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Storia della filosofia/Platone

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Storia della filosofia

Nascita e origini

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Nacque ad Atene da genitori aristocratici: il padre Aristone, che vantava tra i suoi antenati Codro, l'ultimo leggendario re di Atene, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle; la madre, Perictione, secondo Diogene Laerzio discendeva dal famoso legislatore Solone[1][2][3].

La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all'ottantottesima Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targellione, ossia alla fine di maggio del 428 a.C.[4] Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone, citati nella sua Repubblica, e una sorella, Potone, madre di Speusippo, futuro allievo e successore, alla sua morte, alla direzione dell'Accademia di Atene.

Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza delle spalle "Platone" (dal greco πλατύς, platýs, che significa "ampio"). Platone praticava infatti il pancrazio, una sorta di lotta e pugilato assieme. Altri danno del nome un'altra derivazione, come l'ampiezza della fronte o la maestà dello stile letterario. Diogene Laerzio, riferendosi ad Apuleio,[5] a Olimpiodoro[6] e a Eliano,[7] informa che avrebbe coltivato la pittura e la poesia, scrivendo ditirambi, liriche e tragedie, che avrebbero avuto in seguito, insieme ai mimi, un'importanza fondamentale per la scrittura dei suoi dialoghi.

Secondo lo stesso Diogene Laerzio[8] sulla sua nascita esiste una leggenda di Speusippo riferita nell'opera Il banchetto funebre di Platone, secondo cui Platone sarebbe stato in realtà figlio del dio Apollo, e perciò anche fratello di Asclepio, «medico del corpo, come dell'anima immortale lo è Platone».[9] Secondo questo mito, Aristone, padre di Platone, in procinto di sedurre Perictione avrebbe avuto la visione di Apollo che lo avrebbe distolto da ogni rapporto fisico con la giovane, la quale sarebbe invece rimasta incinta del dio, preso dalla sua bellezza.[10] Secondo una versione posteriore, tuttavia, esposta dall'autore ignoto dei Prolegomeni, Platone viene nuovamente accostato ad Asclepio ma viene chiamato figlio di Aristone.[11] D'altronde Speusippo, essendo figlio di una sorella di Platone, non poteva non sapere che Platone non era il primo ma il terzo figlio di Perictione.[12] Probabilmente il suo fine non era quello di fornire informazioni storiche sulla nascita di Platone, ma di promuovere la mitizzazione del filosofo dopo la morte di questi[13] e di giustificarne così il culto che gli era tributato nell'Accademia. La divinizzazione di Platone continuerà in età neoplatonica, con talune forme di eccesso come riferito da Porfirio e da Proclo,[14] e sarà ricordata dall'umanista Marsilio Ficino per la dote curativa trasmessagli da Apollo.[15]

Nella medesima opera Speusippo elogiò inoltre l'acuto intelletto e la memoria prodigiosa dimostrati da Platone quando era un bambino, e la sua dedizione allo studio nell'adolescenza.[16]

I viaggi e l'incontro con Socrate

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Platone frequentò l'eracliteo Cratilo e il parmenideo Ermogene, ma non è certo se la notizia sia reale o se voglia giustificare la sua successiva dottrina, influenzata sotto diversi aspetti dal pensiero dei suoi due grandi predecessori, Eraclito e Parmenide, da lui considerati gli autentici fondatori della filosofia.

Avrebbe partecipato a tre spedizioni militari, durante la guerra del Peloponneso, a Tanagra, a Corinto e a Delio, dal 409 a.C. al 407 a.C., anno in cui, conosciuto Socrate, avrebbe distrutto tutte le sue composizioni poetiche per dedicarsi completamente alla filosofia.[17]

Fondamentale il suo incontro con Socrate che, dopo la parentesi del governo, oligarchico e filo-spartano, dei Trenta tiranni, del quale faceva parte lo zio di Platone Crizia, fu accusato dal nuovo governo democratico di empietà e di corruzione dei giovani e condannato a morte nel 399 a.C.. Nell'Apologia di Socrate l'allievo descrive il processo del maestro, che pronuncia la sua difesa, denuncia la falsità di chi l'accusa di corrompere i giovani e come testimoni della sua condotta menziona un gruppo di suoi amici presenti nel tribunale, tra i quali «Adimànto, figlio di Aristòne, di cui Platone, qui presente, è fratello» .[18]. Tuttavia nel Fedone, il narratore Fedone di Elide riferisce a Echecrate che Platone non era presente alle ultime ore di vita di Socrate.[19] Platone è dunque stranamente assente, forse malato (59b): in realtà, nessun'altra fonte antica parla per quell'epoca di una malattia del filosofo, tanto grave da impedirgli di assistere il maestro nelle ultime ore. Con la sua assenza, Platone forse vuole affermare che il dialogo non sarà una cronaca puntuale della morte di Socrate, quanto piuttosto, come afferma Bruno Centrone, una sua ricostruzione letteraria in linea con lo spirito dialogico del maestro.[20] oppure che egli non voglia compromettersi condividendo l'accusa di ateismo che ha portato Socrate alla morte. Non a caso dopo la scomparsa del maestro i suoi discepoli, compreso Platone, lasciarono Atene per rifugiarsi a Megara.[21] Da qui Platone si recò a Cirene, frequentando il matematico Teodoro di Teodoro di Cirene e ancora in Italia, dai pitagorici Filolao, Eurito e Acrione. Infine si sarebbe recato in Egitto, dove i sacerdoti l'avrebbero guarito da una malattia. Ma la fondatezza della notizia di questi viaggi è molto dubbia.

I primi dialoghi

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A partire dal 395 a.C. Platone dovrebbe aver cominciato a scrivere i primi dialoghi, nei quali affronta il problema culturale rappresentato dalla figura di Socrate e la funzione dei sofisti: nascono così, in un possibile ordine cronologico:

  • l'Apologia di Socrate che tuttavia non è un dialogo;
  • il Critone in cui Socrate discute la legittimità delle leggi;
  • lo Ione in cui Socrate con il gusto dello scherzo dialoga sul significato di Arte umana e Arte divina con un attore, il rapsodo, che interpreta o è posseduto dalla Poesia;
  • l'Eutifrone sui temi della giustizia e della pietà;
  • il Carmide dialogo aporetico sulla temperanza;
  • il Lachete aporetico incentrato sul tema della virtù;
  • il Liside viene messo in luce il concetto platonico di amicizia;
  • l'Alcibiade primo [22] tratta della vera sapienza, dell'utile e del giusto e del buon governo;
  • l'Alcibiade secondo [23] lunga discussione tra Socrate e Alcibiade sul tema della preghiera;
  • l'Ippia maggiore si discute sul concetto del "bello";
  • l'Ippia minore dell'identità di virtù e scienza;
  • il Menesseno elogio di Aspasia e della sua cultura e sapienza politica;
  • il Protagora in cui discute l'insegnabilità della virtù;
  • il Gorgia (in cui attacca l'arte retorica)

L'arrivo in Italia e in Sicilia

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Diogene Laerzio afferma che nel 390 a.C. circa, Platone giunse una prima volta in Magna Grecia dove fece la conoscenza del pitagorico Archita di Taranto [24].

Numerose fonti antiche documentano i suoi successivi viaggi in Sicilia. Nel 388/387 a.C. vi si recò con l'intenzione di studiare da vicino il vulcano Etna. Lo storico greco Diogene Laerzio afferma che il filosofo ateniese si sia recato nel suo primo viaggio siciliano presso i crateri etnei [25]. Alla sua testimonianza si aggiungono quelle di Ateneo[26] e di Apuleio [27]

Primo viaggio: l'incontro con Dione e Dionisio I

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Una volta giunto sull'isola fu invitato dal tiranno Dionisio I a recarsi a Siracusa, presso la sua corte. Qui fece la conoscenza del cognato del tiranno, Dione, il quale divenne ben presto uno dei più intimi discepoli.[28]

Opposto invece fu l'atteggiamento di Dionisio nei suoi confronti. Al siracusano non piacquero i discorsi di Platone sulla felicità e su cosa fosse giusto o non giusto fare. Per evitargli quindi l'ira di Dionisio, poiché tra i due vi era stato un acceso diverbio, Dione lo fece imbarcare su di una nave capitanata dallo spartano Pollide.[29]

Dionisio allora segretamente avrebbe chiesto al suo ambasciatore di uccidere Platone durante il viaggio o di renderlo schiavo. Venne quindi condotto a Egina, isola nemica di Atene, dove fu fatto prigioniero e reso schiavo.

A riscattarlo fu il socratico Anniceride di Cirene. Ma quest'episodio, narrato con varianti da Diogene Laerzio,[30] è stato molto discusso e la critica moderna si divide nell'attribuire la colpevolezza della schiavitù di Platone a Dionisio I[31] o al fatto che durante la guerra di Corinto fosse molto pericoloso per gli Ateniesi navigare su quelle acque.[32]

La fondazione dell'Accademia

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Accademia platonica (Mosaico pompeiano)

Nel 387 a.C. Platone è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una scuola che intitola Accademia in onore dell'eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse.

Sull'esempio opposto a quello della scuola fondata da Isocrate nel 391 a.C. e basata sull'insegnamento della retorica, la scuola di Platone ha le sue radici nella scienza e nel metodo da essa derivato, la dialettica; per questo motivo, l'insegnamento si svolge attraverso dibattiti, a cui partecipano gli stessi allievi, diretti da Platone o dagli allievi più anziani, e conferenze tenute da illustri personaggi di passaggio ad Atene.

In vent'anni, dalla creazione dell'Accademia al 367 a.C., Platone scrive i dialoghi in cui si sforza di determinare le condizioni che permettono la fondazione della scienza; tali sono:

  • il Clitofonte (tuttavia di incerta attribuzione);
  • il Menone (in cui compare per la prima volta l'anamnesi, tramite l'esempio dello schiavo che riesce a dedurre il teorema di Pitagora senza che gli sia mai stato spiegato);
  • il Fedone (in cui sostiene l'immortalità dell'anima);
  • l'Eutidemo; (in cui viene messa in scena una parodia dell'eristica, l'arte sofistica di "battagliare" a parole allo scopo di confutare le tesi avversarie):
  • il Simposio (in cui ogni partecipante dice cos'è, secondo lui, l'amore);
  • la Repubblica (in cui espone la sua forma di governo ideale, che non è, come si potrebbe immaginare, una repubblica);
  • il Cratilo (in cui discute riguardo al linguaggio);
  • il Fedro (in cui presenta la tripartizione dell'anima tramite il mito della biga alata).

Il secondo viaggio a Siracusa

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Nel 367-366 a.C. Platone è nuovamente a Siracusa, invitato da Dione che, con la morte di Dionigi il Vecchio e la successione al potere di suo nipote Dionigi il Giovane, conta di poter attuare le riforme impedite dal precedente tiranno.

(IT)
« Se mai altra volta, certo ora potrà attuarsi la nostra speranza che filosofi e reggitori di grandi città siano le stesse persone di Siracusa »

(GRC)
« ὥστε εἴπερ ποτὲ καὶ νῦν ἐλπὶς πᾶσα ἀποτελεσθήσεται τοῦ τοὺς αὐτοὺς φιλοσόφους τε καὶ πόλεων ἄρχοντας μεγάλων »
(Dione, Lettera VII, 328a.[33])

La riforma politica di Platone viene fortemente osteggiata dalla fazione tirannica che vede nel filosofo ateniese, e nella sua loquacia, una minaccia alla propria esistenza, o addirittura un nuovo tentativo di conquista da parte di Atene.[34]

Infine i contrasti con Dionigi II, che sospetta nello zio intenzioni di ribellione, portano all'esilio di Dione. Platone è rimasto ugualmente a Siracusa, sia perché il tiranno lo trasferisce sull'acropoli - dove occorre il suo permesso per qualsiasi imbarco - e sia perché nutre ancora «la speranza di fare tutto il bene possibile attraverso un unico individuo ».[35]

Lo scoppio di un conflitto bellico che impegna direttamente Dionigi II, offre a Platone l'occasione di lasciare la Sicilia. Ma il Siracusano gli promette che in tempo di pace manderà a chiamare sia lui che Dione.[36]

Il terzo viaggio in Sicilia

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Nel 361 a.C. Platone compie il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Non c'è però Dione, verso il quale Dionigi manifesta un'aperta ostilità; i tentativi di Platone di difendere l'amico portano alla rottura dei rapporti con il tiranno.

(IT)
« Io, cittadino ateniese, amico di Dione, suo alleato, mi recai dal tiranno per cambiare in amicizia un rapporto di ostilità; combattei contro i calunniatori, ma ne fui sconfitto. Tuttavia, per quanto Dionigi con onori e ricchezze cercasse di tirarmi dalla sua parte per usarmi come prova a favore della legittimità dell’esilio di Dione, in questo fallì miseramente. »

(GRC)
« ἐμὲ παρακαλοῦντας πρὸς τὰ νῦν πράγματα. ἦλθον Ἀθηναῖος ἀνὴρ ἐγώ, ἑταῖρος Δίωνος, σύμμαχος αὐτῷ, πρὸς τὸν τύραννον, ὅπως ἀντὶ πολέμου φιλίαν ποιήσαιμι· διαμαχόμενος δὲ τοῖς διαβάλλουσιν ἡττήθην. πείθοντος δὲ Διονυσίου τιμαῖς καὶ χρήμασιν γενέσθαι μετ’ αὐτοῦ ἐμὲ μάρτυρά τε καὶ φίλον πρὸς τὴν εὐπρέπειαν τῆς ἐκβολῆς »
(Lettera VII,333d.)

Dopo aver avuto un forte diverbio con il tiranno per aver difeso il siracusano Eraclide - colpevole di aver fomentato la rivolta dei mercenari contro Dionigi II - Platone viene cacciato dall'acropoli e trasferito nella casa di Archedemo.[37]

Nel 360 a.C., quando ormai la situazione è divenuta pericolosa per la sua incolumità, riesce a lasciare la Sicilia grazie alla mediazione di Archita e dei pitagorici tarantini, i quali mandano Lamisco che convince Dionisio II a lasciare partire Platone.

Durante il viaggio di ritorno, Platone sbarca a Olimpia dove incontra per l'ultima volta Dione. Questi stava progettando una guerra contro Dionigi, dalla quale Platone cercò invano di dissuaderlo: nel 357 a.C. riuscirà a impadronirsi del potere a Siracusa ma vi sarà ucciso tre anni dopo.[38]

(IT)
« Sarò di certo con voi se, provando bisogno di reciproca amicizia, cercherete di fare qualcosa di buono; ma finché siete a desiderare il male, chiamate in aiuto qualcun altro. »

(GRC)
« κοινός τε ὑμῖν εἰμι, ἄν ποτέ τι πρὸς ἀλλήλους δεηθέντες φιλίας ἀγαθόν τι ποιεῖν βουληθῆτε· κακὰ δὲ ἕως ἂν ἐπιθυμῆτε, ἄλλους παρακαλεῖτε. »
(Platone, Lettera VII, 350.)

Ritorno ad Atene

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Ad Atene Platone scrisse le ultime opere:

  • il Timeo dove tratta della cosmologia, della struttura della materia e il problema escatologico;
  • il Crizia strutturato come una continuazione del Timeo è incompiuto: comprende la narrazione del mito di Atlantide;
  • il Politico dedicato ad argomenti politici;
  • il Filebo discutendo con Filebo e Protarco, Socrate ricerca il «vero Bene» in grado di garantire una vita felice
  • le Leggi: opera rimasta incompiuta, fu pubblicata postuma dal discepolo Filippo di Opunte, che la divise in dodici libri e ne aggiunse uno finale, l'Epinomide.[39]


Morì nel 347 a.C.[38] e la guida dell'Accademia venne assunta dal nipote Speusippo. La scuola sopravviverà fino al 529 d.C., anno in cui venne definitivamente chiusa da Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

Papiro con frammento manoscritto del Simposio di Platone

Di Platone sono pervenute tutte le 36 opere: 34 sono dialoghi; una, l'Apologia di Socrate, riporta una ricostruzione letterario filosofica dell'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai giudici, mentre l'ultima è una raccolta di tredici lettere.

La superiorità del discorso orale

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Platone si avvale del dialogo perché lo ritiene l'unico strumento in grado di riportare l'argomento alla concretezza storica di un dibattito fra persone e di mettere in luce il carattere di ricerca della filosofia, elemento chiave del suo pensiero. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità, ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta interrogata non risponde.[40]

In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi. Secondo una linea interpretativa piuttosto datata, i primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo gruppo); quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo); e l'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo).[41] Secondo il nuovo paradigma interpretativo introdotto dalla scuola di Tubinga e di Milano, invece, i dialoghi platonici, al di là dello stile in evoluzione, presentano una coerenza sistematica di fondo, dove la dottrina delle idee, per quanto importante, non costituisce più la parte fondamentale del mondo sovrasensibile.[42] Lo stile, che imita fedelmente la peculiarità del dialogo socratico,[43] muta notevolmente da un periodo all'altro: nei periodi giovanili si hanno interventi brevi e briosi che danno vivacità al dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che danno all'opera il carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo dell'anima con se stessa, ma senza giungere mai a esporre compiutamente la propria dottrina in forma di scienza assoluta.[44] La rinuncia, come già in Socrate, a comunicare in forma scritta il nucleo della propria dottrina porterebbe per di più a pensare che non solo la scrittura, ma anche l'oralità non fosse per Platone in grado di trasmetterla.[45]

In genere il protagonista dei dialoghi è Socrate; soltanto negli ultimi dialoghi costui assume una parte secondaria, fino a scomparire del tutto nell'Epinomide e nelle Leggi. La caratteristica di questi dialoghi è che il soggetto principale che dà il titolo all'opera è solito discorrere molto più dell'interlocutore a cui si rivolge, il quale si limita solamente a confermare o disapprovare quello che il protagonista espone.

Ordinamento in tetralogie

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Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento[46], ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro:

  1. Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone
  2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico
  3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
  4. Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti
  5. Teage, Carmide, Lachete, Liside
  6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
  7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
  8. Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia
  9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Altre opere spurie sono:

Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.[47]

Filosofia e politica

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Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" – ovvero il corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico – è sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koyré: «tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate».

Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile".[48] La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro organicamente appartenente alla polis.

Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo.

Il problema Socrate

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"Morte di Socrate", di Jacques-Louis David, (1748–1825) opera conservata al Metropolitan Museum of Art di New York.

La capacità di agire secondo giustizia presuppone, socraticamente, la conoscenza di che cosa è il bene.[49] Solo questo sapere contraddistingue il filosofo come tale,[50] poiché chi compie il male lo fa per ignoranza. Ad Atene c'era molta confusione sulla figura del filosofo, e in un certo senso lo stesso Socrate aveva alimentato questa confusione: presentandosi infatti come colui che sapeva di non sapere, professava una falsa ignoranza che nascondeva una vera sapienza. Egli si confondeva così con i sofisti, i quali dicevano di sapere ma in effetti non sapevano, perché non credevano nella verità.

Per dirimere questa confusione, per Platone era necessario andare oltre Socrate, delineando con chiarezza i criteri che distinguono il filosofo dal sofista: mentre il primo ricerca i principi della verità, senza la presunzione di possederla, il secondo si lascia guidare dall'opinione, facendone l'unico parametro valido della conoscenza.[51]

L'altro problema legato alla figura di Socrate è la sua condanna a morte, cioè il fatto che sia stato trattato come un criminale pur essendo «il più giusto» tra gli uomini.[52] Ciò significò per Platone dover constatare che tra filosofia e vita politica esisteva quell'incompatibilità già conosciuta da Socrate che nella Apologia accenna alla quasi ineluttabilità della sua condanna da parte dei politici e rifiuta la proposta di andare in esilio.[53] Compito dei filosofi è allora quello di fare in modo che la filosofia non sia in contrasto con lo stato, cosicché non accada più che un giusto sia condannato a morte.

Il tema era connesso alla convinzione che la filosofia fosse inutile: per molti Ateniesi Socrate è quello rappresentato ne Le nuvole, commedia di Aristofane in cui il filosofo è ritratto come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria.

In un brano del Gorgia il sofista Callicle, dice che la filosofia tutt'al più può essere praticata dai giovani che, inesperti della vita, si possono abbandonare ai discorsi campati in aria; quando però un uomo anziano, come Socrate, perde il suo tempo a discutere di problemi astratti, questo è degno di essere preso a bastonate.[54]

Platone invece dimostra che la filosofia ha un radicamento storico, essa cioè affonda le sue radici nella storia, nella realtà quotidiana come appare dagli interlocutori di Socrate che sono cioè politici come Alcibiade, filosofi come Parmenide, artisti come Aristofane. Socrate quindi è perfettamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo e i suoi dialoghi riguardano problemi reali e universali. Così Socrate, pur non sembrando, fa politica tanto da venire condannato e morire per accuse politiche.

C'è quindi uno stretto legame tra il filosofo e la politica; Socrate però non l'ha mai fatto capire, pur anteponendo sempre il bene della città agli egoismi dei singoli.[55] Per uscire dall'equivoco, occorre indicare esplicitamente quali siano le radici di questo legame, che ancora una volta consistono nella conoscenza della virtù, e nei criteri per distinguerla dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali. Secondo alcune interpretazioni per Platone la conoscenza del bene non concerne l'enumerazione di singoli esempi di virtù, bensì la definizione di cosa sia la virtù in se stessa. «L'unicità della virtù è una delle principali tesi socratiche: nei dialoghi giovanili Platone difende e corrobora questa tesi analizzando il contenuto di alcune delle virtù tenute in più alta considerazione nel mondo greco»[56] Sulla unicità della virtù in Socrate diversi autori non concordano attribuendo questa concezione alla sola filosofia platonica.[57]

La dottrina della conoscenza: le Idee

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Particolare della Scuola di Atene di Raffaello che ritrae con il volto di Leonardo da Vinci Platone che indica con il dito proteso verso l'alto la realtà del mondo delle idee e Aristotele che invece tende la mano sulle realtà materiali.

La gnoseologia di Platone, messa a punto in vari dialoghi come il Menone, il Fedone, e il Teeteto, deve combattere contro l'opinione che sostiene che la ricerca della conoscenza sia impossibile. La tesi era stata sostenuta dagli eristi, i quali basavano questo loro insegnamento sulla base di due assunti:

  1. Se non si conosce ciò che si cerca, qualora lo si sia trovato, non lo si riconoscerà come l'obiettivo da raggiungere;
  2. Se si conosce già quel che si cerca, la ricerca non ha senso.[58]

Il problema viene superato da Platone ammettendo che l'oggetto della ricerca è solo parzialmente sconosciuto all'uomo, il quale, dopo averlo contemplato prima della nascita, lo ha in qualche modo "dimenticato" nel fondo della sua anima. La meta del suo cercare è dunque un sapere già presente ma nascosto in lui, che la filosofia dovrà risvegliare con la reminiscenza o «anamnesi» (anàmnesis), concetto su cui Platone fonda il convincimento che l'apprendere è un ricordare.[59]

Tale dottrina si rifà alla credenza religiosa della metempsicosi propria dell'orfismo[60] e del pitagorismo secondo cui quando il corpo muore l'anima, essendo immortale, trasmigra in un altro corpo. Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili, ingenerate, eterne e immutabili. Queste Idee albergano nell'iperuranio, mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime una volta slegate dai loro corpi.

L'Idea, traducibile più correttamente con «forma»,[61] è dunque il vero oggetto della conoscenza: ma essa non è soltanto il fondamento gnoseologico della realtà, ossia la causa che ci permette di pensare il mondo, bensì ne costituisce anche il fondamento ontologico, essendo il motivo che fa essere il mondo. Le idee rappresentano l'eterno Vero, l'eterno Buono e l'eterno Bello, a cui si contrappone la dimensione vana e transitoria dei fenomeni sensibili.

Come viene spiegato nel Fedro, dopo la morte le anime diventano simili a cocchi alati che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione alcune riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello soprasensibile.[62] Quando le anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la loro visione delle idee e, prigioniere dei organi di sensi, sono portate a identificare la realtà col mondo sensibile. L'opera del filosofo dialettico, che ha saputo vedere le idee meglio degli altri, è quella di riportare all'anima la memoria del mondo delle idee, attraverso il dare e ricevere discorso, dialogando con l'anima e persuadendola della verità. La dottrina dell'apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura dell'anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se stessi, riportando alla luce dell'intelletto ciò che l'anima ha dimenticato nel momento della reincarnazione; l'idea è quindi in un certo senso corrispettiva del dàimon socratico.

Una conseguenza della reminiscenza è l'innatismo della conoscenza: tutto il sapere è già presente, in forma latente, nella nostra anima. A tal proposito i organi di sensi svolgono comunque una funzione importante per Platone, poiché offrono lo spunto per aiutarci a ridestarlo. L'esperienza serve però solo da stimolo; la vera conoscenza deve essere fondata universalmente sulla noesis, e su di essa deve poggiare ogni tecnica particolare, che è invece il luogo della praxis. L'errore contro cui Platone combatte, rappresentato dalla cultura sofista, consiste nel basare la conoscenza sulla sensazione.[63] Al contrario, solo l'anima, e non i sensi, può conoscere l'aspetto "vero" di ogni realtà.

I quattro stadi della conoscenza

  1. L'immaginazione (eikasìa), dominio delle ombre e delle superstizioni
  2. Gli oggetti sensibili, che danno origine alle false credenze (pìstis)
  3. Le verità geometriche e matematiche, proprie della ragione discorsiva (diànoia)
  4. Le idee intelligibili, raggiungibili solo per via speculativa e intuitiva (nòesis)

La dottrina platonica è inoltre spesso oggetto di fraintendimenti. Di fatto, come Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella sua forma migliore, è sempre filo-sofia, ossia amore del sapere, inesausta ricerca della verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all'interno del pensiero platonico: per quanto l'uomo si sforzi, il raggiungimento della verità assoluta è impossibile, perché confinata nel cielo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e dell'esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è irriproducibile e non presentabile.

Per fare un esempio, è come se un insegnante, che pure ha presente come è fatto un triangolo, cercasse di spiegarlo ai suoi allievi senza poterglielo esibire o far vedere alla lavagna. Può forse persuadere loro di com'è fatto all'incirca un triangolo, ma la conoscenza degli alunni rimarrà comunque lontana da coloro che lo sanno rappresentare correttamente. La conoscenza del mondo delle idee dunque può essere solo intuita, mai comunicata; per conoscerla nel modo meno confutabile possibile ci si può basare al massimo sull'uso dei lògoi, ossia dei discorsi, ragionamenti in forma di dialogo svolti attorno a tali argomenti.

L'opera di ricerca filosofica deve limitarsi così al persuadere le anime,[64] in maniera simile alla maieutica socratica. Qui Platone fa esplicito riferimento alla metafora della seconda navigazione: con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela (prima navigazione) e usata in caso di necessità (come la mancanza di vento). La seconda navigazione consiste proprio nell'uso dei lògoi, che presuppongono una frattura radicale tra il pensiero-parola, e la realtà. Platone, ben lungi dall'essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l'impossibilità di raggiungere una verità piena e incontrovertibile.[65]

La più compiuta teoria platonica della conoscenza, esposta nel dialogo Repubblica e altrimenti nota come teoria della linea, è quindi rappresentabile col seguente schema:[66]

conoscenza sensibile o opinione (δόξα)
immaginazione (εικασία) credenza (πίστις)
conoscenza intelligibile o scienza (επιστήμη)
pensiero discorsivo (διάνοια) intellezione (νόησις)

Solo la conoscenza intelligibile, cioè concettuale, assicura un sapere vero e universale; l'opinione invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è portata a confondere la verità con la sua immagine. Platone polemizza in proposito contro il materialismo di Democrito, secondo cui erano gli atomi, entità materiali fisse, a determinare la formazione o la distruzione degli elementi.[67] Secondo Platone non ci sono in natura princìpi (o archè) ultimi e indivisibili: tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; al contempo però essa tende a costituirsi secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Proprio questo è il punto di cui Democrito non aveva saputo rendere ragione, ossia del perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Ciò evidentemente è possibile perché dietro ogni animale deve esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale.

L'Idea è inoltre ciò che consente a Platone di conciliare il dualismo filosofico venutosi a creare tra Parmenide ed Eraclito: nelle idee risiede infatti la dimensione ontologica dell'Essere parmenideo, ma esse forniscono anche, in virtù della loro molteplicità, una spiegazione al divenire eracliteo che domina i fenomeni naturali, al quale Platone cercava una motivazione razionale che non lo riducesse a semplice illusione come aveva fatto Parmenide.

La funzione del mito

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Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di conoscenza tradizional-popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la nascita della filosofia greca.

Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione.

Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti. Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti.[68]

Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò poco più d'un secolo dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa, il mondo dell'opinione mutevole e transitoria.

I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.

I miti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono approssimativamente i seguenti:[69][70]

  1. Mito dell'insoddisfazione del dissoluto[71]
  2. Mito di Gige[72]
  3. Mito dell'uomo-marionetta[73]
  4. Mito di Aristofane o dell'androgino[74]
  5. Mito della nobile menzogna[75]
  6. Mito della nascita di Eros[76]
  7. Mito dell'età dell'oro[77]
  8. Mito di Epimeteo e Prometeo[78]
  9. Mito di Theuth,[79]
  10. Mito dei cicli cosmici[80]
  11. Mito di Atlantide[81]
  12. Mito del governo divino[82]
  13. Mito della caverna[83]
  14. Mito della reminiscenza[84]
  15. Mito del giudizio delle anime[85]
  16. Mito dell'immortalità dell'anima[86]
  17. Mito di Er[87]
  18. Mito del carro e dell'auriga[88]
  19. Mito del ciclo delle incarnazioni[89]
  20. Mito del Demiurgo[90]
  21. Mito dell'anima del mondo[91]
  22. Mito delle specie mortali[92]
  23. Mito della provvidenza divina[93]

Tra i racconti platonici degni di nota per la loro ispirazione sono generalmente annoverati anche quello sulle forme di conoscenza o «la linea»,[94] e «il mistero dell'amore»[95] sulla gerarchia del bello.[96]

La filosofia come Eros

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Eros, demone dell'Amore

È proprio per spiegare l'umano desiderio di conoscenza che Platone ricorre a un celebre mito, quello di Eros, dio greco dell'Amore e della forza,[97] figlio di Poros e Penia, cioè di Risorsa e Povertà.[98] Il filosofo, secondo Platone, è mosso da una tensione verso la verità con lo stesso desiderio d'amore che attrae due esseri umani.

Per la sua caratteristica di essere principio unificante del molteplice, la peculiarità di eros consiste essenzialmente nella sua ambiguità, ovvero nell'aspirazione alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo nel suo essere costretto a vagare nelle tenebre dell'ignoranza (la sua povertà). La contrapposizione tra verità e ignoranza viene sentita da Platone, come già dal suo maestro Socrate, come una profonda lacerazione, fonte di continua irrequietezza e insoddisfazione.

Si desidera infatti soltanto quello che non si ha, e l'uomo tende a una sapienza della quale si ricorda vagamente, ma di cui in realtà è povero. Si può notare come la ricerca di questa sapienza muova dalla stessa consapevolezza socratica del «sapere di non sapere». Platone aggiunge che l'uomo non desidererebbe con tanta forza una tale verità se non l'avesse mai vista, se non fosse certo che esiste. In tal senso, non solo si desidera quel che non si ha, ma di più si può affermare: si desidera soltanto ciò che non si ha più, che si è perso.[99]

Per Platone vale l'ideale della kalokagathìa (dal greco kalòs kài agathòs), ossia «bellezza e bontà». Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche vero e buono (agathòs), e viceversa. La bellezza delle idee che attira l'amore intellettuale del filosofo perciò è anche il bene dell'uomo. Il fine della vita umana diventa la visione delle idee e la contemplazione di Dio.

Tale contemplazione è sempre imperfetta nella dimensione del mondo sensibile, dominata dalla materia che, in quanto priva di essere, è un semplice non-essere. L'uomo si trova a metà strada tra questi due estremi: mentre le idee sono in sé e per sé, come realtà indipendente e assoluta (ab-soluta), appunto perché "sciolta da" ogni altra, non essendo relative ad altro da sé, l'uomo invece è calato nell'esistenza (da ex-sistentia, "essere fuori"). L'esistenza per Platone è una dimensione ontologica che non ha l'essere in proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata a un essere superiore; egli la paragona a un ponte sospeso tra essere e non essere. L'uomo è dilaniato così da una duplice natura: da un lato avverte il richiamo del mondo iperuranio, in cui risiede la dimensione più vera dell'Essere, eterna, immutabile, e incorruttibile, ma dall'altro il suo essere è inevitabilmente soggetto alla contingenza, al divenire, e alla morte (non-essere).

Questa duplicità umana è vissuta dallo stesso Platone ora in maniera più ottimista, ora con toni decisamente più pessimisti. Da ciò deriva il disprezzo dei platonici per il corpo: Platone più volte nei dialoghi gioca con l'assonanza di parole sèma/sòma, ossia "tomba"/"corpo": il corpo come tomba dell'anima.

Il tema della frattura interiore dell'uomo porta a domandare: su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica.

Il mito della caverna in un'incisione del 1604 di Jan Saenredam.

Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre mito della caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è presentato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli elementi del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del Bene, l'idea suprema in vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità.

Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al cielo iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza».[100]

Esemplificazione visiva delle "idee" platoniche

Il termine usato da Platone per indicare i "modelli esemplari", i "paradigmi", che sono all'origine della realtà sensibile, è παράδειγμα (paradeigma), indicato dagli autori platonici più tardi (ad esempio da Plotino) con il termine ὰρχέτυπος (archetypos; "archetipo"). Questa immagine qui rappresentata del "paradigma", dell'"archetipo" del "cavallo" che risiede nel mondo delle idee vuole genericamente raffigurare visivamente uno di quei "modelli" che per Platone sono privi di figura, di colore e invisibili. Essendo puramente intelligibili, la loro esistenza, infatti, non può essere in alcun modo appurata per mezzo dei dati sensibili come la vista, ma solo per il tramite dell'intelletto.

Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche, dei solidi platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste un cerchio o un quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone calcolare area e perimetro. Una tale capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che non si trova nel mondo esteriore.

Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione trascendente rispetto a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si presenta così come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali esiste una differenza ontologica, incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, come già accennato, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell'anima, ove questa infatti è scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda, immortale, che secondo Pitagora si reincarna in altri corpi.

Ontologia e dialettica

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Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica.

Il problema è legato storicamente alla presenza di Aristotele nell'Accademia, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'ontologia della differenza abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In altri termini, la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono – essere e non-essere – che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere, come già aveva fatto Parmenide, che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo della natura a pura illusione?

La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le entità particolari parteciperebbero ognuna dell'idea corrispondente.

In una seconda fase, il filosofo aveva proposto come si è visto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale gli enti naturali sarebbero imitazioni della loro rispettiva idea. A tal proposito Platone introdurrà nel Timeo, dialogo della vecchiaia, la figura del Demiurgo proprio per attribuirgli il ruolo di mediatore tra le due dimensioni.[101] Il Demiurgo è un semi-dio che vitalizza il cosmo attraverso un'Anima del mondo, plasmando la chora, una materia già esistente ma sottoposta al caos, allo scopo di darle una forma sul modello delle Idee.[102]

L'Essere secondo Parmenide: chiuso e incompatibile con il non-essere
L'Essere secondo Platone: gerarchicamente strutturato secondo passaggi graduali che vanno da un minimo a un massimo

Entrambe le risposte però mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase Platone mette allora in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella dell'immobilità dell'essere, attuando quello che lui chiama un «parricidio», ritenendosi egli filosoficamente "figlio" di Parmenide. Ora infatti il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle a essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie); in cima a tutte sta l'idea del Bene. In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie, non rispettose delle loro relazioni logiche. Viene inoltre profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", come un'altra modalità dell'essere. In altri termini, ora anche il non-essere in certo qual modo è, perché non è più radicalmente contrapposto all'essere, ma esiste in senso relativo (relativo cioè agli enti sensibili). Il non-essere esiste come "corrosione" o decremento della bellezza originaria delle idee iper-uraniche calate nella materia per dare forma agli elementi, in un sinolo o unità di materia e forma, come dirà Aristotele; unione che si decomporrà poi con la morte o distruzione dei singoli enti.

La diairesi non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico. Platone si vede costretto a postulare una tale gerarchia o suddivisione della realtà ontologica anche per rispondere al problema sorto con Parmenide, da lui definito «terribile e venerando»,[103] circa l'impossibilità di oggettivare l'Essere, al quale, secondo il filosofo eleata, non si poteva attribuire nessun predicato. In tal modo però diventava impossibile conoscere l'Essere, e in ultima analisi pensarlo: una condizione che secondo Platone equivaleva di fatto al non-essere, del quale pure, a rigore, nulla si può dire.

Nel Sofista, pertanto, Platone postula cinque generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate; la conciliazione di unità, molteplicità, staticità e movimento è detto «rapporto di comunanza» (koinonìa).

Una notevole difficoltà che s'incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non dà mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”:[104] partendo cioè da un'analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere; mentre all'opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l'Idea è di fatto ununità del molteplice, che racchiude e assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri: si pensi ad esempio all'idea del bello che unifica in sé tutte le varie realtà belle.

Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all'interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili a una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare a una a una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque risulta più vera delle altre, mai però vera in senso assoluto. Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo Platone riformula una nuova concezione. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, e allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui «i molti sono Uno e l'Uno è molti».

Cosa significa quest'asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell'applicazione della dialettica è probabilmente quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All'interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell'attribuire questo concetto a una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella a cui cercherà di approdare ad esempio Cartesio nel Seicento, o in seguito Hegel. Da notare come anche Aristotele, nonostante le sue critiche a Platone, collocava i princìpi primi al di sopra del ragionamento dimostrativo sillogista, giudicandoli raggiungibili solo attraverso l'intuizione intellettuale.

Lo Stato filosofico

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La Città-stato dell'antica Grecia, in un dipinto di epoca romantica

Il dualismo che Platone aveva teorizzato tra verità e apparenza, anima e corpo, si riflette anche nella concezione politica. Come la sapienza è distinta dall'ignoranza, così anche i filosofi vanno distinti da coloro che sono rimasti fermi a una conoscenza puramente sensibile del mondo.

Uno Stato che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di sapienza da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente di degenerare. Si può notare qui come Platone interpreti la società in analogia a un organismo vivente.[105] Il compito di far rispettare l'armonia tra le parti spetta a coloro che più hanno saputo recuperare la reminiscenza dell'idea del Bene: i filosofi. Costoro hanno dunque il compito di governare. La loro funzione è identica a quella che nell'anima umana, secondo la tripartizione platonica, spetta all'anima razionale: la coordinazione e il governo delle altre due, l'intellettiva e la concupisciente. Nel mito del carro e dell'auriga l'anima razionale è infatti assimilata a un cocchiere che deve sapere bene indirizzare i due cavalli a lui sottomessi, affinché il carro proceda rettamente.

Una sana organizzazione dello Stato è dunque il riflesso dell'organicità dell'anima umana, a cui i filosofi sono preposti. L'anima irascibile o volitiva, simboleggiata dal cavallo bianco, diventa virtuosa quando è caratterizzata da coraggio e audacia: essa trova il suo corrispettivo nella classe dei guerrieri, che hanno il compito di difendere la città. L'anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, è rappresentata infine dagli artigiani e i commercianti, che devono sapere sviluppare la virtù della temperanza; costoro sono più portati al lavoro produttivo.

« …noi pensiamo di modellare una polis felice non prendendo pochi individui separatamente e rendendoli tali, ma considerandola nella sua interezza. »
(Platone, Repubblica, IV, 420c)

Quando ogni classe conduce al meglio il proprio compito, ognuno nella sua autonomia, lo Stato ne risulta armonicamente beneficiato. La concezione politica di Platone si fonda quindi su un forte senso della giustizia, che d'altronde aveva ispirato tutta la sua dottrina delle idee. La preoccupazione di Platone tra l'altro è la stessa che aveva animato il suo maestro Socrate quando lo aveva spinto a fare opera di maieutica presso i suoi concittadini, e nasce da una sostanziale sfiducia verso i metodi politici vigenti nella sua epoca: questi sono responsabili, secondo Platone, di curare solo gli aspetti esteriori e transitori dell'individuo, trascurando l'interiorità dell'anima.

Affinché la classe dei governanti e dei guerrieri non si faccia distrarre da interessi terreni e personali, essi sono chiamati a mettere in comune ogni proprietà; i loro figli analogamente non dovranno appartenere alle rispettive famiglie, ma sarà la collettività a prendersi cura di loro. Sono inoltre disapprovate da Platone le usanze educative del suo tempo basate sulle espressioni artistiche come la poesia o la musica, perché invece di proporre esempi di moralità si limitano a una sterile imitazione del mondo sensibile, già a sua volta imitante l'idea. Nel suo Stato filosofico non c'è neppure bisogno di leggi positive: ogni individuo infatti non deve rispondere a comandi impartiti dall'esterno, ma obbedire alla sua propria attitudine interiore. In virtù di quest'ultima, le tre classi-funzione della città platonica sono dinamiche, e non vengono assegnate alla nascita: è solo durante l'educazione selettiva che si arriva a stabilire quale ruolo ogni individuo sia più adatto a svolgere, poiché, come Platone spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un'indole che indirizza l'individuo a uno solo dei tre percorsi.

Stato Corpo Anima Virtù corrispondente
Governanti Testa Razionale Sapienza
Guerrieri Torace Volitiva Coraggio
Artigiani Addome Concupiscibile Temperanza
Il rapporto esistente fra le tre parti dell'uomo e quelle dello Stato

Il modello educativo di Platone (paidèia) si basa sulla selezione per tappe: il giovane è sottoposto a una prima istruzione da parte dello Stato comprendente, oltre alla ginnastica e al combattimento (ossia l'esercizio del corpo), anche la musica (ossia l'esercizio dello spirito) purché esprima davvero l'amore per il Bello ideale e non per le bellezze sensibili. L'istruzione tuttavia non va imposta con la forza «poiché un uomo libero dev'essere libero anche nella conquista del sapere».[106] Se l'educando si dimostra all'altezza, egli viene privilegiato ed educato alla matematica, col fine di diventare stratega, e all'astronomia, disciplina solo teorica il cui fine è elevare l'animo. Tra i migliori infine vengono scelti coloro che, per diventare buoni governanti, intraprenderanno lo studio della filosofia e della dialettica, la massima scienza. Non essendoci differenze esteriori di nascita, anche le donne sono chiamate, ognuna secondo la propria inclinazione ad assolvere le stesse funzioni degli uomini, comprese la guerra e il governo, avendo i loro stessi diritti-doveri.

« …non c'è nessuna attività di coloro che amministrano la città che sia della donna in quanto donna, né dell'uomo in quanto uomo, ma le nature sono disseminate in entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le attività, e alla pari l'uomo di tutte. »
(Platone, Repubblica, V, 455d)

L'educazione dei giovani cittadini consente così di costruire una civiltà armonica in grado di prevenire le forme degenerative della timocrazia, della plutocrazia e della democrazia, che sfociano tutte inevitabilmente nel peggiore dei governi: la tirannide.

Lo Città ideale|Stato ideale tracciato da Platone è stato oggetto di alcune critiche (tra cui quelle di Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici); si è parlato in proposito di comunismo platonico, presumendo di vedere in esso un'anticipazione della società egualitaria prospettata da Karl Marx. Quello di Platone è tuttavia un comunismo etico, non sociale, che propone l'abolizione della proprietà, ma solo per le classi superiori; la distinzione stessa tra le classi viene mantenuta. Margherita Isnardi Parente parla in proposito di comunismo morale dei governanti, non di popolo, ristretto cioè a pochi.[107] Lo stesso Marx rimproverava a Platone di avere ideato uno stato diviso in rigide caste, unendosi alle critiche di coloro che ravvisano nella sua utopia un carattere aristocratico. Occorre anche qui precisare tuttavia che l'aristocrazia platonica è del tutto diversa da quella tradizionale fondata sulla stirpe sociale. I "migliori" che Platone chiama a governare infatti sono aristocratici in un senso intellettuale: non per un diritto acquisito con la nascita, ma secondo criteri morali rinvenibili in chiunque.

Le dottrine non scritte: l'Uno e la Diade

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« Su queste cose non c'è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti la conoscenza della verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall'anima e da se stessa si alimenta. »
(Platone, Lettera VII, 341 C 5 - D 2)

Come suggerisce il contenuto della Lettera VII, e secondo quanto si è accennato in più punti, Platone avrebbe omesso nei suoi scritti di parlare di alcune questioni della massima importanza.[108] Alcuni esponenti della cosiddetta scuola di Tubinga (tra gli altri Hans Joachim Krämer, Konrad Gaiser e Thomas Alexander Szlezák) e dell'Università Università Cattolica di Milano (Giovanni Reale) sostengono che effettivamente una parte rilevante delle teorie platoniche non sia mai stata messa per iscritto, e tuttavia ritengono di poter ricavare, da alcuni accenni sparsi nei dialoghi e da alcune considerazioni polemiche presenti nella Metafisica di Aristotele (Libri I, XIII e XIV), le linee di fondo delle cosiddette "dottrine non scritte".[109] Secondo le suddette scuole, dunque, la filosofia di Platone non si esaurirebbe nei suoi scritti ma, anzi, parte di essa potrebbe essere recuperata facendo ricorso alla cosiddetta "tradizione indiretta".

Tale critica all'esegesi dell'opera platonica procede lungo un percorso storico che aveva visto la modernità, soprattutto con Friedrich Schleiermacher,[110] manifestare la convinzione che gli scritti di Platone contenessero in maniera esaustiva le sue dottrine, rigettando così l'interpretazione allegorica delle sue opere compiuta dagli autori edioplatonici e neoplatonici.

Ma già Friedrich Nietzsche[111] aveva individuato la contraddizione tra la tesi di Schleiermacher e le affermazioni del filosofo ateniese contenute nel Fedro. Secondo Nietzsche, lo scritto ha per Platone il solo scopo di far richiamare alla memoria degli allievi le conoscenze già apprese oralmente all'interno dell'Accademia.

In seguito Heinrich Gomperz (1873-1942)[112] partendo da un'interpretazione del passo 341 c. della lettera VII di Platone, sostenne che una piena comprensione dell'opera di Platone poteva avvenire solo attraverso le testimonianze indirette:

« Il sistema filosofico di Platone non viene espressamente sviluppato nei dialoghi, ma si trova solamente, almeno a partire dalla Repubblica, dietro di essi. Questo sistema è un sistema di deduzione, e precisamente dualistico, poiché esso conduce "tutte le cose" a due fattori originari essenzialmente diversi fra loro. »
(Heinrich Gomperz, Op.cit., citato in Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle "dottrine non scritte", Bompiani, Milano 2008, pagg. 48-9)

Negli anni venti Hans-Georg Gadamer (1900-2002) scopriva anche lui le "dottrine non scritte" anche se le riteneva basilari unicamente per la comprensione della matematica in Platone.[113]

Il primo autore che ha affrontato organicamente la nuova interpretazione di Platone è stato comunque Hans Joachim Krämer con il suo Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone contestualmente tradotto in italiano da Giovanni Reale[114] nel 1982 per la casa editrice milanese Vita e Pensiero.

Dopo Krämer, e altri autori della scuola di Tubinga, è intervenuto lo stesso Giovanni Reale che ha applicato a questa nuova interpretazione i canoni epistemologici di Thomas Kuhn ritenendo il lavoro di Tubinga come un "nuovo paradigma ermeneutico".

Un'analisi del testo di Fedro (276A, 276E, 277B) unitamente alla Lettera VII sono per questi studiosi più che sufficienti a dimostrare l'autotestimonianza dello stesso Platone del fatto che il filosofo non affida e non comunica tutto il suo insegnamento sui "rotoli di carta" ma soprattutto quelli di maggior valore li redige direttamente negli animi degli uomini in grado di comprenderli.

Questi insegnamenti "non scritti" sono per questi autori il cuore delle dottrine platoniche e, facendo leva sulla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori Alessandro di Afrodisia e Simplicio, ritengono che per Platone l'intera realtà, non solo quella sensibile ma anche del mondo delle Idee, sia il risultato di due Principi primi: l'Uno e la Diade.[115] Tale concezione, di tipo pitagorico, intende l'Uno (il «Bene» dei dialoghi) come tutto ciò che è unitario e positivo, mentre la Diade, ovvero il mondo delle differenze e della molteplicità, genera il disordine.

È evidente che questo nuovo paradigma interpretativo del pensiero di Platone non intende più il mondo delle Idee come la dimensione ontologica primaria, ma restringe questa condizione ai soli Principi primi. Le Idee "procedono" da quei due Principi partecipando dell'unità e distinguendosene per difetto o per eccesso; le stesse Idee quindi entrano in relazione con la materia e generano gli enti sensibili, che partecipano dell'Idea corrispondente e se ne differenziano secondo la Diade, sempre per eccesso o per difetto.

Ne consegue che le stesse Idee sarebbero "generate", forse ab aeterno; il bene, poi, nel mondo sensibile, dove non può esservi unità, ma solo molteplicità, consiste nell'armonia delle parti, come si evince anche dai dialoghi.

  1. «Crizia, uno dei Trenta e Glaucone erano figli di Callescro. Glaucone era padre di Carmide e di Perittione. Da Perittione e Aristone nacque Platone, sesto da Solone» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, a cura di Marcello Gigante, Laterza, 1962, III, 1).
  2. Diogene Laerzio, Vite, III, 1, 1 – (EN) una versione in inglese, traduzione di C.D. Yonge
  3. Crizia era cugino di Carmide e suo tutore (in Platone, Carmide 154b e 155a). Carmide era fratello di Perittione per cui Platone era cugino in primo grado di Carmide e in secondo grado di Crizia. (in J. Kirchner, Prosopografia attica, Berlino, G. Reimer, 1901, vol. I).
  4. Fonte utilizzata anche da Diogene Laerzio (III, 1-41), cfr. Storiografia filosofica antica, pag. 26 e 72.
  5. Ibid., Platone e la sua dottrina, I, 2.
  6. Ibid., Vita di Platone, 2, 3.
  7. Ibid., Storia varia, II, 30.
  8. Le vite dei filosofi, Libro III
  9. Laerzio, III, 45, trad. di Anna Motta.
  10. Dizionario enciclopedico delle scienze, lettere ed arti, a cura di Antonio Bazzanini, vol. 5, 1834, p. 912.
  11. Anonimo, Prolegomeni alla filosofia di Platone, VI, 17-19 (traduzione italiana a cura di Anna Motta, Armando, 2014, pp. 126-128).
  12. Speusippo
  13. Prolegomeni alla filosofia di Platone, cit.
  14. Anna Motta, Prolegomeni alla filosofia di Platone, op. cit., p. 61.
  15. Teodoro Katinis, Medicina e filosofia in Marsilio Ficino: il Consilio contro la pestilenza, Ed. di Storia e Letteratura, 2007, pp. 72-73.
  16. Leonardo Tarán, Speusippus of Athens : a Critical Study with a Collection of the Related Texts and Commentary, Brill, Leida 1981, pp. 236-237.
  17. Biografia di Platone.
  18. Platone, Apologia di Socrate, 34a
  19. Platone, Fedone, 59b
  20. Platone, Fedone, trad. di M. Valgimigli, note agg. di B. Centrone, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 200, nota 12.
  21. Battista Mondin, Storia della metafisica, Volume 1, Edizioni Studio Domenicano, 1998, p.144
  22. Attribuzione discussa
  23. Attribuzione discussa
  24. Paolo Cosenza, L'incommensurabile nell'evoluzione filosofica di Platone, Napoli, Il Tripode 1977, p. 245.
  25. Diogene Laerzio, libro III, 18. (Trad. italiana a cura di Giovanni Reale, 2005, p. 323.)
  26. Ateneo, Deipnosophistai. l. 12. c. 22 V. cit. in Ateneo, i Deipnosofisti. I dotti a banchetto, trad. commentata su progetto di Luciano Canfora, introduzione di Christian Jacob, voll. I–IV, 2001.
  27. Apuleio, De dogmate Platonis liber 1, IV. (Platone e la sua dottrina, trad. in Emanuele Vimercati, Medioplatonici. Opere, Frammenti, Testimonianze, 2015.)
  28. Diogene Laerzio, III, 46; Lettera VII, 327 B e C.
  29. Plutarco, Dion, 5, 3-7; Diogene Laerzio, III, 19.
  30. D. Laerzio, Vite, III, 19, 20.
  31. Vd. Marta Sordi, Dionigi I e Platone, Miscellanea di studi classici in onore di Eugenio Manni, VI, Roma, 1980, pp. 2013-2022 (=Sordi, La dynasteia, pp. 83-91; cf. pp, 165-166).
  32. Cfr. contesto storico in M. Amit, Great and Small Poleis. A Study in the Relations between the Great Powers and the Small Cities in Ancient Greece, Bruxelles, 1973, pp. 54-59.
  33. Trad. italiana in Bonacasa, Braccesi, De Miro, La Sicilia dei due Dionisî, Roma, L'Erma di Bretschneider, 2003, p. 11.
  34. Plutarco, Dion, 14. Cfr. Sordi, La Sicilia, pp. 9-10: Il IV secolo, p. 229; Muccioli, Dionisio II: storia e tradizione, p. 201.
  35. Bonacasa, Braccesi, De Miro, cit., p. 15.
  36. Lettera VII, 338a.
  37. Lettera VII, 348a-e; 349a-e.
  38. 38,0 38,1 Vita di Platone.
  39. Diogene Laerzio III 37.
  40. Fedro, 275 c, dove Platone fa dire a Socrate: «La scrittura ha una strana qualità, simile veramente a quella della pittura. I prodotti della pittura ci stanno davanti come se vivessero; ma se domandi loro qualcosa, tengono un maestoso silenzio. Nello stesso modo si comportano i discorsi. [...] Una volta che sia messo per iscritto, ogni discorso si rivolge a tutti, tanto a chi l'intende quanto a chi non se ne fa nulla [...]; esso da solo non può difendersi né aiutarsi» (trad. it. di Piero Pucci, Laterza, 1998, pag. 119).
  41. Si tratta di un'interpretazione risalente a Schleiermarcher e fatta propria da L. Stefanini e altri studiosi inglesi, cfr. in proposito L. Stefanini, Platone, 2 voll., Padova 1932-1935.
  42. H. Krämer per la scuola di Tubinga, G. Reale per quella di Milano.
  43. Platone riprodusse del dialogare di Socrate «quel reinterrogare senza posa, con tutte le impennate di dubbio, con gli improvvisi squarci che maieuticamente tendono alla verità, non rivelandola ma sollecitando l'anima dell'ascoltatore a trovarla [...] in lui solo è riconoscibile l'autentica cifra del filosofare socratico, che negli altri scrittori diviene per lo più trita maniera» (G. Reale, I problemi del pensiero antico dalle origini a Platone, Milano 1972, pag. 347).
  44. «Non è, questa mia, una scienza come le altre: essa non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s'accende da fuoco che balza: nasce d'improvviso nell'anima dopo un lungo periodo di discussioni sull'argomento e una vita vissuta in comune, e poi si nutre di se medesima» (Platone, lettera VII, 341, c-d).
  45. M. Isnardi Parente, Filosofia e politica nelle Lettere di Platone, Napoli 1970, pp. 152-154.
  46. Battista Mondin, Storia della metafisica, Volume 1, Edizioni Studio Domenicano, 1998 p.146
  47. Le Definizioni e i dialoghi spuri (eccetto l'Alcione) sono disponibili nel volume VIII di: Platone, Opere complete, Laterza, Roma-Bari 1982-84. L'Alcione è un dialogo spurio di Luciano di Samosata, talvolta attribuito anche a Platone, mentre gli epigrammi sono raccolti nell'Antologia Palatina.
  48. Cfr. lettera VII, 325 b – 328 c.
  49. G. Granata, Filosofia, vol. I, pag. 68, Alpha Test, Milano 2001.
  50. Repubblica, VII, 534.
  51. «La sofistica imita la filosofia nel suo interesse per l'"intero". Tuttavia, mentre il filosofo, ossia il dialettico, non presume di avere scienza di tutto, di possedere tutte le scienze e tutte le tecniche, ma si propone di esibire i fondamenti primi delle scienze e delle tecniche, il sofista, invece, pretende di conoscerle tutte» (G. Movia, Il "Sofista" e le dottrine non scritte di Platone, in Verso una nuova immagine di Platone, pag. 233, Vita e Pensiero, 1991).
  52. Così Platone definisce Socrate nella lettera VII, 324 e.
  53. «Perché io lo so bene, dovunque io vada i giovani verranno ad ascoltarmi come qui; e se io li allontano, saranno essi stessi che mi faranno cacciare persuadendone i più anziani; se non li allontano, mi cacceranno i loro genitori e parenti per cagion loro» (Platone, Simposio-Apologia di Socrate, Guaraldi, 1995, p.120).
  54. Vincenzo Cilento, Premessa storica al pensiero antico, Editori Laterza, 1963, p.98
  55. «La virtù è abilità per quelli che se ne ritenevano maestri, per Socrate [...] è bene e sapienza; la vita associata, individualismo governato dall'egoismo per i preparatori alla carriera politica, per Socrate è struttura organica di leggi che chiedono obbedienza e rispetto» (B. Mondin, op. cit., pag. 125).
  56. G. Granata, op. cit., pag. 67
  57. Diverse interpretazioni sostengono che Socrate nei suoi dialoghi non mira a una definizione dell'unica virtù ma a portare l'interlocutore a riconoscere di non saper definire che cosa sia la virtù particolare di cui si sta discutendo. «Allora capii, dice Socrate, che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero a odiare Socrate...Ecco perché ancora oggi io vo d'intorno investigando e ricercando...se ci sia alcuno...che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami che non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno» (in Platone, Apologia di Socrate a cura di M. Valgimigli, in Opere pag.45). Socrate sa che è impossibile definire una volta per tutte cosa sia la virtù in se stessa ma vuole portare l'interlocutore a sapere, e assieme a praticare nel confronto dialogico, quella "scienza del bene e del male" che è il dialogo (il dialeghestai) questo sì definito come to meghiston agathòn, il sommo bene. (Cfr. Rivista di storia della filosofia, Volume 63, FAE Riviste, 2008; Guido Calogero, Scritti minori di filosofia antica,Bibliopolis, 1984; Patricia Fagan, John Edward Russon, Reexamining Socrates in the Apology, Northwestern University Press, 2009 e Gabriele Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, Edizione postuma a cura di Bruno Centrone, Edizioni Bibliopolis)
  58. «Menone: "Ma in che modo, Socrate, ti metterai a cercare quel che ignori completamente? E, fra i tanti obiettivi che non conosci, quale sceglierai di ricercare? E se anche lo indovinassi casualmente, come farai ad accorgerti che era proprio quello che cercavi, se lo ignoravi?" Socrate: "Comprendo ciò che intendi dire, Menone! Guarda un po' che bel discorso eristico proponi! il discorso secondo il quale non è possibile all'uomo cercare né quel che sa, né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha motivo di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca"» (Menone, 80 d-e).
  59. Menone, 81 c-d: «Poiché, d'altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l'anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l'anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, tragga da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare e apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza!» (trad. di Rocco Li Volsi, Il Menone platonico, Dialegesthai, 2007 ISSN 1128-5478).
  60. Dizionario di filosofia Treccani alla voce "Metempsicosi"
  61. «Purtroppo la traduzione (che in questo caso è una traslitterazione) non è felice, perché, nel linguaggio moderno, "Idea" ha assunto un senso che è estraneo a quello platonico. La traduzione esatta del termine sarebbe "forma"...Noi moderni per idea intendiamo un concetto, un pensiero, una rappresentazione mentale...per Platone ciò a cui il pensiero si rivolge in maniera pura...l'idea platonica non è affatto un ente di ragione bensì un essere, il vero essere...la forma interiore, l'essenza della cosa...» (In G. Reale, Il pensiero antico, p. 120, Vita e Pensiero, Milano 2001 ISBN 88-343-0700-3.)
  62. Mito del carro e dell'auriga.
  63. Teeteto.
  64. Fedone: «Di certo, affermare che le cose stiano davvero come io le ho esposte non si addice a un uomo dotato di buon senso; ma affermare che questo, o qualcosa di simile a questo, debba capitare alle nostre anime e alle loro dimore, ebbene, tutto ciò mi sembra che si addica e che si meriti di arrischiarci a crederlo, perché bello è rischiare!» (Fedone, 114 d).
  65. Così H. Krämer: «La pretesa validità della filosofia sistematica di Platone deve essere considerata operando una serie di distinzioni. Difficilmente vi era collegata la pretesa dogmatica di una validità definitiva e la pretesa di non aver bisogno di alcuna revisione.[…] Il progetto era mantenuto piuttosto elastico e flessibile, e fondamentalmente aperto ad ampliamenti, sia nel suo insieme sia nei particolari. Si può pertanto parlare di un'istanza […] rimasta in alcuni particolari addirittura a livello di abbozzo e quindi di un sistema aperto; non però, certamente, di un antisistema di frammenti di teorie senza precise connessioni», (Platone e i fondamenti della metafisica, pag. 177, trad. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 2001 ISBN 88-343-0731-3).
  66. «Considera per esempio una linea divisa in due segmenti disuguali, poi continua a dividerla allo stesso modo distinguendo il segmento del genere visibile da quello del genere intelligibile» (Platone, Repubblica, VI, 509d-510a). Ognuno dei due segmenti va cioè diviso a sua volta in due sezioni, per ottenere in tutto quattro parti disuguali, che corrispondono ai quattro piani della conoscenza.
  67. Pur non citando mai direttamente Democrito, Platone nel Timeo dimostrava di conoscerne le teorie. A testimonianza dell'aspra polemica in voga nell'antica Grecia tra idealisti e materialisti, Platone avrebbe provato per l'atomismo un'avversione tale da voler ridurre in cenere gli scritti democritei, pur venendo in ciò dissuaso dai pitagorici Amicla e Clinia (cfr. Salomon Luria, Democrito. Raccolta dei frammenti, interpretazione e commentario, Bompiani, Milano 2007).
  68. «Dunque un poetare, un μύθους ποιείν, che è anche un filosofare; e qui è la radice dei famosi miti di Platone che non sono mai qualcosa di estraneo, come chi dicesse un abbellimento o un ornamento del suo filosofare; e il suo filosofare è anch'esso un poetare, un comporre musica, un μουσικὴν ποιείν, un cantare per incantare, ἐπάδειν, l'anima dell'uomo» (M. Valgimigli, Platone, "Fedone", Sandron, Palermo 1921, p. XXXVIII).
  69. Si tratta di un numero approssimativo, dato che sono diversi i passi platonici che possono essere annoverati come "miti" per via del loro contenuto allegorico o immaginifico (cfr. Geneviève Droz, I miti platonici, pag. 10, trad. di P. Bollini, Dedalo editore, 1994).
  70. Si segue, con poche eccezioni, la proposta de I miti di Platone, a cura di Franco Ferrari
  71. Gorgia, 493 A – 494 A
  72. Repubblica, II 359 D – 360 D
  73. Leggi, I 644 D – 645 C
  74. Simposio, 189 C – 193 E
  75. Repubblica, III 414 B – 415 D
  76. Simposio, 203 B – 206 A
  77. Leggi, III 676 A – 682 D
  78. Protagora, 320 B – 323 A
  79. Fedro, 274 C – 277 A
  80. Politico, 268 E – 274 E
  81. Timeo, 24 E – 25 D; Crizia, 108 E – 113 B
  82. Leggi, IV 712 E – 714 B
  83. Repubblica, VII 514 A – 519 A
  84. Menone, 80 D – 81 E
  85. Gorgia, 523 A – 527 E
  86. Fedone, 107 C – 115 A
  87. Repubblica, X 614 A – 621 D
  88. Fedro, 246 A – 249 B
  89. Timeo, 89 E – 92 C
  90. Timeo, 29 E – 31 B
  91. Timeo, 34 C – 37 C
  92. Timeo, 40 D – 42 E
  93. Leggi, X 903 B – 905 D
  94. Repubblica, VI 509 D – 511 E: consiste in una serie di analogie che preparano il terreno al successivo mito della caverna.
  95. Simposio, 209 E – 212 C: si tratta propriamente di un racconto che però rappresenta, al pari di altri miti, «il miglior modo di unire, nella forma come nel contenuto di fondo, l'ispirazione della filosofia» (Léon Robin, Le Banquet, pag. 24, Les Belles Lettres, Paris 1989).
  96. Franco Ferrari, op. cit., pp. 113-22.
  97. Platone parla di Eros non come un dio ma come un demone, ovvero un essere intermediario tra gli Dèi e gli uomini.
  98. Pòros significa propriamente «ingegno», «espediente», e quindi capacità di procurarsi arricchimento e abbondanza.
  99. «Vive tra la sapienza e l'ignoranza, ed ecco come avviene: nessun dio si occupa di filosofia e nessuno tra di loro ambisce a diventare sapiente perché tutti lo sono già. Chiunque possegga veramente il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è completamente ignorante non si occupa di filosofia, e non desidera affatto la sapienza. Proprio questo è sconveniente nell'essere ignoranti: […] non si desidera qualcosa se non si avverte la sua mancanza» (Simposio, XXIII).
  100. Fedro, 247 c.
  101. Timeo, 28ab – 29a.
  102. Il Demiurgo quindi non è un dio generatore come quello cristiano, ma ordinatore: egli dà il soffio vitale a una materia informe e ingenerata che preesiste a lui. Per questo fu definito da Celso piuttosto come un «semidio» (Cfr. Origene, Contra Celsum, VI, 47).
  103. Così Platone definisce Parmenide quando fa dire a Socrate: «Parmenide mi sembra, per dirla con Omero, che sia "venerando e terribile" insieme. Infatti mi avvicinai a quell'uomo quando io ero molto giovane e lui molto vecchio, e mi sembrò che avesse una profondità eccezionalmente nobile» (Teeteto, 183 e5 - 184 a1).
  104. I due modi di procedere della dialettica:
    « Socrate: Non sarebbe affatto privo di ricompensa cogliere scientificamente il significato di due procedimenti. … Uno: abbracciare in uno sguardo d'insieme e ricondurre a un'unica forma ciò che è molteplice e disseminato affinché, definendo ciascun aspetto, si attinga chiarezza intorno a ciò di cui si intenda ogni volta insegnare.…
    Fedro: E qual è l'altro procedimento che dici, o Socrate?
    Socrate: Consiste nella capacità di smembrare l'oggetto in specie, seguendo le nervature naturali, guardandosi dal lacerarne alcuna parte come potrebbe fare un cattivo macellaio. »
    (Platone, Fedro 265 d-e)
  105. La Repubblica e Leggi.
  106. Repubblica, 536.
  107. Intervista a M. Isnardi Parente.
  108. Platone avrebbe in questo modo seguito l'opinione del suo maestro Socrate circa l'inaffidabilità dei testi scritti, e la sua decisione di affidarsi al metodo orale della maieutica: «l'oralità dialettica fu la cifra emblematica del socratismo; e fu questa forma di oralità, e solo questa, che Platone ritenne di gran lunga superiore alla scrittura» (G. Reale, introduzione a Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, di Francesco Sarri, pag. X, Vita e Pensiero, Milano 1997).
  109. Sull'importanza delle "dottrine non scritte" nel pensiero di Platone, si veda quest'intervista a Thomas Alexander Szlezák, compresa nell'Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche.
  110. Cfr. al riguardo l'Introduzione di Marie-Dominique Richard a Friedrich Schleiermacher: Introductions aux dialogues de Platon (1804-1828). Leçons d'historie de la philosophie (1819-1823) suivies des textes de Friedrich Schlegel relatifs à Platon, Les Éditions du Cerf., Parigi 2004.
  111. Friedrich Nietzsche. Gesammelte Werke. Vierter Band: Vorträge, Schriften und Vorlesungen 1871-1876. Monaco, Musarion Ausgabe, pag.370 (Einleitung in das Studium der platonischen Dialoge (1871-1876), tr. it. Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici, Bollati Boringhieri, Torino 1991, pp. 45-46).
  112. Heinrich Gomperz, Plato's System of Philosophy, in "Proceedings of the Seventh International Congress of Philosophy", Londra 1931.
  113. G. Girgenti (a cura di), La nuova interpretazione di Platone. Un dialogo tra Hans-Georg Gadamer e la scuola di Tubinga (Milano), Rusconi, 1998.
  114. Giovanni Reale richiamerà questa sua opera di traduzione come ciò che lo convinse a riconsiderare l'opinione prevalente che le opere di Platone fossero esaustive rispetto alle sue dottrine.
  115. Cfr. l'Introduzione a Giovanni Reale (a cura di), Fedone, La Scuola., pagg. 56 segg.