La filosofia greca/La notte della democrazia
Una condanna a morte segna la seconda radicale svolta della filosofia greca. La condanna di un Giusto, di un buon cittadino, rispettoso delle leggi fino al punto da rifiutarsi di fuggire in esilio piuttosto che violarle: «SOCRATE: Considera allora la questione in questo modo. Supponi ch'essendo sul punto di scappar di qui, o come altrimenti si debba chiamare questo fatto, ci venissero incontro le leggi e la comunità cittadina che fermandosi dinanzi a noi ci domandassero: (…) "Non ti stupire, o Socrate, delle nostre parole, ma rispondi, tanto più che tu stesso sei solito usare la domanda e la risposta. Su via, cosa hai da rimproverare a noi e alla Città, tu che stai cercando di metterci a morte? Non fummo noi, prima di tutto, a farti generare: non fu per nostro mezzo che tuo padre sposò tua madre e ti fece nascere? (…) dal momento che sei nato, che sei stato allevato, educato, potresti innanzi tutto pretendere di non essere cosa nostra, figlio nostro, nostro schiavo, tu stesso e i tuoi progenitori?»[1]
Socrate fu giudicato da un tribunale composto da 501 giudici. Probabilmente pochi tra loro volevano veramente la sua morte, ma l’accusa era stata avanzata – corruzione dei giovani e introduzione di nuove divinità - e il processo era dovuto. Egli non era certamente da meno, per capacità retorica, a qualunque sofista della città, ma non rinnegò la sua avversione per una tecnica volta a ingannare. Come Platone ci riporta nella sua Apologia, Socrate non si difese ma attaccò. Con quali argomenti? Una premessa. Socrate non ha lasciato nulla di scritto. Ma la sua esistenza è storicamente certa per la quantità di testimonianze che ne accompagnarono la vita e il ricordo. Egli fu certamente il più “popolare” tra i grandi ateniesi. Ma la maggior parte di ciò che sappiamo di lui risale alla testimonianza del suo allievo più famoso: Platone. Nella quarantina di dialoghi che compongono l’opera di Platone, i primi costituiscono senza dubbio una testimonianza autentica del pensiero del maestro. E innanzitutto l’Apologia, ovvero il discorso tenuto da Socrate in tribunale. È da quel testo che possiamo ricavare l’essenza del pensiero socratico.
“Io so di non sapere”
[modifica | modifica sorgente]Tutta la parte centrale del discorso di Socrate consiste in un durissimo attacco ai sofisti. Coloro che proclamavano che “non è possibile sapere nulla”, pretendevano poi di insegnare ai giovani e lo facevano a pagamento. Egli era noto in tutta la Grecia per un aneddoto: niente meno che l’Oracolo di Delfi – la più sacra delle istituzioni greche – aveva sentenziato che “nessuno è più sapiente di Socrate”. Confuso e imbarazzato per un’affermazione che riteneva impossibile, egli cominciò subito a interrogare i suoi concittadini più importanti con fama di sapienti, desideroso di comprendere in che cosa consistesse la vera sapienza. Con il suo tipico metodo di porre domande e di vagliare ogni risposta con una nuova domanda, dovette alla fine rendersi conto che nessuno di costoro sapeva veramente ciò che affermava di sapere. Incalzandoli di obiezioni, Socrate metteva a nudo l’inconsistenza delle loro affermazioni, fondate su luoghi comuni senza fondamento logico, sul “così si dice”, su un uso superficiale del linguaggio. Egli dunque dovette ammettere che l’Oracolo non mentiva: la vera sapienza è il “sapere di non sapere”, che spinge alla ricerca e all’amore per la verità. Con atteggiamento dimesso e pacifico, Socrate “punzecchiava” (egli stesso si paragonava a un tafano) l’arroganza intellettualistica di chi, ad Atene, si era impadronito del potere culturale per volgerlo alla realizzazione dei propri interessi. Di chi aveva sovvertito lo spirito della democrazia in nome del più sfrenato individualismo edonista (Callicle). Non c’è dubbio che la più grande virtù di Socrate sia stata l’onestà intellettuale, contrapposta ad un modo servile e interessato di fare filosofia.
Il compito che Socrate si proponeva non era stabilire quale fosse La verità, ma ricercarla con l’uso corretto e non contraddittorio del Logos, del discorso. Un compito che nessuno può svolgere da solo, ma esclusivamente attraverso il dialogo, inteso come la costante verifica della validità dei concetti, cercando di ciascuno di essi il fondamento condivisibile. Anche Socrate tuttavia riteneva importante fare ricorso a una “tecnica” – la maieutica -, e anche se questa informazione ci viene esclusivamente da Platone, possiamo pensare che in essa ci sia qualcosa di autentico. Socrate era figlio di una levatrice – oggi diremmo di un’ostetrica; prendendo metaforicamente a modello la professione della madre, egli diceva che la conoscenza è un possesso interiore di cui non abbiamo piena coscienza. Compito del filosofo, ovvero il compito che egli stesso si attribuiva, è quello di aiutare la persona a far uscire, a rendere chiara anche a se stessa, tale conoscenza. E ancora una volta, il metodo è quello del domandare correttamente (da parte del filosofo) e del rispondere rimanendo nel contesto della domanda, esplicitando ciò che, senza consapevolezza, già sappiamo. Celebre è l’aneddoto in cui Socrate dimostra che anche uno schiavetto, analfabeta e senza istruzione, può arrivare alla dimostrazione di un teorema geometrico[2]. La sua condanna spense definitivamente la luce della democrazia ateniese. La filosofia, nel senso alto della parola, aveva perso la sua battaglia di civiltà.