La filosofia greca/La fisica – Il mutamento

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Indice del libro

Lo studio della Natura (“che cos’è” – ti estì – natura - physis), anche se non fu il primo dei grandi trattati aristotelici, è certamente il perno attorno a cui ruota il suo pensiero. Esso fu il passo decisivo che lo allontanò dal platonismo e l’esempio estremo di una vita dedicata alla ricerca. Accanto all’opera principale, La fisica, si contano infatti numerosi trattati naturalistici che lo impegnarono negli anni della tarda maturità.

La Fisica non è, propriamente parando, un saggio scientifico, ma una scrupolosa analisi logico-deduttiva su come distinguere e trattare tutti gli enti che rispondono allo stesso principio primo. Tale principio è, ovviamente, una proposizione dichiarativa, che suona: «[Tutti gli] enti che hanno in se stessi il principio del mutamento [sono naturali]». Analizziamo attentamente questa proposizione. In primo luogo, Aristotele parla di enti intendendo con essi le SOSTANZE PRIME che formano l’insieme che chiamiamo Natura. In questo caso, il termine sostanza assume in pieno il suo senso ontologico, senza escludere però quello logico di “soggetto” di una proposizione. In altre parole, sono sostanze in quanto esistono di per sé (sono “esseri”), mentre sul piano linguistico esse caratterizzano tutte quelle cose DI cui si può dichiarare qualche cosa. Veniamo adesso al concetto di mutamento.

Ricordiamo come, nella conversazione filosofica dei primi tre secoli, l’idea del mutamento sia stata decisamente negata a livello logico alla luce del principio di non contraddizione. La ricerca dell’unità dell’Essere imponeva l’impossibilità di ammettere che l’Uno, l’Unità, possa divenire qualcosa di diverso da sé, un’altra Unità (?!) o addirittura un non-essere. L’unica alternativa fu quella di concepire un Essere “plurale” – semi, omeomerie e atomi – dal cui movimento si generano le diverse cose. Aristotele poté superare questa barriera argomentativa con una soluzione assolutamente geniale, implicita nel suo stesso metodo fondativo logico-linguistico. In effetti, a ben vedere, tale soluzione è evidente: riconoscendo che ogni proposizione è, nello stesso tempo, un fatto linguistico e un fatto ontologico (ogni giudizio parla di qualcosa che è, ovvero: ogni soggetto è una sostanza), e spostando per ciò la definizione di “verità” sul piano logico, attribuiamo al concetto di Essere un doppio valore, di sostanza e di soggetto. Se «ogni sostanza è un soggetto», di ogni sostanza possiamo predicare diverse cose. Ovvero: se l’Essere è sostanza, esso è ogni volta una cosa diversa. Un conto è concepire l’Essere come assoluto (Parmenide), ontologicamente inteso come l’unica cosa che è (anche “materialmente”?); altro affermare che l’essere è una Categoria, la più alta ma “una di dieci”. Certamente tutto ciò non è semplice, ma ricordiamoci che stiamo parlando di uno dei massimi pensatori della storia e di uno dei più grandi progressi dell’umanità nello studio della conoscenza.

Dunque: se quella di sostanza è una categoria, tutti i soggetti (termini e/o enti) che ne partecipano hanno in sé la proprietà di essere qualche cosa. L’”essere” di cui parla Aristotele non è più né statico né semplicemente plurale. È qualcosa che può mutare, o divenire, senza indurre a contraddizione. Ma in che modo? Nel pensiero dell’unico tra i filosofi antichi che abbia ammesso il mutamento (Eraclito), è implicita una considerazione: il mutamento è un processo, il divenire si compie in un passaggio tra due modi di essere opposti (dalla notte al giorno, dalla guerra alla pace, dall’amore all’odio). Esso è come una freccia che si muove dal punto A al punto B. Ogni mutamento quindi implica un punto di partenza e uno di arrivo. Ciò che Eraclito lasciò in sospeso è la domanda su “ciò che muta”: che cos’è che si muove da A a B? Ancora una volta, ci soccorre la logica sintattica: il mutamento non è una sostanza ma una proprietà, esso ci dice qualcosa di qualcuno ma non può fungere da soggetto. L’essere umano muta, il mutamento no. È dunque evidente che esiste qualcosa che ha la proprietà di mutare (diverse cose, le sostanze prime), da uno stato A a uno stato B. Ma attenzione: se qualcosa muta da A a B, questo qualcosa è sempre presente. Una sostanza può apparire in modi diversi rimanendo se stessa; essa sta, in qualche modo, “sotto” (greco: hypò) ai suoi diversi modi di essere. L’uomo di nome Giovanni è sempre lo stesso sia da bambino che da vecchio. L’uomo di nome Giovanni è il sostrato (greco: hypokeìmenon) del mutamento. Tornando al punto di partenza, è possibile ora comprendere il senso della definizione aristotelica degli enti naturali: essi sono tutte quelle cose che hanno in sé la capacità di mutare (crescere, invecchiare, muoversi autonomamente). Tutte le altre cose, per muoversi, richiedono invece l’apporto di qualcos’altro: un pallone dev’essere calciato, un pianeta dev’essere mosso da una forza, una pietra ricade dopo essere stata alzata. Voi direte: anche gli oggetti “invecchiano”; vero, ma il loro invecchiare non fa parte del loro autentico modo di essere: un uomo vecchio è ancora un uomo nel senso proprio del termine, un pallone vecchio semplicemente “non serve più”. A rigore, Aristotele ci dice che pensare che un vecchio “non serve più” è il modo più brutale di ridurre l’umanità a pura e semplice cosa.