La filosofia greca/Etica per un figlio
Il vecchio Aristotele lasciò due figli, uno dei quali, Nicomaco, morì giovane in battaglia. La morte di Aristotele, e probabilmente quella del figlio, coincidono con la sconfitta definitiva di Atene nella guerra lamiaca e la sua sottomissione al regno macedone. Coincidono cioè la con la fine della polis intesa nel suo valore civico più alto. Una frattura epocale. L’inizio di quella globalizzazione del Mediterraneo che verrà condotta a termine sotto l’impero romano. Un evento di tale portata è il filtro indispensabile attraverso cui leggere l’altro grande testo del filosofo di Stagira, l’Etica a Nicomaco. Un’osservazione sul titolo: come per tutte le altre grandi opere di Aristotele, anche l’Etica è, nella sua forma attuale, una ricostruzione editoriale su appunti di lezioni sparsi negli anni. Il titolo, quindi, non può che essere una decisione posteriore non riconducibile all’autore. Perché dunque “A Nicomaco”? Non è chiaro, ma vale come spunto per iniziare una riflessione.
Come avviene nel nostro tempo, padre e figlio vissero sotto la pressione psicologica di una trasformazione epocale non ancora conclusa ma chiaramente percepita. L’egemonia ellenica dall’Egitto al medio oriente persiano, passando per le grandi poleis greche, non aveva l’aspetto di una supremazia politica, ma culturale. La culla dell’Ellenismo, la Grecia geograficamente intesa, non valeva più nulla neppure in termini economici. Era diventata un’identità universale senza basi etniche, che conquistò anche Roma dopo esserne stata schiacciata. In una realtà di questo genere, nacque l’ultimo grande pensiero politico dell’antichità classica. Non si può infatti leggere l’Etica di Aristotele senza appoggiarla all’altro trattato di filosofia pratica dedicato alla Politica. Per il vecchio Aristotele (chissà per il giovane Nicomaco) il bene per l’uomo dipende dall’essere membro di una polis, di una comunità avente come fine il bene collettivo; l’uomo (felice) è un animale politico (greco: zoon politikon). La contraddizione è evidente. Presa alla lettera, questa affermazione porta a pensare che, nel mondo di Aristotele, il Bene non avesse più un terreno su cui radicarsi; che gli mancasse l’ambiente naturale, la Polis. È probabile che egli non abbia percepito la vastità del fenomeno in corso o che sia caduto nel peccato dei “cattivi maestri”: quello di salvaguardare il già pensato invece di provare a superarlo. Può darsi, al contrario, che avesse capito tutto (in effetti, a parte la scelta obbligata di porre il Liceo ad Atene, non ebbe mai cittadinanza politica autentica) e abbia rivolto il suo pensiero verso un’etica “praticabile” più che “pratica”. In fondo, dipende tutto da quale idea di Comunità si parte. La sostituzione dei vecchi confini politici greci – Atene, Sparta, Tebe e, più in là, Persia e barbari – con uno scacchiere di nuovi regni bellicosi ma accomunati dalla stessa origine e dalla stessa cultura, determinò il passaggio fatale dal principio di comunità politica (la Polis socratica e platonica) a quello di comunità etica (dal greco Ethos, costume). La Polis aveva rigidi confini territoriali ed economici (oichos e nomos: il governo della casa), l’Ethos no. Atene si poteva ingrandire solo con la guerra, la cultura (l’Ethos) greca solo dopo la guerra, anche fuori dai confini naturali. In quest’ultimo senso, ci fu Grecia ovunque vi fossero lingua e costumi greci. Aristotele continua a parlare di Polis, ma l’area semantica della parola non è più politica, è etica: non più Polìtes (cittadino) ma cosmopolita, non più il Bene, ma la Felicità. Quale eredità di pensiero può dunque destinare al proprio figlio un intellettuale cosmopolita come Aristotele? Essere un “buon cittadino” come Socrate, o qualcosa di diverso, nello stesso tempo più circoscritto e di più ampio respiro?
L’Etica a Nicomaco comincia così: «Ogni arte e ogni indagine, come pure ogni azione e scelta, si pensa che persegua un qualche bene; e per questo si è definito, in modo appropriato, il bene come ciò cui tutto tende. Ma appare evidente una certa differenza tra i fini». Dunque tutto tende verso il bene, ma che cos’è il bene? Con Aristotele la prima sorpresa è sempre quella che si ha quando si scopre che certe domande, che sembrano essere la spina dorsale che regge il filosofare, semplicemente per lui non hanno luogo. Poiché infatti la risposta che egli dà è sempre più o meno la stessa: inutile cercare, investigare e domandarsi cos’è “bene”, o cos’è “natura”, perché, semplicemente, ciò è evidente agli occhi di tutti. Lo sguardo immediato sul mondo è per il nostro sempre la via regia della conoscenza. Ma di questo ho già detto. Adesso ci interessa scoprire che Aristotele pone la soluzione dei problemi filosofici non alla fine della ricerca, ma nella ricerca stessa. La fine è quasi sempre qualcosa che noi “sappiamo già”, che ci appartiene in quanto è nella realtà delle cose, non in un iperuranio imperscrutabile; diverso invece è dimostrare qual è la via giusta per arrivarvi in modo necessario. Il bene, dunque, per il fondatore del Liceo è qualcosa che gli uomini possiedono naturalmente, chi più chi meno, come avviene per tutte le qualità della vita; e non è altro che ciò di cui tutti si preoccupano, perché non c’è nulla che possa interessare di più l’essere umano: la felicità (greco: eudaimonia). Disarmante semplicità, che davvero fa a pugni con l’ascetico ideale platonico di una trasfigurazione trascendente dell’esistenza.
Mi spiego. Socrate parlava della felicità come esercizio del bene/virtù supremo, di qualcosa che appartiene a una dimensione totalmente “ideale” (vedi appunto il platonismo); a quello che Kant chiamerà il regno dei fini. Essere felici è cioè qualcosa che prescinde dalla realtà circostante, tanto che la suprema felicità per Socrate fu … morire. È a tutti gli effetti un imperativo: l’ideale della coerenza interiore che è l’unica strada per essere totalmente in armonia con se stessi; armonia che è l’unica garanzia di felicità autentica. Aristotele non vede nessuno sbocco lungo questa via, perché è evidente (è una questione di buon senso) che l’essere umano medio, quello che incontriamo a tu per tu nella vita reale, non può perseguire ideali astratti, ma deve attenersi a quello che la vita pretende naturalmente: non patire dolori, non soffrire ingiustizia, non dover temere sempre qualche disgrazia. Insomma: una vita serena. È la stessa cosa che Hegel obietterà a Kant dicendo: la legge morale è un principio astratto che non tiene conto del mondo reale in cui ci troviamo storicamente a vivere.
Il principio da cui parte Aristotele è questo: tra colui che tende alla felicità (soggetto) e la felicità (oggetto), si stende un segmento che congiunge i due estremi rendendoli tra loro compatibili. Se il soggetto è un animale, la felicità sarà quella a cui naturalmente può tendere un animale; se il soggetto è un uomo, la felicità non può essere che quella a cui naturalmente un uomo deve tendere. A questa prima classificazione se ne aggiunge subito una seconda, più impegnativa: non tutti gli uomini sono uguali; il tipo di felicità a cui ciascuno tende è quindi correlato all’esistenza che egli conduce. Alla connotazione particolare del soggetto corrisponde quindi una particolare connotazione dell’oggetto: una felicità di tipo materiale è diversa da una felicità di tipo “spirituale” (parola del tutto inadeguata nel contesto del pensiero aristotelico, ma tant’è … meglio capirsi!), e la felicità che può provare un atleta a Olimpia non è la stessa che commuove l’animo di un poeta. Dunque, è chiaro che non esiste una definizione universale della felicità, ovvero: esiste, ma talmente universale da non dire quasi più nulla. Così come la definizione dell’Uomo come animale politico che Aristotele ci ha lasciato è tanto significativa quanto, nella sua genericità, inapplicabile in concreto. Allora, in cosa consiste la felicità?
Parlando di soggetto e oggetto, abbiamo dimenticato il segmento intermedio: tra A e B si estende il binomio “ab” che correla i due termini tra loro. Questo binomio è la vita. Il bios. Se Caio desidera vivere bene, deve condurre un’esistenza che gli permetta di realizzare questo bene che egli desidera. La felicità è questo particolare modo di vivere, e non il risultato di un modo di vivere. Caio deve cioè organizzare la propria esistenza in modo adeguato al fine che intende raggiungere, ma il fine si realizza nell’esercizio stesso delle attività che gli danno forma. La felicità quindi non è un’idea a cui l’Uomo tende, ma è l’azione con cui egli dà forma alla propria vita. La vita sportiva per l’atleta, la vita ascetica per il monaco, l’esercizio delle armi per il militare. E quindi, come si diceva, non basta conoscere il bene, ovvero sapere che cos’è che “mi renderebbe felice”; per raggiungere il bene occorre praticarlo, e in questa pratica sta il vero bene, la mia particolare felicità. Quindi l’azione morale, in quanto attività, ha il suo fine in se stessa.
Questa è la teoria, chiamiamola così, della felicità generale. C’è poi anche una teoria della “felicità perfetta”, quella che corrisponde alla più alta delle umane virtù. Ne troviamo la definizione proprio nell’Etica a Nicomaco. Scrive Aristotele: «Ogni virtù (in greco: areté) ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò di cui è virtù, e di far sì che egli eserciti bene la sua opera (greco: ergon)». La virtù del cavallo consiste nel correre bene, quella dell’occhio nel vedere bene. E quella dell’Uomo? L’Uomo ne ha diverse, e ci sarebbe da stupirsi se non fosse così.
Innanzi tutto, noi non nasciamo “virtuosi”. Oggi diremmo: non nasciamo “buoni”. C’è in noi, secondo Aristotele, una disposizione naturale a diventare virtuosi. E che cos’è che fa sì che questo avvenga? Naturalmente l’esercizio pratico delle virtù, quali ci vengono mostrate o insegnate dall’esempio degli eroi e dei maestri. Quindi l’educazione gioca un ruolo fondamentale. Ma educazione intesa come formazione alla vita collettiva, e come coltivazione delle proprie capacità. Perché l’esercizio della virtù attraversa due momenti: quello che concerne la scelta di uno stile di vita piuttosto che un altro – la vita agonistica piuttosto che quella dedita al commercio, e così via; e quindi l’educazione implica la conoscenza di sé nell’attuazione della scelta più intelligente, quella di adeguare la propria vita alle proprie disposizioni. Il secondo, sta al di sopra di tutte le felicità diciamo “mondane”, e ha il pregio di portare alla felicità perfetta, riservata a pochi: la vita contemplativa, ovvero la vita della mente. Essa è la più grande delle felicità non perché corrisponda a una qualche dimensione superiore della realtà … non è, per intenderci, la vita del filosofo nella repubblica platonica; è semplicemente la virtù più alta perché corrisponde all’attività umana che garantisce la massima felicità. Tutto si gioca quindi sul piano della vita, a un primo livello intesa come vita attiva, a un secondo e più elevato livello, come vita contemplativa. Non c’è l’attesa di una felicità futura, e quindi di un Bene trascendente; non c’è neppure l’ascetismo contemplativo della visione del Bene, perché la vita della mente è pur essa un’attività di questo mondo, per quanto perfetta. L’aderenza di Aristotele al piano dei fatti ha qualcosa di straordinario per chi, come noi, è abituato alle semplificazioni riduttive di un neo-illuminismo dei “fatti”, allo scientismo di un pensiero laico disarmato. La fatticità di Aristotele, la sua “ontologia della vita”, non è mai priva di uno spessore concettuale capace di mediare tra la sfera del pensiero e quella della realtà. Ma dicevo: se la virtù è esercizio quotidiano, essa si tempra attraverso il concreto esplicarsi degli atti. Atti che non sono mai privi di uno scopo, di un fine concreto. E dove c’è uno scopo, nella vita, lì troviamo la molla del desiderio (greco: orexis); e dove c’è desiderio ci sono passioni. La ragione da sola non è sufficiente a farci agire, se insieme ad essa non è coinvolto il desiderio, la passione. E qui siamo al cuore del problema, alla celebre soluzione aristotelica sulla questione del bene: il bene è l’esercizio equilibrato delle passioni per il raggiungimento della felicità. Un troppo di passionalità nuoce e porta alla distruzione; troppo poco non porta da nessuna parte e non garantisce alcuna umana e autentica felicità. Il giusto mezzo, la scelta tra l’eccesso e il difetto, è la condizione ideale per l’esercizio di una virtù che conduca al bene, cioè alla piena realizzazione di se stessi. Non c’è nessuna regola oggettiva che mi garantisca il conseguimento del bene, non c’è una formula dogmatica la cui applicazione costituisca scuola di virtù; c’è semplicemente la vita, coi suoi casi sempre diversi, e c’è un buon uso dei principi educativi, che devono fornire a ogni individuo il carattere adeguato a raggiungere uno stato di interiore armonia. La mia felicità non è la tua, il mio “bene” non è il suo; ma tutti possiamo ambire alla saggezza (greco: Phronesis), che è la perfetta conoscenza del proprio essere-nel-mondo.
Essere saggi non è una cosa “normale”, altrimenti, come dire, saremmo tutti filosofi. Con Aristotele abbiamo davvero compiuto un giro di boa verso una stagione del pensiero che ci riserverà alcune sorprese. Il senso della realtà è entrato nella filosofia e non ne uscirà più, se non per alcuni momenti; e con questo intendo dire che il conversare filosofico si avvicina al conversare quotidiano, non a quello “del più e del meno”, ma a quello dei momenti estremi, nei quali soltanto sappiamo di noi più di quanto vorremmo. Per questo, forse, il bisogno di filosofia che non ha mai più abbandonato l’uomo occidentale. Di una filosofia di un certo tipo, naturalmente, di quella filosofia che comincia all’epoca di Aristotele, che è un’epoca molto più vicina a noi di quanto si possa immaginare.