Storia della letteratura italiana/Teofilo Folengo
Nell'Italia del Cinquecento, in particolare nel nord della penisola, c'è una resistenza all'affermazione del classicismo. Sono esperienze tra di loro eterogenee, spesso prive di una propria coscienza critica, che vengono riunite sotto il nome di anti-classicismo. In generale, queste tendenze proseguono sulla via del plurilinguismo quattrocentesco: invece di adeguarsi al toscano, scelgono la contaminazione tra linguaggi diversi, mescolando dialetto ed elementi provenienti da altre esperienze letterarie. Principali centri sono Venezia e il Veneto, dove al dialetto viene riconosciuta una sua dignità e dove si incontravano gruppi etnici di varia origine.
Uno dei risultati più interessanti del plurilinguismo cinquecentesco è il maccheronico, che viene usato come lingua letteraria a Padova tra la fine del Quattrocento e la prima metà del XVI secolo. Il maccheronico utilizza la morfologia latina, ma costruisce le frasi secondo la grammatica volgare, inserendovi anche termini di origine dialettale. Ne scaturisce un effetto di parodia, che viene sottolineato dallo stesso nome dato alla lingua: "maccheronico" richiama al cibo e all'universo dei bisogni materiali. Il principale autore in lingua maccheronica è Teofilo Folengo: con la sua opera questa lingua smette di essere uno scherzo e diventa un grande mezzo espressivo.[1]
La vita
[modifica | modifica sorgente]Figlio del notaio mantovano Federico e di Paola Ghisi, ottavo di nove fratelli, Girolamo Folengo nasce da una famiglia nobile decaduta di Cipada (ora Cipata), una frazione di Mantova, l'8 novembre 1491. Fin dalla sua infanzia mostra un'intelligenza vivace e una notevole abilità nel verseggiare. A sedici anni entra nel monastero di Sant'Eufemia, vicino a Brescia, e il 24 giugno 1509 emette i voti ed entra a far parte dell'ordine benedettino. Da questo momento prende il nome religioso di Teofilo.[2]
Negli anni successivi Folengo si sposta da un monastero all'altro. Nel 1514 diventa diacono, mentre l'ordinazione sacerdotale risale probabilmente alla primavera del 1517. Il 1º gennaio dello stesso anno pubblica a Venezia la prima edizione dell'Opus macaronicum, presso lo stampatore Alessandro Paganino, firmandolo con lo pseudonimo di Merlin Cocai. La seconda redazione porta la data del 5 gennaio 1521, stampata sempre da Paganino, che ha lasciato Venezia per Toscolano, sul lago di Garda.[3]
Nel 1525 Folengo esce dalla Congregazione in qualità di licenziato. I documenti dell'epoca non forniscono informazioni sui motivi: la causa può essere individuata nei contrasti interni all'ordine benedettino, oppure nelle diatribe sulla vita monastica, o ancora nelle dispute sulla diffusione della Riforma luterana. Viene accolto nella casa di Camillo Orsini, capitano della Repubblica di Venezia, in qualità di precettore del figlio Paolo. Orsini all'epoca aveva contatti con gli spirituali, una fazione che caldeggiava una riforma della Chiesa pur senza aderire alle posizioni luterane. Folengo lo seguirà nei suoi spostamenti, a Mentana e forse anche a Roma.[4]
Prosegue intanto la sua attività letteraria, firmando alcune opere in volgare con il nome di Limerno Pitocco.[5] Nel 1526 pubblica a Venezia, presso l'editore Garanta, il poemetto in ottave Orlandino, in cui rielabora la storia dell'infanzia di Orlando. L'anno successivo dà alle stampe il Chaos del triperuno, un'opera in italiano, latino e maccheronico in cui racconta, con uno stile bizzarro ricco di allusioni allegoriche, i motivi per cui ha lasciato l'ordine. Nel 1530 trascorre un periodo di eremitaggio, in vista del suo ritorno nella Congregazione. Insieme al fratello Giambattista, anch'egli monaco licenziato, si sposta per la penisola italiana. Giunge infine a Punta Campanella sulla penisola sorrentina, dove entra in contatto con gli ambienti culturali napoletani. Al 1533 risale la pubblicazione del poema in ottave L'Umanità del Figliolo di Dio, dedicato alla vita di Cristo, e di altre opere in latino umanistico.[6]
Il 15 maggio 1534 Teofilo e Giambattista sono riammessi nell'ordine benedettino. Risiede probabilmente sul lago d'Iseo, dove forse inizia a lavorare all'Hagiomachia, un'opera scritta in latino umanistico e composta da diciotto storie di martiri. Sempre a questo periodo viene datata la terza edizione dell'opera maccheronica. Nel 1539, forse per interessamento del viceré Ferrante Gonzaga, Folengo è trasferito nel monastero di San Martino delle Scale a Palermo, e diventa priore di Santa Maria delle Ciambre. Scrive la Palermitana, in terzine. Nel 1542 viene spostato nel piccolo priorato di Santa Croce di Campese, dove muore il 9 dicembre 1544. La quarta e ultima redazione dell'opera maccheronica verrà pubblicata nel 1552 a Venezia, presso Pietro Ravani e soci.[7]
L'Opus macaronicum
[modifica | modifica sorgente]La Macaronea o Opus macaronicum (Opera maccheronica) viene pubblicata con lo pseudonimo di Merlin Cocai (in veneziano "Cocai" significa "sciocco") in quattro edizioni, nel 1517, nel 1521, nel 1540 circa e nel 1551. Nella sua versione definitiva il centro dell'opera è rappresentato dal poema Baldus. A questo si accompagnano alcune epistole e due operette:
- la Moschaea (Moscheide), un poemetto giovanile su una guerra tra mosche e formiche, sul modello della Batracomiomachia di Omero;
- la Zanitonella, una raccolta di ecloghe che racconta la storia d'amore tra Zani e Tonello, parodia della letteratura amorosa classica e volgare.
Il Baldus, di gran lunga l'opera più importante di Folengo, è un poema di 25 libri in esametri. Il principale bersaglio della parodia è l'Eneide: giocando sulle origini mantovane che accomunano Virgilio, Folengo e il suo alter ego Merlin Cocai, l'eroe troiano viene continuamente evocato e le sue gesta conoscono un rovesciamento comico.[5]
Il Baldus è tutto giocato sul paradosso, che interrompe la narrazione per adottare nuovi punti di vista. Diversamente da Pulci, con è possibile trovare degli elementi in comune, Folengo non indugia sui giochi linguisti. Il maccheronico costruisce infatti l'effetto espressivo sulla frizione tra il latino e il volgare, quindi tra la cultura classica e quella popolare, due mondi antitetici.
Il mondo descritto da Folengo è inoltre oscuro, sordido, confuso e irrazionale. Vengono mostrati diversi oggetti legati alla vita quotidiana, ai lavori manuali, al mondo contadino, che i personaggi del poema deformano e trasformano in strumenti di violenza. La stessa campagna non ha niente a che fare con l'armonia della natura, né a Folengo interessa solidarizzare con la dura vita dei contadini. La campagna è un luogo di cieca violenza, un mondo che nasconde una forza demoniaca, indifferente a qualsiasi cosa.
Folengo riprende molto dalla tradizione popolare del carnevale, in particolare per quanto riguarda il rovesciamento della realtà e il gusto per l'abnorme. D'altra parte, la parodia dei poemi classici rivela l'ammirazione per questa letteratura, vista da una prospettiva diversa rispetto a quella da cui guardavano i classicisti. Folengo prende le distanze dalla cultura cortigiana della sua epoca, e mette a nudo l'irrazionalità che il classicismo aveva cercato di mettere a tacere.[8]
Note
[modifica | modifica sorgente]- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 322.
- ↑ Nota biografica in Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Mario Chiesa, I, Torino, Utet, 2006, p. 33.
- ↑ Nota biografica in Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Mario Chiesa, I, Torino, Utet, 2006, pp. 33-34.
- ↑ Nota biografica in Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Mario Chiesa, I, Torino, Utet, 2006, pp. 34.
- ↑ 5,0 5,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 323.
- ↑ Nota biografica in Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Mario Chiesa, I, Torino, Utet, 2006, pp. 34-35.
- ↑ Nota biografica in Teofilo Folengo, Baldus, a cura di Mario Chiesa, I, Torino, Utet, 2006, pp. 35-36.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 324-325.
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