trasferiscono ad Asso, divenuta intanto la nuova sede della corte, dove fondano una scuola che Aristotele battezza come unica vera scuola platonica. Ad essa aderiscono anche il figlio di Coristo, Neleo, e il futuro successore di Aristotele nella scuola di Atene, Teofrasto, suo brillante allievo.

Nel 344 a.C., su invito dello stesso Teofrasto, Aristotele va a Mitilene, sull'isola di Lesbo, dove fonda un'altra scuola, anch'essa battezzata come la sola aderente ai canoni platonici. V'insegna fino al 342, anno in cui è chiamato a Pella, in Macedonia dal re Filippo II perché faccia da precettore al figlio Alessandro Magno. Aristotele svolgerà questo incarico per circa tre anni, fino a quando Alessandro non sarà chiamato a partecipare alle spedizioni militari del padre. Non sappiamo molto dell'educazione che Aristotele impartisce ad Alessandro ma si suppone che le lezioni si basassero prevalentemente sui fondamenti della cultura greca (a partire da Omero) facendo così di Alessandro un uomo greco per gli ideali trasmessigli, ma anche soprattutto sulla politica, dato il destino che attendeva Alessandro. È inoltre possibile che durante questo incarico Aristotele abbia concepito il progetto di una grande raccolta di Costituzioni.

Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpillide da cui ha avuto il figlio Nicomaco,[4] nell'ultimo periodo della sua vita torna forse a Stagira e, intorno al 335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Licio, fonda una sua famosissima e celebrata scuola, chiamata Peripato - passeggiata, dall'uso istituito dallo Stagirita di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda. Probabilmente non è Aristotele ad acquistare la scuola; egli l'affitta perché per la città di Atene egli era uno straniero e non aveva diritto di proprietà. La scuola viene inoltre finanziata dallo stesso Alessandro. Aristotele promuove attività di ricerca nella città di Atene soprattutto per quanto riguarda materie scientifiche quali zoologia, botanica, astronomia.[5]

Riguardo alla scuola abbiamo notizie vaghe; comunque sappiamo per certo che gli alunni erano chiamati per dieci giorni a dirigere la scuola in prima persona: Aristotele ci teneva a istruire i suoi allievi a questo ruolo. Inoltre i pasti venivano consumati in comune secondo un'usanza dei pitagorici e ogni mese si organizzava un simposio filosofico con giudizio (iudicio) guidato dalla saggezza del maestro. Le lezioni si svolgevano di mattina; di pomeriggio e di sera invece Aristotele teneva, sempre nella scuola, delle conferenze aperte al pubblico; le materie erano appunto di interesse pubblico quindi politica e retorica, ad esempio, ma non materie astratte come la metafisica e la logica.

Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno e ad Atene si manifestano i mai sopiti odii antimacedoni; Aristotele, guardato con ostilità per il suo legame con la corte macedone, è accusato di empietà: lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide in Eubea, la città materna, dove muore l'anno dopo.

Degli scritti di Aristotele si sogliono distinguere le opere giovanili, a cui egli cominciò a lavorare già nel 364 a.C., da quelle della maturità.

Gli scritti giovanili

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A questo gruppo appartengono le seguenti opere: Grillo, Sulle idee, Sul Bene, Eudemo, Protreptico e De philosophia.

Grillo o Sulla retorica.
Intorno al 360 a.C. il giovane Aristotele scrive la sua prima opera intitolata Grillo o Sulla retorica; in reazione a una serie di scritti di elogio - composti da alcuni retori ateniesi, fra i quali Isocrate, per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea - lo Stagirita polemizzava contro la retorica come mezzo per agire sugli affetti, sulla parte irrazionale dell'anima. Il successo del Grillo nell'Accademia procurò ad Aristotele l'incarico di tenere un corso di retorica, nel quale, seguendo il Fedro platonico, sostenne che la retorica doveva fondarsi sulla dialettica. A tal proposito si è tramandato negli anni che egli esordì nella prima lezione con la frase: «È cosa turpe tacere e lasciar parlare Isocrate».
Sulle Idee
Scritto poco dopo il Grillo, il trattato Sulle Idee è andato perduto tranne pochi frammenti, trasmessi da Alessandro d'Afrodisia. Vi si affrontava la difficoltà di intendere il rapporto tra idee e cose, concepito da Platone come partecipazione delle cose alle idee, che da esse sono tuttavia separate. Eudosso sosteneva che tra le idee e le cose non ci fosse né separazione, né partecipazione, bensì mixis, mescolanza: le idee e le cose sono mescolate tra loro. Aristotele non accetta la teoria eudossiana, che non risolve il problema, ma critica anche la teoria platonica della separazione, delle cui aporie lo stesso Platone era del resto ben consapevole, come mostra il suo dialogo Parmenide. Per Aristotele il principio di tutte le cose non risiede nelle idee trascendenti, ma nelle loro "forme" immanenti.
Sul Bene
Nel tentativo di superare un'altra difficoltà contenuta nella teoria delle idee, le quali, essendo molteplici, hanno bisogno secondo Platone di essere giustificate da un principio unitario, Platone introdusse i principi dell'Uno (identificato con il Bene) e della Diade (il grande e il piccolo); il primo ha la funzione di principio formale e il secondo ha la funzione di principio materiale. È probabile che le conclusioni del trattato aristotelico Sul Bene, scritto intorno al 358 a.C. e del quale rimangono pochi frammenti, fossero quelle esposte nella matura Metafisica:[6] «Platone chiamò idee gli esseri diversi da quelli sensibili e disse che di tutte le cose sensibili si parla in dipendenza dalle idee e secondo le idee: infatti le cose molteplici che hanno lo stesso nome delle idee esistono per partecipazione [...] ma che cosa fosse la partecipazione o l'imitazione delle idee è un problema che Platone e i pitagorici lasciarono aperto. Inoltre Platone dice che oltre alle cose sensibili e alle idee esistono le cose matematiche, che sono intermedie e differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne e immobili, e differiscono dalle idee per il fatto che ce ne sono molte simili tra loro, mentre ciascuna idea è unica in sé [...]. Come principi, Platone poneva la Diade, cioè il grande e il piccolo, come materia, e poneva l'Uno come sostanza; dal grande e dal piccolo, per partecipazione all'Uno, si costituiscono le idee, che sono i numeri che nascono da quei principi [...] Platone sosteneva una tesi vicina a quella dei Pitagorici, e si poneva sulle loro posizioni, quando diceva che i numeri sono la causa della sostanza delle altre cose [...] egli ricorre soltanto a due cause, l'essenza e la causa materiale, perché le idee sono la causa dell'essenza delle altre cose, mentre l'Uno è causa dell'essenza delle idee». Aristotele respinse dunque già nel primo periodo della sua formazione la teoria delle idee nella lunga elaborazione fatta da Platone, ma dalla meditazione su di essa trasse la personale dottrina della causa formale e della causa materiale.
Eudemo o Sull'anima
Nel 354 a.C., alla morte in guerra, presso Siracusa, dell'amico e compagno di studi Eudemo di Cipro, Aristotele scrisse, in forma consolatoria e non speculativa, un altro dialogo, pervenuto in frammenti, l'Eudemo o Sull'anima, nel quale, prendendo a modello il Fedone platonico, sosterrebbe la tesi dell'immortalità dell'anima razionale, come indicato nella forma pur problematica della posteriore Metafisica: «Se rimanga qualche cosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo».[7] Per l'Aristotele maturo, l'anima non è un'idea ma una sostanza informante il corpo: nell'Eudemo è invece netta l'opposizione fra anima e corpo, sicché Jaeger la considerava dimostrazione dell'adesione completa del giovane Aristotele al platonismo; i sostenitori della precoce presa di distanza dello Stagirita da Platone intendono invece questa dichiarata opposizione come dipendente dall'intento consolatorio del dialogo, nel quale Aristotele avrebbe volutamente accentuato il destino ultraterreno dell'anima. In ogni caso, i frammenti dell'Eudemo non permettono di dedurre un'adesione alle dottrine platoniche delle idee separate dagli oggetti sensibili e della conoscenza fondata sulla reminiscenza.
Protreptico o Esortazione alla filosofia
Conosciuto dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto intorno al 350 a.C. Il Protreptico è un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele individua nell'essere umano la divisione fra anima e corpo: «una parte di noi è l'anima e una parte è il corpo, l'una comanda e l'altra è comandata, l'una si serve dell'altra e l'altra sottostà come uno strumento [...] Nell'anima ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato [...] dunque l'anima è migliore del corpo, essendo più adatta al comando, e di questa è migliore la parte che possiede ragione e pensiero», una divisione non vista come opposizione, come nell'Eudemo, ma come collaborazione: il corpo è lo strumento dell'agire dell'anima, della parte razionale dell'anima. «Delle cose che sono generate, alcune sono generate dall'intelligenza e dall'arte, per esempio, la casa e la nave; altre sono generate non per arte ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle non generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso». Non vi è finalità nel caso ma vi è nell'arte e nella natura: la natura è l'ordine tendente a un fine, e il fine dell'uomo è la conoscenza. La filosofia è sia buona che utile, ma la bontà va privilegiata rispetto all'utilità: «alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni [...] Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un'utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "Che cosa ci è giovevole? Che cosa ci è utile?". Colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla a uno che conosce ciò che è bello e buono né a uno che sappia riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante». È una polemica, questa, contro le posizioni di Isocrate che, nel suo Antidosis, scritto contro l'Aristotele del Grillo, attaccava una conoscenza che fosse priva di utilità pratica. Inoltre quest'opera, essendo certamente datata, è fondamentale per gli studi storiografici in quanto ci consente di creare un abbozzo cronologico di alcuni libri della Metafisica in base alla presenza (o meno) in essi di temi già trattati nel Protreptico. Del resto, che fare filosofia sia per Aristotele comunque necessario lo dimostra il fatto che «chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio».
De philosophia
Pervenuto in frammenti, fu scritto intorno al 355 a.C. e si divide in tre libri: nel primo Aristotele definisce filosofia la conoscenza dei principi della realtà; nel secondo critica la dottrina platonica delle idee e delle idee-numeri; nel terzo espone la sua teologia. Ribadisce la non trascendenza delle idee e nega le idee-numero o numeri ideali, introdotti dal tardo Platone: «se le idee sono un'altra specie di numero, non matematico, non potremmo averne alcuna comprensione; chi, fra noi, comprende un tipo di numero diverso?». È Cicerone a citare, criticamente, il terzo libro del De philosophia: «Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia confonde molte cose dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità a una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e moti retrogradi, talora dice che dio è l'etere, non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come potere divino».[8] La dimostrazione della necessità e dell'immutabilità di Dio è fornita dalla testimonianza di Simplicio: «dove c'è un meglio, c'è anche un ottimo: poiché, fra ciò che esiste, c'è una realtà superiore a un'altra, esisterà di conseguenza una realtà perfetta, che dovrà essere la potenza divina [...] e ne deduce la sua immutabilità».[9] uro pensiero e immutabile, Dio non può creare il mondo, che è anch'esso eterno, come riporta Cicerone:[10] «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera così eccellente» e attesta anche la concezione della divinità degli astri: «Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell'essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell'etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità».

Le opere della maturità

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Della produzione filosofica aristotelica più matura ci sono giunti solo gli scritti composti per il suo insegnamento nel Peripato, detti libri acroamatici (in greco: "ciò che si ascolta") o esoterici; oltre a questi, come esposto in precedenza, Aristotele aveva scritto e pubblicato, durante la sua precedente permanenza nell'Accademia di Platone, anche dei dialoghi destinati al pubblico, per questo motivo detti essoterici, che sono però pervenuti in frammenti. Questi dialoghi giovanili furono letti e discussi dai commentatori fino al VI secolo d.C.

A seguito della chiusura dell'Accademia ateniese ordinata nel 529 da Giustiniano e alla diaspora di quegli accademici, queste opere si dispersero e furono dimenticate, mentre di Aristotele rimasero solo i trattati esoterici; questi, a loro volta, erano stati dimenticati a lungo dopo la morte del Maestro fino ad essere ritrovati, alla fine del II secolo a.C., da un bibliofilo ateniese, Apellicone di Teo, in una cantina appartenente agli eredi di Neleo, figlio di Corisco, entrambi seguaci di Aristotele nella scuola di Asso. Apellicone li acquistò, portandoli ad Atene, e qui Silla li sequestrò nel saccheggio di Atene dell'84 a.C., portandoli quindi a Roma, dove furono ordinati e pubblicati da Andronico da Rodi.

L'insieme di queste opere può essere ordinato per argomenti omogenei:

  • Logica scritti raccolti successivamente nel titolo complessivo di Organon - in greco, "strumento" - comprendenti:
  1. Le categorie (un libro)
  2. Sull'interpretazione (un libro)
  3. Analitici primi (due libri)
  4. Analitici secondi (due libri)
  5. Topici (otto libri)
  6. Elenchi sofistici (un libro)
  • Metafisica[11] (quattordici libri)
  • Fisica (otto libri) con scritti correlati:
  1. Sul cielo (quattro libri)
  2. Sulla generazione e corruzione (due libri)
  3. Sulle meteore (quattro libri)
  4. Storia degli animali (un libro)
  5. Sulle parti degli animali (un libro)
  6. Sulla generazione degli animali (un libro)
  7. Sulle migrazioni degli animali (un libro)
  8. Sul movimento degli animali (un libro)
  • Sull'anima (tre libri) con scritti correlati:
  1. Sensazione e sensibile (un libro)
  2. Memoria e reminiscenza (un libro)
  3. Il sonno (un libro)
  4. I sogni (un libro)
  5. La divinazione mediante i sogni (un libro)
  6. Lunghezza e brevità della vita (un libro)
  7. Giovinezza e vecchiaia (un libro)
  8. La respirazione (un libro)
  • Etica, comprendente
  1. Etica Nicomachea (dieci libri)
  2. Etica Eudemia (sei libri)
  3. Grande etica (due libri)
  • Politica (otto libri) correlata alla
  1. Costituzione degli Ateniesi
  • Retorica (tre libri)
  • Poetica, incompiuta.

Ad Aristotele erano anche attribuiti i Problemi e Le Audizioni Meravigliose che la filologia moderna non riconosce come suoi.

Nei Problemi il Filosofo si chiede: come mai sedendosi vicino al fuoco si avverte la necessità di orinare? La sua risposta è, come al solito, acutissima: perché il fuoco scioglie le cose solide. È chiaro che, se avesse ragione, allontanandosi dal fuoco dovrebbe anche passare la voglia.[12] Un altro dei Problemi è: come mai soffiando sulle mani queste si scaldano, mentre soffiando sulla zuppa questa si raffredda? Anche qui la risposta è magistrale: perché quando si soffia sulla minestra, si tiene la bocca quasi chiusa, dunque il calore dell'aria rimane dentro la bocca e quel poco che esce fuori evapora subito per la violenza del soffio.[13] Le Audizioni Meravigliose contengono fatti che ancora oggi la scienza non sa spiegare: ad esempio, sull'isola di Creta, le capre ferite dai cacciatori si cibano di un'erba, chiamata Dittamo, che subito fa uscire la freccia e sana la ferita[14].

La filosofia: scienza delle cause e ricerca delle essenze

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Aristotele

La filosofia di Aristotele muove dalla stessa esigenza platonica di ricercare un princìpio eterno e immutabile che spieghi il modo in cui avvengono i mutamenti della natura. Come il suo maestro Platone, Aristotele ha ben presente la contrapposizione filosofica venutasi a creare tra Parmenide ed Eraclito; anche lui pertanto si propone di conciliare le loro rispettive posizioni di pensiero: l'Essere statico del primo con l'incessante divenire del secondo. Per cui tutto muta in natura, tutto «scorre», ma non a caso: seguendo sempre certi schemi o regole fisse.

A differenza di Platone, tuttavia, Aristotele ritiene che le forme in grado di guidare la materia non si trovino al di fuori di essa: non ha senso secondo lui sdoppiare gli enti per cercare poi di riconciliarli in qualche modo; ogni realtà invece deve avere in se stessa, e non in cielo, le leggi del proprio costituirsi.

Il fatto che tutti i fenomeni naturali siano soggetti a costante mutamento significa per Aristotele che nella materia è sempre insita la possibilità di raggiungere una forma precisa. Compito della filosofia è proprio quello di scoprire le cause che determinano il perché un oggetto tenda ad evolversi in un certo modo e non diversamente. Aristotele parla in proposito di quattro cause, che sono le seguenti:

  1. causa formale: consiste nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza;
  2. causa materiale: la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe;
  3. causa efficiente: è l'agente che determina operativamente il mutamento;
  4. causa finale: la più importante di tutte, in virtù della quale esiste un'intenzionalità nella natura; è lo scopo per cui una certa realtà esiste.

La scienza delle cause consente di affrontare in maniera più sistematica e razionale il problema dell'Essere e delle sue possibili determinazioni, sorto la prima volta con Parmenide. Quest'ultimo aveva detto dell'Essere soltanto che è, e non può non essere, ma non aveva aggiunto cosa esso sia, lasciandolo senza un predicato. Ne risultava un concetto evanescente, che rischiava di venir confuso col non-essere. Aristotele con la sua ontologia si propone allora di mostrare che l'essere è determinato in una molteplicità di attributi, che lo rendono multilaterale pur nella sua unità.

Ontologia e metafisica

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L'ontologia, in quanto metafisica (secondo la terminologia introdotta da Andronico di Rodi), è la "filosofia prima" aristotelica, che ha come suo primario oggetto di indagine l'essere in quanto tale, e solo in via subordinata l'ente (dal greco ὄντος, genitivo di ὤν, essente). "In quanto tale" significa a prescindere dai suoi aspetti accidentali, e quindi in maniera scientifica. Solo di ciò che permane come sostrato fisso e immutabile, infatti, si può avere una conoscenza sempre valida e universale, a differenza degli enti soggetti a generazione e corruzione, ragion per cui «del particolare non si dà scienza».[15]

Per conoscere gli enti occorrerà dunque fare sempre riferimento all'Essere; Aristotele intende per ente tutto ciò che esiste, nel senso che deve ad altro la propria sussistenza,[16] a differenza dell'Essere che invece è in sé e per sé: mentre l'Essere è uno, gli enti non sono tutti uguali. Per il filosofo essi hanno vari significati: l'ente è un "pòllachos legòmenon" (dal greco πόλλακος λεγόμενον), ossia si può «dire in molti modi». Ente sarà ad esempio un uomo, così come il suo colore della pelle.

Introducendo gli enti, Aristotele cerca di risolvere il problema ontologico di conciliare l'essere parmenideo col divenire di Eraclito, facendo dell'ente un sinolo indivisibile di materia e forma: come già accennato, infatti, la materia possiede un suo modo specifico di evolversi, ha in sé una possibilità che essa tende a mettere in atto. Ogni mutamento della natura è quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in virtù di un'entelechia, di una ragione interna che struttura e fa evolvere ogni organismo secondo leggi sue proprie. Cercando di superare il dualismo di Platone in seno all'essere, Aristotele sostiene così l'immanenza dell'universale. La sua soluzione tuttavia risente fortemente dell'impostazione platonica, perché, come già il suo predecessore, anche lui concepisce l'essere in forma gerarchica:[17] per cui da un lato vi è l'Essere eterno e immutabile, identificato con la vera realtà, che basta a se stesso in quanto perfettamente realizzato; dall'altro vi è l'essere in potenza, proprio degli enti, che per costoro è soltanto la possibilità di attuare se stessi, di realizzare la loro forma in atto, la loro essenza. Anche il non-essere quindi in qualche modo è, almeno come poter-essere. E il divenire consiste propriamente in questo perenne passaggio verso l'essere in atto.[18]

La Sostanza: prima e seconda

Il genere sommo di cui il filosofo si occupa maggiormente è quello di sostanza, classificata in sostanza prima e sostanza seconda. La prima è relativa ad un singolo essere, un determinato uomo, un certo animale o una pianta, ossia tutto ciò che ha sussistenza autonoma. La sostanza seconda invece è costituita da sostantivi generici che determinano un oggetto in un certo modo, è la risposta a "che cos'è" quell'oggetto, ti estì (dal greco τί ἐστί), specificando meglio la sostanza prima. Nella frase «il Sole è un astro» ad esempio, Sole, nome proprio e specifico di una stella, è sostanza prima, mentre astro, nome generico che ne specifica l'essenza o la natura, è sostanza seconda. Di fatto, se si prescinde dall'aspetto materiale, la sostanza è sinonimo di essenza (οὐσία, usìa).[19] Ogni realtà può essere detta che "è" in quanto esprime la sostanza. Un altro termine utilizzato per indicarla è sinolo di materia e forma.

Nonostante le molteplici valenze che assumono gli enti, tutti richiamano inevitabilmente in un modo o nell'altro il concetto di sostanza, termine introdotto da Aristotele per indicare ciò che è in sé e per sé, e che per essere non ha bisogno di esistere. La sostanza è uno dei dieci predicamenti dell'essere, ossia di quelle dieci categorie entro cui classificare gli enti sulla base della loro differenza. Esse sono: sostanza, qualità, quantità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere.

Le dieci categorie possono anche essere definite generi massimi, poiché permettono la completa classificazione degli enti. Non vanno confuse con i cinque generi sommi platonici, perché se Platone cercava categorie universali cui partecipassero tutte le idee, Aristotele cerca categorie cui gli enti partecipino in base alla loro diversità: non esiste infatti una categoria a cui tutti gli enti tangibili partecipino, proprio perché il suo scopo non è quello della reductio ad unum o omologazione (far confluire tutti gli oggetti di studio in un unico grande calderone).

A differenza della sostanza, le nove rimanenti categorie si devono invece definire "accidenti" in quanto non hanno vita indipendente, ma esistono solo nel momento in cui ineriscono alla sostanza. Il giallo, per esempio, non è un ente autonomo come un uomo. Perciò nella frase «il Sole è giallo», Sole è sempre sostanza prima, mentre giallo è accidente della sostanza, appartenente alla categoria della qualità.

Lo stesso filosofo afferma quanto sia inutile ogni scienza che si occupi di enti dotati delle medesime caratteristiche: la matematica studia gli enti astratti deducibili solo con l'astrazione (in numeri), la fisica gli elementi naturali della physis (greco φύσις), l'ontologia, invece, studia gli enti. Ma in base a che cosa gli enti sono accomunati? Non certo il fatto di esistere, perché, come già detto, il filosofo nega a priori l'esistenza di una categoria che collochi in sé tutti gli enti (la categoria dell'essere che, infatti, li accomunerebbe tutti). Il termine ente è comunque una parola ambigua, proprio come "salutare". Esso vuol dire sano o indicare l'azione del cordiale saluto, tutto comunque richiama allo stesso concetto di salute.

Soltanto l'essere in atto fa sì che un ente in potenza possa evolversi; l'argomento ontologico diventa così teologico per passare alla dimostrazione della necessità dell'essere in atto.[20] Si è visto come il movimento sia originato dalle quattro cause. Ogni oggetto è mosso da un altro, questo da un altro ancora, e così via a ritroso, ma alla fine della catena deve esistere un motore immobile, cioè Dio: "motore" perché è la meta finale a cui tutto tende, "immobile" perché causa incausata, essendo già realizzato in sé stesso come «atto puro».[21]

Tutti gli enti risentono della sua forza d'attrazione perché l'essenza, che in costoro è ancora qualcosa di potenziale, in Lui giunge a coincidere con l'esistenza, cioè è tradotta definitivamente in atto: il Suo essere non è più una possibilità, ma una necessità. In Lui tutto è compiuto perfettamente, e non v'è nessuna traccia del divenire, perché questo è appunto solo un passaggio. Non vi è neppure l'imperfezione della materia che continua invece a sussistere negli enti inferiori, i quali sono ancora una mescolanza, un insieme non coincidente di essenza ed esistenza, di potenza ed atto, di materia e forma.

« Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente, e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col bene, e sotto tale profilo è principio. […] Se, pertanto, Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio, è appunto, in tale stato! »
(Aristotele, Metafisica XII (Λ), 1072, b 9-30)

Come nell'Essere di Parmenide, Dio è pienezza della sostanza e quindi pensiero puro. Per Aristotele infatti la migliore delle azioni è quella legata all'attività noetica, non essendo soggetta alla corruzione del divenire.[22] Ma cosa pensa Dio? Evidentemente il pensiero più alto e cioè se stesso. La sua caratteristica principale è dunque la contemplazione autocosciente, fine a sé stessa, intesa come «pensiero di pensiero».

Nell'ambito della filosofia della conoscenza, Aristotele sembra rivalutare l'importanza dell'esperienza sensibile, e tuttavia, al pari di Platone, mantiene fermo il presupposto secondo cui l'intelletto umano non si limita a recepire passivamente le impressioni sensoriali, ma svolge un ruolo attivo che gli consente di andare oltre le particolarità transitorie degli oggetti e di coglierne le cause.[23]

Esistono vari gradi del conoscere: secondo Aristotele all'inizio non ci sono idee innate nella nostra mente; questa rimane vuota se non percepiamo qualcosa attraverso i sensi. Ciò tuttavia non vuol dire che l'essere umano non abbia delle capacità innate di ordinare le conoscenze, raggruppandole in diverse classi e riuscendo a penetrare l'essenza propria di ciascuna di esse, con le quali stabilisce una corrispondenza.

Al livello più basso c'è la sensazione, che ha per oggetto entità particolari. La sensazione in potenza può sentire di tutto, ma solo nel momento in cui mette in atto una percezione specifica avviene il «sentire di sentire», che appartiene al cosiddetto organo di senso «comune». La sensazione in atto rende attuale lo stesso oggetto percepito, ad esempio è l'udito a dare vita al suono, facendolo passare all'essere. Al grado successivo interviene la fantasia, facoltà dell'anima, che ha la capacità di rappresentare gli oggetti non più presenti ai sensi, producendo le immagini:[24] queste vengono ricevute dall'intelletto potenziale, per essere poi, in seguito a vari filtri, conservate dalla memoria, da cui nasce la generalizzazione dell'esperienza. Anche l'intelletto potenziale ha bisogno a sua volta di una realtà già in atto per potersi attivare. Ecco dunque che la conoscenza deve culminare infine con un trascendente intelletto attivo, che superando la potenza sappia vedere l'essenza in atto, ossia la forma. Questo passaggio supremo è reso possibile dall'intuizione (nous), la quale presuppone che la mente umana sia capace di pensare se stessa, ovvero sia dotata di consapevolezza e libertà; solo così essa può riuscire ad "astrarre" l'universale dalle realtà empiriche. L'approdo dal particolare all'universale, inizialmente avviato tramite i sensi dall'epagoghè (termine traducibile impropriamente con induzione) non possiede infatti nessun carattere di necessità o di consequenzialità logica, dato che la logica di Aristotele, a differenza di quella moderna, è solo deduttiva.[25] L'induzione per lui funge unicamente da stimolo, o sollecitazione, di un processo definitorio che comporta alla fine un'esperienza di tipo contemplativo:[26]

« Non si può dire che il definire qualcosa consista nello sviluppare un'induzione attraverso i singoli casi manifesti, stabilendo cioè che l'oggetto nella sua totalità deve comportarsi in un certo modo […] Chi sviluppa un'induzione, infatti, non prova cos'è un oggetto, ma mostra che esso è, oppure che non è. In realtà, non si proverà certo l'essenza con la sensazione, né la si mostrerà con un dito. »
(Aristotele, Analitici secondi II, 7, 92a-92b)

La conoscenza noetica che ne risulterà consiste quindi nella corrispondenza tra realtà e intelletto: come la sensazione s'identifica con ciò che è sentito, così l'intelletto attivo o agente (indicato col termine nùs poietikòs)[27] coincide con la verità del suo stesso oggetto,[28] implicando una componente divina in grado di farlo passare all'atto, per cui ad esempio un libro è un oggetto in potenza, che diventa un libro in atto solo quando viene pensato.[29]

Distinta dall'intelletto (nous) è la Logica, conoscenza dianoetica del pensiero discorsivo (diànoia),[30] che Aristotele teorizza nella forma rigorosamente deduttiva del sillogismo:[31] mentre l'intuizione (νούς) fornisce le verità supreme della conoscenza, la logica ne trae soltanto delle conclusioni formalmente corrette, scendendo dall'universale al particolare.[32][33]

Il termine propriamente utilizzato da Aristotele, infatti, non è logica ma analitica,[34] ("analisi" dal greco ἀνάλυσις - analysis- derivato di ἀναλύω - analyo) che vuol dire appunto "scomporre, risolvere nei suoi elementi", per indicare la risoluzione di un'asserzione nei suoi elementi costitutivi. In tal senso non è propriamente una scienza quanto uno strumento: non rientra né tra le scienze poetiche, né tra quelle pratiche né tra quelle teoretiche.[35] Oggi la filosofia considera la logica come una scienza a sé stante priva di contenuto ontologico, per Aristotele invece è una prima fondamentale facoltà, propedeutica a tutte le altre scienze,[36] che si occupa della struttura dell'oggetto, ossia dell'essere, in virtù della necessaria corrispondenza tra le forme del pensiero (analitica) e quelle della realtà (metafisica): una corrispondenza già data dal nous o intelletto, che la logica si limita a scomporre nelle sue parti.[30]

Alla logica aristotelica fu successivamente attribuito anche il termine di "Organon" (strumento) che le venne assegnato per la prima volta da Andronico di Rodi (I secolo a.C.) e ripreso da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.)[37] che lo riferì agli scritti aristotelici che hanno come tema l'Analitica.

Analitici primi e Analitici posteriori
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Schema esemplificativo del sillogismo

Negli Analitici primi, prima parte della Logica, Aristotele espone le leggi che la guidano: non dimostrabili ma intuibili con un atto immediato,[38] sono il principio di identità, per il quale A = A, e quello di non-contraddizione, per cui A ≠ non-A.

Il sillogismo è un ragionamento concatenato che, partendo da due premesse di carattere generale, una "maggiore" e una "minore", giunge ad una conclusione coerente su un piano particolare. Sia le premesse che la conclusione sono proposizioni espresse nella forma soggetto-predicato. Un esempio di sillogismo è il seguente:

  1. Tutti gli uomini sono mortali;
  2. Socrate è uomo;
  3. dunque Socrate è mortale.

Attraverso il sillogismo, la logica permette di ordinare in gruppi o categorie tutto ciò che si trova in natura, a condizione però di partire da premesse vere e certe:[39] i sillogismi infatti di per sé non danno nessuna garanzia di verità. Questo perché i princìpi primi, da cui il ragionamento prende le mosse, non possono essere a loro volta dimostrati, dato che proprio da essi deve scaturire la dimostrazione; solo l'intuizione intellettuale, opera dell'intelletto attivo, può dare loro un fondamento oggettivo e universale,[40] tramite quel processo conoscitivo sovra-razionale, che partendo come si è visto dall'epagoghé, culmina nell'astrazione dell'essenza.[41] Da questa poi la logica trarrà soltanto delle conseguenze coerenti da un punto di vista formale, facendo ricorso ai giudizi predicativi che corrispondono alle dieci categorie dell'essere.

Mentre la logica o analitica studia la deduzione a partire da premesse vere, la dialettica in Aristotele è semplicemente la tecnica con la quale uscire vittoriosi da una discussione. Questo successo, che non esclude comunque un effettivo raggiungimento della verità,[42] deriva dal prevalere con la propria tesi su quella sostenuta dall'avversario, nel rispetto di premesse su cui ci si è messi d'accordo prima dell'inizio del confronto: difatti la confutazione, l'aver ottenuto ragione e quindi l'aver vinto, si basava proprio sul portare l'interlocutore ad autocontraddirsi, mostrando dunque come la sua tesi, se sviluppata, avrebbe condotto a risultati illogici nei confronti delle premesse iniziali, considerate vere da entrambi. Certo era necessario che le premesse fossero considerate vere dal pubblico che assisteva al confronto, pertanto non di rado si sceglieva di accordarsi su premesse che fossero ritenute vere dai membri più influenti della società, così che essi potessero influenzare anche l'opinione altrui. La tecnica dialettica necessitava di un'ottima conoscenza delle parole e dei modi di unirle in proposizioni e, ancora, in periodi, pertanto il filosofo postula alcune teorie, quali quella della proposizione e quella del sillogismo, che permettono di capire come debba funzionare nei vari casi la parola. Prima di queste teorie, si sofferma sulla spiegazione dell'esistenza di parole univoche ed equivoche, ovvero da uno o più significato: deve essere la loro conoscenza accurata il primo necessario requisito per l'esperto di dialettica.

Teoria della proposizione

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Una proposizione è un insieme di termini (o parole) i quali danno vita a un'affermazione, un giudizio. Questo può essere vero o falso, in base al riscontro con la realtà, mentre i singoli termini di per sé non possono essere veri o falsi se considerati da soli. Neppure tutte le proposizioni però rientrano nella dimensione del vero o falso: preghiere, invocazioni, ordini, sono destinati all'ambito poetico e di questi Aristotele non si occupa. Egli invece si occupa delle frasi a cui sole può essere riconosciuta la possibilità di essere vere o false, chiamandole categoriche, o dichiarative, o apofantiche. Le proposizioni categoriche possono avere qualità affermativa o negativa, e quantità universale (quando il soggetto è un genere e vi sono inclusi tutti gli appartenenti) particolare (si fa riferimento solo a una parte degli enti di un genere) o singolari (il soggetto è un individuo singolo), in base alla maggiore o minore generalità del soggetto. Aristotele non si preoccupa delle proposizioni singolari, soffermandosi solo sulle proposizioni affermative e negative, universali e particolari. Combinando questi tipi di proposizioni, risultano esserci quattro tipi di proposizioni-modello per il filosofo:

  • universale affermativa,
  • universale negativa,
  • particolare affermativa,
  • particolare negativa.

L'etica di cui tratta Aristotele attiene alla sfera del comportamento (dal greco ethos), ossia alla condotta da tenere per poter vivere un'esistenza felice. Coerentemente con la sua impostazione filosofica, l'atteggiamento più corretto è quello che realizza l'essenza di ognuno. Ne consegue l'identificazione di essere e valore: quanto più un ente realizza la propria ragion d'essere, tanto più esso vale. L'uomo in particolare realizza se stesso praticando tre forme di vita: quella edonistica, incentrata sulla cura del corpo, quella politica, basata sul rapporto sociale con gli altri, e infine la via teoretica, situata al di sopra delle altre, che ha come scopo la conoscenza contemplativa della verità.

Le tre modalità di condotta vanno comunque integrate fra loro, senza privilegiare l'una a discapito dell'altra. L'uomo infatti deve saper sviluppare e assecondare armonicamente tutte e tre le potenzialità dell'anima che contraddistinguono il proprio essere o entelechia, e da Aristotele identificate con:

  • l'anima vegetativa, comune anche alle piante e agli animali, che attiene ai processi nutritivi e riproduttivi;
  • l'anima sensitiva, comune agli animali, che attiene alle passioni e ai desideri;
  • l'anima razionale, che appartiene soltanto all'uomo, e consiste nell'esercizio dell'intelletto.

Sulla base di questa tripartizione,[43] Aristotele individua il piacere e la salute come scopo finale dell'anima vegetativa, risultante dall'equilibrio tra gli eccessi opposti, evitando ad esempio di mangiare troppo, o troppo poco. All'anima sensitiva egli assegna invece le cosiddette virtù etiche,[44] che sono abitudini di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare sugli impulsi, attraverso la ricerca del «giusto mezzo» fra estreme passioni:[45] ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà. Essendo l'uomo un «animale sociale», l'equilibrio è ciò che deve guidare i suoi rapporti con gli altri; questi devono essere improntati al giusto riconoscimento degli onori e del prestigio derivanti dall'esercizio delle cariche pubbliche. Le diverse virtù etiche sono quindi tutte riassunte dalla virtù della giustizia.

Virtù etiche Virtù dianoetiche
  • Giustizia
    • Coraggio
    • Temperanza
    • Liberalità
    • Magnificenza
    • Magnanimità
    • Mansuetudine
  • Virtù calcolative
    • Arte
    • Prudenza
  • Virtù scientifiche
    • Metafisica
      • Scienza
      • Intelligenza

All'anima razionale infine Aristotele assegna le cosiddette virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica, sono strumenti in vista di qualcos'altro: l'arte (tèchne) ha un fine produttivo, la saggezza o prudenza (phrònesis) serve a dirigere le virtù etiche, oltre a guidare l'azione politica. Se queste virtù vanno perseguite in vista di un bene più alto, alla fine tuttavia deve pur sussistere un bene da perseguire per sé stesso. Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sé (sophìa). A questa virtù suprema concorrono le due facoltà conoscitive della gnoseologia: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l'intelligenza (nùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni. Aristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un sapere che non serve a nulla, ma proprio per questo non dovrà piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero. La contemplazione della verità è quindi un'attività fine a sé stessa, nella quale consiste propriamente la felicità (eudaimonìa), ed è quella che distingue l'uomo dagli altri animali rendendolo più simile a Dio, già definito da Aristotele come pensiero di pensiero», pura riflessione autosufficiente che nulla deve ricercare al di fuori di sé.

« Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana. »
(Aristotele, Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31)

L'etica di Aristotele, che pone l'accento sul «giusto mezzo» come via maestra per diventare persone felici e armoniche, segue da vicino i dettami della scienza medica greca, basata similmente sull'equilibrio e la moderazione. Allo stesso modo, le tre possibili forme politiche dello Stato (monarchia, aristocrazia, e politeia) devono guardarsi dall'estremismo delle loro rispettive degenerazioni: tirannide, oligarchia e democrazia (o oclocrazia).[46] La politeia è realisticamente la migliore fra le tre costituzioni perché, facendo leva sul ceto medio benestante, è più incline alla misura e alla stabilità: essa prende il meglio della democrazia e dell'oligarchia, pervenendo ad una loro commistione. Nella politeia infatti le cariche pubbliche sono elettive, come nell’oligarchia, ma indipendenti dal censo, come nella democrazia[47]. Quest'ultima invece è un governo dei poveri che, in quanto tali, possono portare a scompaginare lo Stato per cercare di sottrarre ai ricchi i loro beni.[48] Dal momento che la massa dei cittadini è solitamente costituita dai meno abbienti, la democrazia si identifica con l'oclocrazia.[49]

Il concetto di Philia

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Nell'ottavo e nel nono libro dell'Etica Nicomachea Aristotele tratta anche del concetto d'amicizia (in greco philìa, φιλία). Il filosofo comincia facendo l'analisi dei diversi fondamenti dell'amicizia: l'utile, il piacere e il bene; da questi derivano le tre tipologie d'amicizia: quella di utilità, di piacere, e di virtù. L'amicizia di utilità è tipica dei vecchi, quella di piacere degli uomini maturi e dei giovani; gli amici in queste due tipologie non si amano di per se stessi ma solamente per i vantaggi che traggono dal loro legame: per tale motivo questi tipi di amicizia, basandosi sui bisogni e desideri umani, che sono volubili, si creano e si dissolvono con facilità. L'unica vera amicizia è quella di virtù, stabile perché si fonda sul bene, caratteristica degli uomini buoni. L'amicizia di virtù presuppone due condizioni fondamentali: l'uguaglianza fra gli amici (a livello di intelligenza, ricchezza, educazione ecc.) e la consuetudine di vita. L'amicizia si distingue dalla benevolenza, che può non essere corrisposta, e dall'amore, perché nell'amore entrano in gioco fattori istintuali. Aristotele tuttavia non esclude che un rapporto d'amore possa trasformarsi poi in una vera e propria amicizia. La philia aristotelica esprime quindi il legame tra amicizia e reciprocità, fondato sul riconoscimento dei meriti e sul reciproco desiderio del bene per l'altro.

L'arte, per Aristotele, è mimesi o imitazione, e non è negativa, come in Platone, ma significa essere creativi come lo è la natura. L'arte è un'attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza della realtà, quasi la ricrea secondo una nuova dimensione: è la dimensione del possibile e del verosimile. Sotto questo punto di vista, l'arte è una forma di conoscenza non logica ma simbolica. Rappresenta l'analogo della scienza: lo storico scrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere.

I quattro elementi e le loro relazioni

Aristotele tratta nelle sue opere (in particolare nella Fisica) della conformazione dell'universo. Aristotele propone un modello geocentrico, che pone cioè la Terra al centro dell'universo.

Secondo Aristotele, la Terra è formata da quattro elementi: la terra, l'aria, il fuoco e l'acqua. Le varie composizioni degli elementi costituiscono tutto ciò che si trova nel mondo. Ogni elemento possiede due delle quattro qualità (o «attributi») della materia:

  • il secco (terra e fuoco),
  • l'umido (aria ed acqua),
  • il freddo (acqua e terra),
  • il caldo (fuoco e aria).

Ogni elemento ha la tendenza a rimanere o a tornare nel proprio luogo naturale, che per la terra e l'acqua è il basso, mentre per l'aria e il fuoco è l'alto. La Terra come pianeta, quindi, non può che stare al centro dell'universo, poiché è formata dai due elementi tendenti al basso, e il "basso assoluto" è proprio il centro dell'universo.

Riguardo a ciò che si trova oltre la Terra, Aristotele lo riteneva composto di un quinto elemento (o essenza): l'etere. L'etere, che non esiste sulla Terra, sarebbe privo di massa, invisibile e, soprattutto, eterno ed inalterabile: queste due ultime caratteristiche sanciscono un confine tra i luoghi sub-lunari del mutamento (la Terra) e i luoghi immutabili (il cosmo).

Aristotele riteneva che i corpi celesti si muovessero su sfere concentriche (in numero di cinquantacinque, ventidue in più delle 33 di Callippo). Oltre la Terra per lui vi erano, in ordine, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, il cielo delle stelle fisse e, infine, il primo mobile, che metteva tutte le altre sfere in movimento, e della cui natura peraltro Aristotele ebbe qualche difficoltà a dare una definizione precisa. Esso risulta mosso direttamente dalla causa prima, identificabile con la divinità suprema (mentre le altre divinità risiedevano all'interno del cosmo), in una maniera tuttavia non meccanica o causale, dato che Dio, essendo «atto puro», è assolutamente immobile, oltre ad essere privo di materia e quindi non localizzabile da nessuna parte. Il primo mobile piuttosto si muove per un desiderio di natura intellettiva, cioè tende a Dio come propria causa finale. Cercando dunque di imitare la sua perfetta immobilità, esso è contraddistinto dal moto più regolare e uniforme che ci sia: quello circolare.[50]

Aristotele era convinto dell'unicità e della finitezza dell'universo: l'unicità perché se esistesse un altro universo sarebbe composto sostanzialmente dei medesimi elementi del nostro, i quali tenderebbero, per i luoghi naturali, ad avvicinarsi al nostro fino a ricongiungersi completamente con esso, ciò che prova l'unicità del nostro universo; la finitezza perché in uno spazio infinito non potrebbe esistere alcun centro, ciò che contravverrebbe alla teoria dei luoghi naturali.

Aristotele ha fondato la biologia come scienza empirica, compiendo un importante salto di qualità (almeno stando alle fonti che ci sono rimaste) nell'accuratezza e nella completezza descrittiva delle forme viventi, e soprattutto introducendo importanti schemi concettuali che si sono conservati nei secoli successivi.

L'Historia animalium contiene la descrizione di 581 specie diverse, osservate per lo più durante la permanenza in Asia Minore e a Lesbo. Questi dati biologici vengono organizzati e classificati nel De partibus animalium, nel quale vengono introdotti concetti fondamentali come quello di viviparità e oviparità, e sono impiegati criteri di classificazione delle specie in base all'habitat o a precise caratteristiche anatomiche, che sono in gran parte rimasti inalterati fino a Linneo. Un altrettanto importante conquista intellettuale è lo studio sistematico di quella che oggi chiamiamo anatomia comparata, che permette ad esempio ad Aristotele di classificare Delfini e Balene tra i mammiferi (essendo essi dotati di polmoni e non di branchie come i pesci).

Il De generatione animalium si occupa del modo in cui gli animali si riproducono. In quest'opera la generazione viene interpretata come trasmissione della forma (di cui è portatore il seme maschile) alla materia (rappresentata dal sangue mestruale femminile). Secondo Aristotele le specie sono eterne ed immutabili, e la riproduzione non determina mai cambiamenti nella sostanza, ma solo negli accidenti dei nuovi individui. Molto interessante è lo studio che Aristotele compie sugli embrioni, grazie al quale egli comprende che essi non si sviluppano attraverso la crescita di organi già tutti presenti fin dal concepimento, ma con la progressiva aggiunta di nuove strutture vitali.

Alcuni limiti della biologia aristotelica (come la generale sottovalutazione del ruolo del cervello, che Aristotele credeva destinato a raffreddare il sangue) furono superati con la scoperta, avvenuta in epoca ellenistica, del sistema nervoso. In molti altri casi un superamento della biologia aristotelica si è avuto solo nel Settecento. Alcune delle sue osservazioni in ambito zoologico tuttavia sono state confermate solo nel XIX secolo.

Altri progetti

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  1. Kenneth Cole McLeisch, Aristotle: The Great Philosophers, Routledge, 1999, p. 5, ISBN 0-415-92392-1.
  2. W.D.Ross, Aristotele, Feltrinelli, 1976.
  3. G. Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, 1991.
  4. Non risulta chiaro se Erpillide sia stata semplicemente una compagna oppure la seconda moglie di Aristotele, dopo la morte di Pizia: cfr. Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 11.
  5. M. De Bartolomeo - V. Magni, Filosofia.
  6. Metafisica, A 6, 987 b 6 e segg.
  7. Metafisica, Λ 3, 1070 a 24-26.
  8. Cicerone, De natura deorum, 1, 13.
  9. Simplicio, De Coelo, 228.
  10. Cicerone, Tuscolane, 15, 42.
  11. Occorre tener presente che Aristotele non ha mai denominato il suo libro "Metafisica", dato che egli non conosceva questo termine, non essendo ancora stato coniato. Il suo libro "Metafisica" fu così titolato successivamente dai curatori delle sue opere, che assemblarono sotto tale titolo dei papiri autonomi di cui si sconosce la data di compilazione. L'attribuzione di tale nome e il suo reale significato non sono chiari. Esso potrebbe infatti avere due significati: "ciò che va oltre la fisica" in senso assiologico, oppure ciò che nella collocazione dei libri andava inserito dopo la Fisica. Cfr. ad esempio:
    « Più tardi sono stati raccolti in un libro che stranamente è stato chiamato "Metafisica" in effetti il nome può essere interpretato in due modi così come è stato fatto: da una parte ciò che è oltre la fisica in senso assiologico o gerarchico, e dall'altra semplicemente ciò che dal punto di vista della collocazione dei libri andava inserito dopo la Fisica. »
    (Andreas Kamp. In Aristotele teoretico: interviste a Gabriele Giannantoni, Andreas Kamp, Wolfang Kullmann, Emilio Lledó. Le radici del pensiero filosofico. Istituto dell'Enciclopedia Italiana)
  12. Aulo Gellio, Noctes Atticae, 19,4, formula la questione in questi termini: «Aristotelis libri sunt, qui Problemata Physica inscribuntur, lepidissimi et elegantiarum omnium repleti. [...] Item querit, cur accidat, ut eum, qui propter ignem diutius stetit, libido urinare lacessat. [...] De urina celebri ex igne proximo facta verba haec posuit: Quia ignis solida solvit».
  13. Erasmo, Adagia, 1-8-29, Ex eodem ore calidum et frigidum efflare: «At huisce rei, quam satyrus admirabatur, causam reddit Aristoteles in Problematis, sectione XXXIV, problemate septimo, idque eo fieri putat, quod qui vehementius efflat, is non moveat universum aerem, sed ore contractiore paululum venti expiret ut calor ex ore profecto a reliquo aere, quem ob impetum plurimum movet, continuo evanescat atque in frigus abeat».
  14. Paradoxographorum Graecorum Reliquiae, a cura di A. Giannini, Istituto Editoriale Italiano, 1966.
  15. Aristotele, Opere, Opere, Metafisica Z 15, 1039b28, Laterza, Bari 1973, pag. 225.
  16. "Esistere" va qui inteso nel senso etimologico, che sarà evidenziato tra gli altri da Heidegger, di «essere da» (da ex-sistentia), a differenza della sostanza che invece «è in sé e non in qualcos'altro» (Aristotele, Metafisica, 1046a, 26).
  17. G. Reale, La metafisica aristotelica come prosecuzione delle istanze di fondo della metafisica platonica, in «Pensamiento», n. 35 (1979), pagg. 133-143.
  18. Come si può notare, la difficoltà di Aristotele nel cercare di risolvere la questione dell'essere, una delle più difficili che la filosofia greca si trovò ad affrontare, si presenta rovesciata rispetto a Platone; costui aveva il problema di conciliare le idee con le realtà sensibili, Aristotele all'opposto di come salvaguardare l'essenza eterna e universale del singolo ente in seguito alla sua distruzione.
  19. Metafisica, Z 3, 1028 b 33.
  20. La teologia come «scienza del divino» è per Aristotele la filosofia nel senso più alto, essendo «scienza dell'essere in quanto essere» (Metafisica, VI, 1, 1026 a, 2-21).
  21. La caratteristica del suo essere "puro" dipende dal fatto che in Dio, come atto finale compiuto, non vi è la minima presenza della materia, la quale è soggetta a continue trasformazioni e quindi a corruzione.
  22. «Riguardo al pensiero […] sembra che esso solo possa esser separato, come l'eterno dal corruttibile» (Aristotele, Dell'anima, II, 1, 413b).
  23. «L'esperienza è conoscenza del particolare, mentre l'arte è conoscenza dell'universale. […] Gli empirici, infatti, sanno il che, non il perché […] Noi riteniamo che l'arte, più che l'esperienza, possa accostarsi alla scienza. […] Le sensazioni, da parte loro, sono indubbiamente fondamentali per l'acquisizione di conoscenze particolari, ma non ci spiegano le cause» (Aristotele, Metafisica I, 1, 981a - 981b).
  24. Tutto quanto si pensa, si pensa necessariamente per immagini» (Aristotele, De anima, III, 7, 432 a).
  25. Così Giovanni Reale: «Aristotele sottolinea che l'induzione non è propriamente un ragionamento, bensì un esser condotto dal particolare all'universale» (Storia della filosofia antica, vol. V, Vita e pensiero, 1983, pag. 142).
  26. Attribuendo a Socrate la scoperta dell'epagoghè come metodo di ricerca volto alla definizione delle essenze (espresso nella formula "tì estì;", che cos'è?), Aristotele tuttavia riteneva che l'induzione conducesse a un'enumerazione incompleta di casi (cfr. Topici I, 12, 105 a 11-16). La generalizzazione a cui essa approda non ha fondamento alcuno se non sopravviene a darglielo l'intuizione noetica.
  27. De anima, III, 4.
  28. «La scienza in atto è identica con il suo oggetto» (De anima, III, 431 a, 1), o ancora «l'anima è, in un certo senso, tutti gli enti» (ibid., 431 h, 20).
  29. «C'è un intelletto analogo alla materia perché diviene tutte le realtà, ed un altro che corrisponde alla causa efficiente perché le produce tutte, come una disposizione del tipo della luce, poiché in certo modo anche la luce rende i colori che sono in potenza colori in atto» (Aristotele, Sull'anima, libro III, in F. Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, pag. 92, Mondadori, Milano 2000). Se questo intelletto produttivo e «separato» si identifichi col pensiero stesso di Dio, avente già in sé tutte le forme, è questione poco chiara che sarà a lungo dibattuta dalla filosofia araba e scolastica.
  30. 30,0 30,1 «Volendo, del resto, usar nomi più schiettamente aristotelici, si dovrebbe piuttosto parlare di principio noetico e di principio dianoetico: ché quella distinzione di forme logiche trovava appoggio anche nella precisa corrispondenza onde essa faceva corpo, nel sistema di Aristotele, con una distinzione di attività conoscitive, e cioè con quella per cui la conoscenza noetica dell'intelletto (νοῦς), appercezione unitaria dell'essenza" (νόησις ἀδιαίρετος ἡ νοοῦσα τὸ τί ἦν εἶναι) differiva dalla conoscenza dianoetica del pensiero discorsivo (διάνοια), che i singoli contenuti noetici componeva e disponeva nei giudizî e nelle argomentazioni» (dall'enciclopedia Treccani alla voce "Logica").
  31. Intelletto e ragione, corso tenuto dal professor Massimo Mori, docente dell'Università di Torino.
  32. Guido Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, La Nuova Italia, Firenze 1968, dove si distingue nettamente l'aspetto noetico da quello dianoetico nella concezione gnoseologica aristotelica: mentre il nous fornisce un sapere intuitivo e immediato, la dianoia consiste in una forma inferiore di conoscenza, che si limita ad analizzare in maniera discorsiva le verità ottenute dall'attività noetica (pag. 15 e segg.).
  33. Cfr. anche C. Prantl, Geschichte der Logik im Abendlande, I, Lipsia 1855; H. Maier, Die Syllogistik des Aristoteles, Tubinga 1896-1900; J. Geyser, Die Erkenntnistheorie des Aristoteles, Münster 1917.
  34. «Se dovessimo fare una storia della logica antica fondandoci sul termine "logica", dovremmo escluderne Aristotele, perché egli non usa mai questo termine, che entra nel linguaggio filosofico probabilmente con gli Stoici. Aristotele chiama l'insieme delle sue ricerche sull'argomentazione e sulla predicazione con il nome di "analitica", intendendo con questo termine il procedimento di analisi, cioè di risoluzione di una proposizione nei suoi elementi componenti e nelle premesse da cui essa scaturisce» (G.Giannantoni in EMSF).
  35. «La Logica considera invece la forma che deve avere qualsiasi tipo di discorso che pretenda di dimostrare qualcosa e in genere che voglia essere probante. La logica mostra come procede il pensiero quando pensa, quale sia la struttura del ragionamento... è una sorta di propedeutica generale a tutte le scienze» (Giovanni Reale, Il pensiero antico, Vita e Pensiero, 2001, p.230).
  36. G.Reale su citato ritiene che Aristotele soltanto di sfuggita si è riferito alla Logica come "scienza" (Rhet, I, 4).
  37. Franco Volpi, Dizionario delle opere filosofiche, Pearson Italia S.p.a., 2000, p.78
  38. Le leggi della logica vengono appercepite o intuite con la stessa immediatezza noetica con cui si perviene alle "premesse" vere dalle quali ogni deduzione prende avvio, ma non sono da confondere con quest'ultime (cfr. Calogero, I fondamenti della logica aristotelica, op. cit.
  39. «Per dimostrazione intendo il sillogismo scientifico [...] Sarà pure necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, prime, immediate» (Aristotele, Analitici Secondi, I, 2, 71b).
  40. «Poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l'intuizione, sarà l'intuizione ad avere come oggetto i principi» (Analitici Secondi, II, 19, l00b).
  41. Giovanni Reale così commenta l'importanza attribuita all'intuizione da Aristotele negli Analitici Secondi: «Una pagina, come si vede, che dà ragione alla istanza di fondo del platonismo: la conoscenza discorsiva suppone a monte una conoscenza non discorsiva, la possibilità del sapere mediato suppone di necessità un sapere immediato» (G. Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, 1977, pag. 159).
  42. Topici, I, 2; Topici, I, 12.
  43. De Anima, 414 a 29 - 415 a 10.
  44. Paolo Raciti, La cittadinanza e le sue strutture di significato, FrancoAngeli, 2004, pag. 41: «Questa parte dell'anima, pur essendo "senza regola", in qualche misura tiene conto della ragione posseduta dall'anima razionale».
  45. «La virtù è una disposizione abitudinaria riguardante la scelta, e consiste in una medietà in relazione a noi, determinata secondo un criterio, e precisamente il criterio in base al quale la determinerebbe l'uomo saggio. Medietà tra due vizi, quello per eccesso e quello per difetto» (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 6).
  46. Oclocrazia, dal greco όχλος = moltitudine, massa, e κρατία = potere, è una forma di governo in cui le decisioni sono prese dalle masse.
  47. Aristotele, Politica, IV 9, 1294b
  48. Marcello Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, cap. V, BUR, 2013.
  49. Fabio Cioffi e altri, Il Discorso Filosofico 1, Edizioni scolastiche Mondadori, p. 313
  50. Aristotele, Fisica, libro VIII.

Bibliografia

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Edizione di riferimento delle citazioni delle opere aristoteliche:

  • August Immanuel Bekker, Aristotelis Opera, G. Reimer, Berlino 1831-1870, 5 voll.
  • Ristampa a cura di Olof Gigon, De Gruyter, Berlino 1960-1961

Edizione dei testi di Laerzio e Cicerone citati:

Traduzioni italiane

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  • Opere, a cura di G. Giannantoni, 4 voll., Bari: Laterza, 1973.
  • La Metafisica, a cura di G. Reale, Milano: Rusconi, 19782.
  • Metafisica, a cura di C. A. Viano, Torino: UTET 2005 ISBN 88-02-07171-3.
  • Fisica, a cura di R. Radice, Milano: Bompiani, 2011.
  • Le categorie, a cura di M. Zanatta, Milano: BUR Rizzoli, 1989.
  • De interpretatione, a cura di A. Zadro, Napoli: Loffredo, 1999.
  • Analitici primi, a cura di M. Mignucci, Napoli: Loffredo, 1969.
  • Analitici secondi, Organon IV. A cura di M. Mignucci, Bari: Laterza, 2007.
  • Topici, a cura di A. Zadro, Loffredo, Napoli 1974.
  • Le confutazioni sofistiche, Organon VI. A cura di P. Fait, Bari: Laterza, 2007.
  • L'anima, introduzione, traduzione, note e apparati di Giancarlo Movia, testo greco a fronte, Milano: Rusconi, 19982.
  • Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano: Rusconi, 1979.
  • La poetica, a cura di C. Gavallotti, Milano: Valla-Mondadori, 1974.
  • Retorica, a cura di Marco Dorati, Milano: Mondadori, 1996.
  • La politica, a cura di C. Viano, Torino; UTET, 1966.
  • Opere biologiche, a cura di M. Vegetti e D. Lanza, Torino: UTET, 1972.
  • Trattato sul cosmo per Alessandro, a cura di G. Reale, Napoli: Loffredo, 1974 (l'attribuzione di quest'opera ad Aristotele è dubbia).

Letteratura critica

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  • AA. VV., Aristotele. Perché la metafisica, a cura di G. Reale e A. Bausola, Vita e Pensiero, Milano 1994
  • Enrico Berti, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962
  • Enrico Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, Padova 1977 ISBN 88-452-3272-7
  • Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997
  • Guido Calogero, I fondamenti della logica aristotelica [1927], La Nuova Italia, Firenze 1968
  • Giuseppe Cambiano e Luciana Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED Edizioni Universitarie, Milano 1993 ISBN 88-7916-035-4
  • Ingemar Düring, Aristotele, trad. it., Mursia, Milano 1976
  • M. Frede, G. Patzig, Il libro Z della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2001 ISBN 978-88-343-0738-0
  • Armando Girotti, La filosofia di Aristotele, dal platonismo all'autonomia, Polaris, Faenza 1996
  • George Grote, Aristotele, edito da A. Bain e G. Croom Robertsan, Londra 1872
  • Terence Irwin, I principi primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996
  • Alberto Jori, Aristotele, Mondadori, Milano 2003 ISBN 88-424-9737-1
  • Margherita Isnardi Parente, Studi sull'accademia platonica antica, Olschki, Firenze 1979 ISBN 88-222-2848-2
  • Werner Jaeger, Aristotele, Sansoni, Firenze 1935
  • Jonathan Lear, Aristotle: the desire to understand, Cambridge University Press, 1988
  • Walter Leszl, Il «De Ideis» di Aristotele e la teoria platonica delle idee, Olschki, Firenze 1975 ISBN 88-222-2204-0
  • Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1991
  • Giovanni Reale, Il concetto di "filosofia prima" e l’unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1994 ISBN 88-343-0554-X
  • Giovanni Reale, Guida alla lettura della «Metafisica» di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2007 ISBN 88-8420-524-7
  • Roberto Radice (a cura di), La "Metafisica" di Aristotele nel XX secolo: bibliografia ragionata e sistematica, Milano, Vita e Pensiero, 1997
  • William David Ross, Aristotele, Milano: Feltrinelli, 1982