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Storia della filosofia/Socrate

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Indice del libro

Socrate nacque ad Atene nel 470, o forse nel 469 a.C. da padre scultore e madre levatrice. La sua educazione giovanile si compì in Atene, dove probabilmente studiò astronomia e geometria e frequentò la scuola di Anassagora. Nel 450, al termine dell'efebia, acquisì la piena cittadinanza ateniese. Passò la maggior parte della vita nella sua città natale, allontanandosene solo tre volta per combattere nelle battaglie di Potidea, Delio e Anfipoli. Socrate militare è descritto da Alcibiade nel Simposio come un combattente modello: coraggioso, modesto, insensibile alle fatiche e alle intemperie e padrone di sé anche nei momenti in cui il suo esercito era prossimo alla sconfitta.

Alieno dalla vita politica attiva, si dedicò interamente alla propria vocazione: la filosofia, che non abbandonerà nemmeno dinanzi al tribunale che lo condannerà a morte, nel 399 a.C.

La maniera in cui egli concepiva la filosofia era nuova e rivoluzionaria; la filosofia era più propriamente ricerca filosofica, continua investigazione di se stessi e degli altri. Per tale peculiare ricerca tralasciò ogni attività pratica così come l'insegnamento regolare, e visse assai sobriamente con la moglie Santippe (che sposò nel 421) e i figli.

La figura e la concezione della filosofia

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Socrate differiva per aspetto e per personalità dai tratti convenzionali che la tradizione usa per descrivere la figura del sapiente (per esempio Anassagora o Democrito). La sua stessa apparenza fisica si opponeva all'ideale ellenico dell'anima saggia in un corpo parimenti bello e armonioso: egli ricordava infatti un sileno, dalle labbra grosse e il naso camuso. C'era un che di strano e inquietante nella sua personalità, e chiunque lo avvicinasse se ne rendeva conto. Famoso a questo proposito è il paragone che Platone ne fa con la torpedine di mare, che stordisce chi la tocca: così Socrate instillava il dubbio e l'inquietudine nell'animo di coloro con i quali discorreva.

Stupisce, in un certo senso, che un filosofo di tale portata non abbia lasciato alcuna testimonianza scritta. Questo fatto è però in totale accordo con la visione socratica della filosofia come ricerca incessante, quale egli la praticava, che non era possibile fissare definitivamente in uno scritto. Il motivo del rifiuto del filosofo di mettere per iscritto la propria dottrina è anche ravvisabile nel Fedro platonico, nelle parole che il re egiziano Thamus rivolge a Theuth, inventore della scrittura:

« Tu offri ai discenti l'apparenza, non la verità della sapienza; perché quand'essi, mercé tua, avranno letto tante cose senza nessun insegnamento, si crederanno in possesso di molte cognizioni, pur essendo fondamentalmente rimasti ignoranti e saranno insopportabili agli altri perché avranno non la sapienza, ma la presunzione della sapienza. »
(Platone, Fedro, 275e)

Il filosofare non può essere stimolato e diretto da uno scritto, quale che sia. Un testo può insegnare nozioni, ma non stimolare la vera ricerca filosofica.

Conosci te stesso

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« Di tutte le ricerche la più bella è proprio questa: indagare quale debba essere l'uomo, cosa l'uomo debba fare »
(Platone, Gorgia, 488a)

Conosci te stesso da motto dell'oracolo delfico divenne il motto socratico che sintetizzava la sua modalità d'indagine. Secondo lui, infatti, un uomo è pienamente uomo in quanto interagisce con i suoi simili; dunque, filosofando con il prossimo, si filosofa al contempo con se stessi, penetrando e risolvendo questioni relative alla propria umanità.

Questa massima fu di importanza capitale per il filosofo, tanto che Platone gli farà dire che "una vita senza esame non è degna di essere vissuta".

Testimonianze

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La totale mancanza di scritti autografi ci pone davanti a grosse difficoltà nel delineare la figura e il pensiero di Socrate. Possediamo varie testimonianze, non sempre coerenti tra loro, sulla sua figura, ad opera di Aristofane, Policrate, Senofonte, dei socratici minori, di Platone e di Aristotele.

Nella commedia Le Nuvole, rappresentata ad Atene nel 423, è contenuta l'unica testimonianza sulla persona del filosofo al tempo in cui era ancora in vita. La visione conservatrice di Aristofane lo porta a concentrare in Socrate i tratti dell'intellettuale innovatore, equiparato ai sofisti e ai naturalisti. Qui egli è dipinto come un vacuo chiacchierone che passa il tempo in ragionamenti assurdi nel suo "pensatoio" a mezz'aria, più vicino alle "nuvole", corrompendo coi suoi insegnamenti i giovani dabbene, negando il valore della religione. Tale ritratto è chiaramente una caricatura polemica e satirica, nella quale peraltro vengono sintetizzate caratteristiche contraddittorie appartenenti a vari personaggi reali. La commedia aristofanea, comunque, delinea "un quadro storicamente accettabile di quella che fu la formazione di Socrate, in un ambiente culturale ben preciso, e di quelle che furono certe sue prese di posizione" (Francesco Adorno). Da questo si può comunque ricavare, "in negativo", una descrizione attendibile del filosofo: spregiudicato e critico verso tutti gli esaltatori del bene, della santità e della tradizione; scardinatore di ogni verità precostituita ed elemento di disturbo per la gente beata nelle proprie raggiunte e rassicuranti certezze. Tale appare, infatti, anche nei dialoghi socratici di Platone.

Pur essendo un democratico, Policrate si trova fondamentalmente d'accordo con il reazionario Aristofane nel rimproverare a Socrate di aver traviato i giovani e minacciato la sicurezza dello Stato insegnando loro credenze contrarie a esso.

Ciononostante, nell'Accusa contro Socrate(risalente al 393) il filosofo è accusato anche di aver disprezzato le procedure della democrazia e di essere stato un cattivo demone ispiratore per certi membri dell'aristocrazia ateniese più radicale.

Le opere di Senofonte vedono la luce molto tempo dopo la morte di Socrate: in esse, egli è presentato come un moralista e un predicatore, nonché quasi ridotto a macchietta.

Socratici minori

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I socratici minori non ci forniscono molte notizie. Essi estremizzano la figura del Socrate moralista già sdoganata da Senofonte.

Platone e Aristotele

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Nei dialoghi di Platone troviamo la più appassionata e suggestiva immagine del maestro. Da questa è scaturito il Socrate che siamo abituati a immaginarci oggi.

Aristotele, per contro, lo schematizza come lo "scopritore del concetto" e il "teorico della virtù come scienza". Quest'ultima testimonianza è divenuta classica nella storiografia tradizionale.

Il problema della critica odierna

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La pluralità di testimonianze talora discordanti ha spinto alcuni studiosi a giudicare impossibile una corretta ricostruzione del Socrate storico e, conseguentemente, a ritenere la sua filosofia un enigma insoluto.

Si possono comunque muovere diverse obiezioni a tale posizione: di Socrate non si sa tutto né niente, bensì qualcosa (le idee generali dell'ironia, del "conosci te stesso", della virtù come sapere, del male come ignoranza del bene ecc.) inferibile dalle fonti tradizionali; la diversa interpretazione che ogni fonte offre non equivale a un travisamento; un esame comparato di tali fonti permette di comprendere fin dove arrivi l'intuizione socratica e dove inizino gli innesti platonici; alcuni motivi appaiono nella filosofia greca esclusivamente dopo Socrate. L'enigma socratico può giungere a un parziale scioglimento mantenendolo vivo, e non annullandolo.

Il rapporto con la sofistica

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Socrate e Platone sono accomunati dall'esigenza di superare il relativismo sofistico. Vi giungeranno in modi diversi. Ciò che fa di Socrate un superatore della sofistica è sintetizzato nei punti che seguono:

  • le stesse manifestazioni esteriori, la volontà di evitare che la cultura divenga un "mestiere"
  • l'amore per la verità e il conseguente rigetto della filosofia come vuota retorica
  • il tentativo di oltrepassare il limite della sofistica post-protagorea, cioè il relativismo conoscitivo e morale; Socrate intende far "partorire" agli uomini verità comuni che possano avvicinarli a un livello più profondo dei punti di vista soggettivi (pur senza trascendere l'"umano")

Cionoostante, sebbene Socrate si un irriducibile avversario della sofistica, ne è al contempo erede per quel che riguarda fondamentalmente i seguenti aspetti:

  • la concentrazione sulla sfera umana e il contemporaneo disinteresse per le indagini di tipo fisico
  • la ricerca dei criteri regolatori del pensiero e dell'azione nell'uomo e non fuori di esso
  • l'accettazione di una verità solo dopo che questa è passata attraverso la discussione e l'esame critico; ciò presuppone una mentalità spregiudicata, razionalistica, antitradizionalistica e non timorosa di mettere continuamente in discussione la realtà e se stessa
  • la tendenza ai paradossi e alla dialettica

Tratti della ricerca socratica

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"So di non sapere"

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"So di non sapere" è il motto socratico più famoso insieme a "conosci te stesso": in effetti, la premessa della ricerca filosofica è proprio la coscienza della propria ignoranza. Sapiente è soltanto chi sa di non sapere: questa la conclusione di Socrate circa il responso dell'oracolo di Delfi, che lo proclamava il più sapiente degli uomini.

Per comprendere tale affermazione va tenuto presente il contesto nel quale fu formulata: quello del clima sofistico, ancora pervaso dall'eco dell'agnosticismo metafisico di Protagora e di Gorgia e dalla velata polemica contro i naturalisti.

È vero sapiente, dunque, soltanto colui che ha compreso che intorno alle cause e alle strutture del Tutto non è possibile raggiungere alcuna certezza.

Tuttavia, quanto detto finora non autorizza un'interpretazione del filosofo in chiave scettica. Se sostiene che, circa questioni ontologiche o cosmologiche, "unicamente sapiente è il Dio", per quanto riguarda problemi etico-esistenziali la sua posizione è tutt'altro che agnostica. Solo chi sa di non sapere, infatti, cerca di sapere; laddove chi si crede già in possesso di certezze inoppugnabili non sente l'esigenza di un'ulteriore ricerca. In tal senso la formula socratica diviene una denuncia di quelle categorie di individui (sacerdoti, politici ecc.) che pretendono di conoscere perfettamente l'uomo dall'alto delle loro dogmatiche certezze.

Sapere di non sapere, infine, è un'affermazione dalla duplice natura: da un lato, richiama ai limiti della ricerca in ambito metafisico; dall'altro, funge da invito all'indagine, basata sull'esperienza, dei problemi umani.

L'ironia (gr. eironéia, "simulazione" o "dissimulazione") è lo strumento di cui Socrate si serve per svelare all'uomo la propria ignoranza, per "stordirlo" come una torpedine di mare. Fingendo ironicamente di non sapere, Socrate chiede all'interlocutore (in genere un "maestro" in qualche arte o un dotto) di parlargli dell'ambito di sua competenza. Dopo una studiata adulazione della cultura o della maestrìa del personaggio, egli inizia ad avvilupparlo nella sua rete di domande insidiose utilizzando l'arma del dubbio e confutando impietosamente le non convincenti risposte ottenute.

Così facendo, l'inconsistenza del sapere di questi individui è messa a nudo, causando loro vergogna e stizza. L'ironia si configura come una particolare sofistica, una sofistica "nobile", capace di purificare la mente dalle false certezze e dalle convinzioni malfondate.

La maieutica

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Facendo uso dell'ironia, Socrate non intende sottoporre l'interlocutore a un "lavaggio del cervello", bensì semplicemente stimolarlo a rifiutare verità precostituite e cercarne di personali dentro di sé.

Da ciò la maieutica, cioè l'arte di far partorire all'uomo una propria verità. Di quest'arte parla Platone, dicendo che Socrate aveva ereditato dalla madre la professione di ostetrico: come un'ostetrica aiuta le madri a partorire, così Socrate è un "ostetrico di anime" che aiuta le menti a partorire un punto di vista originale sulla realtà, non inficiato da opinioni altrui o dogmi.

In ciò si ravvisa anche uno dei principi fondamentali della pedagogia: la vera educazione è autoeducazione; il maestro deve aiutare il discepolo a maturare autonomamente, senza considerarlo come un contenitore da riempire passivamente di nozioni.

Il metodo delle definizioni

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Il dialogo socratico è fatto di domande, risposte, obiezioni, nuove domande, nuove risposte, nuove obiezioni e così via. L'intero processo è animato dall'interrogativo "che cos'è?" ("ti estí?"), cioè la richiesta di una definizione precisa di ciò di cui si sta parlando.

« Egli discorreva sempre di cose umane esaminando che cosa è santità, che cosa empietà, che cosa bellezza, che cosa turpitudine, che cosa giustizia, che cosa ingiustizia, che cosa saggezza, che cosa pazzia, che cosa coraggio, che cosa viltà, che cosa Stato, che cosa politica, che cosa governo, che cosa uomo di governo, e simili cose »
(Senofonte, Memorabili, I, 1, 11-16)

A tali domande solitamente l'interlocutore risponde con un catalogo di casi. Ad esempio, alla domanda "che cos'è la virtù?" l'interlocutore solitamente rispondeva che virtuoso è chi onora le leggi, rispetta i genitori e gli dèi ecc. Ma a Socrate non interessano gli elenchi, bensì la definizione di "virtù".

« Anche se le virtù sono molte e diverse, è in tutte un'identica specie ideale per cui sono virtù; è appunto affidandosi in questa specie ideale che uno h la possibilità, rispondendo a chi lo interroghi, di chiarire bene la questione sul che cosa sia la virtù »
(Platone, Menone, 72c)

Per giungere a una definizione, Socrate preferisce le brachilogie (discorsi fatti di battute corte e veloci) alle macrologie dei sofisti. La domanda "che cos'è?", infine, ha un duplice volto: mette in crisi l'interlocutore tanto quanto lo dispone a impegnarsi per trovare una definizione soddisfacente dell'argomento trattato, pienamente comprensibile a tutti.

Il ragionamento induttivo e il concetto

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Il ragionamento induttivo, dall'analisi di una serie di casi (il particolare) giunge a formulare un'affermazione generale (universale). Si configura dunque come il contrario del ragionamento deduttivo alla base dei sillogismi aristotelici.

L'affermazione a cui si giunge induttivamente è la definizione della cosa, ciò che esprime il concetto. Ad esempio, se un giusto è colui che rispetta ogni legge particolare, il concetto di "giustizia" (la sua definizione in relazione alle leggi) può essere ricavato per induzioni. Tuttavia Platone, come anche Aristotele, sottolinea che Socrate, pur formalizzando l'esigenza di un sapere definitorio, non si sforzò di tradurlo in realtà. Egli preferì perseguire la propria missione di "pungolatore di anime", senza formulare una "scienza delle definizioni" o un "concetto del concetto". Definizioni e concetto restano a uno stato esigenziale.

La definizione non è una forma di sapere assoluto: non è un'entità metafisica eterna, quali saranno le "idee" platoniche e le "forme" aristoteliche.

La morale socratica giunge a esiti nuovi e originali, pur nutrendosi anch'essa della cultura dell'Atene del V secolo a.C.

La virtù è intesa sia come ricerca sia come scienza.

La virtù (areté) era per i Greci il miglior modo di essere possibile di qualcosa. Se per un ghepardo essa era la velocità, per l'uomo era il miglior modo di comportarsi nella vita. La virtù era un dono naturale, di cui l'individuo era dotato già dalla nascita (o per intercessione divina). Per i sofisti, invece, essa è un fine che deve essere conquistato con umano impegno. Virtuosi, dunque, si diventa attraverso l'educazione e la cultura (paidéia).

In questo solco si muove anche Socrate. Secondo lui, essere uomini è il frutto dell'arte più difficile e importante di tutte.

La virtù, intesa come arte del ben vivere e del ben saper trattare con gli altri, è pur sempre un prodotto della mente. Come tale, essa è una forma di sapere; Socrate (nel pieno spirito dell'illuminismo greco del V secolo a.C.) tenta di sottoporla al dominio dell'intelletto, così come i naturalisti tentavano di spiegare la mutevolezza dell'universo con una legge razionale.

Riflettere criticamente sull'esistenza è indispensabile per essere uomini nel modo migliore, la filosofia in senso ampio è la virtù dell'uomo. Da ciò deriva che non sia possibile ammettere l'esistenza del Bene o della Giustizia come entità. Il bene e il giusto sono valori umani che scaturiscono dal lucido ragionare. Attraverso tale ragionare si giunge a sapere cosa è bene fare e quando è bene farlo. Come scrive Francesco Adorno: "[...] non si tratta del Bene, che di quello nessuno sa niente, ma di un bene concreto, cioè di un bene che diviene tale di volta in volta, ma che domani può essere non bene".

La vita va disciplinata dalla ragione: in questo si concretizza il razionalismo morale di Socrate.

La virtù, come sapere razionale, è inoltre insegnabile a tutti. Il mestiere più importante da imparare è quello di vivere, ovvero la facoltà di discernere il bene dal male.

Fra gli altri attributi della virtù, si ricordi che:

  • essa è unica. Ogni virtù particolare (prudenza, coraggio, fortezza, temperanza, ecc.) è un modo di essere della virtù prima, cioè la scienza del bene. Comportarsi da giusti, per esempio, implica sapere quando e come è il caso di farlo.
  • essa è un valore interiore (concezione analoga a quella democritea, in questo senso). Essa si inserisce in quella sfera che Platone, con una valenza più propriamente religiosa, chiamò "anima". E i valori veri "non sono quelli legati alle cose esteriori", bensì quelli "dell'anima, che si assommano tutti quanti nella conoscenza" (Giovanni Reale, Dario Antiseri).
  • essa è un valore pratico. La morale socratica non è un esercizio di automortificazione, non ha nulla di ascetico (come vorrebbe il Socrate "moralista" di Nietzsche), bensì un modo di essere che mira all'utilità e alla felicità. Questa virtù è una forma di eudemonismo (da eudaimonía, "felicità"), uno star bene col proprio "demone" (aspetto che esamineremo più avanti), perché appunto mira alla felicità. Si tratta di un calcolo ponderato atto a rendere migliore la nostra vita.
  • essa è, in sostanza, il saper vivere con gli altri. Dato che l'uomo è un essere sociale, ne consegue che la virtù si realizza massimamente in campo politico; un ragionare insieme sulle cose della polis tenendo per fine il bene comune.

In conclusione, virtuoso è chi vive felicemente secondo i dettami della ragione, mentre il non virtuoso è infelice perché, non ragionando a sufficienza, si abbandona a istinti deleteri.

È importante sottolineare che Socrate non intende "uccidere la vita" (accusa di Nietzsche). Egli non intende abolire gli istinti, ma semplicemente sottoporli alla disciplina della ragione. Anche i valori vitali del benessere o del vigore non devono essere diretti dall'ignoranza, perché questa li porterebbe a operare in una cattiva direzione.

La missione della ricerca filosofica è assegnata a Socrate dal suo demone che lo consiglia in tutti i momenti decisivi della vita, però "in negativo". Si legge infatti nell'Apologia che tale demone, che è come una voce che egli sente sentro fin da quando era bambino, lo dissuade da quel che è in procinto di fare, ma non lo sprona né lo sospinge mai.

Questo demone è interpretabile come la voce della coscienza, ma il suo significato non si riduce a ciò. Esso si identifica con il sentimento che trascende l'uomo, la guida superiore e divina dell'agire umano. Esso è un concetto religioso, oltre che morale. Il demone può essere considerato come la personificazione dell'anima umana. In tale concezione confluiscono due concezioni già note ai Greci:

  • l'anima come sede della vita intellettuale dell'uomo
  • la dottrina orfica dell'anima imprigionata nel corpo come punizione di una colpa originaria.

Entrambe queste visioni portano all'idea di un'anima immortale, ma tale aspetto non interessa Socrate (Platone, invece, ne farà il punto centrale della propria dottrina).

La religione

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Già Senofane aveva criticato l'antica concezione antropomorfica degli dèi. Socrate aveva certamente superato tale visione: agli dèi della religione popolare presta una formale devozione, ma solo in quanto obbligo del buon cittadino ateniese. A un livello più profondo, egli ammette gli dèi solo come manifestazioni particolari di una divinità superiore.

Egli si rivolge a tale divinità, e non al dio nello specifico, in quanto garante dell'ordine, forma suprema di intelligenza e di bene e custode del destino degli uomini (in virtù di ciò, nell'Apologia egli, condannato a morte, dichiara ai giudici che "per l'uomo onesto non vi è male né nella vita, né nella morte", essendo la sua causa "nelle mani degli dèi"). Ne deriva che il filosofo non crede nel caso: l'intelligenza umana e l'organizzazione razionale e ordinata del cosmo non possono essere opere di una forza cieca e casuale, bensì solo di un essere supremo che governa l'universo intero.

L'uomo, come essere dotato di ragione, è per Socrate il solo in grado di rapportarsi a tale divinità e il solo simile ad essa.

La morte di un filosofo

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Quando tre democratici oltranzisti, Meleto, Anito e Licone, portarono Socrate in tribunale con la triplice accusa di fare oltraggio alla religione non riconoscendo gli dèi della tradizione, di introdurre nuovi dèi e di corrompere le menti dei giovani, la sua influenza si era già esercitata su un'intera generazione. Alla possibilità di tentare di scagionarsi, o di lasciare la città, egli preferì perorare la propria causa esaltando il compito educativo che lo obbligava nei confronti degli Ateniesi, dichiarando che mai avrebbe desistito, essendovi chiamato per ordine divino. Socrate fu giudicato colpevole con una maggioranza risicata, ma non si arrese. Pur dicendosi disposto a pagare una multa di tremila dracme, dichiarò di sentire di meritare il trattamento riservato ai benemeriti (nutriti a spese pubbliche nel Pritanèo).

Il fronte dei detrattori, dunque, aumentò. La vicenda, descritta nell'Apologia, si concluse con la morte del filosofo dopo l'ingestione della cicuta.

Cause storico-politiche della condanna

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Dopo la disfatta subita nella guerra del Peloponneso, nel 404 a.C. si stabilì in Atene il regime detto dei Trenta Tiranni, col quale sembra che Socrate non si fosse compromesso. Il processo al filosofo, nel 399 a.C., fu voluto proprio dalla restaurata democrazia. Al di là delle accuse ufficiali, l'attitudine marcatamente conservatrice della nuova democrazia, attenta al culto e alla conservazione delle glorie del passato, strideva fortemente con la spregiudicatezza di Socrate. Egli era un personaggio pericoloso per la saldezza dello Stato. Con ciò si spiega la convergenza delle critiche di Policrate e di Aristofane, provenienti rispettivamente da "sinistra" e da "destra".

Il motivo più strettamente politico del processo, però, è il presunto aristocraticismo politico di Socrate, che concepiva il governo come un'arte da affidare a poche e competenti figure (contrastando con lo spirito della democrazia). Pare, quindi, che egli criticasse vari aspetti della democrazia a lui contemporanea, soprattutto l'accesso alle cariche pubbliche per sorteggio o elezione popolare. A ciò si aggiungeva un motivo "personale", dato che Socrate era legato in rapporti d'amicizia con alcuni esponenti della gioventù ultra-aristocratica che aveva architettato il colpo di Stato dei Trenta Tiranni.

Implicazioni ideali e filosofiche

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La morte di Socrate riflette la sua piena fedeltà a se stesso e alla sua missione. Come uomo che per tutta la vita aveva insegnato la giustizia e il rispetto delle leggi, non poteva rinnegare se stesso (a danno proprio e di coloro che simpatizzavano con lui) vanificando tutto il suo lavoro in un'abiura.

Come Protagora, Socrate riteneva che l'uomo fosse uomo in quanto essere sociale. Da ciò si ricava che, se "l'uomo è società", "l'uomo è uomo in quanto figlio delle leggi"; chi non le rispetta o le rifiuta (siano del proprio Stato o della propria civiltà) cessa di essere uomo. È possibile modificare e migliorare le leggi, ma non violarle, altrimenti verrebbe meno il fondamento della vita in società. Questa morte è, infine, manifestazione del soccombere dell'intellettuale dinanzi al potere politico. Socrate è definito in virtù di ciò il primo martire del pensiero occidentale e della libera ricerca del sapere.

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