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Storia della letteratura italiana/Teatro del Seicento

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Storia della letteratura italiana
Storia della letteratura italiana

Il teatro rappresenta una delle massime espressioni della cultura barocca: viene rinnovato l'apparato scenico, i costumi diventano più vari e sfarzosi, e nelle opere vengono privilegiati l'originalità e l'invenzione. La Spagna del Siglo de oro (1492-1650) produce classici destinati a diventare modelli per il teatro di tutta Europa, mentre il teatro francese del Seicento conosce una grande fioritura grazie ad autori del calibro di Racine, Corneille e Molière. In Italia il teatro colto cinquecentesco lascia il posto alla commedia dell'arte e alle compagnie itineranti di attori professionisti, che rimarranno in auge per quasi due secoli. Si afferma inoltre in tutta Europa il teatro "all'italiana", con il quale sui diffonde non solo un nuovo modello di edificio teatrale ma anche un nuovo modo di intendere il teatro. Altro fenomeno particolarmente importante è l'opera, che nasce in Italia alla fine del XVI secolo e nel corso del Seicento raggiunge le principali corti europee.

La diffusione del teatro "all'italiana"

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La "cavea" del Teatro Olimpico di Vicenza, progettato da Andrea Palladio (1580)

Il teatro cosiddetto "all'italiana", che si sviluppa nel corso del Cinquecento, risponde a un'idea precisa di cosa sia il teatro: un luogo per la contemplazione, in cui eroi e personaggi immaginari prendono corpo sulla scena. È questa una concezione che i rinascimentali avevano derivato dallo studio dei classici, in particolare Aristotele, e che influenza la struttura dei nuovi edifici che vengono costruiti per ospitare gli spettacoli, struttura che a sua volta è ripresa dal De architectura di Vitruvio.[1]

L'esempio migliore è forse il Teatro Olimpico di Vicenza (1580) disegnato da Andrea Palladio. La struttura si rifà esplicitamente ai modelli greci: la platea è semicircolare e a gradinate, la scena è fissa e sulla copertura è dipinto un cielo stellato.[2] Sono qui osservabili gli elementi che saranno caratteristici del teatro all'italiana: la struttura ha una copertura a sala, e gli spazi per il pubblico sono chiaramente separati da quelli riservati agli attori. Il palcoscenico è rialzato, ha un pavimento inclinato ed è abbastanza grande da ospitare quinte, fondali e macchine sceniche; viene inoltre separato dalla platea grazie al sipario e a un arco che lo incornicia. La sala ha invece una forma semicircolare ed è costruita secondo un modulo a palchetti.[1]

Il teatro diventa un luogo centrale nella vita delle città. Ospita i grandi balli e i suoi spazi vengono usati come salotto dalla nobiltà, che lì si incontra, discute e si diverte nel corso di vere e proprie feste. Il melodramma si afferma come lo spettacolo per eccellenza, ma vengono rappresentate anche tragedie, balletti e feste teatrali. Inoltre, in quanto luogo di contemplazione, al teatro viene richiesta la capacità di meravigliare: è un luogo di illusioni e metamorfosi, in cui gli attori, a seconda dei casi, diventano dèi, eroi, figure mitiche.[3]

Tra la fine del XVI e l'inizio del XVII secolo il teatro all'italiana viene esportato in Francia, dove viene perfezionato. Presto si diffonde anche in Austria, in Germania e nell'Europa settentrionale e orientale. Arriverà anche in Spagna e Inghilterra, come alternativa colta alle radicate tradizioni teatrali locali. Architetti e scenografi italiani vengono chiamati a lavorare nelle principali corti europee, mentre molti artisti arrivano in Italia per imparare l'arte del teatro.[4]

Il teatro nell'Europa del Seicento

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Molière ritratto da Nicolas Mignard come Giulio Cesare. Olio su tela, 1656, Musée Carnavalet, Parigi

Per quanto riguarda la produzione drammatica europea, in Francia nasce e si consolida il teatro classico basato sul rispetto delle tre unità aristoteliche. La grandiosa opera tragica di Pierre Corneille già delinea un gusto teatrale francese e apre le porte al siècle d'or, ben rappresentato dalla commedia di Molière, di costume ma soprattutto di carattere, frutto di un'acuta osservazione e rappresentazione della natura umana e dell'esistenza, e dalla tragedia alta, umana e tormentata di Jean Racine.

Non meno significativa è l'impronta lasciata dal teatro secentesco spagnolo, dalla imponente produzione del maestro Lope de Vega, fondatore di una scuola che ebbe i migliori discepoli in Tirso de Molina con il suo L'ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra, e in Pedro Calderón de la Barca con le sue vette poetiche immerse nella realtà, nel sogno e nella finzione.

In Italia il teatro dei professionisti, cioè i comici della commedia dell'arte, soppianta il teatro erudito rinascimentale. Per circa due secoli la commedia italiana rappresenta il teatro tout court per il resto d'Europa. La sua influenza si fa sentire dalla Spagna alla Russia e molti personaggi teatrali sono direttamente influenzati dalle maschere della commedia dell'arte: Punch la versione inglese di Pulcinella, Pierrot la versione francese di Pedrolino e Petruška la versione russa di Arlecchino.

In Inghilterra il teatro elisabettiano, che aveva avuto tra i suoi massimi autori William Shakespeare, declina e durante l'età della Restaurazione evolve riprendendo i modelli francesi, e in particolare Corneille. Nasce così l'heroic tragedy, che adotta un nuovo sistema metrico, l'heroic couplet, con cui si cerca di imitare l'alessandrino francese.

Il teatro secentesco in Italia

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La tragedia secentesca italiana ha ricevuto per anni scarsa considerazione, finché non è stata rivalutata nel Novecento da Benedetto Croce. È una produzione magniloquente, secondo il gusto barocco, che dà voce alle inquietudini dei tempi, con il suo senso tragico della vita e il ritorno a Dio come unico rifugio dagli orrori del mondo. Sempre a Croce si deve la riscoperta di quello che è considerato il massimo tragediografo dell'epoca, l'astigiano Federico Della Valle. Tra gli altri autori si deve ricordare Carlo de' Dottori (Padova, 9 ottobre 1618 – Padova, 23 luglio 1686) con il suo Aristodemo (1657), una tragedia basata su modelli greci classici e sul rispetto delle unità aristoteliche, in cui affronta tematiche tipicamente barocche come la caducità delle cose terrene o l'incostanza della fortuna.[5]

In età barocca il teatro erudito rinascimentale conosce un'involuzione. Alla corte medicea di Firenze, in particolare, si sviluppa un tipo di commedia che unisce la letterarietà e l'erudizione dei testi con toni popolareschi. Tra i maggiori rappresentanti di questo teatro c'è Michelangelo Buonarroti (Firenze, 1568 – Firenze, 11 gennaio 1646), detto "il Giovane" per distinguerlo dal prozio, il celebre pittore e scultore rinascimentale. Intellettuale cortigiano e accademico della Crusca, Buonarroti riprende il realismo letterario della tradizione toscana, risalente a Pulci e in generale all'epoca di Lorenzo il Magnifico, affrontando la realtà con un misto di ironia e tono scherzoso. Ne è un esempio La fiera (1619), una commedia urbana composta da cinque giornate, divise a loro volta in cinque atti, che mette in scena una serie momenti tratti dalla vita quotidiana, ambientati durante una fiera.[6]

Alla crisi della commedia colta corrisponde il successo della commedia dell'arte. È un teatro basato sull'improvvisazione brillante, in cui lo spettacolo non si basa su un testo ma su un canovaccio, che permette agli attori grande libertà. In questo tipo di teatro diventa quindi centrale l'attore, mentre declina il ruolo dell'autore.[7]

Il dramma pastorale

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Durante il Seicento prosegue la fortuna del dramma pastorale (detto anche favola pastorale), che aveva conosciuto particolare fortuna alla corte ferrarese della fine del Cinquecento, e che aveva avuto le sue massime espressioni nell'Aminta (1580) di Tasso e nel Pastor fido (1589) di Guarini. Come scrive Asor Rosa, è importante sottolineare

« la persistenza e dunque la profondità del mito pastorale in una società gerarchicamente ordinata e sostanzialmente immobile come quella italiana cinque-settecentesca.[8] »

Un mito che si può far risalire all'Orfeo (1479-1480) di Poliziano e all'Arcadia (1480) di Sannazaro, che attraversa il Cinquecento e il Seicento con la favola pastorale e che arriva fino al Settecento e all'Accademia dell'Arcadia. Massimo rappresentante di questa linea nella letteratura italiana barocca è Guidubaldo Bonarelli della Rovere (Pesaro, 25 dicembre 1563 – Fano, 8 gennaio 1608). La sua opera più importante è la Filli di Sciro, che venne recitata per la prima volta presso l'Accademia degli Intrepidi nel 1605 e pubblicata due anni più tardi, sempre a cura della medesima Accademia. Il dramma ha una trama estremamente complessa e aggrovigliata, che ruota attorno all'amore tra la fanciulla Filli e il giovane Tirsi, entrambi nativi dell'isola di Sciro. Dopo essere stati rapiti dai Traci e separati, i due tornano in patria sotto falso nome, ma mentre Filli conserva i suoi sentimenti per l'amato, Tirsi si innamora della ninfa Celia, a cui ha salvato la vita con l'aiuto del cacciatore Aminta. Dopo varie peripezie, alla fine Filli e Tirsi si riconciliano e possono sposarsi, così come Aminta e Celia.

La Filli riprende fedelmente i modelli di Tasso e Guarini, seguendo il gusto barocco per quanto riguarda la ricerca del sorprendete e dell'artificioso. La materia pastorale viene qui trattata con grazia ed eleganza: ciò che conta non è la narrazione, ma piuttosto l'armonia e la raffinatezza dei versi e della composizione. In seguito Bonarelli, per rispondere alle critiche giunte alla Filli di Sciro, pronuncia nel 1606 di fronte agli Intrepidi i Discorsi del sig. conte Guidubaldo Bonarelli, accademico intrepido, in difesa del doppio amore della sua Celia, che saranno pubblicati postumi nel 1612.[9]

Nascita e diffusione dell'opera italiana

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Frontespizio del libretto dell'Euridice (1600), musicata da Iacopo Peri su libretto di Ottavio Rinuccini

Quando si parla di opera italiana (o melodramma) si intende un preciso genere teatrale, che viene intonato dall'inizio alla fine. Questo la distingue da generi simili, come lo Singspiel tedesco o l'opéra comique francese.[10] Ogni melodramma è il risultato del lavoro di un poeta, che si occupa del libretto, cioè dei testi, e di un compositore, che scrive la musica; a questi si aggiungono altre figure, come l'impresario, gli orchestrali, i costumisti e la compagnia cantante.

Il libretto è strutturato in recitativi ("recitar cantando") e arie. I primi sono destinati alle parti dialogate dell'opera, e sono composti in endecasillabi e settenari con rima libera o senza rima. Le arie sono invece parti liriche e si compongono di strofe brevi e variamente rimate. Durante il periodo di maggiore fortuna di questo genere, nel Settecento e nell'Ottocento, la bravura e l'impegno di musicisti e cantanti era dedicata in particolare a queste ultime.[11]

Nella tradizione letteraria italiana era largamente diffusa la mescolanza tra settenari e endecasillabi, sciolti o liberamente rimati. Questa commistione, per esempio, ha avuto particolare importanza nello sviluppo dei testi per il canto polifonico. Nel teatro italiano si possono inoltre individuare molti generi che presentato alcune delle caratteristiche che saranno tipiche dell'opera: tra questi ha una particolare importanza il già ricordato dramma pastorale.[12]

Nel 1574 al Palazzo Ducale di Venezia viene eseguita in onore di Enrico III di Valois una Tragedia. Nella prefazione il poeta Cornelio Frangipane (Tarcento, 16 novembre 1553 – Venezia, 30 maggio 1643) ci informa che il titolo si deve allo stile elevato con cui l'opera è stata scritta. Pare inoltre che, a imitazione delle tragedie greche, fosse intonata dall'inizio alla fine, sulle musiche di Claudio Merulo (oggi perdute). Tra il 1595 e il 1605 le rappresentazioni teatrali diventano un appuntamento regolare nella Repubblica di Venezia. Sono per lo più favole pastorali a tema marittimo, che vengono impreziosite con parti musicali accompagnate da un liuto. Si tratta comunque di testi dal tono leggero, che mirano al diletto del pubblico. Ben diverso è l'Edipo tiranno messo in scena nel 1585 a Vicenza per inaugurare il teatro degli Olimpici, che riprende esplicitamente elementi dalla tragedia classica, a cominciare dal coro tebano che alla fine di ogni atto commenta le azioni dei personaggi, intonando canti a cappella.[13]

Un momento decisivo si ha però nella Firenze di fine Cinquecento, quando Giovanni Bardi (Firenze, 5 febbraio 1534 – Firenze, settembre 1612), insieme ai teorici Girolamo Mei e Vincenzo Galilei (padre di Galileo), al poeta Ottavio Rinuccini e ai musicisti Iacopo Peri e Giulio Caccini, dà vita a una "camerata", cioè un cenacolo culturale in cui si discute di musica, poesia e scienza. A loro si devono due opere in musica: la Dafne (1598), di cui si è perduta la partitura, e l'Euridice (1600), che invece è la prima opera a essere giunta nella sua completezza ai nostri giorni. Quest'ultima, musicata da Peri su libretto di Rinuccini, viene composta e messa in scena per le nozze di Maria de' Medici ed Enrico IV di Borbone Navarra. È una favola pastorale composta da un prologo e cinque scene, ciascuna delle quali si chiude con canti polifonici del coro. Dal punto di vista metrico, presenta una distinzione tra versi sciolti e strofe che prelude alla dualità tra recitativo e aria che caratterizzerà l'opera italiana.[14]

L'affermazione dell'opera nel Seicento

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Claudio Monteverdi ritratto da Bernardo Strozzi. 1640, Gallerie dall'Accademia, Venezia

All'inizio del Seicento il genere dell'opera trova terreno fertile a Mantova presso la corte dei Gonzaga, dove viene messo in scena l'Orfeo (1607) di Claudio Monteverdi (Cremona, 9 maggio 1567 – Venezia, 29 novembre 1643) su testo di Alessandro Striggio (Mantova, 1573 circa – Venezia, 8 giugno 1630). Di quest'opera, che risente dell'influenza dell'Euridice, possediamo anche la partitura a stampa, in cui si nota l'accento posto da Monteverdi sull'apparato strumentale. Sempre a Mantova vengono portate in scena, nel 1608, la Dafne (di Rinuccini e Marco da Gagliano) e l'Arianna (ancora Rinuccini e Monteverdi).[15]

Nei primi decenni del Seicento l'opera si diffonde in tutta la penisola. Pochi però sono i melodrammi che, messi in scena tra il 1600 e il 1637, hanno di caratteri del dramma, sul modello dell'Euridice e dell'Orfeo. Conoscono invece successo forme come il torneo, la giostra, la mascherata e la veglia. In questa fase le pièce erano allestite da cardinali, principi o aristocratici, che raccolgono attorno a sé un pubblico scelto.

La situazione muta profondamente a partire dal 1637, quando a Venezia apre il primo teatro musicale a pagamento. La prima opera allestita è l'Andromeda di Benedetto Ferrari (libretto) e Francesco Mannelli (musica). È un'importante novità: da questo momento può andare a teatro chiunque si possa permettere di acquistare un biglietto e disponga di un abito adatto. Pur rimanendo escluse le fasce meno abbienti della popolazione, il pubblico si amplia e cambia il rapporto tra operatori teatrali e destinatari. Chi allestisce gli spettacoli è ora costretto a seguire i gusti degli spettatori, i quali possono scegliere liberamente quale genere di spettacolo andare a vedere. Nell'arco di pochi mesi si moltiplicano nella città lagunare le sale destinate all'opera, sintomo di un crescente interesse da parte della popolazione.[16]

Gli aristocratici che governano la Serenissima si affrettano a costruire nuovi teatri sui loro terreni, dandone poi la gestione a un impresario. Questo fin dall'inizio deve disporre di un capitale adeguato per pagare tutte le maestranze necessarie all'allestimento dello spettacolo. Anzitutto si assume un poeta per comporre il libretto. Il testo viene poi passato a un editore, che si occuperà della pubblicazione delle copie da dare agli spettatori, e a un compositore, che oltre a scrivere la musica dovrà curare le prove, dirigere le recite e suonare l'accompagnamento al cembalo. Il compositore può quindi avere un impiego fisso e scrivere opere che vengono pagate a parcella, così come fa Monteverdi dopo essere stato assunto a San Marco nel 1613. Non esistendo ancora la tutela del diritto d'autore, la proprietà dell'opera non è di chi l'ha scritta ma di chi l'ha commissionata e pagata.[17]

Gli ultimi a essere ingaggiati sono i membri della compagnia vocale. I cantanti diventano rapidamente i beniamini del pubblico, mettendo in ombra orchestrali, librettisti e compositori. Il primo uomo dell'opera deve essere dotato di grande estensione vocale e spiccate capacità di interprete, tali da attirare a teatro stuoli di ammiratori, che corrono a pagare il biglietto per assistere ai suoi virtuosismi. Anche le prime donne godono di successi pari ai colleghi maschi, potendo spostarsi da un teatro all'altro. Spesso inoltre si ricorre ai castrati, già impiegati nella musica sacra (all'epoca era infatti proibito alle donne esibirsi in chiesa).

Da Venezia il teatro a pagamento si diffonde in tutta la penisola e poi raggiunge le corti europee. Nel 1669 il librettista Nicolò Minato (Bergamo, 1627 circa – Vienna, 28 febbraio 1698), già attivo a Venezia alla metà del secolo, si stabilisce a Vienna su invito di Leopoldo I d'Asburgo, che aveva deciso di mantenere fisso alla sua corte un poeta italiano.[18] Inizia così una duratura tradizione di librettisti italiani alle dirette dipendenza dell'imperatore d'Austria, che nel Settecento porterà alla nascita di alcuni dei maggiori capolavori della musica europea.

  1. 1,0 1,1 Mirella Schino, Profilo del teatro italiano, Roma, Carocci, 1995, p. 44.
  2. Mirella Schino, Profilo del teatro italiano, Roma, Carocci, 1995, p. 51.
  3. Mirella Schino, Profilo del teatro italiano, Roma, Carocci, 1995, pp. 44-45.
  4. Mirella Schino, Profilo del teatro italiano, Roma, Carocci, 1995, p. 47.
  5. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Torino, Einaudi, 2009, pp. 68-71.
  6. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 64.
  7. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 65.
  8. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 66.
  9. Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. II. Dalla decadenza al Risorgimento, Torino, Einaudi, 2009, p. 67-68.
  10. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 210.
  11. Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 474.
  12. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 210-211.
  13. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 211-212.
  14. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 213.
  15. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, p. 214.
  16. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 217-218.
  17. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 218-219.
  18. Anna Laura Bellina, L'opera italiana in breve, in Franco Perrelli (a cura di), Storia europea del teatro italiano, Roma, Carocci, 2016, pp. 220-221.