La Coscienza di Levinas/Capitolo 23

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Indice del libro
Sanz-Israel
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Etica, politica e sionismo[modifica]

Per approfondire, vedi Serie misticismo ebraico e Serie maimonidea.

Il tema del sionismo costituisce una questione aperta negli studi di Lévinas. Il sionismo ha un posto all'interno della distinzione di Lévinas tra etica e politica o, come potrebbe suggerire il nostro titolo, è una terza categoria, che richiede una discussione separata e, come tale, indica che in situazioni empiriche Lévinas non è riuscito a utilizzare le proprie categorie? Per molti commentatori, una risposta affermativa a una qualsiasi di queste domande sarebbe altamente problematica. Per alcuni, l'apologetica di Lévinas per lo Stato di Israele ha radici nella sua etica e, quindi, rivela i fondamenti imperfetti della sua filosofia. Per altri, Lévinas non è stato in grado o non ha voluto applicare la sua generosa etica al caso del conflitto israelo-palestinese e ha fatto una vergognosa eccezione alle sue stesse regole. Nel primo caso, abbiamo un problema con la filosofia di Levinas.[1] Nel secondo, la filosofia di Lévinas è innocente ma Lévinas no.[2]

Pur sottoscrivendo alcune delle argomentazioni avanzate da entrambi i gruppi di studiosi, non sono d'accordo con il quadro generale delle loro discussioni. Da un lato, mi sento a disagio con quella che Eisenstadt e Katz hanno recentemente descritto come una crescente tendenza ad avvicinarsi agli scritti di Lévinas con l'aspettativa di trovarli antipalestinesi, eurocentristi e razzisti, vale a dire, a leggerlo con l'obiettivo a priori di denunciare sue presupposte posizioni politiche.[3] Dall'altro, devo ammettere di provar meno disagio di fronte a commenti di tipo opposto, che difendono a tutti i costi le posizioni di Lévinas. Sebbene non si possa fingere di essere del tutto obiettivi o imparziali, credo che si possa tentare di dare un senso a ciò che Lévinas ha detto nel contesto della sua filosofia prima di passare alla difesa o alla critica. A questo proposito, è importante ricordare che Lévinas era cittadino francese, non israeliano. La sua fedeltà politica era alla Repubblica francese con le sue politiche universaliste, la sua laïcité e il suo ethos patriottico; non era politicamente responsabile di tutto ciò che è accaduto o sta accadendo in Medio Oriente. Per questo motivo e per molti altri è straordinariamente fuorviante paragonarlo a Heidegger, che era cittadino tedesco e membro del partito nazista.[4] Detto questo, non c'è dubbio che l'identità e le esperienze di Lévinas come ebreo – compreso l'assassinio di gran parte della sua famiglia durante l'Olocausto, e poi la nascita dello Stato di Israele pochi anni dopo – abbiano influenzato le sue opinioni sul sionismo. hanno sicuramente influenzato le mie e quindi mi ritrovo ad empatizzare completamente con lui.

Lévinas ha espresso i suoi pensieri su Israele e il sionismo[5] principalmente nelle sue Letture Talmudiche o in articoli pubblicati insieme alle Letture. Questo corpo di lavoro, pubblicato separatamente dai suoi libri neofenomenologici, ha un sapore politico che solo di recente ha iniziato a essere notato negli studiosi.[6] È mia opinione che in questi testi Levinas cerchi di dimostrare la rilevanza concreta della sua etica utopica attraverso casi che dovrebbero rappresentare la vita quotidiana.[7] In altre parole, le Letture Talmudiche intendono mostrare la relazione tangibile tra i principi utopici e la realtà mondana. Il sionismo è quindi affrontato nelle Letture come un evento dell'intrigo di etica e politica.[8]

Dicendo che la posizione di Lévinas sul sionismo è un esempio specifico della sua concezione più ampia del rapporto tra etica e politica, desidero sottolineare che non tutta la filosofia di Lévinas è in gioco nelle sue visioni del sionismo. In altre parole: le opinioni di Lévinas sul sionismo sono uno sviluppo particolare della sua filosofia; la sua filosofia non è uno sviluppo delle sue opinioni sul sionismo. In quanto tale, la posizione che prenderò in questo Capitolo è che la comprensione del sionismo da parte di Lévinas è coerente con la sua filosofia piuttosto che un segno della sua incapacità di applicare il proprio pensiero al caso israeliano. Allo stesso tempo, qualsiasi problema che potremmo trovare nell'applicazione della sua filosofia al sionismo da parte di Lévinas non squalifica la totalità del suo lavoro.

Nella prima parte di questo Capitolo discuterò la concezione levinasiana del rapporto tra etica e politica e spiegherò la sua difesa dello Stato di Israele. Nella seconda parte, mostrerò che, in linea con la sua filosofia, Lévinas ha espresso una forte critica a quello Stato, critica spesso trascurata o sottovalutata nella ricerca. Nell'ultima parte esaminerò la principale debolezza del sionismo di Lévinas, vale a dire il palese hegelismo che si scontra con una filosofia che pretende di confutare Hegel.

La difesa dello Stato di Israele[modifica]

Per approfondire, vedi Israele e la Guerra dello Yom Kippur e Staat Israel (de).

La difesa del sionismo da parte di Lévinas dovrebbe essere compresa nel contesto della sua concezione generale del rapporto tra etica e politica. Per Lévinas l'etica è l'incontro con un altro essere umano, che avviene su un piano distinto sia dalla ragione cognitiva che dall'esperienza estetica. Questo faccia-a-faccia non consiste nel riconoscere l'altro, ma in una chiamata alla responsabilità per l'altro prima dell'appercezione e del sentimento. Tuttavia, l'anteriorità dell'evento etico non ha significato cronologico. La responsabilità per l'altro viene prima dell'ontologia (cioè ragione ed esperienza) non storicamente ma normativamente (sebbene Lévinas non userebbe quella parola). La responsabilità per l'altro è immediata e assoluta: non passa attraverso alcuna mediazione ontologica, e impegna l'intero sé come sacrificio. Costituisce la "struttura essenziale, primaria e fondamentale della soggettività".[9] Di conseguenza, la vocazione etica è la condizione di tutte le relazioni. È la base della socialità, la ragione primordiale per cui, in gran parte, non ci uccidiamo a vicenda.[10]

L'etica da sola, tuttavia, non ha materialità. Infatti, l'incontro di una soggettività con l'altra non avviene mai nella sua pura forma binaria. C'è sempre un "terzo" da tenere in considerazione, con cui Lévinas intende che "in prossimità dell'altro, tutti gli altri oltre l'altro mi ossessionano".[11] In altre parole, l'ego è sempre "chiamato" da molteplici altri[12] e, quindi, non ha altra scelta che dividere la sua responsabilità: "La fame dell'Altro – fame fisica, fame di pane – è sacra; solo la fame del terzo limita i suoi diritti".[13] Al principio etico della responsabilità assoluta si accompagna la necessità politica del confronto, del calcolo e della distribuzione.[14] Il confronto, il calcolo e la distribuzione – cioè la condivisione – permettono al principio etico di manifestarsi in una realtà che non è, quindi, mai puramente etica. Come afferma Erika Weitzman, "the entry of the third... brings the binary of the face-to-face encounter... into the phenomenal".[15] Ciò significa, a sua volta, che l'etica si concretizza solo grazie a ciò che non è etica, cioè la politica. Nelle parole di Lévinas, "In effetti, senza queste strutture politiche e tecnologiche di organizzazione non saremmo in grado di nutrire l'umanità. Questo è il grande paradosso dell'esperienza umana: dobbiamo usare l'ontologico per amore dell'altro; per garantire la sopravvivenza dell'altro dobbiamo ricorrere ai sistemi tecnico-politici di mezzi e fini".[16]

La politica, come concretezza della nostra vita con gli altri, non può mai essere evitata; ma dobbiamo anche riconoscere, dice Lévinas, che non dovrebbe mai essere evitata, perché è un mezzo per l'etica. In altre parole, e contrariamente al malinteso comune, Lévinas non era "contro" la politica. Temeva solo la "politica lasciata a se stessa",[17] perché è questa che produce la tirannia: tutti quei millenni di lotte fratricide, politiche e sanguinose, di imperialismo, di odio e di sfruttamento umano fino al nostro secolo di guerre mondiali, di genocidi, di Olocausto e terrorismo; della disoccupazione, della perdurante povertà del Terzo Mondo; delle spietate dottrine e crudeltà del fascismo e del nazionalsocialismo, fino al supremo paradosso in cui la difesa dell'umano e dei suoi diritti si rovescia nello stalinismo. [18]

Tuttavia, anche la "politica abbandonata a se stessa" non è del tutto priva di etica. Secondo Derrida, il "puramente politico" è "una finzione per la quale Levinas di fatto... esclude la possibilità di prendere mai forma".[19] Come scrive Lévinas in "The State of Caesar and the State of David" (il primo saggio della sezione "Sionisms" in Beyond the Verse/L'aldilà del versetto), "la Città nel suo senso più semplice non è mai al di qua del religioso".[20] In altre parole, la "religione" – come Lévinas a volte chiama l'etica nel suo modo idiosincratico[21] – infonde sempre la politica in una certa misura. La questione, quindi, non è se l'etica esista all'interno della politica, ma in che misura esiste.[22] Lévinas usa il termine "giustizia" per la connessione di etica e politica,[23] che non si sintetizzano mai completamente ma si richiedono, si influenzano e si criticano a vicenda. Pertanto, Jason Caro ha sia ragione che torto quando sostiene che la concezione della giustizia di Levinas "is so undetermined that it has few rules to guide its exercise".[24] Ha ragione perché Lévinas non ha mai definito chiaramente la giustizia e non ha quasi mai descritto procedure giuste o decisioni giuste. Ha torto, però, perché la giustizia in Levinas non è un valore da definire, ma il rapporto tra etica e politica. In altre parole, "giusto" non ha una definizione fissa. C'è giustizia in tutte le situazioni concrete.

Per Lévinas, la nozione di giustizia intesa come rapporto tra etica e politica – o più precisamente, tra un'etica e una politica che non possono mai essere pure proprio a causa della loro interconnessione – è illustrata nella Bibbia ebraica e nel Talmud, e in particolare in 1 Samuele 8, Deuteronomio 17:14-20, e i loro commentari talmudici, che trattano della politica rappresentata dalla regalità. In 1 Samuele 8, gli israeliti chiedono al giudice e profeta Samuele di nominare un re. Samuele, che ha cercato di stabilire una dinastia ereditaria di giudici, è dispiaciuto e si rivolge a Dio, il Quale spiega che gli israeliti non stanno rifiutando l'autorità di Samuele ma quella di Dio, come è avvenuto dal giorno in cui Dio li ha portati fuori dall'Egitto. Dio comanda a Samuele di lasciare che gli israeliti facciano a modo loro, ma prima di avvertirli dei misfatti e delle esazioni che possono aspettarsi da un re se dovessero persistere ostinatamente nel chiedere un sovrano terreno. Deuteronomio 17: 14–20 fornisce una serie di regole e restrizioni che devono essere osservate da qualsiasi futuro re, in modo da prevenire le offese descritte da Samuele.[25] I testi biblici esprimono, quindi, "l'idea di un potere che non abusa dei suoi poteri"[26] – cioè l'idea che un potere politico pericoloso e forse indesiderabile debba essere strettamente limitato da preoccupazioni etiche. Il Talmud, invece, interpreta questi stessi testi in chiave hobbesiana,[27] definendo il potere politico necessariamente violento e legittimamente spogliato di preoccupazioni etiche. Lévinas pone la questione se questo restringimento della sfera etica sia mai giustificabile: "Gli eccessi di potere sarebbero giustificati quando si tratta di assumere il compito della sopravvivenza di un popolo tra le nazioni, o di una persona tra i suoi simili?"[28] In altri termini, la concezione biblica e talmudica della regalità incarna il problema della giustizia vista come restrizione sia della politica che dell'etica lasciate a se stesse.

La discussione di Lévinas in "Lo Stato di Cesare e lo Stato di Davide" delinea due idee direttive. La prima è che la giustizia, vista come limite sia dell'etica che della politica, è nella sua stessa concretezza il meglio che si possa sperare, non nel senso del male minimo, ma nel senso della materializzazione stessa dell'etica. Come scrive Lévinas, "la Legge che entra nel mondo esige un'educazione, una protezione, e di conseguenza una storia e uno Stato; [...] la politica è la via di questa lunga pazienza e di queste grandi precauzioni".[29] Pertanto, la giustizia così come viene descritta nei testi biblici e talmudici ha una funzione messianica: "Lo scopo dello Stato di Davide rimane la Liberazione [Messianica]... Questo mondo politico deve, quindi, rimanere in relazione con il mondo ideale... L'azione politica di ogni giorno che passa inizia in un'eterna mezzanotte e deriva da un contatto notturno con l'Assoluto".[30] In altre parole, l'utopia dell'etica non scompare nella giustizia, intesa come qualche rapporto tra etica e politica. Al contrario, la giustizia è l'unico modo per realizzare questa utopia. La seconda idea direttiva del testo è che lo scopo della giustizia è la sopravvivenza di un popolo o di una persona. L'etica non mira alla sopravvivenza, ma alla responsabilità sacrificale. La giustizia riguarda la sopravvivenza.

È nel quadro di queste due idee che Lévinas esprime le sue opinioni sul sionismo. Per lui il moderno Stato di Israele ha lo stesso obiettivo dello "Stato di Davide", visto non come un regno storico ma come una concezione della giustizia elaborata nella Bibbia e nei suoi commentari.[31] Con buona pace di Derrida e Caygill, questo non significa esattamente che Israele "si impegni ad essere non solo quello che è anche, di fatto e di diritto, cioè uno Stato come gli altri"[32] o che è "più di qualsiasi nazione-stato, e la sua missione etica rivelata supera i limiti delle loro storie violente".[33] Per Lévinas, il moderno Stato di Israele è nazionale e violento come qualsiasi altro stato, ma è destinato a rievocare la specifica forma di giustizia concettualizzata nella Bibbia e successivamente nel Talmud come percorso verso la redenzione o come redenzione stessa. Come scrive nel 1951, questa forma di giustizia incarna specifiche leggi sociali che si occupano di "sordide questioni di cibo, lavoro e alloggio".[34] In altre parole, il moderno Stato di Israele non è più giusto di altri Stati – anche la Francia, per esempio, realizza la giustizia attraverso il suo motto di "Libertà, Uguaglianza, Fraternità"[35] – ma manifesta il "particolarismo" di Israele attraverso il suo rispetto delle leggi sociali formulate nella Bibbia e nel Talmud:[36] "Lo Stato di Israele è la prima opportunità [per gli ebrei] di entrare nella storia realizzando un mondo giusto... I sacrifici e le opere che la realizzazione della giustizia invita gli uomini a compiere danno corpo ancora una volta allo spirito che animava i profeti e il Talmud".[37] Si può sorridere dell'enfatica ingenuità di Lévinas quando scrive: "Un israeliano sperimenta il famoso tocco di Dio nei suoi rapporti sociali".[38] Tuttavia, sembra onestamente convinto che lo Stato di Israele "abbracci l'insegnamento dei profeti",[39] cioè si prenda cura del povero, della vedova e dell'orfano.

In altre parole, nel racconto di Lévinas, lo Stato di Israele realizza la giustizia come tutti gli altri Stati, ma allo stesso tempo manifesta una versione particolare della giustizia, cioè la visione profetica della solidarietà sociale, una "società in cui l'uomo non è sfruttato, una società in cui gli uomini sono uguali, una società come la volevano i primi fondatori di kibbutz". [40] Per Lévinas, questo significa che lo Stato di Israele sta inventando qualcosa di "inaudito",[41] una miscela speciale di vecchie idee e nuove realtà. Il moderno Stato di Israele è l'elaborazione paziente di una "politica monoteista"[42] – una politica che percepisce la traccia di Dio nel volto dell'Altro. Questa politica monoteista o "messianica"[43] è sia quella definita nella Torah sia quella realizzata nel moderno Stato di Israele.[44]

Questa componente particolaristica dello Stato di Israele si unisce alla sua seconda e universale componente: la giustizia rende possibile la sopravvivenza. Come accennato in precedenza, Lévinas suggerisce che l'allargamento del potere politico e, quindi, la restrizione dell'etica è legittimata dal "compito della sopravvivenza". La sopravvivenza, o "perseveranza nell'essere", è un bisogno universale soddisfatto attraverso la stabilità politica e la pace.[45] Lévinas non accenna a un diritto di autoconservazione, ma né in "Lo stato di Cesare e lo Stato di Davide" né in molti altri testi evita il riferimento a Hobbes: "Anche se Israele si considererebbe discendente da un irriducibile fraternità, è consapevole della tentazione, dentro di sé e intorno a sé, della guerra che mette tutti contro tutti".[46] Lo stato è la causa ma anche la risposta alle guerre e alla distruzione. Di conseguenza, una delle principali preoccupazioni del moderno Stato di Israele è quella di "assicurare un rifugio a coloro che sono perseguitati".[47] Questa nozione è sottolineata nel saggio "Politica Dopo!" del 1979, scritto dopo la visita del presidente Sadat in Israele, in cui Lévinas ricorda le popolazioni ebraiche ottocentesche dell'Europa orientale, "esposte a persecuzioni e pogrom",[48] e l'antisemitismo e nazismo del XX secolo. Come scrive Lévinas nell'Introduzione a L’aldilà del versetto del 1981, la "storia millenaria di oltraggi e lacrime, di insicurezza permanente e di spargimento di sangue reale e caldo... è dove risiede la causa concreta e la vera raison d’être del sionismo".[49]

Ne consegue, secondo Lévinas, che se il moderno Stato di Israele è forte – e lo è necessariamente perché è una potenza politica – è anche debole, perché è nato dalle sofferenze dell'ebraismo europeo, e, "con le sue spalle al muro, o al mare",[50] è ancora minacciata dai "suoi vicini, nazioni indiscusse, ricche di alleati naturali e circondate dalle loro terre".[51] Lo Stato di Israele trae la sua legittimità non da una qualsiasi pretesa esigenza di uno "espace vital", che Lévinas non ha mai riconosciuto come un diritto,[52] ma dal suo essere nato per autodifesa. Come dice nella spesso citata intervista che seguì i massacri del 1982 a Sabra e Shatila,[53] "c'è posto per una difesa... Definirei una tale difesa una politica, ma una politica eticamente necessaria".[54] La limitazione dell'etica che assicura la sopravvivenza ha un significato etico perché è solo attraverso la sopravvivenza che l'etica può manifestarsi. Il moderno Stato di Israele consente una sopravvivenza necessaria per l'attuazione della sua specifica giustizia.

La critica allo Stato di Israele[modifica]

Per approfondire, vedi Israele – La scelta di un popolo e Storia e memoria.

Sarebbe facile sostenere a questo punto che la difesa dello Stato di Israele da parte di Lévinas si fonda su una versione fantasticata di quel paese, solo lontanamente collegata alla sua realtà empirica. Un aneddoto riportato nella biografia di Levinas da parte di Malka sottolinea la distanza tra la concezione di Levinas dello Stato di Israele e la sua fenomenale controparte, ed evidenzia la sorpresa e la disapprovazione di Levinas di fronte a quest'ultima:

« There had also been another trip to Israel, to Be’er-Sheva in 1978, for a conference on Martin Buber... Afterwards, the group went to visit a Bedouin settlement in the suburbs of Be’er-Sheva, and when the guide, before letting the participants disembark, explained that the Bedouins were required to burn their tents if they wanted to be eligible to receive stone houses from the government, Levinas remained on the bus. "It’s colonialism!" he cursed.[55] »

Tuttavia, Lévinas aveva espresso molto presto riserve sui pericoli insiti nella limitazione dell'etica, che era una parte necessaria del progetto politico israeliano, e, in particolare, sul rischio di sviluppare un'idolatria della terra. Nella sua lettera a Blanchot del 21 maggio 1948, annota ironicamente: "Non è magnifico, soldati ebrei e contadini ebrei? E quindi una cultura giovane, radicata nella terra, ‘sana’ come si dice, concreta, patriottica".[56] Invece, come scriveva nel 1957:

« L'uomo ebreo scopre l'uomo prima di scoprire i paesaggi e le città... Comprende il mondo a partire dall'Altro piuttosto che l'intero essere secondo la terra. È in un certo senso esiliato su questa terra, come dice il salmista, e trova un senso alla terra sulla base di una società umana. Questa non è un'analisi dell'anima ebraica contemporanea; è l'insegnamento letterale della Bibbia... La libertà rispetto alle forme sedentarie di esistenza è, forse, il modo umano di stare al mondo. Per l'ebraismo il mondo diventa intelligibile davanti a un volto umano e non, come per un grande filosofo contemporaneo che riassume un aspetto importante dell'Occidente, attraverso case, templi e ponti... [Questa libertà] riduce l'importanza di tutti i valori legati alle radici, e istituisce altre forme di fedeltà e responsabilità. L'uomo, dopotutto, non è un albero e l'umanità non è una foresta. »
(Levinas, Difficile liberté, 40–41[57])

Secondo Lévinas, che qui prende chiaramente posizione contro Heidegger, l'etica espressa nell'ebraismo consiste nel tagliare ogni radice e nel rivolgersi all'"altrimenti che essere", all'altra persona. Già nel 1935, in Dell’evasione, Lévinas rifletteva sulla condizione di "essere inchiodati" (être rivé)[58] e sulla necessità di uscire dall'essere: "La fuga è il bisogno di uscire da sé, cioè di spezzare quel legame più radicale e inalterabile delle catene, il fatto che l'io/me (moi) è se stesso (soi-même)".[59] Per lui, noi (esseri umani) siamo umani proprio perché possiamo sfuggire al nostro essere radicati nell'essere: "Quello che voglio sottolineare è che l'umano rompe con il puro essere, che è sempre persistenza nell'essere. Questa è la mia tesi principale".[60] Pertanto, l'umanità etica è quella che è in grado di tagliare la sua connessione con il suolo — e di rinunciare alla soddisfazione di esserci, di essere parte dell'immanenza ontologica.

L'affermazione di Lévinas contro il radicamento e il naturalismo è una rivendicazione sociale e politica. Il fatto che gli individui non sono alberi e l'umanità non è una foresta significa che le persone non dovrebbero rimanere radicate in se stesse e nel loro suolo, sia come esercito nazionalista che come folla soddisfatta di sé, sicura dei propri diritti e del proprio possesso della terra. Come afferma nel 1992, in un'intervista con Ephraim Meir e Jacob Golomb sul significato del sionismo, "La mia opinione non è simile a coloro che pensano che l'uomo sia cresciuto dalla terra. Non vedo nel suolo il valore più alto. C'è una distanza dal suolo e, ancor di più, l'origine dello spazio è nella parola".[61] Se è così, c'è il pericolo che i nuovi israeliani, costruendo il loro Stato su un particolare pezzo di terra, attribuiscano troppa importanza a quella terra. Nella seconda metà dell'intervista del 1982 su Sabra e Shatila, che viene citata molto di rado, il punto viene messo in chiaro:

« Vorrei citare un altro testo talmudico, a beneficio di chi confonde il sionismo – o il rapporto con il mondo e con gli esseri umani che il suo messaggio comporta – con una sorta di banale mistica della terra come suolo natio... Il argomento... è notevole. Una persona è più santa di una terra, anzi di una terra santa, poiché, di fronte a un affronto fatto a una persona, questa terra santa appare nella sua nudità solo pietra e legno.[62] »

Questa idea era già stata sviluppata nella lettura talmudica del 1965 "Terra Promessa o Terra Permessa?",[63] in cui Lévinas analizza un foglio talmudico che tratta delle reazioni delle spie inviate da Mosè per esplorare la terra di Canaan in 13-14. Nella storia biblica, dieci delle dodici spie tornano con un messaggio di sgomento: la terra è ricca e fertile, ma i Cananei sono troppo forti, troppo potenti, troppo ben equipaggiati: la terra non può essere presa. Solo due delle spie, Caleb e Joshua, cercano di convincere il popolo che con l'aiuto di Dio possono davvero conquistare la terra. L'idea inaspettata che emerge dalla lettura di Levinas di questa storia e dei suoi commentari è che le dieci spie "cattive" che, a prima vista, hanno lasciato che la loro paura ostacoli la loro fede siano in realtà persone giuste. Sebbene la loro esitazione alla fine si dimostri sbagliata, non sono malvagi. In effetti, i loro avvertimenti hanno lo scopo di impedire agli israeliti di trasformare la terra in un oggetto di adorazione. Sono motivati dal desiderio di "svergognare gli adoratori della Terra", vale a dire "i sionisti di quel tempo".[64] Lévinas ripete la parola "sionisti" in una rara combinazione di esitazione e asserzione:

« [Gli esploratori] hanno deciso, in nome della verità, di confondere i sionisti. Vi prego di scusare questi anacronismi, questi eccessi di linguaggio... Cerchiamo di essere impavidi allora... C'è, quindi, un'adorazione della terra e una vergogna legata a questa adorazione, e mi dispiace che Domenach non sia qui, perché lui avrebbe visto che ci sono ebrei che, esattamente come i cristiani, vogliono la terra, ma provano un po' di vergogna in questo desiderio, in questa cupidigia.[65] »

In altre parole, c'è il rischio, nel sionismo moderno, di adorare la terra, di mettere radici, di "essere trattenuto" come scrive Lévinas in Dell’evasione – e quindi di dimenticare la parola di Dio, vale a dire le leggi sociali e la responsabilità per l'Altro che sono lo scopo della Bibbia ebraica[66] e dello Stato di Israele.

Lévinas osserva che le dieci spie sono preoccupate per un "eccesso di giustizia".[67] Per spiegare cosa significa, offre tre modi di comprendere ciò che provarono le spie quando videro la ricchezza del paese e il potere e la forza dei suoi abitanti.[68] Secondo il primo, le dieci spie videro i grandi e forti cananei nativi e furono spaventate. Questi schiavi recentemente liberati, appena liberati dai "ghetti egiziani",[69] fecero un rapido confronto tra l'ovvia potenza dei Cananei e la loro evidente debolezza, e trassero una ragionevole conclusione.

Sono il secondo e il terzo suggerimento che interessano qui. Nel secondo, Lévinas suggerisce che quando videro i Cananei, le spie videro il futuro di Israele. Videro cosa ne sarebbe stato dei loro figli e nipoti nella terra di Canaan. Videro persone potenti che, secondo l'interpretazione talmudica, costruivano città meravigliose e scavavano buche profonde ovunque mettessero i piedi. Videro sionisti, israeliani moderni. E rifiutarono quel futuro, temendo che questi costruttori, questi sionisti, sarebbero stati "la fine del popolo ebraico".[70] E nel terzo, le spie videro la terra così magnificamente costruita e coltivata dai Cananei, e conclusero che non avevano il diritto di conquistare ciò che era stato fatto da altri. Perfino la discendenza di Abramo, Isacco e Giacobbe, sepolti qui in questa terra – Abramo, Isacco e Giacobbe, che parlarono con Dio e ricevettero la Sua promessa – non dava loro il diritto di espropriare altre persone, non importa chi o cosa queste persone fossero, o quello che avevano fatto o avrebbero potuto fare.[71]

Attraverso questa discussione, Lévinas richiama l'attenzione sui rischi impliciti nell'esistenza dello Stato. Cioè, nonostante il fatto che lo Stato di Israele serva uno scopo etico ed è, in effetti, necessario per la sopravvivenza del popolo ebraico, nondimeno mette l'esistenza ebraica in pericolo fisico e spirituale perché comporta l'abbraccio dell'ontologia: idolatria del terra, radicamento, conquista e distruzione. Già in un saggio scritto qualche anno prima di "Terra Promessa o terra Permessa" e intitolato "La Luce e il Buio", Lévinas sottolineava il rischio di abituarsi alla violenza. Sottolineando che Israele era debole e circondato da nemici, scrisse:

« Perché il debole, gettandosi nella violenza del combattimento, rischia di abituarsi a questa violenza che ha dovuto accettare momentaneamente. Abbandonerà un giorno le strade politiche e belliche che ha scelto per un periodo di tempo? Si ritrova coinvolto in un mondo che voleva distruggere. Impegnare inequivocabilmente i propri principi assoluti in una guerra o in una lotta politica significa in qualche modo tradire questi principi.[72] »

Lo Stato di Israele rischia di "tradire" se stesso dimenticando di realizzare i propri principi, la sua versione specifica della giustizia. Perciò, quando Lévinas scrive: "La giustizia come raison d'être dello Stato: cioè la religione... Lo Stato d'Israele sarà religioso per l'intelligenza dei suoi grandi libri che non è libero di dimenticare. Sarà religioso per l'azione stessa che lo istituisce come Stato. Sarà religioso o non lo sarà affatto",[73] non sta chiedendo che Israele diventi uno stato teocratico. Piuttosto, sta dicendo che l'essenza dello Stato di Israele è una particolare forma di giustizia e che, se non si rende conto di quella giustizia, non sarà lo Stato di Israele, ma qualcos'altro. Il rischio maggiore che corre lo Stato è quello di perdere l'occasione di essere se stesso. Nei "Testi messianici" scritti all'inizio degli anni '60 e pubblicati su Difficile libertà, Lévinas scrive qualcosa che può essere letto sia come un pio desiderio, sia come un monito:

« Anche per questo l'impegno [engagement] necessario è così difficile per l'ebreo; ecco perché l'ebreo non può impegnarsi [s’engager] senza anche disimpegnarsi [se désengager], persino quando si impegna per una giusta causa; l'ebreo non può mai marciare in guerra con la bandiera spiegata, al suono trionfale della musica militare e con la benedizione di una chiesa.[74] »

Alcuni diranno che questa enfasi sui possibili fallimenti dello Stato di Israele non arriva a condannare le effettive politiche di Israele nei confronti dei palestinesi. Va notato, tuttavia, che la maggior parte degli scritti e delle osservazioni di Lévinas sul sionismo sono stati composti in un momento in cui la principale preoccupazione di Israele era il persistente stato di ostilità con gli stati arabi, vale a dire prima del trattato di pace del 1979 con l'Egitto e, quindi, prima che i palestinesi fossero lasciati soli nella loro lotta contro Israele. Con questo non intendo suggerire che non ci fosse violenza tra israeliani e palestinesi prima del 1979, ma dovremmo ricordare che non era insolito in Europa a quel tempo considerare la violenza israelo-palestinese come avvenuta nel contesto del più ampio conflitto tra i numerosi stati arabi ("nazioni indiscusse"[75]) e Israele. Questo è lo sfondo degli scritti di Lévinas sul sionismo, non sull'occupazione dei villaggi palestinesi (sebbene iniziamo a vedere uno spostamento in questa direzione all'inizio degli anni '80, quando menziona per la prima volta "il nazionalismo palestinese e... le sue giuste lamentele"[76]). È quindi in questo contesto di guerra convenzionale che Lévinas temeva che Israele avrebbe "tradito" i propri principi di "codici morali profetici e l'idea della sua pace"[77] adorando la terra e abituandosi alla guerra.

La Prima Guerra del Libano e i massacri di Sabra e Shatila del settembre 1982 (perpetrati da falangisti cristiani autorizzati dall'esercito israeliano ad entrare nei campi[78]) apparentemente indussero un cambiamento nell'opinione di Lévinas nei confronti della violenza vis-à-vis lo Stato di Israele. Questo cambiamento è percepibile in un'intervista del 1986 a Francois Poirié. Alla domanda su Israele, Lévinas risponde cautamente: "Direi solo che ora, date le circostanze, uno Stato è l'unica forma in cui Israele – il popolo e la cultura – può sopravvivere". Quando viene spinto a dire di più, rifiuta: "Vi dirò che ci sono molte cose di cui non posso parlare perché non sono in Israele".[79] Caygill si interroga criticamente sul "significato di questo silenzio professato ma non mantenuto",[80] ma questo silenzio è stato mantenuto: quasi tutto ciò che Levinas ha mai detto sullo Stato di Israele è stato detto ben prima del periodo di questa intervista,[81] tranne forse per l'intervista del 1992 in ebraico con Ephraim Meir e Yaakov Golomb, in cui Lévinas dice: "Non è nelle mie capacità fornire un nuovo punto di vista. Il sionismo è la sopravvivenza dell'ebraismo, non un nazionalismo di sorta".[82] Dobbiamo notare che né nell'intervista del 1986 né in quella del 1992 Lévinas menziona l'essenza "messianica" o "monoteista" dello Stato di Israele, sottolineando invece la necessità realista di uno Stato per la sopravvivenza ebraica.

L'hegelismo di Levinas[modifica]

Per approfondire, vedi Georg Wilhelm Friedrich Hegel (it) e Georg Wilhelm Friedrich Hegel (en).

Possiamo riassumere in poche parole le posizioni di Lévinas sul sionismo così come le espresse tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Settanta. Il moderno Stato di Israele ha un duplice significato: è la realizzazione delle leggi sociali espresse nel racconto profetico della Bibbia; e assicura la sopravvivenza del popolo ebraico, dopo che un buon terzo degli ebrei vivi prima della Seconda guerra mondiale furono assassinati dalla Germania nazista. Questi due significati, o scopi, sono le due facce della stessa medaglia e non possono essere separate. In effetti, il popolo ebraico deve sopravvivere se vuole realizzare l'insegnamento dei profeti. La complementarità di giustizia e sopravvivenza, fraintesa o trascurata dalle spie "cattive" di Numeri 13, suona da un lato banale – la sopravvivenza è indubbiamente una condizione necessaria per qualsiasi cosa – e dall'altro paradossale: la sopravvivenza comporta una preoccupazione ontologica (una cura del sé), mentre la giustizia è infusa dall'etica altruistica. Di conseguenza, la sopravvivenza dello Stato di Israele è la condizione per la sua realizzazione "messianica", ma mette a rischio questa realizzazione. Tuttavia, questo paradosso non implica che Israele sia "sospeso... tra idealità e realtà", tra "un ideale in cui la responsabilità etica si incarnerebbe nella giustizia sociale, e [...] uno stato realmente esistente in cui la giustizia è sempre compromessa da violenza."[83] Per Lévinas, il moderno Stato di Israele non è un ideale ma una realtà in tutto e per tutto, indubbiamente violenta (perché la sua funzione politica è quella di garantire la sopravvivenza) e allo stesso tempo tesa a realizzare la giustizia sociale. In altre parole, le preoccupazioni etiche non possono essere realizzate senza il sostegno della violenza politica, che mette in pericolo queste stesse preoccupazioni etiche. Pertanto, non ci sono due "Israele", uno ideale e uno fenomenologico, come potrebbero esserci da una sorta di prospettiva platonica. Esiste un solo Stato di Israele, che è reale e contraddittorio, o, più esattamente, che esiste grazie all'essere una contraddizione tra giustizia e sopravvivenza. Inoltre, tale contraddizione è doppia perché, come abbiamo ricordato in precedenza, la giustizia stessa è una connessione di etica e politica, cioè una "contraddizione interna".[84]

La contraddizione tra giustizia e sopravvivenza è una forma della contraddizione tra l'universale e il particolare, dove sia la giustizia che la sopravvivenza giocano entrambi i ruoli. Come già sottolineato, Lévinas vede nello Stato di Israele la realizzazione di un particolarismo – la società giusta richiesta dai profeti per il popolo di Israele – e nella sopravvivenza, o "perseveranza nell'essere", una necessità universale. Tuttavia, enfatizza anche coerentemente "l'ovvia equazione tra Israele e l'universale",[85] e ripete che il suo scopo filosofico consiste nel districare "le intenzioni universali dall'apparente particolarismo all'interno del quale i fatti legati alla storia nazionale di Israele, impropriamente detti, ci rinchiudono".[86] In altre parole, la giustizia profetica costituisce un valore universale e un fine universale, per nulla ristretto a una specifica storia nazionale. In tale contesto, è la sopravvivenza del popolo ebraico che può essere vista come una particolare impresa di perseveranza nell'essere: "l'idea fondamentale del sionismo politico... è la necessità per il popolo ebraico, in pace con i suoi vicini, di non continuare ad essere minoranza nella sua struttura politica... Ciò è necessario – una necessità che chiamo, appunto, storica – affinché l'aggressione e l'assassinio degli ebrei nel mondo perdano il loro carattere di fenomeno incontrollabile e impunito".[87]

L'incessante preoccupazione di Lévinas per l'opposizione tra l'universale e il particolare mostra quanto fosse difficile per lui sfuggire a Hegel, che definì "probabilmente il più grande pensatore di tutti i tempi".[88] L'intero progetto di Lévinas, simile a quello di Rosenzweig, può essere pensato come una confutazione della concezione hegeliana della totalità e dell'assimilazione dell'alterità. Come disse Lévinas a Salomon Malka, "è la critica dell'idea di totalità nella Stella della Redenzione che ho ripreso puramente e semplicemente. È la rottura con Hegel".[89] Tuttavia, sottolinea anche che "un filosofo che stabilisce la sua opinione su Hegel è come un tessitore che installa un telaio: un compito preliminare per tutto il lavoro successivo".[90] Pertanto, fin dalle prime pagine di Totalità e Infinito, Lévinas chiarisce che la sua descrizione dell'apertura della soggettività verso (e per) l'altro è un'obiezione e una risposta a Hegel.[91] Spiega che, contrariamente alla comprensione hegeliana dello sviluppo dello Spirito, la dimensione etica dell'esistenza umana trascende la totalità, è "altra" rispetto al movimento di identificazione, nel senso che la storia "non può pretendere di totalizzare lo stesso e l'altro".[92]

Succede, però, che se l'etica trascende la totalità e, quindi, confuta lo sviluppo hegeliano della storia, la giustizia, come rapporto paradossale tra etica e politica, non sfugge mai veramente alla dialettica hegeliana. Come sosteneva notoriamente Derrida, "Levinas è molto vicino a Hegel, molto più vicino di quanto ammette, e proprio nel momento in cui apparentemente si oppone a Hegel nel modo più radicale".[93] Come mostra il caso dello Stato di Israele, per Lévinas la realtà storica consiste nella contraddizione tra l'universale e il particolare. In formulazioni che non nascondono influenze hegeliane, postula che "il sionismo si sta finalmente rivelando, sulla scala dell'ebraismo sostanziale, come una grande ambizione dello Spirito".[94] Colpisce il modo in cui combatte contro il proprio hegelismo quando sostiene che "il sionismo, che si suppone una dottrina puramente politica, porta così nel profondo del suo essere l'immagine capovolta di una certa universalità, pur correggendo quell'immagine".[95] Allo stesso modo, non può sfuggire a Hegel quando scrive:

« La sensibilità messianica inseparabile dalla consapevolezza di essere eletti... andrebbe irrimediabilmente perduta... se la soluzione dello Stato di Israele non rappresentasse un tentativo di riunire l'accettazione irreversibile della storia universale con il messianismo necessariamente particolarista. Questo particolarismo universalista (che non è l'universale concreto di Hegel) si trova nelle aspirazioni del sionismo, e si associa a un riconoscimento della Storia e in collaborazione con essa... È nella conservazione di questo particolarismo universalista, al centro della Storia in cui si trova d'ora in poi, che vedo l'importanza della soluzione israeliana per la storia di Israele. »
(Levinas, Difficile liberté, 138[96])

Per quanto Lévinas affermi – senza dimostrare – che il suo "particolarismo universalista" non è l'universale concreto di Hegel, il suo uso delle nozioni di "riunione", "storia universale", "necessità", "universale" e "particolare" è hegeliano. Anche la sua comprensione della violenza dello Stato, e la necessaria contraddizione tra questa violenza e i significati etici, sono molto vicine a Hegel. Certo, la violenza in Lévinas non è mai così trionfalistica come in Hegel, l'altro non è dimenticato, e il re Davide, che di giorno faceva la guerra, passa le notti a studiare i principi etici della Torah.[97] Tuttavia, durante il giorno, faceva la guerra! Ancora di più: "Ciò che è più importante è l'idea che non solo l'essenza dello Stato non contraddice l'ordine assoluto, ma è chiamata da esso".[98] In altre parole, per quanto dolorosa e indesiderata possa essere la guerra, per quanto sconvolto e angosciato il guerriero etico, per quanto buona e desiderata la pace elusiva, la violenza è un passo inevitabile nella "ricerca dell'assoluto e della purezza".[99]

Il pericolo della seduzione da parte della dialettica hegeliana è che può essere usata per legittimare qualsiasi cosa, dal momento che qualsiasi cosa può trovare il suo posto nella logica della contraddizione. Lévinas non sempre evita questa trappola, come quando accenna alle "dolorose necessità dell'occupazione".[100] Tuttavia, questa è la stessa dialettica che gli permette di dire: "Accogliere l'altro nella propria terra o casa, tollerare la presenza dei senza terra e dei senzatetto sulla ‘terra ancestrale’, così gelosamente, così meschinamente amata — è tale il criterio dell'umanità? Indiscutibilmente sì".[101] Come con Hegel, rivendicato sia dai conservatori che dai radicali, i quali hanno tutti selezionato dalla sua opera l'Hegel "autentico" e rifiutato quelle parti in cui, a loro avviso, Hegel non riesce a essere sufficientemente hegeliano, gli scritti di Lévinas possono essere letti come difesa o come critica del sionismo — e ogni lettore può decidere dove Lévinas non è sufficientemente levinassiano. Tuttavia, come la filosofia di Hegel, la comprensione del sionismo da parte di Lévinas fu sia conservatrice che critica, perché Lévinas credeva che la realtà politica fosse essenzialmente contraddittoria, dimostrando che dopo duecento anni di confutazioni, la dialettica hegeliana era ancora molto viva.

Note[modifica]

Rappresentazione artistica di Emmanuel Levinas
Rappresentazione artistica di Emmanuel Levinas
Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna.
  1. Jason Caro scrive: "Levinas's notion of justice is so underformulated, the exercise of such justice when Levinas rates his obligations towards others can quite as easily be characterized as injustice"; Jason Caro, "Levinas and the Palestinians", Philosophy and Social Criticism 35, no. 6 (2009), 678. Cfr. anche Avram Alpert, "Not to Be European Would Not Be: 'To Be European Still': Undoing Eurocentrism in Levinas and Others", Journal of French and Francophone Philosophy XXIII, no. 1 (2015), 23; Zahi Zalloua, "The Ethics of Trauma/The Trauma of Ethics", in Terror, Theory and the Humanities, curr. Jeffrey R. DiLeo & Uppinder Mehan (Ann Arbor: Open Humanities Press, 2012).
  2. Per esempio, Martin Jay, "Hostage Philosophy: Levinas's Ethical Thought", Tikkun 5, no. 6 (1990), 85–87; Michael J. Shapiro, "The Encounter: Unreading, Unmapping the Imperium", in Moral Spaces: Rethinking Ethics and World Politics, curr. David Campbell & Michael J. Shapiro (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1999), 57–91.
  3. Oona Eisenstadt and Claire Katz, "The Faceless Palestinian: A History of an Error", Telos 174 (2016), 32. L'osservazione di Eisenstadt e Katz fu fatta nel contesto specifico delle interpretazioni errate dell'intervista di Lévinas sui massacri di Sabra e Shatila.
  4. Tale paragone è stato spesso (stupidamente) suggerito. Cfr. Alpert, "Not to Be European", 21; Howard Caygill, Levinas and the Political (Londra: Routledge, 2002), 159; Simon Critchley, "Five Problems in Levinas's View of Politics and the Sketch of a Solution to Them", in Radicalizing Levinas, curr. Peter Atterton & Matthew Calarco (Albany: State University of New York Press, 2010), 43.
  5. Sul sionismo e lo Stato di israele, si veda questa breve scheda storica: Introduzione al Sionismo (pdf).
  6. Cfr. Oona Eisenstadt, "Levinas in the Key of the Political", in Difficult Justice: Commentaries on Levinas and Politics, curr. Asher Horowitz & Gad Horowitz (Toronto: Toronto University Press, 2006), 65.
  7. Sulle dimensioni utopiche dell'etica levinasiana, cfr. Miguel Abensour, "Penser l'utopie autrement", in Cahiers de l'Herne, Emmanuel Levinas, curr. Catherine Chalier & Miguel Abensour (Parigi: L'Herne [Livre de Poche], 1991), 572–604, e Emmanuel Levinas, L'intrigue de l'humain: Entre métapolitique et politique (Parigi: Hermann, 2012). Cfr. anche "The Other, Utopia and Justice", in Is It Righteous to Be? Interviews with Emmanuel Levinas, cur. Jill Robbins (Stanford: Stanford University Press, 2001), 200–210.
  8. Sull'uso frequente del termine "intrigue" in Levinas, cfr. Jeffrey Dudiak, The Intrigue of Ethics: A Reading of the Idea of Discourse in the Thought of Emmanuel Levinas (New York: Fordham University Press, 2001); e Abensour, L'intrigue de l'humain.
  9. Emmanuel Levinas, Ethique et infini (Parigi: Livre de Poche, 1992), 91; trad. (EN) Richard Cohen, Ethics and Infinity (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1985), 95.
  10. Levinas, Ethique et infini, 80–81; Ethics and Infinity, 86–87.
  11. Emmanuel Levinas, Autrement quʼêtre ou au-delà de lʼessence (Parigi: Livre de Poche, 1990), 246; trad. (EN) Alphonso Lingis, Otherwise than Being or Beyond Essence (Pittsburgh: Duquesne University Press, 1998), 158.
  12. L'ego è anche un "altro" a se stesso: nella responsabilità viene dopo l'altro, ma nella politica è uno dei vari soggetti che chiedono di essere provveduti, assistiti.
  13. Emmanuel Levinas, Difficile liberté (Parigi: Livre de Poche, 1988), 10; trad. (EN) S. Hand, Difficult Freedom (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1990), xiv. Mie traduzioni (IT).
  14. Levinas, Autrement quʼêtre, 245; Otherwise than Being, 157.
  15. Erika Weitzman, "Necessary Interruption: Traces of the Political in Levinas", Theory & Event 11, no. 2 (2008).
  16. Emmanuel Levinas, "Ethics of the Infinite", Dialogues with Contemporary Continental Thinkers, cur. Richard Kearney (Manchester, UK: Manchester University Press, 1984), 64.
  17. Emmanuel Levinas, Totalité et Infini (Parigi: Livre de Poche, 1992), 335; trad. (EN) Alphonso Lingis, Totality and Infinity (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1998), 300.
  18. Emmanuel Levinas, "Paix et proximité", Les cahiers de la nuit surveillée, no. 3 (Parigi: Verdier, 1984), 340; trad. (EN) P. Atterton & S. Critchley, "Peace and Proximity", in Emmanuel Levinas: Basic Philosophical Writings, curr. A. T. Peperzak, S. Critchley, e R. Bernasconi (Bloomington: Indiana University Press, 1996), 163.
  19. Jacques Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas (Parigi: Galilée, 1997), 147; trad. (EN) P.-A. Brault & M. Naas, Adieu to Emmanuel Lévinas (Stanford, CA: Stanford University Press, 1999), 81.
  20. Emmanuel Levinas, L’Au-delà du verset (Parigi: Minuit, 1982), 215; trad. (EN) Gary D. Mole, Beyond the Verse (Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1994), 183.
  21. Cfr. Levinas, Totalité et Infini, 30; Totality and Infinity, 40. Cfr. anche Jacques Derrida, L’écriture et la différence (Parigi: Seuil, 1967), 142; trad. (EN) Alan Bass, Writing and Difference (Chicago: University of Chicago Press, 1978), 95–96.
  22. Michael Morgan, Discovering Levinas (Cambridge: Cambridge University Press, 2007), 410.
  23. Levinas, Autrement quʼêtre ou au-delà de lʼessence, 245; Otherwise than Being, 157; Levinas, "Paix et proximité", 345, "Peace and Proximity", 168. Si noti che in Totalità e Infinito Levinas usa talvolta il termine "giustizia" come sinonimo di etica. Nei testi successivi, la giustizia viene identificata con il peso e la distribuzione della responsabilità, vale a dire, un certo rapporto tra etica e politica.
  24. Caro, "Levinas and the Palestinians", 672.
  25. Il fatto che nella Bibbia così come è impostata 1 Samuele è collocato dopo il Deuteronomio è qui irrilevante, perché si tratta di fonti diverse scritte in tempi diversi e modificate nella loro forma attuale molto più tardi.
  26. Levinas, L’Au-delà du verset, 210; Beyond the Verse, 178.
  27. Levinas, L’Au-delà du verset, 216; Beyond the Verse, 183.
  28. Levinas, L’Au-delà du verset, 210; Beyond the Verse, 178.
  29. Levinas, L’Au-delà du verset, 211; Beyond the Verse, 179.
  30. Levinas, L’Au-delà du verset, 213; Beyond the Verse, 180–181. Mia traduzione italiana.
  31. Levinas, Difficile liberté, 131; Difficult Freedom, 91.
  32. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, 140; Adieu to Emmanuel Levinas, 77.
  33. Caygill, Levinas and the Political, 160.
  34. Levinas, Difficile liberté, 305; Difficult Freedom, 218.
  35. Lévinas celebra "l'essenza eccezionale incarnata in Francia, in cui vita politica e morale si univano..." (Difficile liberté, 362; Difficult Freedom, 261). Si veda anche la lettera di Lévinas a Blanchot sulla creazione dello Stato di Israele, in cui Lévinas spiega l'"eternità secolare" della Francia e della lingua francese. "Letter to Maurice Blanchot on the Creation of the State of Israel", trad. (EN) Sarah Hammerschlag, Critical Inquiry 36, n. 4 (2010), 645-648. Come sottolinea giustamente Fagenblat, "In no case are [France and Israel] privileged over other secular republics based on a heritage of thinking, any heritage of thinking, that points to ‘ethics’.". Michael Fagenblat, A Covenant of Creatures: Levinas's Philosophy of Judaism (Stanford: Stanford University Press, 2010), 184. Tuttavia, il loro non essere privilegiati non implica che non siano particolari, ciascuno a modo suo. Ciascuno esprime un particolare percorso verso l'etica.
  36. Levinas, L’Au-delà du verset, 210; Beyond the Verse, 178.
  37. Levinas, Difficile liberté, 230; Difficult Freedom, 164.
  38. Levinas, Difficile liberté, 305; Difficult Freedom, 218.
  39. Levinas, Difficile liberté, 366; Difficult Freedom, 263.
  40. Emmanuel Levinas, Quatre lectures talmudiques (Parigi: Minuit, 1968), 141; trad. (EN) Annette Aronowicz, Nine Talmudic Readings (Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 1990), 66. Sui primi kibbutzim, si veda anche Levinas, Difficile liberté, 139; Difficult Freedom, 96.
  41. Levinas, L’Au-delà du verset, 220; Beyond the Verse, 187. Mia trad. (IT).
  42. Levinas, L’Au-delà du verset, 219; Beyond the Verse, 186.
  43. Emmanuel Levinas, Nouvelles lectures talmudiques (Parigi: Minuit, 1996), 63; trad. (EN) Richard A. Cohen, New Talmudic Readings (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1999), 95.
  44. Sulle differenze tra il sionismo messianico di Levinas e il sionismo "minimalista" di Yeshayahu Leibowitz, cfr. Tal Sessler, Leibowitz and Levinas: Between Judaism and Universalism (in ebr.) (Tel Aviv: Resling, 2008), 89. Cfr. anche David Banon, "E. Levinas et Y. Leibovitz", in Emmanuel Levinas: Philosophie et judaïsme, curr. Danielle Cohen-Levinas & Shmuel Trigano (Parigi: In Press Editions, 2002), 79–86.
  45. Levinas, "Paix et proximité", 339–340; "Peace and Proximity", 162–163.
  46. Levinas, L’Au-delà du verset, 216; Beyond the Verse, 183.
  47. Levinas, L’Au-delà du verset, 220; Beyond the Verse, 187.
  48. Levinas, L’Au-delà du verset, 225; Beyond the Verse, 192.
  49. Levinas, L’Au-delà du verset, 13; Beyond the Verse, xvi.
  50. Levinas, L’Au-delà du verset, 224; Beyond the Verse, 191.
  51. Levinas,L’Au-delà du verset, 226; Beyond the Verse, 193.
  52. Levinas, Difficile liberté, 32; Difficult Freedom, 17. Cfr. anche l'intervista con Emmanuel Levinas nella trad. (HE) di Ethics and Infinity, trad. Ephraim Meir (Gerusalemme: Magnes, 1995), 89.
  53. Sulle interpretazioni e le letture errate di quell'intervista, cfr. Eisenstadt & Katz, "The Faceless Palestinian".
  54. Emmanuel Levinas e Alain Finkielkraut, "Israel: Ethique et politique", Les Nouveaux Cahiers 18, no. 71 (1983), 3; trad. Jonathan Romney in "Ethics and Politics", in The Levinas Reader, cur. Sean Hand (Oxford: Basil Blackwell, 1989), 292.
  55. Salomon Malka, Emmanuel Levinas: His Life and Legacy, trad. Michael Kigel & Sonia M. Embree (Pittsburgh: Duquesne University Press), 217.
  56. "Letter to Maurice Blanchot", 647.
  57. Levinas, Difficile liberté, 40–41; Difficult Freedom, 22–23.
  58. Emmanuel Levinas, De Lʼévasion (Parigi: Livre de Poche, 1998), 95; trad. (EN) Bettina Bergo, On Escape (Stanford: Stanford University Press, 2003), 52.
  59. Levinas, De Lʼévasion, 98; On Escape, 55.
  60. Emmanuel Levinas, "The Paradox of Morality: An Interview with Emmanuel Levinas", in The Provocation of Levinas: Rethinking the Other. Trad. Andrew Benjamin & Tamra Wright, curr. Robert Bernasconi & David Wood (Londra e New York: Routledge, 1988), 172.
  61. Interview with Levinas, Hebrew translation of Ethics and Infinity, 89.
  62. Levinas e Finkielkraut, "Israel: Ethique et politique", 7–8; "Ethics and Politics", 296–297.
  63. Emmanuel Levinas, Quatre lectures talmudiques (Parigi: Minuit, 1968), 113–148. Trad. in Nine Talmudic Readings, 51–69.
  64. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 121; Nine Talmudic Readings, 56.
  65. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 121; Nine Talmudic Readings, 56.
  66. Levinas, Difficile liberté, 36; Difficult Freedom, 19.
  67. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 127; Nine Talmudic Readings, 59.
  68. Cfr. The Gift of the Land and the Fate of the Canaanites in Jewish Thought, curr. Katell Berthelot, Joseph David e Marc Hirshman (Oxford: Oxford University Press, 2014), 445–455.
  69. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 130; Nine Talmudic Readings, 60.
  70. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 131; Nine Talmudic Readings, 61.
  71. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 131–135; Nine Talmudic Readings, 60–63.
  72. Levinas, Difficile liberté, 320; Difficult Freedom, 228–229.
  73. Levinas, Difficile liberté, 306; Difficult Freedom, 219.
  74. Levinas, Difficile liberté, 117; Difficult Freedom, 80.
  75. Levinas, L’Au-delà du verset, 226; Beyond the Verse, 193.
  76. Emmanuel Levinas, "Un langage qui nous est familier", in Cahiers de la nuit surveillée, 327; trad. (EN) Douglas Collins, "A Language Familiar to Us", Telos 44 (1980), 200. Nel settembre 1981 Levinas scrive: "Oggi non dirò più rifugiati, ma palestinesi" (L'Au-delà du verset, 14; Beyond the Verse, xvi).
  77. Levinas, L’Au-delà du verset, 228; Beyond the Verse, 195.
  78. Sulla reazione di Levinas ai massacri e la sua risposta in "Israel: Ethique et politique", cfr. Eisenstadt & Katz, "The Faceless Palestinian".
  79. Francois Poirié, Emmanuel Levinas (Parigi: Actes Sur, 1996), 167; trad. (EN) Jill Robbins, Marcus Coelen e Thomas Loebel in Is It Righteous to Be?, 81–82.
  80. Caygill, Levinas and the Political, 159.
  81. Da notare che "The State of Caesar and the State of David", pubblicato nel 1982 in Beyond the Verse, risale di fatto al 1971. Apparve per la prima volta in La théologie de lʼhistoire. Révélation et histoire (Actes du Colloque organisé par le Centre international dʼEtudes Humanistes et par lʼInstitut dʼEtudes Philosophiques de Rome, les 5-11 janvier 1971 à Rome, par les soins dʼE. Castelli) (Parigi, Aubier-Montaigne, 1971), 71–80.
  82. Interview with Levinas, Hebrew translation of Ethics and Infinity, 89.
  83. Critchley, "Five Problems in Levinas's View of Politics", 43.
  84. Levinas, L’Au-delà du verset, 217; Beyond the Verse, 184.
  85. Levinas, Difficile liberté, 313; Difficult Freedom, 223.
  86. Levinas, Quatre lectures talmudiques, 15; Nine Talmudic Readings, 5. cfr. anche Emmanuel Levinas, Du Sacré au saint (Parigi: Minuit, 1977), 18, 171; trad. in Nine Talmudic Readings, 98, 191. Cfr. anche Levinas, Difficile liberté, 121; Difficult Freedom, 83. Sull'universale e il particolare nel sionismo di Levinas, cfr. Michael Morgan, Levinasʼs Ethical Politics (Bloomington and Indianapolis: Indiana University Press, 2016), 201–202.
  87. Levinas, L’Au-delà du verset, 14; Beyond the Verse, xvii.
  88. Levinas, Difficile liberté, 332; Difficult Freedo, 238.
  89. Interview with Salomon Malka, in Is it Righteous to Be?, 94.
  90. Levinas, "Un langage qui nous est familier", 327; "A Language Familiar to Us", 201.
  91. Levinas, Totalité et Infini25–26; Totality and Infinity, 36–37.
  92. Levinas, Totalité et Infini, 30; Totality and Infinity, 40. Su Levinas e Hegel riguardo alla questione dell'alterità, cfr. Silvia Benso, "Gestures of Work: Levinas and Hegel", Continental Philosophy Review 40: 307–330 (2007); Robert Bernasconi, "Levinas Face to Face—With Hegel", Journal of British Society for Phenomenology 13, no. 3 (1982), 267–276; Brian Schroeder, "The (Non) Logic of Desire and War: Hegel and Levinas", in Philosophy and Desire, cur. Hugh J. Silverman (New York: Routledge, 2000), 45–62.
  93. Derrida, L’écriture et la différence, 147; Writing and Difference, 99. Da notare che in Adieu Derrida è diventato molto meno critico dell'hegelismo di Levinas.
  94. Levinas, L’Au-delà du verset, 224; Beyond the Verse, 191.
  95. Levinas, L’Au-delà du verset, 226; Beyond the Verse, 193.
  96. Levinas, Difficile liberté, 138; Difficult Freedom, 96.
  97. Levinas, L’Au-delà du verset, 213; Beyond the Verse, 181.
  98. Levinas, L’Au-delà du verset, 212–213; Beyond the Verse, 181.
  99. Levinas, Difficile liberté, 230; Difficult Freedom, 164.
  100. Levinas, L’Au-delà du verset, 220; Beyond the Verse, 187.
  101. Emmanuel Levinas, A l’heure des nations (Parigi: Minuit, 1988), 114; trad. (EN) Michael B. Smith, In The Time of The Nations (Bloomington: Indiana University Press, 1994), 98.