Storia della letteratura italiana/Pietro Aretino

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Indice del libro
Storia della letteratura italiana
  1. Dalle origini al XIV secolo
  2. Umanesimo e Rinascimento
  3. Controriforma e Barocco
  4. Arcadia e Illuminismo
  5. Età napoleonica e Romanticismo
  6. L'Italia post-unitaria
  7. Prima metà del Novecento
  8. Dal secondo dopoguerra a oggi
Bibliografia

La figura di Pietro Aretino ha segnato in un certo qual modo il XVI secolo, elaborando modelli anticlassici che davano voce all'estro individuale e all'insofferenza per i modelli precostituiti. È conosciuto principalmente per alcuni suoi scritti dal contenuto considerato licenzioso, fra cui i conosciutissimi Sonetti lussuriosi. Fu però un poligrafo, si cimentò in vari generi letterali sceivendo anche i Dubbi amorosi e opere di contenuto religioso.

Dai suoi adulatori fu chiamato «divino», appellativo che gli piacque e di cui si fregiò; mentre per le sue satire e i suoi motteggi fu chiamato «flagello dei principi»,[1] così come ricorda anche Ariosto nell'Orlando furioso: «... ecco il flagello / de' principi, il divin Pietro Aretino».[2]

La vita[modifica]

Pietro Aretino in un ritratto di Tiziano (1548 circa), Frick Collection, New York

Della sua infanzia si sa ben poco. L'unica cosa di cui si avrebbe certezza è che sia nato a Arezzo nella notte tra il 19 ed il 20 aprile del 1492, frutto di una relazione fra un povero calzolaio di nome Luca Del Buta e una cortigiana, Margherita dei Bonci detta Tita,[3] modella scolpita e dipinta da parecchi artisti».[4]

È stato detto che non volle mai far conoscere il proprio vero nome e le sue vere origini in segno di disconoscimento dei suoi natali. Tuttavia gli piacque definirsi figlio di cortigiana, con anima di re. Scrisse nelle Lettere:

« Mi dicono ch'io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l'anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice. - Le mie medaglie sono composte d'ogni metallo e di ogni composizione. La mia effigie è posta in fronte a' palagi. Si scolpisce la mia testa sopra i pettini, sopra i tondi, sulle cornici degli specchi, come quella di Alessandro, di Cesare, di Scipione. Alcuni vetri di cristallo si chiamano vasi aretini. Una razza di cavalli ha preso questo nome, perché papa Clemente me ne ha donato uno di quella specie. Il ruscello che bagna una parte della mia casa è denominato l'Aretino. Le mie donne vogliono esser chiamate Aretine. Infine si dice stile aretino. I pedanti possono morir di rabbia prima di giungere a tanto onore.[5] »

Mentre della sua infanzia non si sa praticamente nulla, i suoi biografi riferiscono che quattordicenne o poco più visse a Perugia, dove studiò pittura, frequentando in seguito la locale università. Trasferitosi nel 1517 a Roma, grazie ai buoni uffici di Agostino Chigi (che tenne alla sua corte anche Raffaello), si mise al servizio del cardinale Giulio de' Medici e riuscì ad approdare anche alla corte di papa Leone X. Si trovava nella città eterna quando si svolse il conclave del 1522: fu probabilmente in quel periodo che scrisse uno dei suoi primi lavori, le cosiddette Pasquinate, cioè poemetti satirici composti sulla base delle anonime proteste contro la Curia affisse sul busto in marmo del Pasquino, a piazza Navona. A causa di questi componimenti fu esiliato dal nuovo pontefice, un cardinale fiammingo che prenderà il nome di papa Adriano VI (da Pietro soprannominato la tedesca tigna).

Poté far ritorno nel 1523 a Roma solo con l'avvento di papa Clemente VII: cominciò a nutrire però una pesante insofferenza nei confronti delle corti e degli ambienti ecclesiastici. Ebbe in dono in quegli anni il famoso Autoritratto del Parmigianino nello specchio convesso e rimase impressionato dall'"invenzione" del giovane artista, cosa che il Vasari così commenta: «...mi ricordo, io essendo giovinetto, aver veduto in Arezzo nelle case di esso Messer Pietro Aretino, dove era veduto dai forestieri, che per quella città passavano, come cosa rara. Questo capitò poi, non so come, alle mani di Valerio Vicentino intagliatore di cristallo, et oggi è appresso Alessandro Vittoria, scultore in Vinezia...».

Nel 1525 decise di lasciare definitivamente Roma e trascorse due anni a Mantova al servizio di Giovanni dalle Bande Nere, con cui strinse una sincera amicizia e gli fu vicino il giorno della sua morte, il 30 novembre 1526. Infine nel 1527, contemporaneamente allo stampatore Francesco Marcolini da Forlì, con cui ebbe rapporti di amicizia e che gli pubblicò molte opere, si trasferì a Venezia. Di questi anni è la composizione dei Sonetti lussuriosi, pubblicanti dapprima nel 1524 e poi nel 1527. Nello stesso periodo scrisse anche il testo teatrale La Cortigiana, commedia ambientata in data antecedente al sacco di Roma e parodia de Il cortegiano di Baldassarre Castiglione.

In rotta di collisione con l'ambiente della curia romana, Pietro Aretino nel marzo del 1527 lasciò Roma per trasferirsi a Venezia. Nella città lagunare - a quel tempo a suo dire - anticortigiana per eccellenza e sede di ogni vizio possibile - trascorse il resto della vita scrivendo e pubblicando la maggior parte delle sue opere, spesso coi tipi di Francesco Marcolini da Forlì.

Negli anni veneziani strinse un solido rapporto con Tiziano, dal quale sarà ritratto più volte, e Jacopo Sansovino, terzetto che ebbe un ruolo determinante nella cultura della Venezia del tempo. Divenne amico del condottiero Cesare Fregoso e nel 1536 fu ospite a Castel Goffredo del marchese Aloisio Gonzaga.[6]

Morì a Venezia il 21 ottobre 1556.

I Sonetti lussuriosi e le altre opere[modifica]

Incisione di Paolo Caronni raffigurante Pietro Aretino

Fino all'Ottocento la fama di pornografo e di letterato corrotto relegò i sonetti di Aretino alla semi-clandestinità. La sua opera è in realtà una reazione spregiudicata all'affermazione dei modelli classicisti e della cultura dei pedanti, intesi come negazione della cultura viva. In risposta a questo, egli si propone di svelare la verità sui principi e di esporre la forza genuina della natura. Tuttavia, in questo modo Aretino finì per "istituzionalizzare" il suo stile,[7] e cadere a sua volta in quella che Giuseppe Petronio chiama «retorica anti-retorica».[8]

La sua opera più famosa sono i Sonetti lussuriosi, che gli erano stati ispirati dalle incisioni erotiche, ritenute ai limiti della pornografia, realizzate da Marcantonio Raimondi su disegni di Giulio Romano e pubblicate una prima volta nel 1524, sotto il titolo I Modi o Le 16 posizioni, e successivamente, insieme ai Sonetti dell'Aretino, nel 1527. I Sonetti rappresentano un'opposizione al petrarchismo dell'epoca

L'originalità di Aretino ebbe modo di esprirmersi soprattutto negli anni veneziani. Della sua produzione, che comprende commedie e opere religiose legate al gusto per il miracolo e il meraviglioso[9] (L'umanità di Cristo e Il Genesi, 1538), spiccano i dialoghi dei Ragionamenti (usciti tra il 1534 e il 1536), opera articolata in tre giornate durante le quali Nanna insegna alla figlia Pippa l'arte della cortigiana, insieme ad altre due figure femminili che invece si soffermano sul mestiere della ruffiana. Nelle parole di Nanna si mescolano vari generi letterari e vengono descritte immagini oscene, mentre la realtà viene mostrata come lotta tra i sessi.[10]

Note[modifica]

  1. Pierre Louis Ginguené, Francesco Saverio Salfi, Storia della letteratura italiana, Daddi, 1827, pp. 174-75
  2. Ludovico Ariosto, Orlando Furioso, 46, 14, 3-4
  3. Fonte
  4. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Libro XVI
  5. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Libro XVI
  6. Massimo Marocchi, I Gonzaga di Castiglione delle Stiviere, Rotary Club Castiglione delle Stiviere, Verona, 1990.
  7. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 329.
  8. Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palumbo, Palermo, 1970, p. 284
  9. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, L'Umanesimo, il Rinascimento e l'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, p. 195.
  10. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 330.

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