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Storia della letteratura italiana/Rinascimento

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana
  1. Dalle origini al XIV secolo
  2. Umanesimo e Rinascimento
  3. Controriforma e Barocco
  4. Arcadia e Illuminismo
  5. Età napoleonica e Romanticismo
  6. L'Italia post-unitaria
  7. Prima metà del Novecento
  8. Dal secondo dopoguerra a oggi
Bibliografia

L'8 aprile 1492 si spegne Lorenzo il Magnifico, signore di Firenze, che nella seconda metà del Quattrocento era stato il protagonista della vita politica e culturale della penisola italiana. Si apre così una nuova fase, segnata da guerre e da invasioni straniere, che mette in crisi gli equilibri tra gli Stati regionali. Concorrono a queste mutazioni le vicende che attraversano l'Europa: l'avanzare della Riforma protestante, la scoperta dell'America, la diffusione della stampa. Paradossalmente sono però anche gli anni in cui si diffonde il Rinascimento, con il quale fioriscono le arti e gli studi umanistici e naturalistici.

Periodizzazione

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Secondo una periodizzazione generalmente accettata dagli studiosi (ma che non è esente da critiche), la letteratura del Cinquecento può essere divisa in due fasi:

  • il Rinascimento, che si sviluppa nei primi decenni del secolo e che prosegue il processo iniziato con l'Umanesimo;
  • il manierismo, che si afferma nella seconda metà del secolo e rappresenta la crisi del Rinascimento, preannunciando gli esiti della cultura secentesca.

In realtà bisogna tenere presente che le categorie letterarie non devono mai essere intese in maniera troppo rigida. Come è già stato ricordato nel modulo sull'Umanesimo civile, non c'è una cesura netta tra Umanesimo e Rinascimento. Piuttosto, si può dire che nel corso del Cinquecento il processo culturale iniziato nel Quattrocento giunge alla sua maturazione.

Per altro verso, anche la distinzione tra Rinascimento e manierismo è problematica. Il manierismo si afferma infatti a partire dagli anni trenta, esasperando i canoni del classicismo ed evidenziandone i caratteri artificiali. Tuttavia elementi manieristici si possono ritrovare già in opere rinascimentali, e viceversa alcuni autori vissuti nella seconda metà del Cinquecento non possono essere classificati come manieristi.

Le principali opere rinascimentali sono precedenti agli anni trenta: il Principe di Niccolò Machiavelli (scritto nel 1513, ma pubblicato nel 1523), l'Orlando furioso di Ludovico Ariosto (l'ultima edizione è del 1532), il Cortegiano di Baldassarre Castiglione (1508-1516) e le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525). A questo segue una fase di codificazione delle regole, in concomitanza con la crisi delle corti regionali. Alla metà del secolo si svolge il concilio di Trento (1545-1563), con il quale la Chiesa cattolica tenta di far fronte all'avanzare della Riforma protestante. Con la sua chiusura nel 1563 si apre l'età della Controriforma, che trasformerà la cultura e la società, accentuando gli elementi manieristici.[1]

Il rapporto con il Medioevo

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Gli studiosi hanno poi ampiamente dibattuto il tema del rapporto tra il Rinascimento e il Medioevo. Jacob Burckhardt sostiene la tesi della discontinuità rispetto al Medioevo, sottolineando come all'uomo medievale non era riconosciuto alcun valore se non come membro di una collettività o di un ordine, mentre solo nel Rinascimento, con la nascita delle signorie e dei principati, avrebbe preso avvio in Italia un atteggiamento più libero e individualistico da parte dell'uomo nei confronti della politica e della vita in generale.[2]

Al contrario Konrad Burdach, massimo sostenitore della continuità tra Medioevo e Rinascimento, ritiene che non vi sia nessuna rottura fra i due periodi, ma che costituiscono un'unica grande epoca. Burdach afferma che non vi fu nessuna svolta, e se proprio si vuole parlare di rinascita bisogna addirittura risalire all'anno Mille. Annota infatti che i temi alla base della Riforma luterana erano già presenti nelle eresie medievali, e che Medioevo e Rinascimento hanno una stessa fonte in comune: il mondo classico.[3]

Le guerre in Italia

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L'Italia nel 1494 (clicca sull'immagine per ingrandire)

Alla morte di Lorenzo il Magnifico, l'equilibrio tra gli Stati regionali italiani si disgrega. Nel 1494 Carlo VIII, re di Francia (1483-1498), scende nella penisola italiana ottenendo una serie successi militari. Aiuta Ludovico il Moro, suo alleato, a conquistare Milano e a scacciare Gian Galeazzo Sforza. Entra poi a Firenze, che nel frattempo si era ribellata ai Medici e al successore di Lorenzo, il figlio Piero il Fatuo. A Roma viene accolto dal papa Alessandro VI, quindi nel 1495 giunge a Napoli, dove il re Ferdinando d'Aragona era stato nel frattempo deposto dalla nobiltà. Il suo dominio sulla penisola si esaurisce però in breve tempo: tornando in patria, il suo esercito si scontra con una coalizione composta da Spagna, Austria e Repubblica di Venezia, venendone sconfitto. Tuttavia l'impresa di Carlo VIII mette in evidenza la fragilità degli Stati italiani e la loro posizione subalterna rispetto alle potenze straniere, che limitano la loro possibilità d'azione.

Nei trent'anni successivi la penisola italiana diventa scenario di scontri tra le potenze europee, mentre Francia, Spagna e Austria raggiungono la loro massima espansione. Alle corti italiane del Cinquecento viene riconosciuto un grande prestigio culturale, ma allo stesso tempo le loro strutture politiche sono estremamente fragili. Nel 1500 i francesi, dopo la caduta di Carlo VIII, conquistano il ducato di Milano, mentre la Spagna si assicura il controllo dell'Italia meridionale. Esplode una contesa tra la Francia e Carlo V d'Asburgo, che riunisce sul suo capo le corone di Spagna e Austria (1519-1556). Il momento più critico avviene nel 1527, quando le truppe mercenarie dei lanzichenecchi, al soldo di Carlo V, saccheggiano Roma. L'episodio desta grande scalpore e lascerà tracce anche nella letteratura di questo periodo. Infine, nel 1530 a Bologna papa Clemente VII incorona Carlo V imperatore e re d'Italia.

Negli stessi anni si colloca anche l'impresa di Cesare Borgia detto Valentino, figlio del papa spagnolo Alessandro VI (Rodrigo Borgia), che dopo avere conquistato la Romagna tenta di costruire uno Stato forte nell'Italia centrale. Il suo progetto, guardato con interesse anche da Machiavelli, fallisce in seguito alla morte del padre (1503) e alla perdita dell'appoggio da parte dello Stato della Chiesa.

Statua di Girolamo Savonarola

Firenze attraversa un periodo travagliato. Alla cacciata dei Medici segue l'instaurazione di una repubblica, la cui esperienza viene però interrotta dopo la condanna di Savonarola da parte di Alessandro VI. Nel 1512 i Medici tornano al potere, ma subiscono le ripercussioni del sacco di Roma del 1527. Viene quindi proclamata una seconda repubblica guidata da Pier Capponi, che però crolla nel 1530 sotto la pressione della Spagna e degli altri Stati italiani. Questa situazione di fragilità politica offre spunti di riflessione per letterati come Machiavelli e Guicciardini.

L'unica città a mantenere una propria autonomia è Venezia, dove si rafforzano le strutture oligarchiche. A favorirla è la sua posizione nell'Adriatico, che le consente di proseguire la sua florida attività mercantile e marinara. Guardando al Mediterraneo come area in cui esercitare la sua influenza, Venezia può quindi seguire una linea più defilata rispetto alla politica continentale. In questo, d'altra parte, è possibile leggere anche una conseguenza dell'impossibilità per la Serenissima di imporre la sua influenza sulla penisola. L'importanza di Venezia risiede inoltre nell'essere un baluardo contro l'avanzata dei turchi, che saranno sconfitti solo nel 1570 durante la battaglia di Lepanto.[4]

Una nuova concezione dell'uomo

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Il Rinascimento elabora nuovi modelli con cui guardare alla realtà. Gli sconvolgimenti politici e religiosi, e la scoperta di nuovi continenti, fanno sorgere una nuova immagine dell'uomo. Non c'è ancora, però, una visione laica e razionale dell'uomo e dell'universo. Si tratta piuttosto di una concezione "naturalistica", in base alla quale c'è un rapporto organico tra gli aspetti della vita individuale, sociale e naturale.[5]

Il senso della morte

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Il Trionfo della Morte di Giacomo Borlone de Buschis. 1484-1485, Clusone (Bergamo)

La vita concepita solo naturalisticamente porta con sé un nuovo senso della morte, che appare ora come fine naturale di una vita tutta naturale. Negli uomini di questa età c'è un'angoscia che il mondo medievale risolveva religiosamente: svalutando la vita corporea in vista dell'aldilà, i medievali svalutavano anche la morte che diveniva un passaggio a una vita migliore. Per i "moderni" la morte è invece la fine di tutto.[6]

Questo senso della morte così inteso si ritrova nelle raffigurazioni pittoriche delle danze macabre. Qui vengono rappresentate tutte le classi sociali in ordine gerarchico, ciascuno dei ballerini dà la mano a uno scheletro e tutti insieme intrecciano una danza.[7] Questo non vuol dire semplicemente che la morte eguaglia tutti gli uomini senza tener conto della loro condizione sociale, ma vuole far intendere soprattutto che la vita è sullo stesso piano della morte. La vita e la morte si danno la mano e insieme ballano perché tutto è futile e senza senso come una danza dove si procede senza una meta precisa, senza uno scopo se non quello di danzare. La vita come un ballo, una giravolta vertiginosa che finisce quando la musica tace e si spengono le luci.

Al di là della morte, la gloria immortale

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Questo mito della morte porta quindi a un'altra caratteristica di quest'età: la ricerca della gloria, con la quale tentare di assicurarsi la sopravvivenza oltre la morte.[8] Una gloria che alcuni, ancora legati allo spirito cavalleresco medievale, ricercano compiendo grandi imprese di guerra; altri invece, "uomini nuovi", fissano la loro grandezza nel marmo o nelle pareti affrescate.

La ritrattistica, fiorente in quest'età, ha appunto lo scopo di esaltare la persona e lasciarla viva nel ricordo dei posteri. Nell'opera d'arte vivranno di vita imperitura sia il ricco mecenate che ha voluto l'opera nella quale egli stesso raffigurato continuerà a vivere quasi fisicamente nei colori e nel marmo, sia, e soprattutto, l'artista che vivrà per sempre nel bello che ha realizzato. L'uno si è assicurato il ricordo dei posteri con il suo denaro, l'altro con la sua arte.[9] Ma tra tutte le forme d'arte quella che assicura una più lunga sopravvivenza è la poesia che, come dice Orazio, innalza monumenti più duraturi del bronzo.

La politica: la nuova scienza naturale

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Carlo VIII di Francia ritratto da Jehan Perréal. Musée Condé, Chantilly

Niccolò Machiavelli ha una visione tutta naturale dell'uomo nella sua concezione storicistica e naturalistica assieme della realtà umana. La storia umana è ciclica, si svolge lungo un cerchio dove tutto si ripete allo stesso modo come nella storia circolare della natura. Questa è l'originalità della nuova scienza politica, di cui Machiavelli è consapevole: tratta non del dover essere, come i politici del passato, ma dell'essere. Per questo la politica ha una sua logica naturale, cioè quella di considerare la realtà per quello che è, non quella che noi vorremmo che fosse, ed è quindi inutile cercare ottimisticamente di cambiare la condizione umana ma bisogna adattarsi realisticamente a essa per conseguire l'utile. Il difficile compito del principe, tipica figura dell'individualismo titanico rinascimentale, sarà quello di utilizzare le sue doti realisticamente naturali di volpe e leone, non semplici metafore di astuzia e forza, per piegare la volontà degli uomini che, anch'essi, come gli esseri naturali, amano la libertà e, non perché moralmente malvagi, "sono ribelli e riottosi alle leggi", non tollerano cioè restrizioni alla loro egoistica ed istintiva libertà.

La virtus del sovrano medievale, che governa per grazia di Dio e che a lui deve rispondere per la sua azione politica, era diretta anche a difendere i buoni e proteggere i deboli dalla malvagità. Nel Principe nessuna considerazione morale né religiosa dovrà inficiare la sua azione spregiudicata e forte che mette in atto la sua areté tesa a mettere ordine là dov'è il caos della politica italiana del Cinquecento.[10]

Leonardo e la ricerca della perfezione

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Autoritratto di Leonardo da Vinci, ca 1513, Torino, Biblioteca Reale

L'età rinascimentale non è comunque atea ma è pervasa da una religiosità naturale, Dio è nella natura che l'uomo vuole dominare ricorrendo al sapere o alla magia. Questo spiega l'ansia di perfezione nell'indagine della natura che ha Leonardo da Vinci (Anchiano, 15 aprile 1452 – Amboise, 2 maggio 1519), prototipo dell'uomo rinascimentale con tutte le sue contraddizioni.[11]

Leonardo vuole trovare Dio e conoscerlo nella perfezione della natura e dell'arte che la imita meravigliosamente. È affascinato dall'acqua e dall'aria, gli elementi mobilissimi e vitali dai quali cerca di carpire il segreto vitale. Per lo stesso motivo è affascinato dal perfetto meccanismo del corpo umano che studia, disseziona e disegna per scoprirne gli ingranaggi vitali. Assiste alla morte senza sofferenze di un povero vecchio centenario nell'ospedale di Firenze, ma la sua umana pietà è sopraffatta dalla voglia di capire e subito dopo farà a pezzi quel corpo per scoprire i segreti di quella dolce morte. Non è mai sazio di sapere e approfondire, gli sfugge la totale e perfetta sapienza che ormai non appartiene più solo a Dio ma può essere anche dell'uomo:

« et fu valentissimo in tirari et in edifizi d'acque, et altri ghiribizzi, né mai co l'animo suo si quietava, ma sempre con l'ingegno fabricava cose nuove'.[12] »

Ma la perfezione è irraggiungibile e la natura si ribella ai suoi tentativi. Vuole rendere eterno il suo affresco celebrante la battaglia d'Anghiari, ma lo ha appena terminato e i nuovi colori sperimentati non si asciugano, il suo lavoro gli si scioglie sotto gli occhi.

« et operò di scultura, et in disegno passò di gran lunga tutti li altri. Hebbe bellissime inventioni, ma non colorì molte cose, perché si dice mai a sé medesimo avere satisfatto...[12] »

Impiega mesi per realizzare il Cenacolo, che ritocca e cura con maniacale ossessione, ma quando è finalmente compiuto appaiono le prime crepe sull'affresco. Porterà sempre con sé fino al suo ultimo viaggio in Francia alla corte del re, il piccolo dipinto della Gioconda, che sino all'ultimo ritoccherà: un'opera anche questa mai compiuta, mai perfetta. Leonardo disperde in mille rivoli il suo genio e progetta grandi opere per il bene dell'umanità ma nello stesso tempo offre ai principi nuovi crudeli meccanismi di guerra da lui progettati.

« dalla natura per suo miracolo esser produtto dire si puote: la quale non solo della bellezza del corpo, che molto bene gli concedette, volse dotarlo, ma di molte rare virtù volse anchora farlo maestro.[12] »

L'uomo vitruviano è il simbolo di questa perfetta proporzione del corpo maschile ma rappresenta anche la solitudine dell'uomo nel cerchio del cosmo a cui aspira con tutto il suo corpo, quasi volendone toccarne gli estremi infiniti confini. L'uomo naturalisticamente finito che aspira al possesso dell'infinito. L'uomo che vuole farsi Dio. Questo è il dramma di Leonardo.[13] L'uomo microcosmo che si sovrappone al macrocosmo, il grande universo che agisce e influenza con i movimenti celesti la vita degli stessi uomini, come insegna la scienza occulta dell'astrologia.[14]

La nuova scienza: progressi e contraddizioni

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Bernardino Telesio

I fenomeni naturali, dirà Bernardino Telesio (Cosenza, 7 novembre 1509 – Cosenza, 2 ottobre 1588), vanno indagati e descritti non più con l'astrattezza dei princìpi logici aristotelici, ma iuxta propria principia (secondo i propri principi naturali). Nella scienza aristotelica, secondo Francesco Bacone, i filosofi sarebbero stati come ragni che tessevano da se stessi la propria tela di parole in cui si avvolgevano. La scienza rinascimentale si vuole quindi liberare dal passato ma va ancora alla ricerca, sia pure nell'ambito della naturalità, di una sostanza primigenia così com'era nei filosofi della natura presocratici. Così Telesio respinge la visione della natura aristotelica, ma nello stesso tempo ritiene che tutti gli esseri naturali abbiano a fondamento sostanziale un comune sostrato: la materia. «Le premesse per un vigoroso sapere scientifico erano così poste, anche se per lo più nuovo e vecchio continuano a coesistere e le nuove scoperte tecniche e scientifiche si mescolano con concezioni magiche ed astrologiche».[15] Il clima scientifico culturale dominante nel secolo è molto più impregnato di magia e astrologia che non il medioevo cristiano.

Il sapere medievale, se da una parte non era esente da errori e superstizioni,[16] dall'altra era enciclopedico, armonioso, coordinato e orientato verso Dio inteso come culmine della verità, quadro che tiene assieme i vari saperi. Ragione e fede procedevano assieme. Nel Medioevo il papato e l'impero costituivano dei punti di riferimento ben saldi, e per alcuni, come per Dante, speranza d'ordine e di legalità universale. Dopo Guglielmo di Ockham (Ockham, 1288 – Monaco di Baviera, 1347) filosofia e teologia divengono autonome e anzi si contrastano.

L'idea di costituire un impero universale cristiano è abbandonata; salta il quadro di riferimento religioso, la cornice che tiene assieme il mosaico del sapere e della vita. Si smarrisce il senso della stabilità culturale e politica. Le scienze diventano autonome e specialistiche, si perfezionano ma non comunicano più tra loro. Il sapere e il gusto del bello appartiene ora a un'"élite" di intellettuali che vivono alla corte del principe lontani da ogni contatto con la plebe rozza e ignorante alla quale, sostiene Bruno, bisogna nascondere una verità che non potrà mai capire e che è rischioso elargire.

Tutto si risolve nel singolo, nella individualità. Non a caso si diffonde nel Rinascimento la pedagogia di Comenio (Nivnice, 28 marzo 1592 – Amsterdam, 15 novembre 1670), una nuova scienza che mira a dare al bambino uno sviluppo completo della sua personalità. Ogni uomo del Rinascimento tenderà a fare della sua vita un capolavoro, un pezzo unico, dalle proporzioni gigantesche come farà Michelangelo nella scultura e pittura, Il Principe di Machiavelli nella politica, Leonardo con il suo genio incompiuto.

Classicismo e anticlassicismo

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Durante il Rinascimento i letterati sono impegnati in un lavoro di adattamento dei modelli classici alla lingua volgare e al mondo a loro contemporaneo. Il classicismo tenta quindi di creare dei codici che consentano la comunicazione a tutte le classi colte della penisola italiana, superando le differenze culturali e linguistiche. Vengono proposte norme linguistiche generali, regole sull'uso dei generi letterari, ma anche indicazioni sul comportamento da tenere. L'evoluzione non è lineare ma è ricca di creatività, come si può osservare negli scritti di intellettuali come Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione.

Tuttavia, non mancano tendenze che si oppongono al classicismo. Per indicarle si utilizzano termini come anticlassicismo o antirinascimento. I modelli del classicismo vengono rifiutati e ci si rivolge, invece, al folklore e alle sperimentazioni linguistiche, ricorrendo al dialetto e a linguaggi marginali. Questo però non implica l'ignoranza dei classici, che vengono al contrario tenuti come punti di riferimento, spesso ironici. Tra i più rappresentativi autori dell'anticlassicismo ci sono Teofilo Folengo e Ruzante.

Accanto a classicismo e anticlassicismo si può parlare anche di una cultura della contraddizione, a cui si possono ricondurre scrittori come Machiavelli, Ariosto e, fuori d'Italia, Erasmo da Rotterdam (Rotterdam, 27 ottobre 1467 – Basilea, 12 luglio 1536) e François Rabelais (Chinon, 1483 o 1494 – Parigi, 9 aprile 1553). Questi autori, in genere nati prima dello scoppio delle guerre in Italia, mantengono forti legami con lo sperimentalismo letterario della fine del Quattrocento. Attraverso l'osservazione critica viene mostrata l'ambivalenza che è insita in ogni comportamento, evidenziando come sia impossibile una visione unitaria della realtà e dell'uomo.[17]

Nascita del teatro moderno

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Nel Cinquecento nascono anche le prime commedie in volgare. Già a partire dagli anni settanta del Quattrocento, in molti centri culturali italiani erano sorte nuove forme di spettacolo. Erano eventi organizzati dalle corti, diffusi soprattutto a Ferrara e Mantova, e si tenevano in ambienti chiusi. Per lo più venivano rappresentati drammi di soggetto mitologico, ma venivano portati sulle scene anche classici (come Plauto e Terenzio) tradotti in volgare. I luoghi adibiti a queste rappresentazioni erano generalmente le sale dei palazzi signorili, dove poteva trovare posto il pubblico. Gli attori invece di muovevano davanti a una parete della sala che veniva opportunamente dipinta, in modo che si potessero distinguere le diverse scene. Più avanti, nel corso del secolo, prenderà forma il teatro come edificio architettonico, così come lo conosciamo oggi.

Al primo decennio del XVI secolo risalgono le prime commedie originali in volgare, che prendevano a modello Plauto e Terenzio. Nello sviluppo di un teatro moderno è stato molto importante il contributo dato da Ariosto e dalla corte di Ferrara. Nasceva in questo modo il teatro moderno, inteso come rappresentazione di un testo drammatico in un luogo chiuso, con uno spazio scenico in cui gli eventi avvengono in luoghi e tempi diversi rispetto al reale. Le prime opere drammatiche a essere portate sulle scene sono le commedie, per lo più ambientate in città. La violenza e l'imprevedibilità dei luoghi urbani, difficili da controllare anche per i governanti, vengono lasciate fuori dal teatro. Nelle commedie anche la città diventa un organismo ordinato, che si può serenamente contemplare.[18]

  1. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalle origini all'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 65-68.
  2. Jacob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni, 1958.
  3. Konrad Burdach, Riforma, Rinascimento, umanesimo, Firenze, Sansoni, 1935.
  4. Guido Baldi, Silvia Giusso, Mario Razetti e Giuseppe Zaccaria, Dalle origini all'età della Controriforma, in Moduli di letteratura, Torino, Paravia, 2002, pp. 68-71.
  5. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 251.
  6. Alberto Tenenti, Il senso della morte e l'amore della vita nel Rinascimento: Francia e Italia, Torino, Einaudi, 1977.
  7. Pietro Vigo e Astorre Pellegrini, Le Danze macabre in Italia, Bergamo, Istituto italiano d'arti grafiche, 1901.
  8. Philippe Ariès, L'uomo e la morte dal medioevo a oggi, Bari, Laterza, 1980.
  9. Jacob Burckhardt, Il ritratto nella pittura italiana del Rinascimento, Roma, Bulzoni, 1993.
  10. Eugenio Garin, L'umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Bari, Laterza, 1993.
  11. Dimitri Mereskovskij, Leonardo da Vinci. La vita del più grande genio di tutti i tempi, Firenze, Giunti, 2005, pp. 34ss.
  12. 12,0 12,1 12,2 Anonimo Gaddiano, 1542
  13. Milena Magnano, Leonardo, Milano, Mondadori Arte, 2007.
  14. Annalisa Perissa Torrini (a cura di), Leonardo. L'Uomo vitruviano fra arte e scienza, Marsilio, 2009.
  15. Ugo, Annamaria Perone, Giovanni Ferretti e Claudio Ciancio, Storia del pensiero filosofico, Torino, SEI, 1975, p. 13.
  16. Giovanni Reale e Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, vol. 1, Brescia, La Scuola, 1983, pp. 270-273.
  17. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 257.
  18. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 261-262.