Storia della letteratura italiana/Giordano Bruno
Filosofo e precursore della rivoluzione scientifica, Giordano Bruno è autore di una produzione letteraria molto variegata, che comprende testi in latino e in volgare, trattati filosofici e scritti più strettamente tecnici. Molte sono le sue fonti di ispirazione, dal neoplatonismo rinascimentale alla dottrina di Copernico, di cui, prima di Galileo, comprende la portata rivoluzionaria. Il suo è un pensiero antisistematico, segnato da una forte componente panteistica, che vede il mondo come un tutto animato, pervaso da Dio. Il suo stile risente della situazione di instabilità che ha conosciuto nella sua vita. Lontano da un'idea di letteratura aristocratica e dagli schemi rinascimentali, Bruno scrive con una prosa carica di forza, in cui mescola toscano, napoletano e latinismi, e che prelude ai risultati della letteratura barocca a lui successiva.[1]
La vita
[modifica | modifica sorgente]La formazione e il periodo domenicano
[modifica | modifica sorgente]
Giordano Bruno nasce a Nola nel 1548 ed è battezzato con il nome di Filippo. Compie gli studi superiori, dal 1562 al 1565, nell'Università di Napoli, per apprendere lettere, logica e dialettica,[2] e lezioni private di logica. Quindicenne,[2] rinuncia al nome di Filippo come imposto dalla regola domenicana e assume quello di Giordano. La scelta di indossare l'abito domenicano si può forse spiegare non per l'interesse alla vita religiosa o agli studi teologici, ma per potersi dedicare ai suoi studi di filosofia, godendo di una condizione di privilegiata sicurezza.
Nel 1576 la sua indipendenza di pensiero si manifesta inequivocabilmente: Bruno, discutendo di arianesimo con un confratello, sostiene che le opinioni di Ario erano meno dannose di quel che si riteneva.[3] Denunciato e messo sotto processo, lascia Napoli[4] e raggiunge Roma nel 1576, ospite del convento domenicano di Santa Maria sopra Minerva. Sono anni di gravi disordini. Bruno è accusato di aver ucciso e gettato nel fiume un frate: scrive il bibliotecario Guillaume Cotin che Bruno fugge da Roma per «un omicidio commesso da un suo frère, per il quale egli è incolpato e in pericolo di vita, sia per le calunnie dei suoi inquisitori che, ignoranti come sono, non concepiscono la sua filosofia e lo accusano di eresia». Oltre all'accusa di omicidio, Bruno è informato che nel convento napoletano avevano trovato tra i suoi libri opere di san Giovanni Crisostomo e di san Gerolamo annotate da Erasmo e che si stava istruendo contro di lui un processo d'eresia.
Le peregrinazioni in Europa
[modifica | modifica sorgente]Abbandona allora l'abito domenicano, riassume il nome di Filippo e fugge a Genova. Da qui, va poi a Noli (allora repubblica indipendente), dove per alcuni mesi insegna grammatica ai bambini e cosmografia agli adulti. Nel 1577 è a Savona, poi a Torino e infine a Venezia, dove fa stampare il suo primo scritto, andato perduto, De' segni de' tempi. Un'epidemia di peste lo induce a trasferirsi a Padova dove, dietro consiglio di alcuni domenicani, riprende il saio. Va quindi a Brescia, dove si ferma nel convento domenicano. Da Bergamo, nel 1578, decide di andare in Francia: passa per Milano e Torino, ed entra in Savoia; nel 1579 è a Ginevra, città dove è presente una numerosa colonia di italiani riformati. Bruno depone nuovamente il saio, aderisce al calvinismo e trova lavoro come correttore di bozze, grazie all'interessamento del marchese napoletano Galeazzo Caracciolo il quale, transfuga dall'Italia, nel 1552 vi aveva fondato la comunità evangelica italiana. Si iscrive all'università come «Filippo Bruno nolano, professore di teologia sacra».
Qui accusa il professore di filosofia Antoine de la Faye di essere un cattivo insegnante e definisce «pedagoghi» i pastori calvinisti. È probabile che Bruno volesse farsi notare, dimostrare l'eccellenza della sua preparazione filosofica e delle sue capacità didattiche per ottenere un incarico d'insegnante, costante ambizione di tutta la sua vita. Anche la sua adesione al calvinismo è mirata a questo scopo. Scomunicato e processato per diffamazione, è costretto a ritrattare; lascia allora Ginevra e si trasferisce brevemente a Lione per passare a Tolosa, città cattolica, sede di un'importante università, dove per quasi due anni occupa il posto di lettore, insegnandovi il De anima di Aristotele e componendo un trattato di arte della memoria, rimasto inedito e andato perduto, la Clavis magna. Nel 1581, a causa della guerra di religione fra cattolici e ugonotti, lascia Tolosa per Parigi, quindi nel 1583 si sposta in Inghilterra. A Londra pubblica l'Ars reminiscendi, il Sigillus sigillorum e l'Explicatio triginta sigillorum. Nell'estate del 1583 Bruno tiene tre lezioni sulle teorie copernicane all'università di Oxford. Ritornato a Londra, nel 1584 vi pubblica La cena de le ceneri, il De la causa, principio et uno, il De l'infinito, universo e mondi e lo Spaccio de la bestia trionfante, mentre l'anno successivo escono De gli eroici furori e la Cabala del cavallo pegaseo.
Nel 1585 torna in Francia e l'anno successivo pubblica la Figuratio Aristotelici physici auditus, un'esposizione della fisica aristotelica. Nel 1586 fa stampare col nome del discepolo Jean Hennequin l'opuscolo antiaristotelico Centum et viginti articuli de natura et mundo adversus peripateticos, partecipando alla successiva pubblica disputa nel Collège de Cambrai, ribadendo le sue critiche alla filosofia aristotelica. Le reazioni negative provocate dal suo intervento contro la filosofia aristotelica, allora ancora in grande auge alla Sorbona, unitamente alla crisi politica e religiosa in corso in Francia e alla mancanza di appoggi a corte, lo inducono a lasciare il paese.
Raggiunta la Germania, nel 1586 s'immatricola nell'università di Wittenberg, dove insegna per due anni. Nel 1587 pubblica il De lampade combinatoria lulliana, un commento dell'Ars magna di Raimondo Lullo e il De progressu et lampade venatoria logicorum, commento ai Topica di Aristotele; altri commenti a opere aristoteliche sono i suoi Libri physicorum Aristotelis explanati, pubblicati nel 1591. Un suo corso privato sulla Retorica sarà pubblicato postumo nel 1612 col titolo di Artificium perorandi; anche le Animadversiones circa lampadem lullianam e la Lampas triginta statuarum verranno pubblicate soltanto nel 1891. Quando il duca Cristiano I decide di rovesciare l'indirizzo degli insegnamenti universitari che privilegiavano le dottrine di Pietro Ramo a svantaggio delle classiche teorie aristoteliche, Bruno nel 1588 lascia Wittenberg.
Va a Praga, dove rimane sei mesi. Pubblica il De lampade combinatoria lulliana, De lulliano specierum scrutinio e gli Articuli centum et sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos. Nel 1589 si registra nella Accademia Julia di Helmstedt e a luglio, per la morte del fondatore dell'Accademia, Julius von Braunschweig, legge l'Oratio consolatoria, ove presenta se stesso come forestiero ed esule. Poche settimane dopo viene scomunicato dal sovrintendente della Chiesa luterana della città, il teologo luterano Heinrich Boethius,[5] per motivi non noti.
Benché scomunicato, rimane ancora a Helmstedt e compone diverse opere sulla magia. Nel 1590 raggiunge Francoforte, quindi parte per la Svizzera, dove insegna filosofia a Zurigo: le sue lezioni, raccolte con il titolo di Summa terminorum metaphisicorum, saranno in parte pubblicate a Zurigo nel 1595 e poi a Marburg nel 1609, insieme con la Praxis descensus seu applicatio entis. Ritornato a Francoforte, pubblica il De monade, numero et figura liber consequens quinque, il De imaginum, signorum et idearum compositione e il De innumerabilibus, immenso et infigurabili, seu De universo et mundis libri octo.
Il processo e la condanna
[modifica | modifica sorgente]
Nel 1592 si stabilisce in casa del patrizio veneziano Giovanni Francesco Mocenigo, interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. A maggio informa Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere: questi pensa che Bruno cerchi un pretesto per abbandonare le lezioni e lo fa sequestrare in casa dai suoi servitori; il 23 maggio presenta all'Inquisizione una denuncia scritta, accusandolo di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine.
Bruno si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace e mente su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. Dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa. L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio.
Nel 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche. La sua disponibilità all'abiura, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta. Alla fine dell'anno, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante contro il papa, il filosofo rifiuta ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire. L'8 febbraio 1600 è costretto ad ascoltare inginocchiato la sentenza di condanna a morte per rogo; si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla»). Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova – serrata da una morsa perché non possa parlare – viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri sono gettate nel Tevere.
Il Candelaio
[modifica | modifica sorgente]
Nel 1582 Bruno pubblica il Candelaio, una commedia in cinque atti in cui alla complessità del linguaggio, un insieme di latino, di toscano e di napoletano, corrisponde l'eccentricità della trama, fondata su tre storie parallele. Il candelaio Bonifacio, pur sposato con la bella Carubina, corteggia la cortigiana Vittoria, l'alchimista Bartolomeo si ostina a cercare inutilmente di trasformare i metalli in oro, il grammatico Manfurio si esprime in un linguaggio incomprensibile e il pittore Gioan Bernardo, insieme con una corte di servi e malfattori, si fa beffe di tutti e conquista Carubina.
In questo classico della letteratura italiana, appare un mondo assurdo, violento e corrotto, rappresentato con amara comicità, dove gli eventi si succedono in una trasformazione continua: «il tempo tutto toglie e tutto dà; ogni cosa si muta, nulla s'annichila; è un solo che non può mutarsi, un solo è eterno, e può perseverare eternamente uno, simile e medesimo. Con questa filosofia l'animo mi si aggrandisce, e me si magnifica l'intelletto» e nulla è «di sicuro, ma assai di negocio, difetto a bastanza, poco di bello e nulla di buono».
Nel titolo della commedia Bruno definisce se stesso un accademico di nessuna accademia, ilare nella tristezza e triste nell'ilarità e si fa una sorta di autoritratto:
La commedia è ambientata nella Napoli-metropoli del secondo Cinquecento, di cui abbiamo, come rileva Pasquale Sabbatino, il ritratto cartografico disegnato da Du Pérac e stampato da Antoine Lafréry a Roma nel 1566 e la descrizione di Giovanni Tarcagnota, Del sito, et lodi della città di Napoli, apparsa a Napoli, nello stesso anno, presso Scotto.
La Cena de le Ceneri
[modifica | modifica sorgente]Per leggere su Wikisource il testo originale, vedi Cena de le ceneri
|
La Cena de le Ceneri è divisa in cinque dialoghi ed è la sua seconda opera in volgare, dedicata all'ambasciatore francese a Londra Michel de Castelnau. Bruno immagina che il nobile sir Fulke Greville, il giorno delle Ceneri, inviti a cena Bruno, Giovanni Florio, segretario dell'ambasciatore francese, il medico Matthew Gwinne, il cavaliere Brown e due dottori luterani di Oxford.
Bruno vi difende la teoria di Niccolò Copernico contro gli attacchi dei conservatori e contro chi, come Andrea Osiander, considera solo un'ipotesi ingegnosa quella del Copernico,
I vani principi sono la finitezza dell'universo e il credere che in esso esista un centro dove ora dovrebbe trovarsi immobile il sole come prima vi si immaginava fissa la terra. Seguendo la Docta ignorantia del Cusano, Bruno sostiene l'infinità dell'universo, in quanto effetto di una causa infinita, e dunque l'insussistenza di un centro. Bruno è naturalmente consapevole che le Scritture sostengono tutt'altro – finitezza dell'universo e centralità della terra – ma, risponde, «se gli dei si fossero degnati di insegnarci la teorica delle cose della natura, come ne han fatto favore di proporci la pratica di cose morali, io più tosto mi accosterei alla fede de le loro rivelazioni, che muovermi punto della certezza de mie raggioni e proprii sentimenti». Ma la Scrittura tratta le norme morali, non è già una filosofia della natura, non si occupa delle speculazioni e delle dimostrazioni delle cose naturali: la Scrittura «parla al volgo di maniera che, secondo il suo modo di intendere e di parlare, venghi a capire quel ch'è principale».
Come occorre distinguere tra dottrine morali e filosofia naturale, così occorre distinguere tra teologi e filosofi: questi sanno che non esistono premi e punizioni in una vita futura, perché le anime, secondo Bruno, si reincarnano in corpi sempre diversi, mentre i teologi hanno imposto punizioni ed elargito premi allo scopo di far rispettare le buone norme del comportamento sociale.
Lo Spaccio de la bestia trionfante
[modifica | modifica sorgente]Per leggere su Wikisource il testo originale, vedi Spaccio de la bestia trionfante
|

Insieme con i successivi De gli eroici furori, lo Spaccio de la bestia trionfante è costituito da tre dialoghi di argomento morale. Le bestie trionfanti sono i segni delle costellazioni celesti, rappresentate da animali: occorre «spacciarle», cacciarle dal cielo in quanto rappresentanti vecchi vizi che è tempo di sostituire con moderne virtù, occorre una nuova serie di valori cui l'uomo moderno possa e debba fare riferimento.
Occorre tornare alla sincerità, semplicità e alla verità, ribaltando le concezioni morali che si sono ormai imposte nel mondo, secondo le quali le opere e gli affetti eroici sono privi di valore, dove credere senza riflettere è sapienza, dove le imposture umane sono fatte passare per consigli divini, la perversione della legge naturale è considerata pietà religiosa, studiare è follia, l'onore è posto nelle ricchezze, la dignità nell'eleganza, la prudenza nella malizia, l'accortezza nel tradimento, il saper vivere nella finzione, la giustizia nella tirannia, il giudizio nella violenza.
Il cristianesimo è responsabile di questa crisi: già Paolo operò il rovesciamento dei valori naturali e ora la Riforma ha chiuso il ciclo: la ruota della storia, della vicissitudine del mondo, essendo giunta al suo punto più basso, può operare un nuovo e positivo rovesciamento dei valori.
Nella nuova gerarchia di valori il primo posto spetta alla verità, cui segue la prudenza, la caratteristica del saggio che, conosciuta la verità, ne trae le conseguenze con un comportamento adeguato. Al terzo posto Bruno inserisce la sofia, la ricerca della verità e dopo viene la legge, che disciplina il comportamento civile dell'uomo. Vengono poi la fortezza, la forza dell'animo, virtù interiore cui seguono virtù indirizzate agli altri, la filantropia e la magnanimità. È questa evidentemente un'etica che richiama i valori tradizionali dell'Umanesimo, cui Bruno non ha mai dato molta importanza; ma questo schema rigido è in realtà la premessa per le indicazioni di comportamento che Bruno prospetta nell'opera di poco successiva, De gli eroici furori.
Gli Eroici furori
[modifica | modifica sorgente]Nei dieci dialoghi che compongono l'opera De gli eroici furori, pubblicati a Londra nel 1585, Bruno individua tre specie di passioni umane: quella per la vita speculativa, volta alla conoscenza, quella per la vita pratica e attiva, e quella per la vita oziosa. Le due ultime tendenze sono espressione di un furore di poco valore, un «furore basso»; il desiderio di una vita volta alla contemplazione è l'espressione di un «furore eroico», con il quale l'anima, «rapita sopra l'orizzonte de gli affetti naturali [...] vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto».
Non si giunge a tale effetto con la preghiera, con atteggiamenti devozionali, con «aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani» ma, al contrario, con il «venir al più intimo di sé, considerando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé più ch'egli medesmo esser non si possa, come quello che è anima delle anime, vita delle vite, essenza de le essenze». Una ricerca che Bruno assimila a una caccia, non la comune caccia ove il cacciatore ricerca e cattura le prede, ma quella in cui il cacciatore diviene esso stesso preda, come Atteone che, avendo visto la bellezza di Diana, si è fatto preda dei cani, i «pensieri de cose divine», che lo divorano
La conoscenza della natura è lo scopo della scienza e della nostra vita stessa, che da questa scelta viene trasformata in un «furore eroico» che ci assimila alla perenne e tormentata «vicissitudine» in cui si esprime il principio che anima tutto l'universo.
Note
[modifica | modifica sorgente]- ↑ Giuseppe Petronio, L'attività letteraria in Italia, Palermo, Palumbo, 1969, p. 375.
- ↑ 2,0 2,1 Luigi Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Roma, Salerno, 1993, p. 156.
- ↑ Luigi Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Roma, Salerno, 1993, p. 171.
- ↑ Luigi Firpo, Il processo a Giordano Bruno, Roma, Salerno, 1993, p. 191.
- ↑ Anacleto Verrecchia, Giordano Bruno: la falena dello spirito, Roma, Donzelli, 2002, p. 208.