La filosofia greca/«Che cos’è» (ti esti)
Come abbiamo visto, Platone in un certo senso abbandonò la discussione sulle idee per le troppe contraddizioni che il metodo dialettico non riusciva a superare. Col senno di poi potremmo dire che “se” avesse ascoltato il suo allievo Aristotele le cose sarebbero andate diversamente e avremmo tutta un’altra storia della filosofia. Ma lo scopo profondo del filosofare platonico era politico, etico più che teoretico, vale a dire volto alla soluzione di un problema più che alla sua sistemazione teorica. Se l’Idea non è “afferrabile” dialetticamente, il Bene come principio di ogni cosa è però intuibile e tanto basta per la formazione di un buon politico.
Il dilemma platonico, dimostrare o indicare, è il dilemma di tutto il pensiero occidentale. La domanda è: la verità è afferrabile logicamente, o è un’idea innata che possiamo ritrovare solo dentro di noi? O ancora: è visibile o puramente pensabile? Non deve stupire il fatto che ancora oggi alcune discipline, attinenti al linguaggio e allo studio del comportamento umano, si schierino per l’una o l’altra ipotesi, portando in tutti e due i casi argomenti assai solidi e convincenti. Di fronte a questo dilemma il metodo storico-critico più corretto sarebbe quello di valutare il contesto nel quale Platone operò, confrontandolo con quello dei suoi successori, a cominciare da Aristotele. Questi era figlio del medico di corte del re di Macedonia, cresciuto ed educato in un ambiente raffinato e colto; all’età di diciassette anni arriva ad Atene per frequentare l’Accademia platonica. Quella che trova è un’istituzione di assoluto rilievo, frequentata dai più noti intellettuali greci di tutte le provenienze: filosofi, matematici e medici. Uscendo dalla prospettiva puramente soggettiva dell’insegnamento di Platone, occorre precisare che quello che avveniva all’interno dell’Accademia era quanto di più vario si possa immaginare: essa era paragonabile a una grande università, nel senso originale del termine latino (universitas), inteso cioè come “universalità degli studi”. In poche parole, Aristotele non parte, come il suo maestro, da una crisi della filosofia (la morte di Socrate), ma da una posizione di forza assai privilegiata che si configura come la strada maestra della cultura greca. Che cosa significa tutto ciò? Semplificando si potrebbe rispondere che, mentre Platone dovette sobbarcarsi il compito di ricostruire ciò che era stato demolito, Aristotele ebbe tutto l’agio di poter contemplare un intero sistema culturale con il distacco del puro studioso libero e disinteressato. Il cantiere platonico rivelava dei punti deboli nella sua stessa struttura: indagarli e perfezionarli fu lo scopo del giovane discepolo. A cominciare dalla dialettica stessa.
Mentre Platone scrive Fedro e Parmenide, i due dialoghi nei quali il metodo dialettico comincia a manifestare i propri limiti, Aristotele comincia a stendere quello che diventerà il suo edificio logico, l’Organon. Per entrambi i filosofi il problema è la DEFINIZIONE, cioè la risposta alla domanda “che cos’è?”. Qual è la risposta giusta alla domanda “che cos’è la mela?”: a) la mela è un frutto, o b) la mela è rossa? Nel suo procedere dialettico Platone non affronta il problema, non curandosi dell’ordine sintattico del linguaggio. Lungo la via della deduzione egli non distingue tra i diversi ordini delle parole, mettendo sullo stesso piano sostantivi e aggettivi e scegliendo di volta in volta ciò che è più utile a raggiungere quella CONDIVISIONE che è lo scopo del processo dialogico. Sostanzialmente, a Platone non interessa lo studio del linguaggio e lo dimostra il fatto che alle obiezioni di Aristotele egli non diede mai risposta.
In effetti, ciò che Aristotele riteneva determinante ai fini del ragionamento rientrava in una visione della scienza divergente rispetto a quella del Maestro. Figlio di un medico, e quindi di un intellettuale naturalista, egli assunse un metodo di ricerca molto simile a quello utilizzato per l’osservazione dei fenomeni di natura: la classificazione in base a generi e specie di appartenenza. Anche Platone ammette, nel processo deduttivo dall’Uno ai molti, l’esistenza di generi e specie, ma in un modo rivelatosi insufficiente allo scopo. Se la deduzione implica il passaggio da un termine generale a uno particolare, entrambi i termini devono appartenere allo stesso ordine di cose, che Aristotele definisce CATEGORIE, come vedremo più avanti. Per chiarire: UOMO (sostantivo) è un caso particolare di BIPEDE (sostantivo), e non di “biondo”. Dire “l’uomo è un bipede” equivale a dare di esso una definizione; al contrario, la frase “l’uomo è biondo” è un errore logico (sintattico). Secondo Aristotele la definizione richiede che ciò che dev’essere definito sia già compreso nella sua stessa definizione lungo la catena sintattica del linguaggio (Logos): “uomo”, “bipede”, “animale”, “essere vivente” (l’uomo è un bipede, i bipedi sono animali, gli animali sono esseri viventi).
È sempre più evidente che il concetto di Logos sta ampliando la sua sfera di significato (area semantica) in modo controproducente. Da principio (arché) di carattere semi-divino (Eraclito), il termine viene successivamente utilizzato per indicare sia fenomeni – la parola, il discorso – che comportamenti – il ragionamento. Un’ambiguità che non poteva giovare alla filosofia e che evidentemente non ha permesso ai due supremi rappresentanti del pensiero occidentale di comprendersi reciprocamente. È venuto dunque il momento di fare luce su una questione fondamentale.