La filosofia greca/Il Logos secondo Aristotele
Una premessa. Aristotele leggeva i dialoghi di Platone. Ciò gli comportò, all’interno dell’Accademia, un soprannome non del tutto benevolo, quello di “lettore” (greco: o anagnostes). I “lettori” erano all’epoca gli schiavi addetti alla lettura dei testi, che gli intellettuali amavano più ascoltare che visionare. Gli stessi dialoghi platonici erano letti da uno schiavo, ascoltati dagli uditori e poi discussi in modo esclusivamente orale, senza nessuna forma di rielaborazione che non fosse quella direttamente confutativa legata al discorso. Il giovane allievo appariva dunque un eccentrico, dedito a una pratica ritenuta indegna di un uomo libero. Soffermiamoci un momento su questo particolare apparentemente da nulla. Leggere un testo vuol dire seguirne attentamente lo sviluppo con lo sguardo, averlo sotto gli occhi; in un’epoca in cui nessuno lo faceva, questo esercizio indicava l’attitudine all’osservazione, alla visione diretta delle cose. Più che afferrare il significato con la mente (udire), per Aristotele evidentemente contava afferrarlo con gli occhi (vedere).
L’importanza di questo cambio di prospettiva apparirà evidente più avanti. Per il momento mi preme sottolineare il fatto che la lettura di un testo ne facilita l’analisi. Avere un testo sotto gli occhi permette di ripercorrere il “filo del discorso” in ogni direzione, isolando le singole parole o avendone una visione d’insieme. È la base concreta e operativa per una visione analitica del linguaggio. Aristotele anticipò il detto latino verba volant, scripta manent. Per analizzare qualcosa, occorre però averne chiara la struttura: se voglio sezionare in modo scientificamente corretto un animale non posso tagliarlo casualmente a fette ma devo ri-conoscerne adeguatamente le parti, così da riuscire a separarle in modo funzionale. Lo stesso vale per qualsiasi sistema che ci accingiamo a studiare: per comprendere un testo matematico devo saper riconoscere le quattro operazioni (cioè il significato degli operatori e il valore delle loro relazioni con i numeri), così come per poter effettuare l’analisi logica del linguaggio devo saper attribuire ad ogni parola contenuta in una frase la sua giusta funzione. Aristotele fu il primo a “indicare” la struttura funzionale del linguaggio, ideando quella che oggi chiamiamo sintassi del discorso. La logica aristotelica è una logica sintattica (greco: syntaxis, ordinamento), essa ha lo scopo di individuare le condizioni formali (o logiche) che permettono di costruire delle frasi (enunciati) corrette. Questa definizione ci pone tuttavia di fronte a una specie di paradosso. L’enunciato “idee verdi dormivano furiosamente” è sintatticamente “giusto” o “sbagliato”? Non c’è dubbio che esso sia sintatticamente corretto: soggetto, attributo e predicato verbale sono assolutamente dove dovrebbero essere. Cos’è allora che non funziona? La risposta è semplice: per giudicare della correttezza di un enunciato non è sufficiente verificare se ogni termine è al suo posto (greco: topos, da cui Topici, il primo in ordine di tempo dei trattati aristotelici sulla logica), ma occorre anche valutare se è coerente sul piano del significato. In tal senso, si può dire che il linguaggio verbale si sviluppa su due piani perpendicolari: quello verticale e quello orizzontale (dove bisogna mettere il soggetto di una frase, e quali sono i termini, ovvero i predicati, compatibili con esso). Torniamo allora alla domanda da cui sono partito: “cos’è?” (l’uomo, il bene, ecc.).
Per definire qualcosa bisogna conoscere i termini che… la definiscono. Per definire l’”essere umano” devo sapere cos’è; non c’è altra strada. Scrivere “l’uomo è un vegetale” è sintatticamente giusto, ma noi sappiamo che l’enunciato è falso. Come facciamo a saperlo? Il procedimento diairetico (greco: diairesis, divisione) fu utilizzato anche da Platone: esso consiste nell’ordinare un concetto secondo generi (ciò che è comune) e specie (ciò che è proprio). Tuttavia Platone, come abbiamo visto, non teneva conto della natura sintattica del linguaggio, trascurando le sue regole formali. L’analisi diairetica è un’analisi dicotomica, basata cioè sulla divisione binaria dei concetti: ogni concetto (verbalmente corrispondente a un termine) dev’essere diviso in due componenti fondamentali, l’uno indicante “ciò che esso è”, l’altro “ciò che esso non è”. L’Uomo è un animale e non è un vegetale. Il “non essere” di un concetto va scartato, proseguendo la divisione sull’asse di “ciò che è”. L’animale è un essere vivente e non è materia inerte. Di grado in grado, la diairesi conduce dal caso specifico al genere sommo, quello che non può essere ulteriormente diviso. Ponendo a sinistra tutto ciò “che è” e a destra “ciò che non è”, possiamo tracciare un albero logico che indica quali sono i termini adatti a una definizione universale (che cos’è) di un ente. Il problema, ovviamente, è individuare i termini appropriati. Se vogliamo dire con estrema chiarezza dove avvenne la rottura tra i due grandi filosofi, possiamo dire che essa si consumò nel criterio di individuazione dei generi che contribuiscono alla costruzione dell’albero diairetico. Semplificando: per Platone i generi sono idee, mentre Aristotele riteneva che essi siano semplicemente dei concetti afferrabili con l’intelletto ma privi di un’esistenza reale. In parole povere, per Aristotele le idee non esistono. Platone fondava la diairesi sulla necessità di riconoscere un ordine supremo di carattere universale che dà forma alla conoscenza e che ne rappresenta il modello ideale; Aristotele la rielaborò radicalmente attribuendo ad essa un carattere puramente formale e combinatorio, capace di dare conto della realtà in modo quasi meccanico, senza il ricorso ad elementi trascendenti e inafferrabili. Tuttavia ciò non basta a rispondere al nostro bisogno di distinguere il vero dal falso. Ripeto: come faccio a sapere che “l’Uomo non è un vegetale”?