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Storia della letteratura italiana/Paolo Sarpi

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Teologo, astronomo, matematico, fisico, anatomista, letterato e polemista, Paolo Sarpi (Venezia 14 agosto 1552 - Venezia 15 gennaio 1623) fu tanto versato in molteplici campi dello scibile umano da essere definito da Girolamo Fabrici d'Acquapendente «Oracolo del secolo»[1] Autore della celebre Istoria del Concilio tridentino, subito messa all'Indice, fu fermo oppositore della Chiesa cattolica, difendendo le prerogative della Repubblica veneziana, colpita dall'interdetto fulminato da Paolo V. Rifiutò di presentarsi di fronte all'Inquisizione romana che intendeva processarlo e subì un grave attentato che si sospettò essere stato organizzato dalla Curia romana, agnosco stilum Curiae romanae, che negò tuttavia ogni responsabilità.

Paolo Sarpi (1552-1623), incisione

Pietro, questo il nome secolare del Sarpi, nacque a Venezia da Francesco di Pietro Sarpi, di famiglia di lontane origini friulane e mercante a Venezia eppure, scrive il biografo Micanzio, per la sua indole violenta «più dedito all'armi ch'alla mercatura»;[2] la madre, veneziana, «d'aspetto umile e mite»,[3] si chiamava Isabella Morelli. Rimasta vedova, fu accolta con Pietro e l'altra figlia Elisabetta nella casa del fratello Ambrosio Morelli, prete della collegiata di Sant'Ermagora.

Con lo zio, «uomo d'antica severità di costumi, molto erudito nelle lettere d'umanità [...] addottrinando nella grammatica e retorica molti fanciulli della nobiltà»,[3] fece i primi studi, imparando presto e con facilità. A dodici anni, nel 1564, anno dell'istituzione, dopo la chiusura del Concilio, dell'Indice dei libri proibiti - tra i tanti, vi finirono il Talmud e il Corano, il De Monarchia di Dante e le opere di Rabelais, Folengo, Telesio, Machiavelli ed Erasmo - passò alla scuola del padre Giovanni Maria Cappella, teologo cremonese dell'Ordine dei Servi di Maria, seguace delle dottrine di Giovanni Duns Scoto, il quale gli insegnò logica, filosofia e teologia, finché il ragazzo fece così rapidi progressi che «il maestro istesso confessava non aver più che insegnargli».[4] Con altri maestri veneziani apprese la matematica, la lingua greca e l'ebraica.

«Con la familiarità e co' studii entrò Pietro anco in desiderio di ricevere l'abito de' servi, o perché gli paresse vita conforme alla sua inclinazione ritirata e contemplativa, o perché vi fosse allettato dal suo maestro»,[5] malgrado l'opposizione della madre e dello zio Ambrogio che lo voleva prete nella sua chiesa, il 24 novembre 1566 entrò nel monastero veneziano dei servi di Maria. Qui continuò a studiare con il Capella, rimanendo alieno dalle distrazioni proprie della sua età finché nel 1567, in occasione della riunione a Mantova del capitolo generale dell'Ordine servita, fu mandato in quella città «ad onorar il congresso e far vedere che gl'ordini non sono oziosi, ma spendono il tempo in sante e lodevoli operazioni», difendendo «318 delle più difficili proposizioni della sacra teologia e della filosofia naturale. Il qual carico con che felicità lo sostenesse e con che giubilo e stupore di quella venerabile corona, si può dall'evento argomentare».[6]

Convento e chiesa di San Barnaba a Mantova

Essersi così distinto a soli quindici anni gli valse la nomina a teologo da parte del duca di Mantova Guglielmo Gonzaga, mentre il vescovo Gregorio Boldrino gli affidò la cattedra di «teologia positiva di casi di coscienza e delli sacri canoni».[7] Stabilito nel convento di San Barnaba, perfezionò la conoscenza della lingua ebraica e iniziò ad applicarsi agli studi storici.

Fu certo a motivo di quest'interesse che a Mantova frequentò Camillo Olivo, già segretario di Ercole Gonzaga, cardinale e legato pontificio nelle ultime sessioni del concilio di Trento, la cui caduta in disgrazia presso Pio IV coinvolse anche l'Olivo che fu dagli «inquisitori molto travagliato, col tenerlo longamente in carcere dopo la morte del cardinale suo signore».[8]

Erano gli anni in cui in Italia continuava con vigore la repressione inquisitoriale di Pio V: Pietro Carnesecchi venne decapitato nel 1567, nel 1569 gli ebrei furono espulsi dallo Stato pontificio - tranne che da Roma e da Ancona - e nel 1570 fu decapitato l'umanista Aonio Paleario; il papa scomunicò Elisabetta d'Inghilterra nel 1570, organizzò la Lega contro i turchi nel 1571, ottenendo la vittoria navale di Lepanto e a Parigi, la notte del 23 agosto 1572 migliaia di ugonotti furono massacrati: in quest'anno Sarpi fece la sua professione, entrando ufficialmente nell'Ordine servita. Anche di lui l'Inquisizione si occupò per la prima volta nel 1573, a seguito della denuncia di un confratello, un tale Claudio, che lo accusò di sostenere che dal primo capitolo della Genesi non si può ricavare l'articolo di fede della Trinità: ma, poiché effettivamente di Trinità divina non vi è traccia nel Vecchio Testamento, l'Inquisizione gli diede ragione, archiviando il caso.

Dopo aver ricevuto nel convento mantovano il titolo di baccelliere, nel 1574 fu invitato a Milano da Carlo Borromeo il quale, dopo aver ottenuto dalle autorità spagnole, contro la volontà del Senato, il riconoscimento del tribunale e della polizia diocesana, aveva avviato un processo di riforma del clero. L'anno successivo ottenne di essere trasferito nel convento dell'Ordine servita di Venezia, dove fu incaricato dell'insegnamento della filosofia e continuò i suoi studi scientifici. Nella grande epidemia di peste, che imperversò a Venezia dal 1575 al 1577, fra' Paolo rimase immune dal contagio, ma perdette la madre.

Nel 1578, dopo essersi addottorato in teologia nell'Università di Padova, venne nominato reggente del convento di Venezia e, l'anno dopo, priore della provincia veneta. Quello stesso anno, durante il Capitolo generale tenutosi a Parma, nel quale venne rieletto priore generale Giacomo Tavanti, tenne una dissertazione di fronte ai cardinali protettori dell'Ordine, Alessandro Farnese e Giulio Antonio Santori. Sarpi fu uno dei tre «saggi», insieme con Cirillo Franco e Alessandro Giani, incaricati di preparare una riforma della Regola.[9]

Nel giugno del 1585 si tenne a Bologna il nuovo Capitolo dell'Ordine servita e Sarpi viene eletto procuratore generale, «la suprema dignità di quell'ordine dopo il generale [...] il carico porta seco di difender in Roma tutte le liti e controversie che vengono promosse in tutta la religione»[10] Dovette pertanto trasferirsi a Roma dove conobbe e «prese strettissima familiarità col padre Bellarmino [...] poi cardinale, e durò l'amicizia sin al fine della vita», grazie al quale forse poté prendere visione di diversa documentazione relativa alle istruzioni date ai legati pontifici durante il Concilio di Trento.[11]

Scaduto il periodo di carica a procuratore generale dell'Ordine servita, Sarpi ritornò a Venezia nel 1589, frequentandovi i circoli intellettuali che si riunivano nella bottega di Bernardo Sechini e nella casa del nobile veneziano Andrea Morosini, dove conobbe anche Giordano Bruno, mentre a Padova frequentava la casa di Gian Vincenzo Pinelli, «il ricetto delle muse e l'academia di tutte le virtù in quei tempi»,[12] dove poté incontrare Galileo e forse ancora il Bruno, il quale s'intrattenne a Padova più di tre mesi, poco prima di essere arrestato a Venezia nel maggio del 1592.

Nel 1594 si dovette scegliere il nuovo generale dell'Ordine servita, e fra i due principali candidati, Lelio Baglioni e Gabriele Dardano, Sarpi si espresse a favore del primo. Il rancore spinse il Dardano a denunciare Paolo Sarpi al Sant'Uffizio, accusandolo di negare efficacia allo Spirito Santo, di avere rapporti sospetti con ebrei veneziani e allegando una lettera che fra' Paolo gli scrisse anni prima da Roma, nella quale erano contenute «alcune parole in discredito della corte, come che in quella si venisse alle dignità con male arti, e di tenerne esso poco conto, anzi abominarla».[13]

Sarpi, senza nemmeno essere chiamato a Roma per discolparsi, fu subito prosciolto da ogni accusa ma il cardinale di Santa Severina, Giulio Antonio Santori, protettore dell'Ordine e capo del Sant'Uffizio, «mostrò però implacabile indignazione al padre» utilizzando tutta la sua autorità per escludere gli amici del frate «dalli gradi et onori [...] con maniere così strane e fini così bassi, ch'io non ardisco poner i casi che mi sono stati dati in nota, perché troppo gran scandalo arrecherebbono al mondo».[14]

Sarpi continuò i suoi studi mentre non cessavano le rivalità nell'Ordine servita, del quale venne eletto priore, il 1º giugno 1597, Angelo Montorsoli, che morì tre anni dopo, succedendogli così, nel 1601, Gabriele Dardano, accanito avversario del Sarpi. Questi, deciso a uscire dall'Ordine per sottrarsi all'inimicizia dalla quale si sentiva circondato, cercò invano di ottenere un vescovato, prima a Caorle e poi a Nona, in Dalmazia, che però gli vennero rifiutati a causa delle negative informazioni che di lui il Dardano e Ludovico Gagliardi, preposito della casa veneziana dei gesuiti, diedero al papa.[15] Non solo: nel Capitolo, il Dardano accusò padre Paolo di portare «una berretta in capo contra una forma che sino sotto Gregorio XIV disse esser proscritta; che portasse le pianelle incavate alla francese, allegando falsamente esserci decreto contrario, con privazioni divote; che nel fine della messa non recitasse lo Salve Regina».[16] Ma Sarpi fu assolto anche da queste accuse.

La Repubblica veneziana, stretta a nord dall'Impero, in Italia dalla prevalenza spagnola e papale, in Oriente dalla potenza turca, era ormai avviata a quel lungo declino politico ed economico che avrà la sua sanzione alla fine del Settecento. Alla prudente politica dei vecchi patrizi, rassegnati alla compromissione con l'Impero e il papato, si sostituì quella degli innovatori, i cosiddetti «Giovani», decisi a sottrarre la Serenissima all'invadenza ecclesiastica nell'interno e a rilanciarne le fortune commerciali nell'Adriatico, compromesse dal controllo dei porti esercitato dallo Stato pontificio e dalle azioni degli Uscocchi, i pirati cristiani croati appoggiati dall'Impero.

Il 10 gennaio 1604 il Senato veneziano proibì la fondazione di ospedali gestiti da ecclesiastici, di monasteri, chiese e altri luoghi di culto senza autorizzazione preventiva della Signoria; il 26 marzo 1605 un'altra legge proibiva l'alienazione di beni immobili dai laici agli ecclesiastici, già proprietari, pur essendo solo un centesimo della popolazione, di quasi la metà dei beni fondiari della Repubblica, e limitava le competenze del foro ecclesiastico, prevedendo il deferimento ai tribunali civili degli ecclesiastici responsabili di reati di particolare gravità. Avvenne che il canonico vicentino Scipione Saraceno, colpevole di molestie a una nobile parente, e l'aristocratico abate di Nervesa, Marcantonio Brandolini, reo di omicidi e di stupri, fossero incarcerati. Il 10 dicembre 1605 il papa Paolo V emanò due brevi richiedenti l'abrogazione delle due leggi e la consegna al nunzio pontificio dei due ecclesiastici, affinché secondo il diritto canonico fossero giudicati da un tribunale ecclesiastico.

Il nuovo doge Leonardo Donà fece esaminare il 14 gennaio 1606 i due brevi da giuristi e teologi, fra i quali il Sarpi, affinché trovassero modo di controbattere alle richieste della Santa Sede. Il 28 gennaio venne nominato teologo canonista proprio il Sarpi e lo stesso giorno il suo scritto: Consiglio in difesa di due ordinazioni della Serenissima Repubblica, venne inviato al papa. Il Sarpi difese le ragioni della Repubblica con numerosi scritti: sono di questi mesi la Scrittura sopra la forza e validità delle scomuniche, il Consiglio sul giudicar le colpe di persone ecclesiastiche, la Scrittura intorno all'appellazione al concilio, la Scrittura sull'alienazione dei beni laici agli ecclesiastici e altri ancora, poi raccolti nella sua successiva Istoria dell'interdetto. In quell'opera è contenuta anche la traduzione in italiano, fatta dal Sarpi stesso, del trattato di Jean Gerson sulla validità della scomunica, che fu attaccato dal cardinale Roberto Bellarmino|Bellarmino, al quale fra' Paolo rispose allora con l'Apologia per le opposizioni del cardinale Bellarmino.

Il 6 maggio, dopo che il 17 aprile Paolo V aveva scomunicato il Consiglio veneziano e fulminato con l'interdetto lo Stato veneto, Venezia pubblicò il Protesto del monitorio del pontefice, scritto ancora da Sarpi, nel quale il breve papale Superioribus mensibus è definito «nullo e di nessun valore», mentre impedì la pubblicazione della bolla pontificia. Obbedendo alle disposizioni del papa, il 9 maggio i gesuiti rifiutarono di celebrare le messe a Venezia e la Repubblica reagì espellendoli insieme con cappuccini e teatini.[17] A Roma si sperava che l'interdetto provocasse una sollevazione contro i governanti veneziani ma «li gesuiti scacciati, li cappuccini e teatini licenziati, nissun altro ordine partì, li divini uffizi erano celebrati secondo il consueto [...] il senato era unitissimo nelle deliberazioni e le città e populi si conservarono quietissimi nell'obbedienza»[18]

Venezia era alleata, in funzione anti-spagnola, con la Francia, ed era in buoni rapporti con l'Inghilterra e con la Turchia. Fingendosi veneziani, il 10 agosto soldati spagnoli, per provocare la rottura delle relazioni turco-veneziane, sbarcarono a Durazzo, saccheggiandola, ma la provocazione fu facilmente scoperta e i turchi offrirono a Venezia l'appoggio della loro flotta contro il papa e la Spagna. Il 30 ottobre l'Inquisizione intimò a Sarpi di presentarsi a Roma per giustificare le molte cose «temerarie, calunniose, scandalose, sediziose, scismatiche, erronee ed eretiche» contenute nei suoi scritti ma il frate naturalmente si rifiutò. Invano il papa - che il 5 gennaio 1607 aveva scomunicato Sarpi e Micanzio - si dichiarava favorevole a portare guerra a Venezia: la sua unica alleata, la Spagna, minacciata da Francia, Inghilterra e Turchia, non poteva sostenerla in quest'impresa e si giunse così alle trattative diplomatiche, favorite dalla mediazione del cardinale francese François de Joyeuse. Il 21 aprile Venezia rilasciò i due ecclesiastici incarcerati e ritirò il suo Protesto al papa in cambio della revoca dell'interdetto, mentre le leggi promulgate dal Senato veneziano restarono in vigore e i gesuiti non poterono rientrare nella Repubblica.

In quel tempo Sarpi ricevette la visita dell'ex luterano ed erudito tedesco Kaspar Schoppe, molto intimo dei segreti affari della Curia romana, il quale gli confidò che «il papa, come gran prencipe, ha longhe le mani, e che per tenersi da lui gravemente offeso non poteva succedergli se non male, e che se sino a quell'ora avesse voluto farlo ammazzare, non gli mancavano mezzi. Ma che il pensiero del papa era averlo vivo nelle mani e farlo levare sin a Venezia e condurlo a Roma, offerendosi egli, quando volesse, di trattare la sua riconciliazione, e con qual onore avesse saputo desiderare; asserendo d'aver in carico anco molte trattazioni co' prencipi alemanni protestanti e la loro conversione».[19]

Lo Schoppe, ambiguo provocatore, intendeva convincere il frate a mettersi nelle mani dell'Inquisizione come miglior partito che il Sarpi potesse prendere,[20] ma i disegni omicidi erano reali: il 5 ottobre 1607, «circa le 23 ore, ritornando il padre al suo convento di San Marco a Santa Fosca, nel calare la parte del ponte verso le fondamenta, fu assaltato da cinque assassini, parte facendo scorta e parte l'essecuzione, e restò l'innocente padre ferito di tre stilettate, due nel collo et una nella faccia, ch'entrava all'orecchia destra et usciva per apunto a quella vallicella ch'è tra il naso e la destra guancia, non avendo potuto l'assassino cavar fuori lo stillo per aver passato l'osso, il quale restò piantato e molto storto».[21]

I sicari, fuggendo, trovarono rifugio nella casa del nunzio pontificio e la sera s'imbarcarono per Ravenna, da dove proseguirono per Ancona e di qui raggiunsero Roma. Il pugnale non aveva tuttavia leso organi vitali e il Sarpi riuscì a sopravvivere; il noto chirurgo Girolamo Fabrici d'Acquapendente, che l'operò, disse di non aver mai medicato una ferita più strana, rispondendo allora Sarpi con la famosa espressione: «eppure il mondo vuole che sia data stilo Romanae Curiae».[22] Le conseguenze furono la rottura della mascella e vistose cicatrici nel volto. Il 27 ottobre 1607 il Senato, dichiarando il Sarpi «persona di prestante dottrina, di gran valore e virtù», gli concede una casa in piazza San Marco ove possa risiedere con il Micanzio e altri frati, e una sovvenzione affinché possa acquistare una barca e provvedere alla sua sicurezza personale. Sarpi rifiutò la casa ma si servì da allora di una barca che gli evitasse i pericolosi tragitti a piedi per le calli veneziane.

Poco più di un anno dopo, nel gennaio del 1609, fu sventato un secondo attentato, ordito, sembra su mandato del cardinale Lanfranco Margotti, da due frati serviti, Giovanni Francesco da Perugia e Antonio da Viterbo, i quali, fatta una copia della chiave della camera di Sarpi, «volevano secretamente introdurre nel monasterio due o più sicarii e la notte trucidare l'innocente padre».[23]

Sarpi inizia a corrispondere con personalità soprattutto di fede calvinista o gallicana: fra questi ultimi, Jacques Leschassier e Jacques Gillot, che pubblicò nel 1607 gli Actes du concile de Trente en l'an 1562 e 1563, dimostrando le pressioni papali sui vescovi riuniti a concilio, e fra gli altri l'italiano Francesco Castrino, i francesi Jean Hotman de Villiers, Isaac Casaubon, Jacques-Auguste de Thou, Philippe Duplessis-Mornay, i tedeschi Achatius e Christoph von Dohna. Attraverso il dialogo diretto con gli intellettuali europei, Sarpi acquisì «quella straordinaria ampiezza di orizzonti e di interessi, quella solida conoscenza dei problemi dello stato moderno», che gli permise di «arricchire la sua cultura storica, giuridica e scientifica» e lo condusse «a incidere sulla sua posizione religiosa, ad approfondirne la crisi, risolvendola poi con l'accoglimento di nuove prospettive e di nuove idealità; spalancandogli un mondo nuovo, che gli faceva sentire più soffocante, più viziata, la vita italiana».[24]

Incontrò a Venezia nel 1607 l'inglese William Bedell, che riferì di lui e del Micanzio come essi fossero «completamente dalla nostra parte nella sostanza della religione» e, nel 1608, Cristoph von Dohna, inviato dal principe tedesco Cristiano I di Anhalt-Bernburg, e il pastore ginevrino Giovanni Diodati, per valutare la possibilità di introdurre a Venezia la Riforma. La traduzione in lingua italiana, fatta da quest'ultimo, del Nuovo Testamento, viene diffusa a Venezia proprio in questo periodo.

Altre polemiche suscitano, nel marzo del 1609, le prediche quaresimali di Fulgenzio Micanzio che vengono interpretate a Roma come un attacco alla fede cattolica. Sarpi è anche preoccupato per la tregua stipulata tra la Spagna e i Paesi Bassi, perché vede in essa un indebolimento di questi ultimi «che, o prima o dopo, resteranno sopraffatti dalle arti spagnole», mentre gli spagnoli ne potrebbero trarre beneficio anche in vista del loro dominio in Italia.[25] Sarpi sperava in un'alleanza generale di Francia, Inghilterra, principi protestanti, Paesi Bassi, Savoia e Venezia che portasse alla guerra contro l'Impero cattolico ispano-tedesco e cancellasse il dominio papale e spagnolo in Italia: «Se sarà guerra in Italia, va bene per la religione; e questo Roma teme; l'Inquisizione cesserà e l'Evangelio avrà corso».[26] E andrà bene anche per le libertà civili di Venezia: qui, anche se «il giogo ecclesiastico è assai più mite che nel rimanente d'Italia, in quella parte nondimeno che tocca la stampa è l'istesso appunto che negli altri luoghi. Nessuna cosa si può stampare se non veduta e approvata dall'Inquisizione [...] Dove si ragiona di alcun papa, non permettono che si dica alcuna di disonore, se bene vera e notoria. Non permettono che alcuno separato dalla Chiesa romana sia lodato di qualsivoglia virtù, né nominato se non con vituperio».[27]

Ai primi giorni del 1623 si ammalò gravemente, e morì il 15 gennaio.

Sarpi nella storia della letteratura e della scienza

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Figura assai complessa di pensatore, Sarpi occupa indubbiamente un posto di primo piano nella storia della letteratura e della scienza. Fu uno dei più grandi scrittori del suo secolo.

« La sua prosa (è) una delle più maschie ed efficaci di tutta la letteratura nostra, che non conosce lenocini né fronzoli, che scolpisce le figure con raro risalto, che ha un magnifico potere rievocatore allorché descrive dispute e contrasti, ch'è impareggiabile nel sarcasmo, tutto contenuto in un'unica espressione, tre o quattro parole »
(Arturo Carlo Jemolo.)

Giovanni Papini, parlando della Istoria del Concilio di Trento, l'ha definita:

« un modello di lucidità narrativa... e di prosa semplice, esatta e rapida »
(Scritti filosofici inediti, p. 3)

Nel campo delle scienze poi ha lasciato orme indelebili in vari campi: nella filosofia, nella matematica, nell'ottica, nell'astronomia, nella medicina ecc. Galileo Galilei fu suo grande amico, e non disdegnò di appellarlo: Mio Maestro. Dinanzi alla prima condanna comminata a Galilei nel 1616, Sarpi (che non visse abbastanza a lungo per assistere alla seconda e più grave condanna del 1633) scrisse:

« Verrà il giorno, e ne sono quasi certo, che gli uomini, da studi resi migliori, deploreranno la disgrazia di Galileo e l'ingiustizia resa a sì grande uomo. »

Sarpi scoperse, per primo, la dilatabilità della pupilla sotto l'azione della luce e le valvole delle vene (Enciclopedia Treccani, vol. XXX, p. 879). I suoi biografi parlano anche di scoperte nel campo dell'anatomia, dell'ottica, ecc. L'invenzione del termometro - dice Bianchi-Giovini - il Galilei la dovette per certo ai lumi somministratigli dal Sarpi, se pure questi non ne fu il primo inventore, come pensano alcuni (v. p. 74). Sopra la sua sapienza matematica si citava l'autorevole giudizio di Galileo Galilei (Papini, p. 4). Robertson non ha stentato ad appellare Sarpi il più grande dei veneziani. Daniel Georg Morhof ha appellato Sarpi la Fenice del suo tempo.

Galileo Galilei non esitò a dire: Paolo de' Servi... del quale posso senza iperbole alcuna affermare che niuno l'avanza in Europa in cognizione di queste scienze (matematiche) ( contro alle calunnie ed imposture di B. Capra, in ediz. naz., Firenze, 1932, II, 549). La teoria di Galileo delle maree riprende idee di Sarpi, esposte nei Pensieri naturali, metafisici e matematici (in particolare nei pensieri 569 e 571).

Giovanni Battista Della Porta, dopo aver dichiarato di avere appreso alcune cose da Fra Paolo, lo proclamò splendore ed ornamento non solo della città di Venezia e dell'Italia, ma di tutto il mondo. (Magia naturalis, L. VII, p. 127). Il cardinale Domenico Passionei definì il Sarpi dottissimo oltre ogni espressione (cfr. Opuscoli, I, p. 331-334).

In uno studio il cui intento era quello di misurare il Q.I. di 300 personaggi famosi vissuti tra il 1450 e il 1850, Sarpi si posizionò al quinto posto, al pari del più noto matematico Pascal.[28]

Altri progetti

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  1. O. Ceretti, Cinque pugnali non bastarono a troncare la sua parola, in «Historia», 264, febbraio 1980
  2. F. Micanzio, Vita del padre Paolo, in «Istoria del Concilio tridentino», Torino 1974, p. 1275
  3. 3,0 3,1 F. Micanzio, cit., p. 1276
  4. F. Micanzio, cit., p. 1278
  5. F. Micanzio, cit., pp. 1277-78
  6. F. Micanzio, cit., p. 1279
  7. F. Micanzio, cit., p. 1280
  8. F. Micanzio, cit., p. 1281
  9. F. Micanzio, cit., p. 1290
  10. F. Micanzio, cit., p. 1295
  11. F. Micanzio, cit., p. 1296
  12. F. Micanzio, cit., p. 1308
  13. F. Micanzio, cit., p. 1296. Scriveva tra l'altro Sarpi nella lettera: «E che volete ch'io speri in Roma, ove li soli ruffiani, cenedi et altri ministri di piaceri o di guadagni hanno ventura?». I cenedi sono i giovani che si prostituiscono
  14. F. Micanzio, cit., p. 1298
  15. G. Cozzi, in Paolo Sarpi, Opere, 1969, p. 28
  16. F. Micanzio, cit., p. 1328
  17. P. Sarpi, Istoria dell'interdetto e altri scritti editi e inediti, 1940, p. 51
  18. Ivi, p. 52
  19. F. Micanzio, cit., p. 1346
  20. Ivi, p. 1347
  21. Ivi, p. 1348
  22. Ivi, p. 1351, dove stilo può significare sia stile che stiletto
  23. Ivi, p. 1364
  24. G. Cozzi, cit., p. 227
  25. Lettere a Groslot de l'Isle, in «Lettere ai protestanti», I, pp. 18 e 78
  26. Ivi, p. 120
  27. Lettera a Francesco Castrino, 18 agosto 1609, in «Lettere ai protestanti», II, pp. 46-47
  28. "The Early Mental Traits of Three Hundred Geniuses" di Catharine M. Cox, in "Genetic Studies of Genius" di Lewis M. Terman. Copyright 1926, Stanford University Press