Storia della letteratura italiana/Sperimentalismo e neoavanguardia
Tra gli anni cinquanta e sessanta, la fine degli equilibri politici e culturali sorti dalla Resistenza determinano il passaggio dal neorealismo allo sperimentalismo e alla neoavanguardia. Gli scrittori sperimentali rifiutano modelli letterari e valori precostituiti, ma cercano modi espressivi nuovi, strumenti che consentano di agire sul mondo a partire da un rapporto critico con la realtà. Uno sperimentalismo in continuità con la tradizione della sinistra italiana viene proposto alla fine degli anni cinquanta dalle riviste Officina e Il Menabò. La neoavanguardia degli anni sessanta cercherà invece il distacco dalle esperienze del recente passato. Queste istanze vengono portate alla luce in particolare dagli autori del Gruppo 63.[1]
Il contesto
[modifica | modifica sorgente]Sperimentalismo e neoavanguardia si intrecciano con le attività della sinistra italiana degli anni cinquanta e sessanta, che troveranno nel Sessantotto la loro esplosione. Particolarmente importante è la rivista Officina che, attiva tra il 1955 e il 1959, annovera tra i suoi redattori Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti e Roberto Roversi, a cui si aggiungono in un secondo momento Angelo Romanò, Gianni Scalia e Franco Fortini. Gli intellettuali che la animano sono accomunati dall'insoddisfazione per la situazione politica italiana e dalla polemica contro la tradizione novecentesca e contro gli ultimi esiti del neorealismo. Ci si propone quindi di recuperare l'esperienza del realismo ottocentesco e di dar vita a una letteratura che si confronti con la modernità aprendosi alle sperimentazioni linguistiche, ma senza per questo tagliare i ponti con la tradizione.[2]
Più legato alla recente letteratura impegnata, Il Menabò è fondato da Vittorini con la collaborazione di Calvino. La vita della rivista dura pochi anni, dal 1959 al 1967, durante i quali vengono pubblicati dieci fascicoli; non esce con una cadenza fissa e non può nemmeno essere considerata espressione di un gruppo definito di intellettuali. Piuttosto, è stata uno strumento per verificare la possibilità di una nuova letteratura che abbia un orizzonte internazionale. Con la sua attività, Il Menabò ha stimolato il dibattito sul rapporto tra letteratura e industria, e ha ospitato i primi esperimenti della neoavanguardia.[3]
Le esperienze di Officina e del Menabò confluiranno, nel 1967, nella rivista Il Verri, diretta da Luciano Anceschi. L'estetica fenomenologica di Anceschi farà sì che la rivista sia lontana dallo storicismo e dal neorealismo, e sia invece più aperta alle tecniche artistiche, alle scienze umane, alla filosofia contemporanea. Dall'esperienza del Verri nasce la raccolta I Novissimi. Poesia per gli anni '60 (1961), che presenta testi di Alfredo Giuliani (curatore dell'opera), Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini e Antonio Porta. Nell'introduzione, Giuliani parla di riduzione dell'io e di schizomorfismo, e prende le distanze dalla poesia più recente, definita "neo-crepuscolare".[3] A questa esigenza, propria dei giovani intellettuali, di una maggiore presenza sulla scena culturale risponderà la formazione del Gruppo 63.
Roversi e Leonetti
[modifica | modifica sorgente]All'interno del gruppo di intellettuali che animano Officina, Roberto Roversi (Bologna, 28 gennaio 1923 – Bologna, 14 settembre 2012) e Francesco Leonetti (Cosenza, 27 gennaio 1924 – Milano, 17 dicembre 2017) sono i più aperti a uno sperimentalismo che si confronti con la realtà, partendo entrambi dalla vicinanza alla sinistra marxista. Roversi in particolare, nella raccolta Dopo Campoformio ricorre a una poesia narrativa per esprimere le speranze tradite e la corruzione della società contadina a causa dello sviluppo capitalistico. Maggiormente sperimentali sono il romanzo Registrazioni di eventi (1964) e la raccolta Registrazioni in atto (1963-1969).[4]
Leonetti invece, direttore della Biblioteca Malatestiana di Cesena e poi docente di estetica all'Accademia di Brera, è più vicino alla tradizione illuministica e ricerca l'adesione alla realtà attraverso la sperimentazione linguistica, avvicinandosi anche alla neoavanguardia e confrontandosi con il Gruppo 63. Esordisce come poeta negli anni quaranta, pubblicando Sopra una perduta estate (1942), a cui seguono Poemi (1952) e Arlecchinata (1955). Con il suo primo romanzo, Fumo, fuoco e dispetto (1956), dimostra una spiccata propensione per la sperimentazione letteraria, che rimarrà una cifra stilistica della sua produzione. Politicamente impegnato nelle file della sinistra, ha affrontato le questioni politiche degli anni sessanta nei romanzi Conoscenza per errore (1961) e L'incompleto (1964).[5]
Franco Fortini
[modifica | modifica sorgente]Tra le esperienze letterarie e intellettuali più significative del secondo dopoguerra c'è senza dubbio quella di Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes; Firenze, 10 settembre 1917 – Milano, 28 novembre 1994). Nato da padre ebreo e madre cattolica, si laurea nel 1939 in filosofia del diritto e ha rapporti con l'ambiente dell'ermetismo fiorentino. In particolare, si avvicina all'«impegno» di Noventa e Carocci, e collabora con la rivista Riforma letteraria, che ospita i suoi primi scritti. Nel 1939, per sfuggire alle leggi razziali, diventa valdese e assume il cognome della madre, Emma Fortini. Nel 1943 è arruolato nell'esercito, ma l'anno seguente fugge in Svizzera, dove entra in contatto con gruppi di antifascisti e si iscrive al Partito Socialista. Tornato in Italia, si unisce alla lotta partigiana alla fine del 1944 e partecipa alle ultime fasi della Repubblica di Valdossola.
Nel dopoguerra si stabilisce a Milano e collabora con il Politecnico di Vittorini e l'Avanti!, il quotidiano ufficiale del Partito Socialista. Funzionario presso la Olivetti tra il 1947 e il 1953, è stato redattore delle riviste Ragionamenti (1955-1957) e Officina. Contemporaneamente, matura un atteggiamento critico verso la sinistra ufficiale e si avvicina ai movimenti giovanili del Sessantotto. Si interessa inoltre alla rivoluzione culturale cinese e nel corso degli anni segue le vicede della sinistra extra-parlamentare. Da sempre occupato a ridefinire i rapporti tra politica e letteratura, è stato docente di storia della critica presso l'università di Siena (dal 1971 al 1987).[6]
La poesia di Fortini è strettamente collegata alla sua attività politica: a entrambe sottende l'impegno a mettere in discussione ogni equilibrio. Tuttavia, se la politica deve confrontarsi necessariamente con il presente, la poesia vuole sottrarsi alla variabilità delle cose e si basa su un linguaggio assoluto. Nella sua produzione Fortini tende alla perfezione formale, opponendosi alle scissioni della realtà.[6] La prima raccolta Foglio di via e altri versi (1946) risente ancora dell'ermetismo, mentre Poesia ed errore (1959) si interroga sui limiti del rapporto tra parola e realtà.
In Una volta per sempre (1963) Fortini cerca una parola stabile che possa guardare al superamento del mondo contemporaneo, nell'attesa di un'apocalisse felice che porti al dissolvimento della realtà. A questa raccolta seguono L'ospite ingrato (1966) e Questo muro (1973), quest'ultimo strettamente legato alle istanze del Sessantotto.[7] L'equilibrio che il poeta sembra avere trovato finisce per incrinarsi durante gli anni settanta: in Paesaggio con serpente si fa strada l'idea che è difficile trovare con certezza sia il significato del passato, sia il senso del futuro.[8]
Alla poesia Fortini ha affiancato una ricca produzione saggistica, che comprende, tra gli altri, Dieci inverni 1947-1957. Contributo a un discorso socialista (1957), Verifica dei poteri (1965) e Questioni di frontiera (1977). Come già ricordato, si è inoltre occupato anche di critica letteraria: Saggi italiani (1974) e Nuovi saggi italiani (1987).[8]
Giovanni Testori
[modifica | modifica sorgente]L'opera di Giovanni Testori (Novate Milanese, 12 maggio 1923 – Milano, 16 marzo 1993), che è stato anche critico d'arte e pittore, è legata all'esperienza del neorealismo e all'esigenza di rappresentare la vita degli emarginati, in particolare nelle periferie di Milano. Un certo gusto per le contaminazioni liguistiche è evidente nei racconti dei volumi Il ponte della Ghisolfa (1958) e La Gilda del Mac Mahon (1959), in cui fa uso di una lingua al tempo stesso barocca e maccheronica.[9] Le due raccolte, nelle intenzioni dell'autore, avrebbero dovuto essere le prime di opere di un ciclo intitolato I segreti di Milano. Questo ciclo, ideato sul modello balzachiano, non verrà tuttavia completato dall'autore, che rispetto al piano originale scriverà solamente due testi teatrali (La Maria Brasca e L’Arialda) e un romanzo (Il Fabbricone).[10]
Il medesimo linguaggio sperimentale è utilizzato anche nelle sue opere teatrali, tra le quali si ricorda la trilogia composta da L'Ambleto (1972), Macbetto (1974) e Edipus (1977).[9] Diviso tra l'adesione al cattolicesimo (che negli ultimi anni della sua vita si farà sempre più forte) e la propensione verso la sensualità, Testori dà voce a questa personale scissione attraverso uno stile fortemente espressionista, nel quale, come suggerisce Asor Rosa, è possibile osservare la fine del neorealismo per «eccesso» di ricerca linguistica.[11]
Stefano D'Arrigo
[modifica | modifica sorgente]La produzione letteraria di Stefano D'Arrigo (Alì Terme, 15 ottobre 1919 – Roma, 2 maggio 1992) si caratterizza per un espressionismo tendente verso il mito pagano.[9] Critico d'arte, ha pubblicato nel 1957 la raccolta di poesie Codice siciliano, in cui prevale recupera immagini e miti della tradizione siciliana, generando un'atmosfera magica. Il libro susciterà grande interesse nella critica e sarà pubblicato da Vittorini, con il titolo I giorni della fera, sul Menabò n. 3, nel 1960.[12]
La sua opera più famosa è però il romanzo Horcynus Orca, a cui dedicò vent'anni di lavoro. Come scrive Ferroni, il libro è allo stesso tempo un ritorno alle origini, un viaggio di riconoscimento e un'apocalisse.[9] L'opera parla del ritorno in Sicilia del marinaio 'Ndrja Cambria dopo il 1943. Il protagonista incorre così in varie visioni fantastiche, fino all'incontro con la feroce orca in agguato nello stretto di Messina. Come Joyce prima di lui, D'Arrigo recupera e reinventa il mito di Ulisse, variando continuamente stili e registri. Il suo è un plurilinguismo che mescola il dialetto siciliano con arcaismi, preziosismi e neologismi. Uno stile estremamente personale e inedito, che ha diviso i critici sul giudizio da dare all'opera.[12]
Più semplice è invece il linguaggio usato nel romanzo successivo, Cima delle nobildonne (1985), in cui costruisce un racconto fantastico e ironico.
Antonio Pizzuto
[modifica | modifica sorgente]Antonio Pizzuto, nato a Palermo il 14 maggio 1893 e morto a Roma il 23 novembre 1976, fa carriera nella pubblica sicurezza, diventando vicequestore e vicepresidente della Commissione Internazionale di Polizia Criminale.[13]
Negli anni della maturità si occupa di letteratura, pubblicando libri sotto pseudonimo. Esordisce nel 1956 con il romanzo Signorina Rosina, a cui seguono Si riparano bambole (1960), Ravenna (1962) e le ultime, complesse, opere: Paginette (1364), Sinfonia (1966), Testamento (1969), Pagelle I (1973), Pagelle II (1964), Ultime e penultime (1978).
La sua narrativa si concentra sulla complessità del reale, dedicando un'ossessiva attenzione agli oggetti, siano essi materiali o mentali. Nelle sue opere si immerge nel pullulare della realtà e delle parole, e dietro alla trama lascia trasparire motivazioni filosofiche.[14] Pizzutto è una figura di letterato atipico, che però partecipa allo sperimentalismo e subisce l'influenza dei grandi della letteratura europea, e in particolare Joyce e Proust, evidente nella sua ricerca di nuove strutture narrative e linguistiche.[15]
Luigi Meneghello
[modifica | modifica sorgente]Luigi Meneghello (Malo, 16 febbraio 1922 – Thiene, 26 giugno 2007) è stato autore di una sperimentazione tutta personale. Scrittore appartato, ha partecipato alla Resistenza ed è stato docente di italiano all'università di Reading, in Inghilterra. Il fatto di aver vissuto lontano dall'Italia negli anni cinquanta lo ha portato ad avvertire con maggiore acutezza le trasformazioni avvenute nella società di provincia, e in particolare di quella veneta da cui proveniva. Da queste osservazioni nasce il suo romanzo più famoso, Libera nos a Malo (1963), in cui racconta della storia recente del suo paese, Malo (in provincia di Vicenza), ma anche della sua infanzia e del mondo contadino in cui è cresciuto. Meneghello in particolare si dimostra attento alle forme dialettali e al loro rapporto con la lingua nazionale. Il romanzo è però venato anche di un leggero umorismo, con cui descrive i personaggi e la vita quotidiana del piccolo villaggio di campagna.[16]
I piccoli maestri (1964), in cui ricostruisce la sua partecipazione alla guerra partigiana. Qui Meneghello ricorre a un linguaggio colloquiale, allo scopo di riportare l'evento eccezionale della guerra su un piano di quotidianità e banalità.</ref> Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. 3: La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 426.</ref> Tra le sue opere successive si ricordano Pomo Pero (1974), Fiori italiani (1976) e Bausète (1988).
Note
[modifica | modifica sorgente]- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1109.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 1109-1112.
- ↑ 3,0 3,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1112.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 1123-1124.
- ↑ Giuliano Manacorda, LEONETTI, Francesco, in Enciclopedia Italiana - V Appendice (1993). URL consultato l'8 dicembre 2018.
- ↑ 6,0 6,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1121.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1122.
- ↑ 8,0 8,1 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1123.
- ↑ 9,0 9,1 9,2 9,3 Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1124.
- ↑ Giovanni Testori, I segreti di Milano, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Feltrinelli, 2011.
- ↑ Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. 3: La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 512.
- ↑ 12,0 12,1 Valeria Della Valle, D'ARRIGO, Stefano, in Enciclopedia Italiana - V Appendice (1991). URL consultato l'8 dicembre 2018.
- ↑ Pizzuto, Antonio, in Dizionario della letteratura italiana del Novecento, diretto da Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1992.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, pp. 1124-1125.
- ↑ Alberto Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, vol. 3: La letteratura della Nazione, Torino, Einaudi, 2009, p. 524.
- ↑ Giulio Ferroni, Profilo storico della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 2003, p. 1125.