La filosofia greca/Il mondo delle idee. Alla ricerca dell’Unità perduta. III parte
Un’altra serie di domande: che cos’è il Bene, e poi che cos’è l’Idea. Come abbiamo già detto, per Platone l’Idea “è”, esiste; un principio pressoché assiomatico (da assioma: principio evidente per sé, e che perciò non ha bisogno di esser dimostrato). D’altronde l’esigenza di ridurre le diverse opinioni a un’idea comune non era negata neppure dai sofisti, che però si sforzavano di dimostrare, con la retorica, che qualunque opinione può diventare un’idea. Questa concezione è però causa di divisione e conflitto, e il relativismo non favorisce la giustizia. Occorreva dunque dimostrare che l’idea del Bene non può che essere “una”.
Il lavorio filosofico messo in atto nei dialoghi è lungo e spossante. La figura di Socrate, che a poco a poco si trasforma nella controfigura di Platone, è costantemente e tenacemente impegnata a gettare le basi di una nuova ontologia che spieghi la possibilità dell’esistenza di qualcosa che è puramente razionale. E non solo: che questo “qualcosa” è “più vero” di tutto ciò che vediamo. Sappiamo che questo tentativo era già stato fatto, anzi, che esso è connaturato al filosofare stesso; ma sappiamo anche che era stato declinato in modi talmente diversi da creare fazioni tra loro inconciliabili. In tutto questo dibattere e accapigliarsi, l’unico principio che rimaneva saldo era il Logos, principio ordinatore supremo.
La dimostrazione corre sul filo del Logos, del ragionamento. Ma è evidente che non tutti sono disponibili a fare questo sforzo. L’essere umano si accontenta delle apparenze, delle proprie opinioni ed è restio ad affrontare l’arduo cammino della conoscenza. Ciò è descritto meravigliosamente in una delle pagine più celebri di tutta la storia della filosofia: il mito della caverna. In esso si narra che la vita degli esseri umani è simile a quella di prigionieri incatenati in una profonda caverna. La parete di fondo è l’unica cosa che possono vedere, e su questa parete sono proiettate delle ombre che costituiscono per loro l’unica realtà possibile. Uno di essi tuttavia viene liberato dalle catene e costretto ad incamminarsi verso l’uscita. Questo è un particolare importante spesso sottovalutato: chi è liberato si ribella, non ne vuol sapere di abbandonare le sue certezze e di avventurarsi lungo una strada in salita che non sa dove lo porterà. Ma man mano che procede egli non può non vedere ciò che prima ignorava: le ombre della sua vita sono solo proiezioni bidimensionali di cose che scorrono alle spalle dei prigionieri, cose più autentiche dotate di forma e colore. Passo dopo passo, il prigioniero si avvicina all’uscita: un buco nero che si affaccia su un universo costellato di stelle. Le sue opinioni e la sua immaginazione si sfarinano di fronte a una realtà più alta, inimmaginabile e sublime; ma non è finita. Al sorgere del sole, la forza della luce che tutto rivela lo renderà definitivamente consapevole della falsità in cui è sempre vissuto, della condizione infelice di inferiorità dei suoi fratelli prigionieri, della necessità di tornare da loro per liberarli dall’errore. Attenzione: la conoscenza non è solo un atto che eleva l’essere umano; essa lo rende anche responsabile verso il suo prossimo.
Perché Platone ricorre al mito, che non è certo un ragionamento? Anche questo è uno dei quesiti irrisolti che accompagnano l’opera del filosofo. Come abbiamo visto, egli scrisse pur negando (Lettera VII) il valore della scrittura in confronto al dialogo orale; nel frattempo sparge tutti i suoi scritti di miti che Socrate definisce un “poetare filosofando”… può apparire sconcertante ma non lo è del tutto. Proprio partendo dalla Lettera VII dobbiamo trarre una conclusione che non tutti gli storiografi di oggi accettano di buon grado: l’esistenza di un pensiero platonico di secondo livello, riservato a pochi. Già nel dialogo Fedone si parla di una SECONDA NAVIGAZIONE della filosofia, del passaggio cioè dal metodo naturalistico (di Anassagora) al metodo dialettico-razionale (del Mondo delle idee). La seconda navigazione (in greco: deuteros plous) è quella che i marinai devono affrontare per uscire dalla bonaccia, abbandonando le vele e mettendosi ai remi; fuor di metafora, quando un metodo non è sufficiente per giungere alla verità, occorre abbandonarlo per affidarsi ad uno più adatto. In quest’ottica, e Platone lo dice chiaramente, neppure la scrittura è il metodo più adatto. Ma a chi erano diretti i Dialoghi? Le testimonianze dei suoi discepoli (non parliamo di allievi o studenti: l’Accademia era un’istituzione riservata ai dotti, a chi già era in possesso di una cultura considerevole, che comprendeva la filosofia fino ad allora conosciuta e la geometria, che è la parte più speculativa della matematica) affermano che il Maestro portava i testi delle sue opere in Accademia per sottoporli alla discussione, come spunti quindi da cui prendere ispirazione per una visione più articolata e complessa dei problemi. Tuttavia è evidente che tali testi circolavano e venivano letti anche al di fuori, e chi poteva ne faceva delle copie che successivamente hanno formato il materiale di base per la ricostruzione filologica degli scritti platonici. Platone era consapevole che molti elementi della sua ontologia non potevano essere compresi facilmente, né tantomeno in modo immediato. Da qui il ricorso al mito, utile al lettore ma superfluo per una vera comprensione del problema.
La conoscenza razionale, la dimostrazione dialettica, valgono dunque fino ad un certo punto; esiste infatti un livello di conoscenza che supera il Logos stesso, più alto della matematica e di quanto la filosofia abbia mai osato: l’INTUIZIONE (greco: noesis), che altro non è che la visione diretta del Bene. Ora possiamo tentare di salire la “scala della conoscenza” gradino per gradino.