La Coscienza di Levinas/Capitolo 3
Arte e letteratura
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Maurice Blanchot (it), Maurice Blanchot (fr) e Maurice Blanchot (en). |
IL 27 dicembre 1995, Jacques Derrida, intervenendo ai funerali di Lévinas al cimitero di Pantin, a nord-est di Parigi, ricordò "l'esemplare amicizia di pensiero, l’amicizia tra Maurice Blanchot ed Emmanuel Lévinas", arrivando a chiamarla "una benedizione del nostro tempo".[1] I due amici ereditano entrambi riccamente dalla fenomenologia, che intedono in modi distinti, e si confrontano su punti cruciali: la natura dell'arte, l'altezza morale dell'altro, l'essere ebreo. Negli anni '40 Lévinas cerca di sconvolgere il predominio dell'essere sugli esseri di Martin Heidegger con quella che chiama l'esperienza de il y a ("c'è"), che è il peso sentito dell'assenza, né essere né nonessere, da cui un essere umano deve emergere per essere etico. Allo stesso tempo Blanchot inizia a nominare qualcosa di affine ma importantemente diverso, le Dehors ("l'esterno"), che allontanerà anche lui da Heidegger, permettendogli di notare una convergenza di arte e un comunismo utopico che si intravede in les événements [gli avvenimenti] del maggio 1968. Lévinas propone una nuova concezione dell'etica, basata sulla priorità dell'altro, che Blanchot ammirerà ma cercherà di spogliarne ogni riferimento a Dio e ripensarlo in termini politici. Blanchot si occupa di letteratura e valuta Hölderlin, Mallarmé, Rilke e Franz Kafka, tra gli altri, vedendoli attingere a una nozione del sacro che può essere separata dalla fede in Dio o negli dei, mentre Lévinas, lui stesso affascinato dai romanzi e dai récit di Blanchot, incoraggerà il suo amico a sospendere il suo fascino per lo spazio letterario e ad accettare più pienamente le esigenze della giustizia.
Levinas, Blanchot, e l'Arte
[modifica | modifica sorgente]I due amici si incontrarono come studenti universitari all'Université de Strasbourg nel 1925 o 1926, quando Lévinas era lì da due o tre anni. A quei tempi Blanchot era un monarchico, posizione certamente non condivisa da Lévinas, eppure conversavano di fenomenologia e di letteratura, e si ripromettevano di usare la familiare forma tu solo tra di loro.[2] Dopo la laurea, Blanchot frequentò la Sorbona, dove scrisse una tesi sullo scetticismo greco per il Diplôme d'Études Supérieurs, e successivamente scrisse una rubrica letteraria per il Journal des débats e articoli politici per giornali di estrema destra. Di giorno scriveva giornalismo; la sera, azione narrativa. Lévinas andò a studiare a Friburgo in Brisgovia, imparando prima da Husserl e poi, con grande entusiasmo, da Heidegger: introdusse Blanchot a Sein und Zeit (1927) poco dopo la sua pubblicazione. Leggerlo, disse Blanchot più di cinquant'anni dopo, "provocò un vero shock intellettuale", che non potè essere dimenticato o attenuato.[3] Lévinas si dissocerà dal pensiero di Heidegger dopo Sein und Zeit, una volta che il filosofo sarà entrato nel NSDAP, mentre Blanchot, anche dopo la sua conversione alla politica di sinistra, che sembra essere avvenuta alla fine della guerra, sebbene sia diventato pubblico solo alla fine degli anni Cinquanta, avrebbe continuato a leggere lui e altri filosofi tedeschi, principalmente Hegel e Nietzsche. Quando Lévinas fu prigioniero di guerra, Blanchot protesse sua moglie e sua figlia prima nascondendole nel suo appartamento a Parigi e poi nascondendole in un convento vincenziano vicino a Orléans. Dopo la guerra, i due amici si scrissero continuamente fino alla morte di Lévinas, anche se si vedevano solo di rado.[4]
Nel 1980 Blanchot ricorda che, dal momento in cui si conobbero, la loro amicizia comprese sempre una terza compagna, la filosofia, che per loro era "la vita stessa, la giovinezza stessa, nella sua sfrenata passione, eppure ragionevole, rinnovandosi continuamente e repentinamente per lo splendore di pensieri del tutto nuovi, enigmatici o con nomi ancora sconosciuti che risplenderanno prodigiosamente molto più tardi".[5] E nel 1986 Lévinas ricorda il primo incontro con l'amico: "Per me rappresentava l'epitome stesso dell'eccellenza francese; non tanto per le sue idee, ma per una certa possibilità di dire cose che è molto difficile da imitare, apparendo come una forza dall'alto".[6] Riflettendo sui decenni della loro amicizia, osservò: "Mi sento onorato quando, nei suoi scritti, i nostri pensieri sono simili. La pensiamo allo stesso modo su molte questioni [nous pensons en accord]".[7] Le loro idee possono convergere in certe aree, ma gli amici non pensano sempre la stessa cosa: l'"amicizia di pensiero" che Derrida evoca è quella che ebbe spazio per la differenza e la critica oltre che per l'ammirazione reciproca.
Lévinas stimava molto il primo romanzo di Blanchot, Thomas l'obscur (1941), e i suoi quaderni in tempo di guerra abbozzavano i contorni di uno o più romanzi che sarebbero stati sicuramente debitori dell'intensa, minacciosa irrealtà dell'opera narrativa inaugurale del suo amico. Tre titoli sono considerati: Triste opulence, Eros, e La Dame de chez Welper. Un'ombra propone il tema dell'impossibilità di morire, fortemente segnata nel romanzo di Blanchot.[8] Ci sono indizi che suggeriscono che Lévinas abbia in mente Blanchot. Descrivendo le sue "procedure letterarie", Lévinas nota il significato nella scrittura che desidera perseguire di una breve immagine finale in un testo che verrebbe "come una rapida raffica del fantastico", e che servirebbe da spioncino attraverso il quale si può sbirciare.[9] Nel 1947 osserverà in "Le temps et l'autre" che a volte gli è sembrato "che tutta la filosofia non sia che una meditazione su Shakespeare", e anche i romanzi russi, soprattutto quelli di Dostoevskij, gli hanno offerto occasioni di riflessione filosofica in generale.[10] Nello stesso anno, in De l'existence à l'existant (1947), nota che Thomas l'obscur esordisce descrivendo l’il y a, la convinzione sentita che l'essere non può mai essere annientato.[11] Forse è così, o forse è le Dehors: la linea tra loro è ondulata e incompleta, nel migliore dei casi.[12]
Ad ogni modo, se seguiamo Lévinas dall'inizio, può sorprendere leggere "La réalité et son ombre" (1948), non tanto perché offre un resoconto della letteratura in contrasto con le sottolineature di Sartre in L'Imaginaire (1940) e "Qu'est-ce que la littérature?", che apparve per la prima volta su cinque numeri di Les Temps Modernes, dal febbraio al giugno 1947, ma soprattutto perché sembra così nettamente in disaccordo con la sua recente affermazione della letteratura. "L'arte", scrive dopo la guerra, è "essenzialmente disimpegnata, è una dimensione di fuga in un mondo di iniziativa e responsabilità" e, peggio, "c'è qualcosa di cattivo, egoistico e codardo nel piacere artistico".[13] Queste le parole di un uomo che durante la prigionia progettava di scrivere svariati romanzi! (Tuttavia Lévinas diede sempre una risposta ambigua all'arte. Prima della guerra, in De l'évasion, elabora un motivo letterario contemporaneo distinguendo i suoi interessi dal "sogno del poeta che cercava di eludere le ‘realtà inferiori’".)[14] Lo stesso Blanchot risponde obliquamente al saggio di Sartre in "La littérature et le droit à la mort" (1947-1948), che sarebbe apparso in La Part du feu (1949), ma Lévinas non commenta quella raccolta.[15] Attende l'uscita de L'Espace littéraire (1955) di Blanchot, al quale consacra un saggio in gran parte elogiativo. Quel volume include in appendice una breve riflessione originariamente pubblicata nel 1951, "Les Deux version de l'imaginaire", in cui troviamo una visione alternativa dell'arte basata sullo stesso presupposto del caso di Lévinas. Possiamo vedere una cosa che divide i due amici seguendo le loro risposte all'arte dopo la guerra.
"La réalité et son ombre" rifiuta il luogo comune che l'arte parli l'ineffabile e si svincola quindi dal mondo trascendendolo. Al contrario, viene disimpegnata in un altro modo, passando sotto il mondo, per così dire. In tutto, Lévinas si basa su una distinzione tracciata da Jean Wahl nella sua Existence humaine et trascendence (1944). C'è una "transascendenza", un'ascesa perpetua senza stabilirsi in uno stato superiore di immanenza, che Lévinas associa al volto dell'altro nella sua Totalité et infini (1961); e c'è la "trandescendenza", in cui si è messi in contatto con quello che Wahl chiama il "Dio sconosciuto" nelle profondità dell'essere.[16] Wahl pensa che D. H. Lawrence esemplifichi quest'ultimo – presumibilmente ha in mente The Plumed Serpent (1926) – mentre Lévinas estende l'affermazione a tutta l'arte. Questo passaggio al di sotto del mondo avviene, ci viene detto, perché l'arte premia le immagini rispetto ai concetti. Se Lévinas eredita un sospetto dell'immagine dall'ebraismo, non rivela qui tale eredità.[17] L'immagine si caratterizza invece per l'appartenenza a uno spazio anteriore ai fenomeni e per la passività che richiede sia all'artista che al pubblico. Il poeta ascolta una musa e il lettore è affascinato da ciò che gli viene offerto. (Come Heidegger, Levinas sembra pensare all'arte come essenzialmente poetica, nel senso di Dichtung.) Siamo presi dalla musica, dal ritmo, e senza mai acconsentire del tutto a partecipare al loro flusso, lo facciamo comunque.
"Concetto" ha radici nella filosofia antica (Porfirio) e nella filosofia medievale (Ockham, in particolare), ma Lévinas molto probabilmente eredita la nozione dalla filosofia del XVII secolo, principalmente da Leibniz per il quale significa una rappresentazione di qualcosa (e per il quale supera antiche confusioni epistemologiche non risolte dalla teoria della verità di Cartesio).[18] Lévinas abbraccia questo senso, attingendo fortemente dall'etimologia latina della parola (da concipere, concepire o contenere) e quindi mettendo fuori gioco la visione di Locke e Hume secondo cui i concetti ci consentono di avere idee o immagini mentali. "Il concetto è l'oggetto afferrato", dice:[19] a differenza del rapporto con un'immagine, si stabilisce un rapporto reale tra νόησις e αἴσθησις, intelletto e sensazione. (Nessuna attenzione viene prestata agli oggetti mentali.) Sembra abbracciare la tradizione, severamente criticata da Wittgenstein, secondo cui i concetti sono coordinati con gli oggetti piuttosto che la tradizione che li considera abitudini: usiamo correttamente un concetto quando riconosciamo qualcosa, reagiamo nel modo giusto, o formiamo un'immagine mentale appropriata. Ci sono motivi, quindi, per dubitare dell'attendibilità di una netta distinzione tra "concetto" e "immagine" come Lévinas la dispiega. Per lui, il concetto è prima dell'immagine, come l'oggetto è per l'ombra, poiché l'immagine "neutralizza [una] relazione reale".[20] Questa neutralizzazione non è il processo che Husserl esamina, che chiama Neutralitätsmodifikation [modifica della neutralità]. Gli atti percettivi, pensa, presumono una credenza nell'esistenza di ciò che affermano di vedere: hanno momenti tetici che possono essere neutralizzati da un cambiamento di credenza, come quando si dubita di aver visto davvero qualcosa. Tale neutralizzazione rimane nell'ambito dei concetti; il soggetto è attivo nell'usarli per formulare giudizi. Tuttavia, l'immagine neutralizza in modo del tutto diverso, pensa Lévinas, catturando l'attenzione e rendendo inefficaci nella vita di tutti i giorni.
L'affermazione fondamentale è messa meno che chiaramente: un'immagine altera "l'essere stesso dell'oggetto, un'alterazione tale che le sue forme essenziali appaiono come un accoutrement che abbandona ritirandosi".[21] In altre parole, un'immagine stacca l'essenza di un oggetto dalla sua esistenza, e poi presenta questa esistenza come inessenziale. Tale è un "tableau", come in À la recherche du temps perdu di Proust, quando Swann arriva alla casa del marchese de Sante-Euverte e vede il mondo sociale riunito come una raccolta di immagini.[22] Si noti che questo tableau non è un evento psicologico, per Lévinas, ma ontologico. L'essere si è ritirato, lasciando solo un'immagine. Questa divisione può verificarsi, pensa Lévinas, solo se c'è una "scissione nell'essere",[23] nel qual caso un'immagine non altera nulla ma è solo una possibilità di ciò che può accadere se qualcosa si manifesta. Un essere si dà come fenomeno allo sguardo convertito del filosofo, come insegnava Husserl, ma si dà anche come immagine allo sguardo dell'artista, e così l'essere "si rassomiglia".[24] La distinzione tra le due modalità dello sguardo ripete la divisione di Husserl tra Wahrnehmung (percezione) e Bildbewusstsein (coscienza dell'immagine).[25] Un artista segue la seconda possibilità e, così facendo, dice Lévinas, dà un'immagine distorta della realtà umana. "Ogni immagine è già caricatura", ci vien detto.[26] Le caricature esagerano per effetto comico o grottesco, ma la situazione che Levinas ha in mente nasce perché un artista può catturare solo un istante o un aspetto della vita e presentarlo come eterno, anzi, come dice in seguito, come un sostituto di Dio.[27] L'opera d'arte è "vita senza vita";[28] è, dice, distinta dalla filosofia, che, servendosi di concetti, apre sempre le cose alla discussione. L'elemento di distorsione si verifica non per esagerazione, ma prendendo un momento temporale di un tutto e permettendogli di rivelare il tutto.
Sineddoche (συνεκδοχή): quella figura seducente. Eppure non si potrebbe guardare un'opera d'arte e dire che è meno "vita senza vita" che una lente che ci permette di vedere l'εἶδος [essenza] di un'esperienza vissuta?
Se leggiamo attentamente Lévinas, vediamo che per lui ci sono tre modi per cercare di limitare gli effetti di questa fondamentale divisione dell'essere. In primo luogo, si può prendere la strada preferita dagli artisti classici e massimizzare l'armonia in tutto ciò che viene presentato; vediamo l'Auriga di Delfi mentre fa (supponiamo) il suo giro vittorioso nell'ippodromo, e nel vederlo percepiamo chiaramente la particolare modalità di felicità che deriva dal trionfo. Tuttavia, per Levinas, l'Auriga sarebbe un prigioniero in un momento di tempo; l'arte ha oscurato il suo essere, irriducibilmente temporale, e ne ha fatto un idolo. Non è adorato in un rito religioso, ma è come adorato in un rito estetico da coloro che gli stanno di fronte nel Museo Archeologico di Delfi. In secondo luogo, si può prendere la strada scelta dagli artisti moderni e mostrare una consapevolezza della "profonda insufficienza dell'idolatria artistica".[29] L'opera d'arte mostrerà la sua dipendenza dal mestiere dell'artista, lascerà segni della sua imperfezione per essere interpretata dai suoi seguaci che la prenderanno come inviti alla critica: non solo per determinare il valore estetico ma per avventurarsi nell'indagine filosofica, poiché i termini in cui l'arte è presentata da Lévinas sono in fondo ontologici. Questo è un percorso che Levinas loda in una certa misura; rimane sulla scia del romanticismo di Jena, soprattutto nel desiderio di Friedrich Schlegel di incorporare la filosofia nell'opera d'arte moderna.[30] Eppure, anche se non lo dice esattamente, egli lascia spazio a un terzo modo di limitare l'effetto di dividere l'essere: perché possiamo rifiutare lo sguardo dell'artista e coltivare invece lo sguardo del filosofo. Allora avremmo la verità dell'essere, e non avremmo preso "la parte del diavolo"[31] e accettato la nonverità dell'immagine, che avviene mettendo tra parentesi la realtà temporale di un fenomeno.
L'artista non crea nulla, insiste Levinas; piuttosto, "si muove in un universo che precede... il mondo della creazione, un universo che l'artista ha già superato [déjà dépassé] con il suo pensiero e le sue azioni quotidiane".[32] In primo luogo, va notato che Lévinas pone l'accento sulla creazione, mentre qualcosa di meno grandioso, l'invenzione, basterebbe, poiché nessun artista parte da zero: quando si fa arte è sempre necessario un coinvolgimento sensoriale con il mondo. (Levinas può benissimo avere in mente la massima di Gabriel Marcel secondo cui non ha senso "usare la parola ‘essere’ se non quando la creazione, in una forma o nell'altra, è in vista".[33]) Anche senza questo aggiustamento, l'affermazione è abbastanza sorprendente in almeno due modi. In primo luogo, sembra basarsi sul presupposto che un'immagine sia ultraterrena, incapace di diventare un fenomeno. Tuttavia, le immagini visive, insieme alle immagini letterarie, fanno parte della nostra esperienza, e Husserl, per esempio, dedica loro molto tempo, distinguendo tre momenti dell'immagine. C'è il materiale fisico utilizzato per realizzarla; c'è l'immagine-oggetto, che appare quando guardiamo la cosa fisica; e infine c'è il soggetto dell'immagine. L'immagine-oggetto non è vissuta come reale, sebbene lo siano il primo e il terzo momento. Anche così, potremmo riflettere sul fatto che non tutti i fenomeni devono essere reali o presenti. In secondo luogo, concordare con Lévinas porterebbe a conseguenze controintuitive. Ad esempio, bisognerebbe affermare che il fatto che Mallarmé prepari una tazza di caffè per la moglie o che valuti i compiti di uno scolaro a Tournon abbia più valore morale che comporre il suo "L'Après-midi d'un faune" e, presumibilmente, le intuizioni sulla sessualità e la stanchezza umana, per non parlare delle gioie che la lettura di quella poesia ha regalato a molte migliaia di lettori.
Lévinas traccia una severa distinzione tra valori morali ed estetici, e possiamo ben dubitare che possa essere giustificata. Una poesia di Mallarmé, o di qualunque poeta capace, non procura solo un piacere estetico, il cui valore è comunque innegabile; consente anche, a un lettore attento, di vedere e giudicare meglio il mondo. Per Lévinas, però, l'azione morale deve sempre essere valutata più del conseguimento artistico perché ha luogo nel mondo temporale dei fenomeni, non nel premondo atemporale delle immagini; e il filosofo è da pregiare sopra l'artista perché si occupa di concetti che afferrano la realtà, mentre l'artista cerca invano di cogliere le ombre. Il titolo del saggio non allude per niente al deciso rifiuto della poesia in La Repubblica, libri II, III e X. Il suo scopo è quello di riaffermare chiaramente la diffidenza di Platone nei confronti dell'arte in termini fenomenologici, o, più strettamente, in termini che differiscono da quelli di Sartre nei suoi L'Imaginaire e Qu'est-ce que la littérature? L'arte non testimonia la nostra libertà ontologica, e non possiamo limitarci alla letteratura socialmente impegnata, poiché tutta l'arte è in fondo svincolata dalla realtà, prima di essa. La realtà umana, almeno, comincia a essere messa a fuoco solo attraverso l'etica, intesa come la propria relazione nel tempo con l'altro.
Quando Blanchot risponde a Lévinas, lo fa senza nominarlo, e certamente senza l'esame critico che un filosofo anglo-americano farebbe valere per "La réalité et son ombre". Una persona del genere potrebbe continuare a mettere in discussione il modo in cui Lévinas distingue concetto e immagine. (Non si potrebbe sostenere che le immagini possano afferrare le cose in modo più sicuro di un concetto, che quando T. S. Eliot scrive, "The burnt-out ends of smoky days", presenta "Evening in London" [un secolo fa] in modo più chiaro, vivido e memorabile di quanto qualsiasi concetto o gruppo di essi possa mai fare?[34] E alcuni scrittori – William Shakespeare ed Emily Dickinson, per esempio – non sono cognitivamente esigenti nel loro uso delle immagini?) È vero, come ci assicura Levinas, che "Ascoltare la musica è in un certo senso trattenersi dal ballare o marciare?"[35] (Sicuramente non sempre o forse non spesso bisogna trattenersi: quando si ascoltano le cantate di Bach, il Miserere di Allegri o le sinfonie di Webern, per esempio, non si ha la minima voglia di ballare o di marciare. D'altronde, cosa c'è di tanto sbagliato col ballare un valzer di Tchaikovsky?) È vero che l'autore e il lettore sono semplicemente passivi quando l'immaginazione è in gioco? (Sicuramente, un poeta a volte deve lavorare sodo per trovare un'immagine appropriata in una poesia, che si adatti alla metrica e alla rima, e il lettore deve contemplare i suoi vari sensi e funzioni nella poesia.)
Si possono facilmente immaginare ulteriori domande. Un'immagine rende inefficaci nella vita quotidiana? (Il proprio sguardo non è dato solo momentaneamente, certamente non abbastanza a lungo da distrarsi dall'adempimento dei propri doveri morali?) Inoltre, la poesia è sempre impegnata nella musica verbale nel senso che la trascendenza sembra richiedere? (È necessario tracciare attente distinzioni tra i ritmi insistenti, ad esempio, del ritornello di Swinburne "Before the beginning of years" dal suo "Atlanta in Calydon" e i ritmi più dolci di "Notes Towards a Supreme Fiction" di Wallace Stevens.) Più in generale, c'è una differenza importante tra il godimento, come quando si dice di aver goduto di una splendida cena o di una bella passeggiata, e la gioia che deriva dall'ascoltare il Canone in re maggiore di Pachelbel o dalla lettura di "Hurrahing in Harvest" di Hopkins, un'esaltazione che rinfresca il proprio spirito e permette di affrontare la vita con più concentrazione e vitalità. Anche la distinzione di Lévinas tra filosofia e arte potrebbe essere messa in discussione, lungo linee già affrontate, cioè che la poesia pensa. (Si potrebbe indicare Stanley Cavell per il quale "any concept, used in such a way as to require... transformation [of human existence], might count as philosophical", e vedere nelle opere d'arte che effettivamente cambiano la vita, non solo immagini ma anche concetti.[36]) E Lévinas ha uno scopo sicuro e unico quando condanna l'arte? Non ci si potrebbe sentire "cattivi, egoisti e codardi" nel perseguire l'indagine filosofica quando si potrebbe nutrire i senzatetto, assistere i malati o lavorare per la giustizia sociale?
"Les Deux version de l'imaginaire" non è orientato dalla domanda su quale conoscenza offra l'arte; anzi, non si rivolge affatto esplicitamente all'arte. Piuttosto, inizia chiedendo "qual è l'immagine?", una domanda che è stata posta proprio all'inizio di L'Espace littéraire e che l'intero libro ha affrontato da varie angolazioni.[37] Si noti che la domanda non è "che cos'è un'immagine?": l'analisi in gioco non si occupa di ciò che scrittori modernisti come Ezra Pound e T. S. Eliot chiamano "immagini" o anche di ciò che Lévinas chiama "un'immagine". Dopo le prime osservazioni sulle immagini, la discussione si orienta sul rapporto tra linguaggio e assenza. Blanchot rifiuta la comprensione classica della relazione tra cosa e immagine in cui prima viene data una cosa e poi viene fornita un'immagine di essa. Invece la distanza tra cosa e immagine "è nel cuore della cosa".[38] L'ipotesi è la stessa di quella di Lévinas; è impossibile che un fenomeno si manifesti senza la possibilità che se ne faccia un'immagine. Successivamente, però, Blanchot devia dal percorso di pensiero del suo amico.
Blanchot osserva, giustamente, che un'immagine può essere "l'espressione ideale dell'oggetto, la sua presenza liberata dall'esistenza";[39] e, fatto ciò, sceglie un cadavere come esempio. Un cadavere non è la persona che conoscevamo mentre era in vita; quella persona non è qui, nella stanza dove giace un corpo, e veramente non è da nessuna parte. In effetti, mentre guardiamo un cadavere, percepiamo che le nostre relazioni con il caro defunto si ritirano e diventiamo consapevoli di una relazione sfuggente tra qui e il nulla. Il cadavere sembra insistere sul suo posto mentre, allo stesso tempo, testimonia silenziosamente che il luogo si è dissolto per colui che un tempo viveva. Senza un Da non ci può essere Dasein, potremmo dire, e nemmeno mitdasein. Non che Sein [l'essere] sia quindi lasciato allo stato puro, poiché abbiamo solo la sua completa assenza. È in questo momento, afferma Blanchot, che il cadavere comincia a somigliare a se stesso. La situazione è ben nota: una persona imbalsamata può essere fatta apparire migliore di quando era in vita, e anche senza che questo processo sia stato avviato, una persona appena morta può a volte – di certo non sempre! – sembrare più giovane dei suoi anni. Blanchot osserva che un uomo morto assomiglia a se stesso, non alla persona che era. Ora non c'è più alcuna distanza tra fenomeno e immagine, e il defunto, non più in grado di scomparire nei rituali della vita quotidiana, appare più vivido di quanto lo fosse nella vita.
Non ci viene sollecitata alcuna distinzione tra immagine e concetto, eppure Blanchot, come Lévinas, sottolinea che l'immagine "tende a sottrarre l'oggetto alla comprensione".[40] L'arte classica trascurerà la divisione all'interno di una cosa e figurerà l'immagine solo come conseguenza di un oggetto, e in questo modo un'immagine può servire la verità attraverso la rappresentazione di una presenza precedente. Un'altra risposta è possibile, però, quella che riconosce che la divisione interna nell'essere genera anche l'immagine, "che non ammette né inizio né fine".[41] Questa seconda possibilità ci impegna a un "valore estetico" oltre al "valore morale", come pensa Lévinas? Niente affatto: se viviamo un evento come immagine, non lo consideriamo "disinteressatamente nel modo che propongono la versione estetica dell'immagine e l'ideale sereno dell'arte classica", perché sarebbe vedere un'immagine dell'evento. Quando invece viviamo l'evento come immagine; si passa da una regione ("il reale", come convenzionalmente inteso) a un'altra dove l'Esterno si avvicina a noi. Cogliamo il passaggio dell'essere all'immagine e viceversa, che Blanchot chiama "il potere sovrano dietro tutte le cose",[42] e notiamo questo avvicinamento soprattutto negli stati di ozio, fatica e sofferenza, momenti in cui la freccia del tempo sembra semplicemente girare.
Questo passaggio dal reale all'Esterno è una modalità di riduzione, benché lontana da ciò che Husserl aveva in mente quando si converte dall'atteggiamento naturale all'atteggiamento teoretico o fenomenologico.[43] Subendo questo slittamento non cogliamo un significato superiore ma "l’altro di ogni significato",[44] ciò che Blanchot chiama in un récit del 1953, "l'ultima insignificanza della leggerezza" [l’ultime insignifiance de la légèreté].[45] Vivere un'immagine ci porta a come stanno le cose, che per Blanchot è meglio (anche se in modo inadeguato) catturato dalla parola "nichilismo", sebbene non da alcuna versione filosofica di essa allora disponibile, e avrà grandi difficoltà a specificare esattamente cosa cattura. Pertanto, nella misura in cui l'arte ci permette di vivere un'immagine, ci porta più avanti lungo il cammino verso la vita autentica di quanto la filosofia possa mai fare. Incontriamo ciò che potremmo chiamare la verità della non verità.
Possiamo cominciare a capire il senso di questa strana formulazione leggendo "Le Regard du poète" (1956). In quel saggio di recensione Lévinas osserva che L'Espace littéraire è "situato al di là di ogni critica e di ogni esegesi"; è un'indagine ontologica sulla natura stessa della letteratura, condotta in chiave fenomenologica ma che "non tende alla filosofia".[46] Naturalmente, Blanchot non è un professore universitario di filosofia – non tiene mai lezioni né scrive trattati – e dobbiamo essere consapevoli della sua situazione per sondare i suoi testi al livello appropriato. Tuttavia, ha una vasta cultura filosofica. Segue Heidegger – riconosce Lévinas – nel porre una forte enfasi sull'essere, ma differisce da lui nel negare che la scrittura conduca "alla verità dell'essere" ma piuttosto all'"erranza dell'essere — all'essere come luogo di smarrimento";[47] e presumibilmente questo è ciò che Lévinas ha in mente quando distingue L'Espace littéraire dalla filosofia. Lévinas ci indica l'osservazione di Blanchot secondo cui la missione dell'artista è "richiamarci ostinatamente all'errore, indirizzarci verso quello spazio dove tutto ciò che proponiamo, tutto ciò che abbiamo acquisito, tutto ciò che siamo, tutto ciò che si apre sulla terra e nel cielo, torna all'insignificanza, e dove ciò che si avvicina è il nonserio e il nonvero, come se forse [comme si peut-être] di là scaturisse la fonte di ogni autenticità".[48] La fenomenologia di Blanchot consiste nel manifestare qualcosa di diverso dalla verità dell'essere, realizza Lévinas; anzi, scopre proprio ciò che è diverso da esso – il Fuori – che è il mondo dell'immagine che ci affascina e che precede il mondo ordinario dell'iniziativa e dell'azione.
Lévinas esprime quindi la sua maggiore riserva sul libro dell'amico: "Se l'autenticità di cui parla Blanchot deve significare qualcosa di diverso dalla consapevolezza della mancanza di serietà dell'edificazione, qualcosa di diverso dalla derisione — l'autenticità dell'arte deve preannunciare un ordine di giustizia".[49] Si potrebbe dire che Lévinas non dia sufficiente peso al prudenziale "come se forse” di Blanchot: poiché l'Esterno non è un fenomeno, non può mai essere collocato nel presente e, se verità ed essere sono convertibili, non può mai essere evocato tramite la verità. E si potrebbe anche osservare che la nonserietà dell'Esterno non si traduce in una mancanza di serietà, tanto meno in un atteggiamento di derisione; invece, è semplicemente un modo per indicare "l'estrema insignificanza della leggerezza". Tuttavia, il punto di Lévinas è chiaro: lo sguardo del poeta è attento all'immagine, e manca non tanto l'essere umano come fenomeno quanto qualcosa che si intromette prima che l'essere di una persona sia reso tematico, vale a dire la domanda di giustizia. Heidegger guarda all'essere, scavalcando gli esseri umani; Blanchot contempla l'incessante fluire dell'essere nell'immagine e ne ascolta il mormorio nelle opere letterarie; e Lévinas cerca la relazione tra me e l'altra persona prima ancora che il mio sguardo si poggi sul suo viso.
Verso l'inizio di L'Entretien infini (1969) si trova Blanchot impegnato con Totalité et infini di Levinas (1961) in tre dialoghi tra due voci anonime che forse incarnano le diverse posizioni che Blanchot assume. "La parola afferma l'abisso che c'è tra ‘me stesso’ e ‘autrui’", dice uno di loro in "Tenir Parole", riconoscendo anche che c'è una "ineguaglianza o disuguaglianza" tra i due.[50] (La scena risale alla discussione sull'autocoscienza nella Fenomenologia dello spirito [1807] di Hegel, molto apprezzata da Alexandre Kojève nelle sue lezioni degli anni '30.) L'altra voce risponde alla domanda su questa differenza di livello: "Emmanuel Lévinas direbbe che è di ordine etico, ma trovo in questa parola solo significati secondari".[51] L'etica deriverebbe da qualcos'altro, allora. Altrettanto importante è che questa seconda voce non accetti l'affermazione di Lévinas secondo cui l'altro è sempre superiore a sé: invece, autrui è allo stesso tempo superiore e inferiore a me, parlandomi "come lo Straniero e l'Ignoto".[52]
Un'altra persona si avvicina a me, pensa Blanchot, "come il peso stesso dell'Esterno".[53] La comunicazione è possibile, inutile dirlo, ma il discorso dell'altro testimonia anche la sua distanza da me: non un passaggio che si possa attraversare, perché io assimili a me l'altro, ma una distanza nonfinita che non posso mai attraversare. Il punto è fenomenologico. Quando incontro un'altra persona, sostiene Husserl, sfioro un limite della capacità del mio ego trascendentale di dominare il mondo intorno a me.[54] Tuttavia, Blanchot approfondisce il punto in un altro dialogo, "Le rapport du troisième genere (homme sans horizon)". Ogni persona deve essere avvicinata senza essere stata ridotta ai termini di colui con cui sta parlando, e la giustificazione fenomenologica di questo protocollo è la "estraneità" tra due persone qualsiasi,[55] una consapevolezza dell'Esterno, che Blanchot considera propriamente basilare. Nel tentativo di comprendere l'interruzione che questa stranezza mette in atto nel discorso umano, entrambe le parti del dialogo concordano sul fatto che l'Uno non può più fungere da orizzonte come ha fatto dai tempi di Parmenide, che Blanchot (come Derrida) considera il padre della filosofia come tale, e questo vale sia per l'altro che appare nel mio orizzonte sia per me che mi manifesto nel suo orizzonte.[56] O stiamo abbandonando la filosofia o cerchiamo di collocarla su un altro piano.
Qui sono in gioco due rivendicazioni principali con molte altre che si annidano in esse. La prima è che la terza relazione sfugge all'esercizio del potere che posso impiegare su un'altra persona o che lui/lei può impiegare su di me. E la seconda è che questo potere si rivolge inevitabilmente alla priorità dell'Uno. Certo, ci si potrebbe chiedere quale sia la natura di questo Uno, se davvero può essere scaricato o sospeso, e se sì, se ci sono delle difficoltà che sarebbero conseguenti all'atto. "L'Uno" o "unità" fa parte del vocabolario della metafisica fin da Platone, se non prima, ma quando è stato elencato nel libro Delta della Metafisica di Aristotele, è anche appartenuto al vocabolario basilare dell'intelligibilità occidentale. Possiamo allontanarci da esso e avere ancora un senso l'uno per l'altro e per noi stessi? Se non viene fatto alcun appello all'Uno, indipendentemente dal fatto che sia organico o inorganico, non dovrebbe esserci un'invocazione di una sorta di assemblaggio o raccolta in modo che l'identificazione, anche se meramente tacita, possa essere mantenuta? Perché sicuramente possiamo parlare di identità anche se abbiamo buone ragioni per non sostenere l'identità personale. Inoltre, anche se prendiamo le distanze dall'unità considerata come concetto metafisico e affermiamo la differenza in un senso o nell'altro come propriamente basilare, non ci sono forse modalità dell'unità che appaiono non appena immaginiamo se stessi o un altro come soggetto giuridico o politico? Se rispondiamo affermativamente a quest'ultima domanda, allora è difficile vedere come il potere sia stato gettato via.
Blanchot non accetta queste domande nel suo dialogo, il che riduce la persuasività del suo caso. Piuttosto, passa rapidamente ai suoi punti principali. Una voce dice che la dualità Sé-Altro che abbiamo immaginato "significa una doppia dissimmetria, una doppia discontinuità".[57] È scomparsa ora l'asimmetria di Lévinas, in cui l'altro mi parla come fa Dio, ed è scomparso anche il motivo per qualsiasi appello a Dio (come l'Uno o come l'Altissimo). La stessa voce fa poi un'osservazione ausiliare, osservando che la domanda che associamo a Lévinas ("Chi è autrui?") deve essere sostituita da un'altra domanda, forse più vicina a Martin Buber ("Che ne è della ‘comunità’ umana?"), che sarà elaborata attraverso la terza relazione e concepita in termini di un comunismo "ancor sempre oltre il comunismo".[58] L'etica cede alla politica. Il terzo dialogo, "L'Interruption (comme sur une surface de Riemann)", cerca di esplorare la relazione neutra, questa "modalità (senza un modo)",[59] alludendo al modus sine modo di Agostino, con il quale egli caratterizza come dobbiamo amare Dio.[60] Dovremmo amare Dio in un modo senza modo, al limite estremo del nostro affetto, una visione ripresa da Bernardo di Chiaravalle,Tommaso d'Aquino, Eckhart e altri. Amiamo Dio al limite di come amiamo gli esseri creati. Al contrario, la stranezza che associamo a le Dehors è trascendente; ed è questa stranezza che Blanchot considera primaria e che quando pensata attraverso la comunità, produce "un modo di essere anonimo, distratto, differito e disperso".[61]
Nel 1974 Lévinas pubblica la sua seconda opera principale, Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, in cui vengono radicalizzate alcune posizioni elaborate in Totalité et infini. Qui si dice che l'io è un ostaggio dell'altro, che il pronome "io" significa niente più (e niente meno) "eccomi", e che bisogna arrestare lo scivolamento del "Dire" nel "Detto" tacendo il Detto e, così facendo, mantenere un rapporto di sincerità con l'altro.[62] Blanchot risponde, con caratteristica obliquità, in "Discours sur la pazienza (en marge des livres d'Emmanuel Levinas)" (1975), che viene successivamente rivisto e incorporato nella sua ultima opera importante, L'Écriture du désastre (1980). "Discours sur la pazienza" è una scrittura frammentaria, proprio come Blanchot aveva affermato in L'Entretien infini. Gravita attorno alla nozione di "disastro", che era nel vocabolario di Blanchot fin dalla Seconda Guerra Mondiale, ma che ora assume un significato molto più ampio.[63] Nel 1981 Lévinas riflette sulla parola, assimilandola a il y a. "Nel suo ultimo libro, Blanchot ha chiamato questo ‘disastro’, che non significa né morte né incidente, ma come un pezzo di essere che si sarebbe staccato dalla sua fissità di essere, dal suo riferimento a una stella, da ogni esistenza cosmologica, un dis-astro". E aggiunge, significativamente: "Sembra che per lui sia impossibile sfuggire a questa situazione esasperante e ossessiva".[64]
Certamente "désastre" significa per Blanchot un allontanamento da qualsiasi centro fisso, una situazione che si verifica nella relazione neutra (il rapporto con l'Esterno), piuttosto che in un contesto dialettico o di fusione. Non sorprende che Blanchot lo consideri anche un pensiero in quanto tale: pensiamo correttamente solo quando incontriamo l'Esterno.[65] Inoltre, "désastre" evoca la Shoah, che è un tema de L'Écriture du désastre, e persino la consapevolezza che Dio non esiste. Lévinas arriva a concepire l'etica come una fuga dall'interminabile pressione dell’il y a, ma le cose sono diverse per Blanchot: una politica giusta arriva solo con la relazione neutra.[66] Inoltre, l'Esterno non domina tutta la vita. Una dualità di nominare il possibile e rispondere all'impossibile attraversa tutta la sua scrittura.[67] Come ci vien detto in L’Écriture du désastre, "devono esserci sempre almeno due linguaggi o due requisiti: uno dialettale, l’altro no; uno in cui la negatività è il compito, l'altro in cui il neutro rimane separato, tagliato via sia dall'essere che dal non essere".[68] Infine, si afferma l'Esterno, non considerato in una luce negativa; se lo troviamo avvicinarsi a noi nella fatica e nella sofferenza, ci viene anche detto che conferisce un senso di calma e leggerezza.
"Discours sur la patience" annota i pensieri di Lévinas sul sé e l'altro; è come se i suoi libri avessero margini particolarmente ampi che potessero accogliere paragrafi di commentario. Non c'è dubbio sull'ammirazione di Blanchot per il pensiero dell'amico, forse soprattutto nelle sue formulazioni più estreme. Tuttavia le idee di Lévinas non rimangono intatte nel commento; per prima cosa, Dio viene spogliato dalla scena in cui un'altra persona si avvicina a me. Un aggiustamento più deciso si trova quando Blanchot non è d'accordo con Lévinas sul linguaggio. Certo, approva l'osservazione che "La lingua è già scetticismo" e accenna ai dubbi dell'amico sulla mancanza di serietà di L'Espace littérature: "Il disastro sarebbe quella porzione di allegria scettica, mai a disposizione di nessuno, che fa passare la serietà (la serietà della morte, per esempio) oltre ogni serietà, così come alleggerisce il teorico non lasciandoci fidar di essa".[69] Alla fine, sembra che per Blanchot, il disastro, l'approssimarsi dell'Esterno, non mi riguardi, perché non c'è un "io" sostanziale (e quindi nessuna perdita di esso nella morte) che lo riguardi. Tuttavia, i due amici non sono d'accordo sulla lingua. Si consideri Levinas che riflette su quanto differisca dalla lunga tradizione filosofica in cui è stato formato, e forse soprattutto dal suo momento husserliano. "Partendo dalla sensibilità intesa non come sapere ma come prossimità, cercando nel linguaggio il contatto e la sensibilità, dietro la circolazione dell'informazione che diviene, ci siamo sforzati di descrivere la soggettività come irriducibile alla coscienza e alla tematizzazione".[70] Il linguaggio, qui, non è legato all'epistemologia ma piuttosto alla vulnerabilità: è l'esposizione del sé all'altro nel Dire [Dire] prima che il discorso inizi il suo inevitabile scivolamento nel Detto [Dit]. E la soggettività non è più coscienza (Cartesio) o coscienza trascendentale (Husserl) ma situazione dell'essere per l'altro. "La parola io significa eccomi qui, a rispondere di tutto e di tutti".[71] Il riferimento è, ovviamente, a Isaia 6:8, e alla prontezza del profeta ad essere inviato a compiere l'opera del Signore.
Quando Blanchot riflette sull'affermazione dell'amico, si fissa sulla caratterizzazione del linguaggio come contatto:
Lévinas avrebbe risposto indicando che la prossimità non dipende da uno sguardo, e certamente non si dovrebbe parlare del fatto che l'altro diventi un fenomeno. Lui/lei rimane un enigma. Il contatto avviene al di fuori di ogni correlazione di noesis e noema, e quindi non presuppone che sia avvenuta una riduzione fenomenologica. Lévinas, infatti, è chiaro nel rifiutare questa modalità di riduzione e afferma, piuttosto, un ricondurre dal Detto al Dire.[73] Per Lévinas, la mia relazione con un'altra persona si stabilisce in un passato senza presente: sono responsabile di lui/lei prima che avvenga un vero e proprio incontro. Non c'è nessuna "fusione mistica" presunta da Lévinas – l'idea stessa gli sarebbe sgradevole – solo un invito a trattare giustamente con la persona il cui enigma mi colpisce, che sia da mezzo metro di distanza o dall'altra parte del mondo. I due amici si nutrono a vicenda della scrittura, anche se non sempre si raccomandano come i migliori lettori del lavoro dell'altro.
Lévinas ha cercato di mantenere i suoi scritti sull'ebraismo distinti dal suo lavoro fenomenologico, arrivando persino a pubblicare il confessionale e il filosofico, a suo avviso, con editori diversi. Tuttavia, nessun lettore di Totalité et infini o Autrement qu’être o di molti dei suoi saggi, potrebbe mai credere che la fenomenologia di Lévinas non sia contrassegnata dall'ebraismo. Il caso di Blanchot è molto diverso: sembra che sia entrato in sintonia con l'ebraismo principalmente attraverso l'influenza del suo amico, sebbene per lui fossero importanti anche gli scritti di Buber e André Neher. Nel 1957 scrive "La Parole prophetique", in cui lo studio di Neher sulla figura del profeta ebreo viene stravolto in modo che il "discorso profetico" sia un discorso sull'Esterno piuttosto che sull'unico vero Dio.[74] Sempre più "giudaismo", per Blanchot, è in consonanza con la sua enfasi sull'esodo e l'esilio, con la separazione e l'estraneità, e con il dialogo; non ha nulla a che fare con l'adorazione dell'unico Dio. "Être juif" (1962) è un ottimo esempio, anche se non l'unico; segna l'intero L'Entretien infini (1969) in cui è ripiegato, e le sue preoccupazioni continuano nelle raccolte successive di Blanchot, fino a L'Écriture du désastre (1980) e oltre.
In "Judaism and Revolution", prodotto nel marzo 1969, Lévinas interrompe il suo commento al Trattato Bava Metzia per citare una lettera che Blanchot (di cui non fa il nome) gli scrisse dopo che la sinistra radicale francese aveva abbracciato la causa palestinese come lotta contro l'imperialismo. Scrive Blanchot: "è come se Israele fosse messo in pericolo dall'ignoranza – sì, un'ignoranza innocente forse, ma d'ora in poi gravemente responsabile e privata dell'innocenza – messa in pericolo da coloro che vogliono sterminare l'ebreo perché è un ebreo e da coloro che ignorano completamente cosa significhi essere ebrei. L'antisemitismo ora avrà come alleati coloro che sono come privi di antisemitismo".[75] Quindi l'ebraismo di Blanchot, allo stesso tempo filosofico ma orientato verso ciò che considera l'altro della filosofia occidentale, non lo allontana da un chiaro avallo politico del diritto di Israele a esistere come Stato. Più tardi, nel 1985, Blanchot tornerà all'ebraismo, e soprattutto al ruolo di Lévinas nel rappresentarlo per lui. Nel bel mezzo di una riflessione sugli ebrei come popolo separato, si chiede:
La sua citazione è di Lévinas che in "Dieu et la philosophie" (1975) scrive: "Ce surplus croissant de l'Infini que nous avons osé appeler gloire" ("Questo surplus crescente dell'Infinito, che abbiamo osato chiamare gloria").[77] Basta a segnare una svolta nel saggio di Blanchot. Dice: "Sarà necessario, in questo nostro tempo, un pensatore straordinario (intendo questo in senso letterale, senza connotazioni elogiative) per rifamiliarizzarci col fatto che il senso dell'aldilà, della trascendenza, può essere raccolto in un'etica che non sarebbe semplicemente una disciplina dimenticata o negletta, ma che ci impone un capovolgimento filosofico, uno sconvolgimento che investe tutti i nostri presupposti teorici e pratici".[78]
Non abbiamo dubbi sul fatto che questo pensatore sia Lévinas, e vale la pena notare che qui Blanchot non dà alcun avvertimento sul fatto che "etica" veicola solo significati secondari. Il saggio si conclude con un modesto post scriptum: "In questo testo, pur non nominando alcun commentatore per nome, sono comunque debitore di molti. E, a uno, sono in debito per quasi tutto, sia nella mia vita che nel mio pensiero".[79] Ancora più tardi, nel 1993, Blanchot conclude una riflessione sull'amicizia con un'affermazione ancora più appassionata del suo vecchio amico. "Questo è il mio saluto a Emmanuel Lévinas, l'unico amico – oh amico lontano – a cui mi rivolgo intimamente e che si rivolge a me allo stesso modo; questo è successo, non perché eravamo giovani, ma per una decisione deliberata, un patto [un pacte] che spero di non rompere mai".[80] In gran parte invisibile, condotta per lo più attraverso la lettura e la scrittura, l'amicizia tra Blanchot e Lévinas è stata nondimeno di primaria importanza per gran parte del pensiero francese del ventesimo secolo. Ha nutrito due corpi immensi di scrittura creativa e critica che a loro volta ci nutrono.
Note
[modifica | modifica sorgente]Per approfondire, vedi Serie delle interpretazioni e Serie letteratura moderna. |
- ↑ Jacques Derrida, "Adieu", Adieu: To Emmanuel Levinas, trad. (EN) Pascale-Anne Brault & Michael Naas (Stanford, CA:Stanford University Press, 1999), 8.
- ↑ Cfr. Maurice Blanchot, "For Friendship", trad. (EN) Leslie Hill, The Oxford Literary Review, 22 (2001):35.
- ↑ Maurice Blanchot, "Thinking the Apocalypse", Political Writings, 1953–1991, trad. (EN) e intro. Zakir Paul, premessa di Kevin Hart (New York: Fordham University Press, 2010), 123.
- ↑ Cfr. Michaël Levinas, "The Final Meeting between Emmanuel Lévinas and Maurice Blanchot", trad. (EN) Sarah Hammerschlag, Critical Inquiry 36, nr. 4 (2010):649–651. Il "final meeting" si afferma sia avvenuto in giugno 1961. Jacques Derrida, tuttavia, affermò di aver portato in auto Blanchot alla casa di Levinas nel 1968.
- ↑ Maurice Blanchot, "Our Clandestine Companion", Political Writings, 144.
- ↑ Jill Robbins, ed., "Interview with François Poiré", Is It Righteous To Be? Interviews with Emmanuel Levinas (Stanford, CA:Stanford University Press, 2001), 30.
- ↑ Robbins, "Interview with François Poiré", 29.
- ↑ Cfr. Levinas, Oeuvres, 1: Carnets de captivité et autre inédits, ed. Rodolphe Calin et al. (Parigi: Grasset, 2009), 98, e Blanchot, Thomas lʼobscur: Première version, intro. Pierre Madaule (1941; Parigi: Gallimard, 2005), 72–88.
- ↑ Levinas, Carnets, 194. Cfr. le osservazioni di Levinas su Blanchot in "Notes philosophiques diverses", Carnets, 406.
- ↑ Levinas, Time and the Other, trad. (EN) Richard A. Cohen (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1987), 72.
- ↑ Cfr. Levinas, Existence and Existents, trad. (EN) Alphonso Lingis (Dordrecht, the Netherlands: Kluwer Academic Publishers, 1978), 63n, e Blanchot, Thomas lʼobscur, 29–35.
- ↑ La storia delle due nozioni correlate è intricata. Ad esempio, Lévinas scrive De lʼévasion (Montpellier, Francia: Fata Morgana, 1982) all'incirca nello stesso periodo in cui Blanchot compone "Le dernier mot" (1935) in cui si può trovare l'espressione il y a. Cfr. Blanchot, "The Last Word", Vicious Circles: Two Fictions and "After the Fact" trad. (EN) Paul Auster (Barrytown, NY: Station Hill Press, 1985), 45.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", Unforeseen History, trad. (EN) Nidra Poller, prefazione di Don Ihde, intro. Richard A. Cohen (Urbana: University of Illinois Press, 2004), 89, 90.
- ↑ Cfr. Levinas, On Escape, trad. (EN) Bettina Bergo (Stanford, CA: Stanford University Press, 2003), 53.
- ↑ Cfr. Blanchot, "Le règne animal de lʼesprit", Critique 18 (novembre 1947):387–405, e "La littérature et le droit à la mort", Critique 20 (gennaio 1948):30–47.
- ↑ Jean Wahl, Existence humaine et transcendence (Neuchâtel: Éditions de la Baconnière, 1944), 37. Cfr. Levinas, Totality and Infinity: An Essay on Exteriority, trad. (EN) Alphonso Lingis (The Hague: Martinus Nijhoff, 1979), 35n2.
- ↑ Per le opinioni di Levinas sulle immagini nell'ebraismo, si veda il suo "The Prohibition against Representation and ʻThe Rights of Manʼ", Alterity and Transcendence, trad. (EN) Michael B. Smith (Londra: Athlone, 1999), 121–130.
- ↑ Cfr. Gottfried Leibniz, "Meditations on Knowledge, Truth, and Ideas", Philosophical Papers and Letters, ed. e trad. {{en}] Leroy E. Loemker (Dordrecht, the Netherlands: D. Reidel, 1969), 291–295, specialm. 291.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 78.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 78.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 83.
- ↑ Cfr. Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, 4 vols, I, ed. Pierre Clarac et André Ferré (Paris: Gallimard, 1954), 323.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 85.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 83.
- ↑ Cfr. Husserl, Phantasy, Image Consciousness, and Memory (1898–1925), trad. {{en}] John B. Brough (Dordrecht, the Netherlands: Springer, 2005), ch. 2.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 86.
- ↑ Cfr. Levinas, Otherwise Than Being or Beyond Essence, trad. (EN) Aphonso Lingis (The Hague: Martinus Nijhoff, 1981), 199n21.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 86.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 91.
- ↑ Si veda, rispetto a questa questione, Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy, The Literary Absolute: The Theory of Literature in German Romanticism, trad. (EN) Philip Barnard & Cheryl Lester (Albany: State University of New York Press, 1988).
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 90.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 83.
- ↑ Cfr. Gabriel Marcel, "Foreword", Kenneth T. Gallagher, The Philosophy of Gabriel Marcel (New York: Fordham University Press, 1962), xiii. Il punto di vista, naturalmente, era stato a lungo sostenuto da Marcel, anche se questa ne è un'espressione particolarmente nitida.
- ↑ T. S. Eliot, Collected Poems 1909–1962 (Londra: Faber, 1963), 13.
- ↑ Levinas, "Reality and Its Shadow", 79.
- ↑ Stanley Cavell, Philosophy the Day after Tomorrow (Cambridge, MA: Belknap Press, 2005), 231.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, trad. (EN) e intro. Ann Smock (Lincoln: University of Nebraska Press, 1982), 254, 34n3.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 255.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 256.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 260.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 261.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 261.
- ↑ Cfr. Kevin Hart, "Une réduction infinie", Cahiers de lʼHerne, Blanchot issue, ed. Dominique Rabaté & Eric Hoppenot (2014), 323–328.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 263.
- ↑ Blanchot, The One Who Was Standing Apart from Me, trad. (EN) Lydia Davis (Barrytown, NY: Station Hill Press, 1993), 43.
- ↑ Levinas, "The Poetʼs Vision", Proper Names, trad. (EN) Michael B. Smith (Stanford, CA: Stanford University Press, 1966), 127.
- ↑ Levinas, "The Poetʼs Vision", 134.
- ↑ Blanchot, The Space of Literature, 247n8.
- ↑ Levinas, "The Poetʼs Vision" 137.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", The Infinite Conversation, trad. (EN) Susan Hanson (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1993), 63.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", 63.
- ↑ Blachot, "Keeping to Words", 63. Per l'altezza dell'altra persona, si veda Levinas, Totality and Infinity, 291.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", 64.
- ↑ Cfr. Husserl, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität, ed. Iso Kern (The Hague: Martinus Nijhoff, 1973), III, 631, e Erste Philosophie, ed. Rudolf Boehm (The Hague: Martinus Nijhoff, 1966), II, 495.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", 68.
- ↑ Cfr. Derrida, "Violence and Metaphysics", Writing and Difference, trad. (EN) e intro. Alan Bass (Londra: Routledge and Kegan Paul, 1978), 89.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", 70–71.
- ↑ Blanchot, The Infinite Conversation, xii.
- ↑ Blanchot, "Keeping to Words", 77.
- ↑ Augustine, Letter 109, Letters 100–155, The Works of Saint Augustine, II/2, trad. (EN) e note Roland Teske, ed. Boniface Ramsey (Hyde Park, NY: New City Press, 2003), 84.
- ↑ Blanchot, The Infinite Conversation, xii.
- ↑ Cfr. Levinas, Otherwise Than Being or Beyond Essence, 112, 114, 181.
- ↑ Si veda, per esempio, Blanchot, "Après le désastre", Journal des Débats, luglio 7, 1940, 1.
- ↑ Cfr. Levinas, Ethics and Infinity: Conversations with Philippe Nemo, trad. (EN) Richard A. Cohen (Pittsburgh, PA: Duquesne University Press, 1985), 50.
- ↑ Cfr. Blanchot, "Discours sur la patience", Le Nouveau Commerce, 30–32 (1975), 21, e The Writing of the Disaster, trad. (EN) Ann Smock (Lincoln: University of Nebraska Press, 1986), 1.
- ↑ Cfr. Levinas, Existence and Existents, cap. 5.
- ↑ Si veda, per sempio, Blanchot, The Infinite Conversation, 48.
- ↑ Blanchot, The Writing of the Disaster, 20.
- ↑ Levinas, Otherwise Than Being, 170; Blanchot, The Writing of the Disaster, 77.
- ↑ Levinas, Otherwise Than Being, 100.
- ↑ Levinas, Otherwise Than Being, 114.
- ↑ Blanchot, The Writing of the Disaster, 24.
- ↑ Cfr. Levinas, Otherwise Than Being, 45.
- ↑ Cfr. Blanchot, "La Parole prophetique", Nouvelle Nouvelle Revue Française 48 (janvier 1957): 283–292, e cfr. anche le note di Blanchot sugli scritti di Neher riportati da Éric Hoppenot nel suo Maurice Blanchot et la tradition juive, avantpropos Éric Marty (Parigi: Éditions Kimé, 2015), 188–197, 485–507.
- ↑ Levinas, "Judaism and Revolution", Nine Talmudic Readings, trad. (EN) e intro. Annette Aronowicz (Bloomington: Indiana University Press, 1990), 116.
- ↑ Blanchot, "Peace, Peace to the Far and to the Near", trad. (EN) Leslie Hill, Paragrafo 30, no. 3 (2007), 31.
- ↑ Levinas, "Dieu et la philosophie", De Dieu qui vient à lʼidée (Parigi: J. Vrin, 1982), 120, "God and Philosophy", Of God Who Comes to Mind, trad. {{en}] Bettina Bergo (Stanford, CA: Stanford University Press, 1998), 73.
- ↑ Blanchot, "Peace, Peace to the Far and to the Near", 31.
- ↑ Blanchot, "Peace, Peace to the Far and to the Near", 33.
- ↑ Blanchot, "For Friendship", 35.