La filosofia greca/Dal generale al particolare e dal particolare al generale
Il percorso che ci ha portati alla delimitazione del metodo logico-cognitivo aristotelico ha attraversato diverse stazioni alcune delle quali meritano ancora una rivisitazione. Ho insistito molto all’inizio sul carattere osservativo del filosofare del grande Discepolo, sull’importanza data al vedere ciò che è nella sua evidenza e all’opposizione verso ipotesi puramente ideali quali le idee di tipo platonico (soprattutto matematiche). Tuttavia, da quanto emerge nello studio della logica sillogistica, non brilla per eccessiva chiarezza in cosa consista praticamente l’osservazione, quali siano i principi che la regolano. Come ho scritto, un primo principio di evidenza consiste nella resistenza che alcune tesi oppongono ai tentativi che vengono fatti per confutarle. Ogni tesi che superi tutti i tentativi possibili di metterla in contraddizione dev’essere considerata di per sé evidente. Ma la ricerca delle contraddizioni di una proposizione si basa sulla dialettica e non sulla logica. E, in ogni caso, è qualcosa che ha ancora a che fare col discorso più che con l’osservazione. Non è “logica” in senso proprio e neppure “empirica”, ovvero fondata sull’esperienza sensibile. Qui, Aristotele ha ancora molto da dire.
In secondo luogo: quali sono le cose che meritano di essere osservate? Ricordiamo la difficile opera di rimozione che Platone dovette condurre per chiarire, nel corso degli anni, che non a tutte le cose corrisponde un’idea: come dice nel dialogo Parmenide, è ridicolo pensare che esistano le idee del capello o del fango; non solo, a lungo andare il Maestro “ridusse” l’ambito delle idee alle pure forme astratte della geometria e dei numeri, con una generalizzazione che Aristotele criticò duramente: il mondo è fatto di cose molto diverse, e il modo per giungere alla loro conoscenza deve tenere nel massimo conto tale diversità.
Vediamo allora se esiste, nel pensiero aristotelico, qualcosa che definisca in cosa consiste l’osservazione. E come, soprattutto, dall’osservazione (cioè dall’uso del senso della vista) si possa giungere a una tesi che valga come premessa di una qualunque deduzione. E subito ci imbattiamo in un’ovvietà: che cosa vuol dire “osservare” se non vedere? Dimenticate tutto quello che oggi ci pare ovvio circa la cosiddetta ricerca scientifica. Nel IV secolo a. C. non esistevano cannocchiali e microscopi, non era concepibile il fatto che per osservare l’uomo avesse bisogno di strumenti che non fossero i suoi stessi occhi. Che bisogno aveva dunque il nostro filosofo di giustificare il fatto che per sapere basta guardare? Ovviamente questo è l’esatto opposto di quanto aveva insegnato Platone, ma le contraddizioni a cui la sua metafisica dava luogo non permettevano ormai più di fare affidamento sul suo insegnamento. Platone dava a tutta la conoscenza la dimensione ideale del procedere matematico-deduttivo, escludendo in un sol colpo il mondo in quanto tale; troppo, per un giovane intellettuale che era cresciuto nella casa di un medico naturalista. I fatti di natura (gli enti di natura) e le azioni degli uomini meritavano, per Aristotele, maggiore considerazione. Il “salto” dall’osservazione ai principi rimane però, anche per Aristotele, un fatto intellettuale. Occorre intendere bene che cosa si sta osservando: la constatazione che esistono molti tipi di alberi di per sé non fornisce alcuna informazione utile, se non che ogni albero ha qualcosa di ogni altro albero. Noi abbiamo memoria di molti alberi veduti, e questa memoria induce alla conclusione che esista una proprietà che include tutti gli alberi possibili. Non è, badate, l’idea dell’albero (una forma trascendente fuori dal mondo), ma un concetto onnicomprensivo che è possibile esprimere in una proposizione universale: “tutti gli alberi sono…”. Questa procedura si chiama appunto induzione (greco: epagoghé) ed è il metodo che conduce dal particolare all’universale. Un esempio di induzione può essere: «scossi dalla tempesta, gli alberi sul monte hanno resistito con tenacia», «scossi dalla tempesta, gli alberi del bosco hanno resistito con tenacia», «scossi dalla tempesta, gli alberi del viale hanno resistito con tenacia»; da tutto ciò induco che «tutti gli alberi sono tenaci». Questa proposizione, ricavata per induzione, può diventare la premessa di un sillogismo: a) premessa maggiore: tutti gli alberi sono tenaci; b) termine medio: gli abeti sono alberi; c) conclusione: gli abeti sono tenaci.
Con il processo induttivo, si conclude il quadro metodologico che permette alla scienza di formulare giudizi (termine analogo a “proposizioni”) evidenti e ben formati. Comincia così a prendere forma quello che a tutti gli effetti possiamo chiamare il SISTEMA aristotelico. Per il nostro filosofo, non esiste una scienza opposta a tutto ciò che non è scienza, ma una pluralità di fenomeni osservabili dalla ragione e classificati sulla base di una precisa evidenza: alcune cose esistono di per sé e altre ad opera dell’uomo. Le prime appartengono all’insieme generale degli enti di natura (greco: physis), le seconde all’universo dell’agire umano. La differenza tra la prima categoria, chiamiamola delle “scienze esatte” o teoretiche, e la seconda, delle scienze pratiche (dal greco: praxis, azione), è nello scopo che il filosofo attribuisce loro: le scienze teoretiche hanno lo scopo di giungere alla verità mentre le scienze pratiche quello di indicare una norma di comportamento. Il metodo logico-deduttivo e induttivo è valido, nella sua rigorosità, solo per le prime, per lo studio della natura (fisica); per le scienze pratiche (etica e poetica) Aristotele ammette, dopo il dibattito sofista, che è difficile giungere a verità universali e che è possibile solo descrivere quali sono le condizioni concrete che permettono la realizzazione di certi comportamenti, inducendo da essi ciò che è generalmente meglio fare.